Dedicata a Verona, the Crowley to my
Aziraphale <3.
Il problema, stabilì
corrucciato l’uomo prendendo appunti su
una Moleskine blu, era l’insegna. La vetrina esponeva
un’ampia selezione di
torte sontuosamente decorate che ammiccavano ai passanti, inducendone
parecchi
in tentazione. In cima all’ingresso, un sobrio cartello color
cioccolato riportava,
in un minimale font sui toni del crema, il nome del negozio: Fell & co. L’interno,
ben illuminato
al di là del vetro e decisamente affollato, era invitante.
L’arredo ricordava
quello di certe caffetterie viennesi di inizio ‘900, con un
grande lampadario
centrale in stile Liberty avvolto da fili di perle di vetro, eleganti
tavolini
in ferro battuto resi vivaci da addobbi floreali freschi di vivaio,
specchi
profilati di ottone e poltroncine in velluto. Gli avventori, seduti o
in fila davanti
al registratore di cassa in attesa di pagare, sembravano a proprio agio
e
contenti di trovarsi lì, in un ambiente confortevole ed
intimo nonostante la
sala da tè si trovasse in Via Cernaia, una strada alquanto
frequentata. Eppure,
rifletteva l’uomo, l’insegna mancava. E quello era
indubbiamente un punto a
sfavore del locale. Tutt’altra cosa rispetto agli States,
dove aveva vissuto a
lungo.
Allorché varcò
l’ingresso, venne investito da un’orgia di
aromi. Il suo olfatto allenato riconobbe il sentore asprigno del cedro
candito,
la dolcezza della vaniglia e la ricchezza burrosa dei krapfen,
rigorosamente fritti
in olio di semi bollente. Il trillo sommesso di una campanella affissa
alla
porta annunciò al personale la sua entrata. L’uomo
prese nota mentalmente dei
modi cortesi e amichevoli con cui i commessi servivano i clienti, ma
non si
preoccupò di attirare la loro attenzione. Lui mirava al
padrone, di cui aveva
sentito dire solo cose lusinghiere. I suoi informatori gli avevano
riferito che
lo si poteva trovare tutti i giorni della settimana in pasticceria; non
era
certo uno sfaticato.
“Buongiorno, sono
Aziraphale. Benvenuto nel mio locale. In
cosa posso servirla?”
Un particolare su cui i suoi
informatori -tutti, a
prescindere dal sesso e dall’età- si erano
dilungati anche troppo era la
bellezza quasi angelica del fondatore del negozio, Aziraphale Fell. Di
origini inglesi,
come si evinceva da nome e cognome, possedeva una certa grazia che di
solito si
attribuisce agli uomini con determinate inclinazioni sessuali e liquidi
occhi azzurri
color acquamarina che rivelavano antenati di ceppo svedese, come minimo.
Non
molto alto, il girovita morbido di chi ama assaggiare le proprie
creazioni
bilanciato da spalle larghe e forti, la pelle su cui sembrava fosse
stato colato
uno strato uniforme di panna cremosa, riccioli di un biondo platino
insolito ma
indubbiamente naturale, un naso impertinente ed un grembiule che non
riusciva a
celare il suo sedere tondo e invitante come una pesca matura,
Aziraphale era
effettivamente quanto di più vicino esistesse al concetto di
bellezza sommessa,
rassicurante, capace però di uccidere con uno sguardo.
Poteva dimostrare trentacinque
anni come dieci di più. Era spiazzante. Ineffabile.
L’uomo batté velocemente le palpebre, stordito di
fronte ad una simile, sfacciata
avvenenza. E ce ne voleva per ridurlo senza parole, giacché
lui stesso -complici
la splendida chioma di un rosso preraffaellita, occhi gialli da gatto e
gambe
lunghissime- si poteva definire un gran bell’esemplare di
maschio.
“Salve. Mi hanno tanto
parlato della sua pasticceria, perciò
mi è venuta voglia di farci un salto” rispose,
mescolando la menzogna alla
verità. “Ammetto di non capirci molto di dolci. Mi
aiuterebbe a scegliere
quello più adatto a me?”
“Ma certo”
sorrise, rivelando una dentatura abbagliante.
“Devo dimostrare di essere all’altezza di una tale
pubblicità. Credo di essere
abbastanza bravo a indovinare i preferiti dei miei clienti…
Prego, mi segua” lo
invitò, andando dietro alla vetrina refrigerata con la merce
esposta. L’altro
obbedì.
“Innanzitutto mi occorre
capire che tipo di dolce sta
cercando. La piccola pasticceria, ad esempio, può essere
servita in tutto
l’arco della giornata, dalla colazione a un
dopocena” indicò un settore ricolmo
di bignè, biscotti e tartine dall’aria golosa,
semplici oppure ricoperti di
panna e frutta. “I dolci al cucchiaio come le bavaresi, i
budini, le charlotte, i
soufflé, gli aspic e le
creme, leggeri e scenografici,
sono perfetti per un’occasione importante. Le crespelle e le
omelette, con i
loro ripieni a sorpresa e spesso servite ben calde, sono indicate per
la fine
di un pranzo o di una cena ricercati” nel mentre presentava i
dolci come
fossero preziose creazioni, gioielli edibili che era quasi un
dispiacere
mangiare tanto erano curati.
“Quelle torte,
invece?” domandò l’uomo puntando il dito
senza sfiorare il vetro. Aziraphale gliene fu grato.
“Si dividono in torte
semplici, lievitate, alla frutta,
crostate, torte di yogurt e cheesecake. Sono tutte adatte ad una prima
colazione, una merenda o un tè pomeridiano. Le torte di
frutta sono indicate anche
per una cena, specie le tarte, le pies, le sfogliate e le meringate. Le
torte
farcite, generalmente più sostanziose, vanno bene per
un’occasione particolare
come compleanni e anniversari ma possono completare anche un pasto
leggero,
soprattutto se rinforzate con mousse o frutta. Strudel e rotoli farciti
sono
consigliabili per l’ora del tè o a conclusione di
una cena informale” spiegò
affabile.
