Titolo: You Burn in my Bones
Personaggi: Eliott Demaury,
Lucas Lallemant
Pairing: EliottxLucas [Elu]
Rating: Giallo
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo, Sentimentale
Avviso: Au, One Shot, Slash, Death-Character, Tematiche Delicate, What if?
Note: Ambientata durante la
3x09
«Quanti Eliott e Lucas pensi siano sposati nei tuoi universi paralleli?».
«Molti».
«Molti?
Dovremmo morire stanotte, allora. Mentre siamo al nostro apice».
Il
problema dei desideri era quello di stare particolarmente attenti a ciò che si
esprimeva, perché essi potevano realizzarsi, indifferenti a qualsiasi forma o
momento potesse prendere vita nella mente di una persona. Soprattutto se la
mente era quella caotica, incoerente, bersagliata e volubile di Eliott Demaury,
talmente al di là del suo controllo da sfuggirgli totalmente, da risultare
imprendibile per se stesso, da costituire la propria condanna senza averne la
percezione, annientandosi nell’istante in cui ingenuamente e senza colpe
abbassava la guardia, ritenendosi al sicuro, in pace, in una bolla di felicità
impossibilitata ad essere distrutta; salvo, dove nulla poteva sfiorarlo. Ma
esisteva la salvezza per un cancro impossibile da estirpare da un cervello
rotto?
La sua
colpa, il suo peccato capitale, era averlo sottovalutato e ritenuto un
avversario che poteva sovrastare senza fatica, guidato da quella forza del vero
amore che decantavano i poeti dalla notte dei tempi, la forza che sapeva
esistere ed in cui credeva ciecamente. Esisteva il lieto fine anche per un
essere indegno come lui.
La
legge dell’inevitabilità del fato avverso e beffardo imponeva che più la vetta
era alta, illudendosi di toccare le stelle e di appartenervi, più la caduta
nell’abisso oscuro e penetrante era eclatante.
Non
esisteva il vissero tutti felici e contenti con cui aveva convissuto per
tutta la vita tentando di resistere, di abbattere le avversità e di sconfiggere
la propria medesima persona.
Dovremmo
morire stanotte, allora. Mentre siamo al nostro apice, ma non c’era stato nessun dovremmo,
nessun noi di alcuna specie, un apice che lui stesso aveva cancellato
con il disastro che era la sua materia grigia fallata.
Lucas
non l’aveva aspettato. Non gli aveva concesso l’opportunità di raggiungerlo.
Non era
tornato a casa per due giorni interi, completamente sparito da qualsiasi raggio
potesse essere in grado di captarlo, di scovarlo e riportarlo ad un luogo in
cui sapeva non appartenere. Era scomparso perfino dalla sua percezione,
desideroso di essere cancellato e smarrito, depennato da un universo troppo
stretto e claustrofobico, uno che era capace di distruggerlo con un battito di
ciglia, andando contro tutto ciò che amava e che per una qualche ragione
sconosciuta non sembrava mai essere abbastanza, soddisfare e sconfiggere
l’oscurità che gli avvelenava la mente difettosa, un’anima che cercava il sole,
compressa e racchiusa in un involucro di carne che gli toglieva il respiro,
sottraendogli l’ossigeno, spegnendolo ed intrappolandolo, manipolando una forma
spiritica che andava oltre il comprendonio umano. Eliott odiava il suo guscio
di ossa e di pelle, la prigione mortale dov’era rinchiuso, la gabbia che gli
impediva di spiccare il volo e di raggiungere la libertà, librandosi nella sua
vera essenza soggetta alle leggi restringenti della Terra. Era disposto a
sporcarsi le mani, ad agire secondo il flusso dei pensieri che lo guidavano in
determinati momenti della vita, seguire la voce che per anni gli avevano
intimato di non ascoltare, di soffocare e reprimere, togliergli l’audio ed
ignorare; era una preghiera disperata, era la litania che doveva far risuonare
e primeggiare sulla dannazione eterna, quella che lo seduceva e l’attirava a sé
con una semplicità imbarazzante, promettendogli l’inesistenza di vincoli e
confini senza fine da esplorare, esprimendosi secondo i propri desideri.
A volte
far finta che non esistesse non comportava alcuna fatica, altre non era
completamente presente, come se fosse stato un brutto scherzo della sua mente
malata – e lo era –, ma in altre occasioni era impossibile tapparsi le orecchie
ed estirparla, far primeggiare l’autoconservazione, l’amore per se stessi ed
impedirsi di graffiare l’epidermide, rompere il legame dei tessuti e far
sgorgare il liquido plasmatico.
Eppure
non aveva mai sorpassato il limite del non ritorno, anche quando gli urlava nei
timpani e li squarciava.