“Noto che avete anche i
gelati” osservò l’altro.
“Sì, ora che ci
apprestiamo ad entrare nella bella stagione
li abbiamo rimessi in vendita. Tendiamo a consigliare i gusti
più consoni al
clima, prediligendo quelli alla frutta e le creme delicate, ma non
mancano mai
dell’ottima nocciola, cioccolato, zabaione e panna cotta.
Siamo pur sempre a
Torino” concluse con un gran sorriso.
“L’assortimento
è notevole. È tutto di vostra produzione, mi
dicevano”.
“Confermo”
ammiccò simpaticamente. “Nel retro
c’è il
laboratorio, dove ci alterniamo io e due assistenti. Ogni giorno
sforniamo
brioche e cornetti, pasticcini e i dolci farciti con ingredienti
deperibili. Le
torte ed i semifreddi” li indicò nei due
frigoriferi a vista che erano
addossati alla parete opposta della stanza “hanno una
conservazione un poco più
lunga. Fortunatamente non ci capita spesso di ritrovarci con della
merce
prossima alla scadenza. In tal caso la scontiamo del 50% e avvisiamo i
clienti
di consumarla in giornata”.
“E quella invenduta che
fine fa? La buttate?”
“Giammai!” il
proprietario si infiammò di puro sdegno.
“Collaboriamo con il Banco Alimentare, che gestisce una mensa
dei poveri qui in
città. Doniamo loro le giacenze, che fortunatamente per i
miei affari sono
poche, così per implementarle ogni ultimo weekend del mese
prepariamo una
partita intera di paste e panini dolci che diamo in beneficenza. Non
è molto,
ma nel mio piccolo contribuisco come posso” si strinse nelle
spalle con
modestia.
“Lodevole da parte sua. E
gli ingredienti sono genuini, sì?”
incalzò l’uomo.
“Genuini e biologici. Il
burro, il latte, la panna, lo
yogurt e le uova sono freschissimi, mi arrivano da una masseria di
Stupinigi, a
pochi chilometri da qui. La frutta è sempre di stagione e
matura al punto
giusto, la scelgo personalmente ai mercati generali ogni tre giorni.
Per
friggere utilizziamo solo l’olio di semi di arachidi, ma in
dispensa teniamo
anche una bottiglia di olio extravergine d’oliva della
Toscana per ogni
evenienza” l’orgoglio (giustificato) traspariva da
ogni sua parola.
L’uomo però non
parve colpito. Aggrottò le sopracciglia e
piegò la bocca in una smorfia quasi indispettita.
“E sia. Prendo un cabaret di
pasticcini, scelga lei la tipologia”.
“Da portar via?”
domandò Aziraphale con garbo, benché la
reazione fiacca del cliente avesse in parte smorzato il proprio
entusiasmo.
“Sei vanno bene?”
“Benissimo. Li mangio qui,
se c’è un tavolo libero. Prendo
anche una tazza di tè” rispose quegli impassibile.
“Come desidera. Newton,
cortesemente, libera un posto per il
signore” Aziraphale si rivolse ad uno dei camerieri che
stazionava in sala, uno
spilungone dal volto piacevole.
Il ragazzo spalancò gli
occhioni azzurri e arrossì, preda di
una visibile emozione. “Certo, capo” disse
lasciando trapelare un leggero
accento gallese. Era palesemente in adorazione del suo datore di
lavoro; e chi
non lo era?
Aziraphale sospirò mentre
Newton faceva sedere il nuovo
cliente. Seguì il suo istinto e compose un vassoio
variegato, con un profiterol
farcito di gelato all’ananas e panna montata, un torcetto
piemontese, una
madeleine alle spezie (cardamomo, cannella, noce moscata e chiodi di
garofano),
un pasticcino malese cosparso di polpa di noce di cocco, un bastoncino
ai
pinoli e cioccolato e un éclair alla crema pasticcera
ricoperto da una ghiaccia
al caffè ristretto. Un accostamento insolito di sapori, a
tratti esotico. Sperò
che al cliente -che come lui presentava connotati marcatamente nordici
pur parlando
un italiano perfetto, senza accento- piacesse. Chiamò con un
gesto una ragazza
dai capelli scuri e un incantevole sguardo da cerbiatta.
“Anathema, portali al
tavolo 12, grazie” le porse i
pasticcini.
“Intendi al Grumpy Cat che
pare una rockstar fallita e che
ti ha tartassato di domande fino a tre secondi fa?”
ribatté la cameriera.
“Simpatico come la sabbia nelle mutande. Secondo me gli
piaci” sentenziò.
“Mia cara, secondo te io
piaccio a qualsiasi essere vivente
dotato di gambe e attributi maschili” si schermì
lui.
“Anche quelli con gli
attributi femminili non ti disdegnano.
Si tengono lontane solo perché hai un’insegna
fosforescente con scritto ‘gay’ a
caratteri cubitali sulla fronte, ma se potessero…”
gli strizzò l’occhio.
“Te compresa?”
ammiccò di rimando, con fare paterno.
“Neanche se volessi.
Spezzerei il cuore del mio Newt, e
inoltre ti voglio bene come ad uno zio” ridacchiò
Anathema, che in effetti avrebbe
potuto essergli… non figlia ma nipote, se lui avesse avuto
fratelli. “Meglio
che mi sbrighi a servire Mick Jagger, lo sento lanciarmi occhiatine
velenose
sin da qui” afferrò il vassoio e si
esibì nel più convincente dei sorrisi prima
di avviarsi verso il tavolo 12.
Aziraphale controllò Mick-
il fascinoso cliente vestito di
pelle nera di tanto in tanto, tra uno scontrino ed un avventore
affezionato che
ci teneva a salutarlo e a scambiare quattro chiacchiere. Lo vide
sbocconcellare
il cibo, masticare piano, leccare via gli eccessi di farcia dagli
angoli della
bocca. Il piatto si svuotò in fretta, ma
l’espressione del cliente non cambiò
di una virgola. Aziraphale non poté esimersi dal chiedersene
il motivo. I suoi
prodotti erano buoni, ne era consapevole. A cosa era dovuto quel muso
lungo? Forse
la miscela di tè non era di suo gradimento? Il locale non
era abbastanza
raffinato, i pasticcini troppo classici, nutrienti, incuranti della
moda del
momento? Quando il cliente arrivò in cassa per saldare il
conto, Aziraphale cercò
di sondare il terreno.
“Tutto a posto? Si
è trovato bene?” gli porse lo scontrino con
voce pimpante.
L’uomo annuì.
Insieme ad una banconota da venti euro gli
lasciò un bigliettino da visita. Anthony
J. Crowley - freelance, lesse Aziraphale. Seguivano
l’indirizzo email e il
numero di cellulare. “Che fortuita coincidenza: anche lei
è di origine britannica?”
commentò piacevolmente sorpreso.
Il signor Crowley (finalmente poteva
assegnargli un nome)
annuì di nuovo. “Credo che tornerò.
Buona giornata”.
I due camerieri -nonché
fidanzati- erano rimasti in disparte
ad assistere al dialogo.
“Ha la travolgente simpatia
di un gatto deciso a
distruggerti il rivestimento del divano, e anche lo stesso
sguardo” decretò Anathema.
“Ma no, dai, sembra a
posto” protestò il collega.
“Amore, vorrei darti
ragione ma il suo bel sederino snello non
sopperisce alle lacune relazionali che Madre Natura gli ha affibbiato
alla
nascita”.
“Beh, il capo lo ha
squadrato per benino. Con ammirazione”.
“Ha anche lui i suoi
difetti, purtroppo” scosse la testa
sconsolata. “Il più interessato tra i due mi
è sembrato proprio il Mick Jagger
dei poveri. Gli ha persino dato un biglietto da visita, con recapito e
tutto.
Ah, gli uomini e le loro pessime tecniche di rimorchio!”
ridacchiò esilarata.
Newton la guardò di
traverso. “Anathema. Ti ricordo che sono
un uomo anch’io, fino a prova contraria”.
Il sorriso della ragazza divenne
luciferino. “Infatti ho
fatto io la prima mossa, altrimenti a quest’ora saremmo stati
ancora amici”.
Torino era una città
monumentale e al tempo stesso
accogliente, e Aziraphale la amava per quella sua duplice natura. Le
strade
ampie del centro storico che si intersecavano razionalmente e i portici
di
palazzi in stile risorgimentale, che riparavano con la loro ombra
marciapiedi altrettanto
larghi, ospitavano botteghe affollate e piene di mistero: librerie a
conduzione
famigliare in cui dare la caccia a volumi introvabili altrove, bar e
pizzerie
che offrivano il meglio delle specialità regionali e ogni
sorta di street food
a prezzi modici, bugigattoli antiquari, filiali di note catene di
abbigliamento
e piccole boutique che resistevano orgogliose alla concorrenza.
Numerosi
giardini pubblici si intervallavano a distanze regolari, offrendo
ristoro e la
piacevolezza di aiuole ben curate a chi vi si recava in passeggiata.
Affacciate
sul cuore pulsante della città, tra Piazza Castello e Piazza
San Carlo, le
rinomate cioccolaterie si offrivano languide agli sguardi bramosi dei
passanti,
nascondendo i propri tesori dietro a tendaggi di velluto e maestose
insegne in
legno scuro, lucidato dagli anni e dall’usura.
La deliziosa Galleria Subalpina
collegava le due grandi
piazze; chi la imboccava aveva l’impressione di scoprire un
passaggio segreto
risalente alla Belle Époque e conservatosi intonso sino ai
giorni nostri. Via
Po, lunga al punto da sembrare infinita, sfociava nella splendida
Piazza
Vittorio Veneto, i cui locali notturni animavano la movida torinese. Lo
spettacolo maggiore era però fornito dalla vista che da
lì si godeva del fiume
e della Gran Madre di Dio, uno dei più importanti luoghi di
culto cattolici
della città. Via Roma era un alveare di negozi di lusso e
aveva il pregio di
trovarsi vicino alla bella, storica sede del Museo Egizio. A pochi
metri di
distanza, Palazzo Madama e Palazzo Reale stordivano i turisti con la
loro mole
imponente ed aggraziata. In lontananza la Mole Antonelliana svettava
sui tetti
torinesi, vigilando sullo shopping colorato che animava Via Garibaldi.
Aziraphale si recava spesso al
mercato di Porta Palazzo per
la spesa settimanale. Nel weekend, il Parco del Valentino ed il borgo
medievale
in esso contenuto erano una tappa obbligata da visitare insieme ad
Adam, il suo
barboncino toy. Più volte si era recato in gita alla
Basilica di Superga,
risalendo le colline sul trenino a cremagliera, e non mancava di
compiere il
suo personale pellegrinaggio presso la Reggia di Venaria Reale e la
Palazzina
di Stupinigi almeno una volta l’anno. Torino era una
città dolce in cui vivere,
ricca di iniziative culturali, vivace e tuttavia non troppo trafficata,
all’apparenza severa e francese nell’architettura,
purtroppo molto inquinata e
penalizzata da un clima gelido d’inverno e umido
d’estate. Aziraphale le
perdonava anche i suoi difetti e le sue contraddizioni.
“È
a Torino che devo parte della mia storia
personale” si ritrovò a
raccontare una settimana dopo a Crowley (“Anthony non mi
rappresenta”), tornato
in visita come aveva promesso. “La mia nonna materna
è italiana, nata in questa
città. Discende da una famiglia ebrea di origini miste, un
po’ francesi e un
po’ austriache. È merito suo se mi sono
appassionato all’arte pasticciera: da
bambino mi preparava dolci di ogni tipo, che risentivano parecchio
delle sue
origini mitteleuropee. Terminato il liceo a Londra mi sono iscritto
all’Università di Scienze Gastronomiche di
Pollenzo, in provincia di Cuneo, e
ho conseguito un master in pasticceria presso Alma, la scuola di
Gualtiero
Marchesi. Per fare un po’ di esperienza ho lavorato a
Brescia, nel laboratorio
di Iginio Massari, per circa tre anni. Quando ho capito di dover
spiegare le
ali e cavarmela da solo, ho messo in valigia il libro di ricette di mia
nonna e
mi sono stabilito qui” sorrise al ricordo.
Il volume occupava un posto speciale
nella libreria di Aziraphale.
Profumava di zucchero a velo ed essenza di fiori d’arancio.
Le pagine, sottili
come veli di cipolla, erano fitte di una grafia minuta e inclinata,
vergata con
inchiostro nero. Nelle giornate buie, in cui nemmeno la compagnia di
Adam era
sufficiente a colmare il peso della solitudine, ad Aziraphale bastava
sfogliarlo e odorarne la copertina di cuoio invecchiato per tirarsi su
di
morale. Una tazza di caffè, un romanzo giallo a contorno ed
ecco che
l’illusione della felicità tornava come per magia.
Crowley, che aveva ascoltato in
silenzio partecipe il
proprietario di Fell & co,
raccolse le ultime gocce di gelatina di mele al rum bianco con cui
erano state
annaffiate le rissoles di pere servitegli quel giorno. Le aveva
apprezzate,
così come le frittelline di uva di Corinto e la treccia alla
siciliana (con
frutta candita, pasta di mandorle e cannella) dei giorni precedenti, ma
nessuno
si era rivelato essere il suo dolce preferito.
“Nemmeno questo
è quello giusto, vero?” la voce di Aziraphale
lo distolse dai suoi pensieri.
“Oh? No, mi dispiace.
Squisito, comunque” si pulì i residui
di cibo con un tovagliolino di carta.
“Troverò il tuo
preferito -mi scusi, il suo” si affrettò a
correggersi il pasticciere, imbarazzato.
Crowley si alzò di scatto,
rigido e impettito. Uno sfumato
rossore gli scaldava le guance. “Non scusarti”
borbottò. “Siamo coetanei,
questi formalismi sono inutili. Tieni pure il resto. Alla
prossima” proferì
prima di uscire in tutta fretta dal locale.
Aziraphale rimase perplesso a
guardarlo allontanarsi. “Si è
offeso?” domandò a nessuno in particolare.
Fu Newton, di turno a
quell’ora, a offrire una risposta.
“Capo, se mi consenti l’ardire… Devo
dare ragione ad Anathema, quel tipo ha una
cotta per te”.
“Figurati”
sbuffò lui.
Le settimane passarono senza che
avvenissero grossi
cambiamenti nella routine quotidiana di Fell
& co. Anthony J. Crowley si aggiunse alla folta
schiera degli habituée
del locale, con sommo diletto dei camerieri e dei commessi che
assistevano ai
siparietti della strana coppia. Aziraphale lo accoglieva trepidante,
impaziente
di sottoporre all’uomo una nuova creazione. E invero si dava
da fare con grande
sfoggio di perizia culinaria, attingendo alle ricette della nonna. Di
conseguenza, Crowley ebbe modo di gustare dolci sempre più
sorprendenti e arditi:
una bomba gelata al sorbetto di cocomero e parfait di lamponi; un
golosissimo
Paris-Brest di pasta bignè ricolmo di una crema composta da
panna fresca, burro
e nocciole tostate; torta ungherese dall’impasto ricco di
semi di papavero e
gherigli di noce tritati, morbida e corposa; il Savarin Lussemburgo,
cotto al
forno nel suo stampo e caramellato da uno sciroppo al kirsch con una
soffice
guarnizione di panna montata alla base e, in cima, more fresche immerse
in
gelatina d’albicocche; fagottini di mele Golden e crema
spolverizzati di
cannella e zucchero a velo; dolcetti di datteri alla coreana arricchiti
da
miele e pinoli; un inedito punch ghiacciato al tè,
realizzato unendo pregiato
Champagne francese al rum, lo zucchero, mezzo albume, il succo di un
limone e
di un’arancia non trattati.
C’era di che ingrassare a
dismisura o sviluppare un diabete
da iperglicemia, ma sembrava che Crowley fosse immune alle calorie e
che la sua
insulina lavorasse a dovere. Arrivava in negozio verso le quattro meno
cinque di
ogni martedì, giovedì e sabato. Entrava con
l’incedere di un airone stizzito,
le gambe appuntite come matite, il nero dei suoi completi in pelle che
ben si
sposava al ciglio torvo che egli indossava a mo’ di segno
distintivo, gli
occhiali da sole posati in cima ai capelli. Nonostante la spocchia
ostentata,
era opinione comune (condivisa persino da alcuni clienti fedelissimi)
che
l’uomo celasse, dietro ai silenzi inespugnabili e ai vaghi
cenni del capo con
cui esprimeva il proprio apprezzamento, una profonda timidezza.
“Anche il fidanzato di mia
cugina Pepper, quando me l’ha
presentato, mi intimidiva perché lo vedevo come un
marcantonio perennemente
incazzato” si lasciò sfuggire Anathema una volta,
chiacchierando con Newton.
“Poi però ho scoperto che erano le sopracciglia
aggrottate a conferirgli
un’aura minacciosa che non possedeva minimamente, e che in
realtà era solo un
gigantesco orsacchiotto imbranato”.
“E credi che valga lo
stesso per il signor Crowley?”
“L’ho osservato
spesso interagire con Aziraphale, in queste
settimane, e ne ho ricavato una sensazione di enorme disagio.
È goffo,
impacciato, si mangia le parole, ne evita lo sguardo. Levagli gli abiti
da
impresario di pompe funebri con una passione per il sadomaso-”
“Il capo si offrirebbe
volontario, penso” interloquì Newton,
sbarazzino.
L’altra
rabbrividì di disgusto. “Ti prego, non voglio
pensare a lui in determinate situazioni. Invece, dicevo, se togli a
Mick Jagger
quegli straccetti emo-rock alla
vorrei-essere-cool-e-far-cadere-le-mutande-a-chiunque
rimane un insicuro, seppur molto affascinante, dinoccolato uomo di
mezz’età che
tenta di darsi un tono e niente più”.
“Sei severa con
lui” la rimproverò.
“Lo sono perché
ci intravedo del potenziale. Sembra
realmente cotto di Aziraphale, ma se con il suo atteggiamento da
Marchese Di Stocazzo
-passami il francesismo- dovesse finire per ferirlo in qualche modo
sappi che
non rispondo della mia reazione” dichiarò la
ragazza, preparando l’ordine per
un tavolo lì vicino.
“Io voglio essere
ottimista” Newton tagliò una fetta di
crostata al pompelmo rosa, la superficie coperta di spicchi pelati a
vivo e
luccicanti come granati. “Sento che andrà a finire
bene”.
“Mi auguro che tu abbia
ragione, caro. Mi si stringe il
cuore a vedere Aziraphale sempre solo” disse Anathema, un
velo di tristezza
nella voce.
Crowley fissò il menu,
palesemente indeciso. Alzò il capo
verso Aziraphale. “Sono in difficoltà. Non so
scegliere tra la bavarese alla
menta, il budino alla spagnola e quello di ricotta alla
romana” confessò ad
occhi bassi, quasi si vergognasse.
“Puoi prendere tutte e tre
nel formato più piccolo. Abbiamo
anche le monoporzioni, te l’ho detto, no?” propose
l’altro con un sorriso.
“Avrei preferito
dimenticarlo. Tu e la tua pasticceria
sarete la rovina della mia linea nonché del mio
portafogli” ribatté l’altro,
lasciando di stucco il proprietario. Era la prima volta che lo
spigoloso Crowley
azzardava una battuta di spirito. “Mi arrendo: portami le
monoporzioni” si
decise infine.
“Forse posso tentarti con
una nuova ricetta. Dimmi che te ne
pare, eh. Si tratta di una ciambella di pasta choux farcita con una
delicatissima crema al latte aromatizzato al limone, panna montata e
fragoline
di bosco, ed una glassa con Alchermes fatta colare sopra”
elencò fiero.
“…Ti odio.
Prendo le monoporzioni da mangiare qui, e la
ciambella da asporto” Crowley tentò di suonare
contrariato, ma i suoi occhi
furono attraversati da un bagliore divertito.
“Sei il mio cliente
preferito!” esclamò Aziraphale. “Se non
stessi lavorando ti abbraccerei”.
Crowley fu lesto, persino abile, a
coprire il rossore che
gli divampò sulle guance. Non visti, i camerieri se la
ridevano sotto ai
baffi.
La simpatia tra i due uomini crebbe
sempre più, insieme al
piccolo ma nutrito fan club di dipendenti e clienti della pasticceria
che
vedevano di buon occhio quell’amicizia e anzi speravano che
si evolvesse in
altro. Entrambi traevano beneficio dalla rispettiva compagnia.
Aziraphale era
animato da un nuovo entusiasmo creativo che conferiva al suo lavoro e
alle squisitezze
che preparava una qualità superiore.
Dal canto suo Crowley aveva smesso i panni di algido principino sul
pisello e
sorrideva apertamente, sfoggiando di tanto in tanto qualche capo
colorato (e
rivelatore della sua carnagione chiara) più adatto alla
primavera che
serpeggiava in città. Aveva inoltre preso
l’abitudine di consumare le proprie
ordinazioni appollaiato su uno degli sgabelli del bar, preferendo la
vicinanza
fisica di Aziraphale alla privacy offerta dal solito tavolino
d’angolo. L’onnipresente
Moleskine si stava riempiendo di appunti e annotazioni la cui natura
era
sconosciuta a chiunque, giacché Crowley aveva cura di
chiuderla non appena una
persona qualsiasi gli si avvicinava.
“Mi piacerebbe sapere cosa
scrivi con tanta foga su
quell’agendina” lo accolse un giorno il
proprietario del Fell & co
a mo’ di saluto. Sottolineò con una risata
l’imbarazzo dell’altro. “Questa
è la specialità del giorno, ci tengo ad avere
un tuo parere” aggiunse poi.
Gli mise sotto il naso una coppetta
di vetro istoriato
traboccante mirtilli, fettine di fragola, banane, ananas, mango e more
intere.
“Macedonia in gelatina fredda di spumante; e non uno
qualsiasi, bensì il Fiori
d’Arancio dei Colli Euganei, ottenuto dall’uva
Moscato Giallo più dolce e
intensa. L’alcol si sente appena, in modo da esaltare la
fragranza della frutta.
È molto amato anche dagli astemi. Spero sia di tuo
gusto”.
Crowley osservò quel
tripudio lucido e appetitoso. Non aveva
dubbi che fosse buono. Scavando con il cucchiaino nella gelatina,
divenne di
colpo serio e pensoso. “Ho una domanda da farti”.
“Strano”
l’altro si finse sorpreso. “Avanti,
spara”.
“La tua è una
pasticceria di classe, inserita in una delle
vie più frequentate del centro. Hai una buona clientela. Mi
chiedo come mai,
trovandoti nella capitale mondiale del gianduia, tu non abbia pensato
di produrre
anche una linea di cioccolatini. Ti frutterebbe parecchio e attirerebbe
ancora
più clienti, non credi?” si fermò per
riprendere fiato. Gli capitava di rado di
formulare frasi tanto lunghe.
Aziraphale scrollò le
spalle. “Potrebbe essere una precisa
scelta stilistica, la mia” ammise con nonchalance.
“Sai, un modo per
distinguermi dai concorrenti. Torino è piena di locali che
vendono gianduiotti,
li lascio volentieri a loro. Preferisco concentrarmi sulla pasticceria
e sui
gelati”.
“Ampliare la produzione
però non sminuirebbe il tuo talento.
Al contrario, sarebbe una freccia in più al tuo
arco” insistette lui.
“Sei gentile, ma non fa per
me” lo guardò. “Se non
conservassi il tuo aplomb in qualsiasi circostanza, mi verrebbe da
pensare che
tu sia nervoso. C’è un motivo particolare per cui
sembri tenere tanto ad una
mia futura carriera da maître
chocolatier?” insinuò con amichevole
malizia.
“No, cosa vai a
pensare” ribatté Crowley in fretta. “Era
un’idea, nient’altro. Ottima questa gelatina di
frutta, a proposito”.
“Grazie. Domani ti
farò trovare una sorpresa” promise Aziraphale,
arricciando il naso come un coniglio molto carino.
La mattina seguente uscì
sul Corriere Torino, il quotidiano
della città, una recensione nella rubrica dedicata ai locali
da non perdere e a
quelli da cui tenersi ben lontani. La recensione -il cui titolo
recitava Fell & co: classico oppure
obsoleto?-
era firmata da Anthony J. Crowley, critico gastronomico.
I complimenti alla perizia del pasticciere capo e alla bellezza del
negozio (peccato
per la mancanza di un’insegna come si deve!) abbondavano, e
il voto finale
assegnato dall’autore dell’articolo era quattro
stelle su cinque. Il succo del
discorso, da leggersi tra le righe tanto era espresso subdolamente,
suggeriva però
ben altro: ovvero che Aziraphale Fell era sì bravo e dedito
al proprio lavoro
come pochi professionisti del settore, ma il suo concetto di
pasticceria era
decisamente superato. Rifiutava di cimentarsi nel cake design, puntava
su dolci
cosmopoliti ma troppo elaborati e privi di quella ricercatezza trendy e
fighetta che impazzava su Instagram tra i food blogger e le influencer.
In
compenso aveva la presunzione di credersi diverso, forse migliore dei
suoi colleghi
perché non si univa alla folta schiera di cioccolatai
torinesi. Un vero
peccato, concludeva il critico, che si dichiarava dispiaciuto di non
aver
potuto assegnare la quinta stella a Fell
& co.
Le reazioni non tardarono ad arrivare
e furono tutte di carattere
abbastanza turbolento. Molti clienti manifestarono indignazione e
sostegno
morale al proprietario ingiustamente vilipeso dalla stampa, ma quelli
davvero
inviperiti furono i fedelissimi che frequentavano il locale
quotidianamente e
che avevano conosciuto Crowley, il vile traditore, scambiandoci persino
qualche
parola. I commessi si sentivano altrettanto oltraggiati,
perché stimavano Aziraphale
e gli volevano bene. I suoi aiutanti avevano esitato a lungo sul
presentarsi o
meno in cucina, allarmati dai suoni che avevano sentito provenire al di
là
della porta chiusa. Quando ne era emerso il capo, scarmigliato e con
un’espressione
che definire sanguinaria era semplicemente eufemistico, si erano presi
un bello
spavento. Dietro il bancone, uno intento a scaldare l’acqua
per il tè e l’altra
con uno strofinaccio in mano, i camerieri discutevano tra loro del
fattaccio, a
bassa voce per non alimentare il malumore generale.
“What an asshole”
commentò Newton con accorata costernazione.
In casi simili, l’uso della sua lingua madre era un
palliativo per l’anima.
“Quel figlio di un
tagliagole” borbottò Anathema, in
italiano. Allo sguardo interrogativo della collega, alzò le
spalle. “Che c’è?
Si insulta sempre la mamma degli stronzi, come se i padri non avessero
alcuna
responsabilità. ‘Figlio di un
tagliagole’ suona meglio, è più
infamante. La
prostituta di rado sceglie il proprio mestiere, mentre uno che per
campare
uccide e deruba le persone è un bastardo senza
appello” riprese a strofinare la
superficie già pulita.
“Ci speravo tanto, sai.
Sono deluso. Mi pareva un tipo
sensibile, a nice guy, veramente interessato al
boss” sospirò l’altro.
“Non è stato sincero con lui. Una critica ci
può stare, ma comportarsi così è
proprio una bassezza”.
“Ha agito come il cuculo,
il filibustiere: si è insinuato
nel nostro nido e ha deposto l’uovo, sperando che il pulcino
ci fagocitasse
tutti” rincarò la dose Anathema. “Ah, ma
se lo becco lo fucilo a vista. O
magari gli sguinzaglio dietro Shadwell, il secondo marito di mia zia:
è
istruttore di arti marziali, non ci mette nulla a ridurlo in fin di
vita” si
esaltò.
“Beh, se hai intenzione di
fargliela pagare ti conviene
decidere una strategia in fretta” la avvertì il
fidanzato, d’un tratto vigile.
“Lo stronzo è qui” disse indicandolo con
un cenno del capo, sprezzante.
Non sbagliava. Crowley
varcò l’ingresso con l’usuale
mescolanza di alterigia e ritrosia, gli occhi d’ambra puntati
sul registratore
di cassa aspettandosi di trovarvi Aziraphale, allegro e accogliente
come suo
solito. Non vedendolo si arrestò un attimo, spaesato. Al
contrario avvertì gli
sguardi dei presenti puntati su di sé, e nemmeno uno era
benevolo. I due
camerieri, in particolare, lo fissavano con astio.
“Buongiorno,
ragazzi” si schiarì la gola. “Il
titolare c’è
o-”
Prima che uno di loro potesse
rispondergli per le rime, dal
laboratorio fece capolino Aziraphale in persona, la divisa in perfetto
ordine
ed una confezione regalo per torte in mano. Soltanto un tic alla bocca
che lo
induceva a digrignare i denti ne rivelava il reale stato
d’animo. Crowley lo
percepì.
“La recensione non ti
è piaciuta” realizzò, sulla difensiva.
“Mi devi scusare. Non era quella la bozza originale, hanno
fatto casino al
giornale” provò a giustificarsi.
“Offre la casa”
replicò Aziraphale, incolore, posando la
confezione sul bancone. “Benché antiquato, sono
ancora in grado di svolgere il
mio lavoro con professionalità. La prenda e se ne vada,
signor Crowley. La sua
presenza non è più gradita nel mio
locale” gli diede le spalle e si apprestò a
tornare in cucina.
“Aziraphale, per
favore-”
“Hai sentito il
capo” lo interruppe Newton, severo. “Smamma
e non costringerci a cacciarti a calci nel sedere,
screanzato”.
Simile ad un Cerbero, Anathema si
materializzò di fianco a Crowley.
“Prego, mi consenta di accompagnarla alla porta”
disse e lo strattonò malamente
fuori dal negozio, nel silenzio colmo di risentimento degli altri
clienti.
Aziraphale, rifugiatosi in bagno, si
asciugò rabbioso una
lacrima che aveva osato solcargli la guancia sinistra.
Crowley tornò a casa. Come
girò le chiavi nella toppa, un
abbaiare gioioso gli diede il benvenuto. Una massa di pelo nera come il
carbone,
fremente e saltellante gli andò incontro subito dopo.
“Ciao, Warlock. Buono,
buono, papà è tornato” lo prese in
braccio e accettò di buon grado una leccata sotto al mento.
“Hai sentito la mia
mancanza, eh?” baciò il cagnolino sulla testa e lo
rimise giù.
Trasse in salvo la torta -o forse la
mela avvelenata?- della
pasticceria Fell & co,
portandola
in cucina. La lasciò accanto al lavello senza degnarla di
un’occhiata e prelevò
dal frigorifero il cibo per cani (macinato di tacchino cotto insieme a
carote
bollite opera del suo macellaio di fiducia), che versò in
una ciotola e diede a
Warlock. Guardò l’orologio appeso alla parete.
Erano le sei, un po’ in anticipo
rispetto ai suoi soliti orari, ma non gli importava. In quattro e
quattr’otto
mise insieme una cena squallida e misera come si sentiva lui in quel
momento:
del pane in cassetta, una lattina di tonno di sottomarca, una mela
verde e una
bottiglia di birra vuota per tre quarti. Apparecchiò il
tavolo con una
tovaglietta all’americana, di quelle usate per la colazione.
Non aveva davvero
fame. Raramente ne aveva, nella desolazione del suo appartamento.
Non c’era calore in quelle
stanze arredate in modo spartano,
nelle pareti spoglie prive di quadri o stampe, nelle piastrelle lucide
del
bagno, nella sua camera da letto, nel televisore muto.
L’unico sprazzo di vita
domestica era costituito da Warlock, dai suoi giocattoli, dalle
briciole di
cibo che talvolta spargeva in giro in preda alla foga divoratrice, e da
una
lussureggiante collezione di piante esposte nel terrazzo a nord-ovest.
Crowley
non aveva problemi ad ammettere di essere una persona introversa e
chiusa, tendente
all’isolamento, che al consorzio umano preferiva di gran
lunga la compagnia di
esseri a quattro zampe o, meglio ancora, dotati di foglie e radici.
Faticava
maggiormente ad accettare la causa di quella solitudine,
cioè i propri
fantasmi. Qualcuno però li avrebbe definiti diversamente,
attribuendo tutta la
responsabilità al suo carattere ombroso e ad esperienze
passate non certo
traumatiche ma formative.
Il padre diplomatico aveva trascinato
con sé la famiglia in
giro per il mondo, incarico dopo incarico, garantendo a moglie e figlio
qualche
anno di stabilità salvo poi sradicarli e ripartire per una
nuova avventura. Crowley
aveva frequentato scuole pubbliche e istituiti privati, ricavandone una
cultura
a tratti lacunosa e imparando diverse lingue. Le amicizie, poche e
difficoltose
a causa della sua indole timida, non avevano retto. Le relazioni
amorose erano
state fugaci, insignificanti storielle senza ricorrenze né
la possibilità di
costruire alcunché. Completati gli studi di enogastronomia,
era volato negli
Stati Uniti per il suo primo incarico importante. Lo stile di vita
estraniante americano
non aveva giovato alla sua modesta condizione di infelicità,
pertanto quando un
conoscente lo aveva contattato per offrirgli un posto in Italia come
critico
gastronomico freelance non ci aveva pensato su due volte e si era
trasferito a
Roma, dove la sua strada aveva era incrociato quella di Warlock. In
seguito ad
una promozione erano approdati insieme a Torino, in cui abitavano da
circa un
anno.
Fine della storia, pensò
l’uomo dando una carezza al
cagnolino finalmente sazio. La cena restava intonsa sul tavolo. La
confezione
della pasticceria lo tentava, immobile sul ripiano vicino ai fornelli,
e al
tempo stesso sembrava sfidarlo. Mangiami se hai coraggio, gli
sussurrava
beffarda. Fine della storia, ripeté Crowley a voce alta.
Devo assumermi le mie
responsabilità. Disfò la scatola con mano
tremante, trattenendo il fiato di
fronte allo spettacolo che gli si parò dinnanzi agli occhi.
Un budino giallo
crema a due strati, semplice nella forma e riccamente punteggiato di
frutta
candita: ciliegie rosse come rubini, bucce di limoni verdi simili a
smeraldi,
scorze d’arancia di un vivo arancione. Un bigliettino volato
fuori dalla
scatola identificava il dessert come crema ottomana.
Il giornalista ammirò
ancora un poco quell’opera d’arte,
realizzata con il cuore da un uomo buono che probabilmente aveva
perduto ancora
prima di poterlo conquistare. Rovistò nel cassetto dove
teneva le posate.
Affondò il cucchiaino nel composto spumoso, sorprendendosi
nel pescare altra
frutta candita e biscotti ridotti a dadini. I sapori gli esplosero nel
palato.
La tenue crema al latte, l’aroma intenso della vaniglia che
le dava corpo e una
dolcezza senza pari, la consistenza croccante dei biscotti data dalle
mandorle
tritate, il gusto acidulo degli agrumi mitigato dalle ciliegie. Quel
dolce era
stato preparato con amore, un amore che lui non meritava. Il cucchiaio
cadde di
mano a Crowley, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime.
Attese che fosse giunta
l’ora di chiusura e che i dipendenti
se ne fossero andati. Aziraphale chiudeva il locale ogni sera alle
sette e
mezza ed era l’ultimo ad uscire. Non permetteva a nessuno di
pulire e ribaltare
le sedie sui tavoli; ci teneva a farlo personalmente. Sosteneva che
svolgere
quegli umili compiti lo rilassasse. Crowley, parcheggiato in doppia
fila dentro
la sua fidata Bentley nera, aspettò addirittura che la
saracinesca fosse mezza
abbassata, in modo da essere sicuro che in pasticceria fosse rimasto
solo lui.
Con un’agile mossa scese dalla macchina ed entrò.
Aziraphale si voltò.
“Avevo appena passato lo straccio”
osservò, gelido. “Ma suppongo di doverti preferire
ad un ladro”.
“Vorrei parlarti.
Spiegarmi” pronunciò goffamente Crowley.
Giacché l’altro non lo aveva invitato a sedersi,
rimase in piedi come uno
stoccafisso.
“Non sono interessato ad
ascoltare altre balle da parte tua”
incrociò le braccia. “Sono stanco. Voglio tornare
a casa. Non ho tempo per le
tue stronzate, onestamente”.
“Scusami” gli
parlò sopra. Tacque un attimo. “Scusa. Avrei
dovuto chiarire chi ero e perché ero venuto qui da subito.
Non mentivo quando
ti ho detto che avevo sentito molti commenti positivi sul tuo conto. Il
giornale mi aveva affidato il compito di recensire il Fell
& co. Pensavo… Non so, che mi avresti
trattato
diversamente se mi fossi presentato come critico gastronomico. Che
saresti
stato meno spontaneo, più reticente a parlare del tuo lavoro
con sincerità”.
“Mi hai giudicato a
priori” lo accusò Aziraphale.
“Infatti, è
stato un mio errore. E quando mi sono reso conto
di aver fatto una cazzata ormai era troppo tardi per rivelare la mia
identità
senza conseguenze. Ti sei mostrato così gentile con me sin
dal primo giorno,
hai sopportato le mie domande petulanti senza mai vacillare,
rispondendo con
competenza e dedizione. Sempre disponibile, sempre sorridente. Mi
trovavo bene
con te; è raro che accada, che mi senta a mio agio con un
estraneo. Desideravo
esserti amico, anche se il nostro era un rapporto
cliente-venditore”.
“Ho smesso di considerarti
un semplice cliente da un bel
po’, Anthony” Aziraphale evitò di
incrociare il suo sguardo mentre le parole
gli sgorgavano dalla bocca senza che lui potesse arginarle.
L’ambiente si
riempì di un silenzio emozionato, carico di
tensione.
“Non lo avevo capito.
Scusami, sono una frana nei rapporti
umani” scosse la testa. “Quello che ho scritto
nella recensione lo penso
davvero. L’ho formulato male e l’editing del
curatore della rubrica ci ha messo
il carico da undici, ma sono realmente convinto che se ti dessi alla
produzione
del cioccolato il locale avrebbe una marcia in più. Avendo
vissuto a New York,
dove va di moda un altro tipo di pasticceria, non è stato
facile abituarmi alla
tua, tradizionale e poco incline ad assecondare le variazioni del
mercato.
Tuttavia, sono ugualmente certo del tuo talento e credo che tu abbia un
grande
dono. I miei, sebbene espressi nel tono sbagliato, volevano essere
consigli e
non critiche. Consigli per spronarti a migliorare, aprirti alle
novità. Tengo a
te, Aziraphale, desidero il tuo successo e soprattutto la tua
felicità. Devi
credermi”.
“Sarebbe bastata un
po’ di sincerità all’inizio, prima che
la situazione ti sfuggisse di mano” sospirò lui.
“Mi sono sentito preso in
giro”.
“Adesso lo so, e mi
dispiace immensamente” Crowley avanzò di
un passo. “Sono venuto qui per questo. Non mi aspetto che mi
perdoni, sono
stato un cretino e merito la tua freddezza. Volevo solo chiederti
scusa. Mettere
le cose in chiaro”.
“Nient’altro?”
la domanda suonò come una sfida.
Si costrinse ad essere sincero fino
in fondo. “La crema
ottomana” mormorò.
“Non ti è
piaciuta?” si accigliò.
Scosse la testa, sorridendo
timidamente. “È il mio
preferito”.
Aziraphale accolse la rivelazione con
un silenzio stupito. Osservò
l’uomo di fronte a sé strofinarsi goffamente le
nocche, dondolando il proprio
peso da un piede all’altro simile ad un bambino insicuro.
Alla fine i
sentimenti che provava ebbero la meglio sul suo orgoglio.
“Siediti” disse.
“Parliamo”.
Gli tese una mano. Crowley la
afferrò.
Questa fanfiction nasce come
rielaborazione di un’altra, sempre
scritta da me ma per un altro fandom.
Rileggendola, qualche giorno fa, son quasi caduta dalla sedia: la trama
era
perfetta per gli Ineffable Husbands (almeno secondo il mio modesto
parere xD),
perciò -mi sono detta- perché non sfruttarla?
Spero di aver fatto un buon lavoro.
Torino è una
città che adoro e che finora ho visitato tre volte.
Un pochino credo di conoscerla, ma giacché non sono
infallibile invito gli
eventuali lettori torinesi a perdonare la superficialità
delle mie descrizioni
del centro storico e a correggermi, dovessero ritenerlo necessario.
Una cliccatina è sempre
gradita: https://www.facebook.com/IlGeniodelMaleEFP/?ref=bookmarks.
P.S. Il titolo fa riferimento
all’esclamazione di piacere che
Aziraphale è solito rivolgere ad un piatto ben cucinato. Lo
specifico per chi
tra i lettori avesse visto Good Omens doppiato in
italiano.