C’era
un’altra voce, c’era un’altra voce negli ultimi mesi che sovrastava tutte le
altre, che aveva il potere di zittirle, di ridurne gli effetti e di
ridimensionarle ad una consistenza che non presentava la supremazia sulla sua
debole mente influenzabile, che gli ricordava perché il cuore battesse ancora
nel petto, più energeticamente di prima, di quanto gli fosse concesso averne
memoria, di quanto Eliott avesse mai potuto sperare, facendogli anelare il
proseguimento di quel flusso vitale che non doveva essere interrotto. Era la
voce che lo invitava a tornare a casa, ad osservare cosa di incredibile quel
minuscolo pianeta avesse in serbo per loro. Era l’unica voce che Eliott
riusciva a sentire nel caos, la sola a cui si permetteva di prestare realmente
orecchio, anche quando il Tartaro era ad un passo dall’acchiapparlo e l’azione
più naturale e consequenziale era abbandonarvisi, annullando il rumore nella
scatola cranica che non gli dava tregua. Ma il timbro vocale di Lucas era tutto
ciò che doveva imporsi realmente di seguire, anche quando era consapevole di
aver distrutto ogni cosa, tutto quello che potevano essere insieme. Era quella,
proprio quella, la via corretta ed Eliott non era qualcuno che in totale onestà
si era mai arreso, non con lui.
«Eliott»
il suo nome urlato con apprensione e paura, una tensione preoccupante delle
corde vocali e la quasi mancanza di sollievo, fu il benvenuto che gli fu
rivolto.
Il
rumore delle chiavi che armeggiavano con la toppa, la porta che veniva aperta e
chiusa alle sue spalle, con il gruppo di metalli che oscillavano sbattendo tra
loro, fu l’annuncio che lo riportava tra le mura domestiche – sembravano più accoglienti
in quel momento, meno avverse da come le ricordava, da come le sentisse
stringersi intorno a lui senza permettergli di eliminare l’anidride carbonica
che produceva; si domandava perché quarantotto ore prima ne fosse fuggito.
Tre
figure accorsero all’ingresso, apparivano distrutte, stremate, al limite di un
crollo e gli occhi erano bizzarramente lucidi; ne disconosceva completamente la
motivazione, non era la prima volta che spariva dall’appartamento, che ogni
traccia di lui venisse inghiottita dall’ignoto e l’apprensione crescesse a
dismisura nei suoi familiari. «Sono a casa» a volte bastava, faceva la
differenza ed il conforto di vederlo sano e salvo colmava la follia delle sue
azioni avventate.
Sua
madre scoppiò a piangere e suo padre non sapeva dove posare le pupille,
frenetiche e schive, eppure inevitabilmente comunicatrici. Era un comportamento
anomalo, molto lontano dalla prima fuga di anni prima, dove lo spavento e la
rabbia erano tutto quello che non riuscirono a contenere. Era un siparietto
disturbante che non riusciva a collocare.
Niente
abbracci, niente comprensione, nessun rimprovero o parola di qualsiasi sorta,
la completa disponibilità di intenderlo e lasciargli i suoi spazi, facendogli
affrontare la fase che stava attraversando nel modo che riteneva più opportuno.
Ma forse era la terza figura che giunti a quel punto stonava con il percorso
che aveva intrapreso, lasciandolo interdetto dinnanzi allo scenario che gli si
palesava. «Non sei più la benvenuta, Lucille».
Lei non
demorse, rimase immobile al centro dell’atrio, il rammarico nello sguardo, il
senso di colpa tangibile e la compassione che ne faceva da padrona. Eliott
odiava quella dedica, non voleva mai che gli venisse rivolta contro. «Dovresti
ascoltarmi».
«Ascoltarti?
Per sentirmi dire cosa, esattamente?» era diventato totalmente intollerante
alle sue chiacchere vuote, sentiva solo il male provenire da esse. «Non hai più
voce in capitolo nella mia vita».
Lucille
si ingessò sotto le iridi di ghiaccio ed irritate del ragazzo, crudeli come
poche volte lo erano state, ma poi si erano moltiplicate, aumentate, disperse e
fatte sempre più frequenti; tra un attacco e l’altro non c’era modo di pararsi,
ma erano giustificate, comprensibili, inglobate in un pacchetto che comprendeva
ogni sfaccettatura di Eliott. Aveva imparato a conviverci, ma erano diverse da
quando lui si era ramificato intorno all’essenza del diciottenne; da
quello non c’era una via di salvezza, il tentare di trovare un compromesso.
Eliott aveva scelto, senza che fosse considerabile un’alternativa differente,
senza che potesse ritornare sui suoi passi e sopravvivergli in sua mancanza.
Aveva
il cuore spezzato, ma non era per se stessa.
«Questa
volta dovrai ascoltarla» dichiarò sua madre con le corde vocali spezzate, il
pianto che non riusciva a trattenere pienamente e l’irremovibilità che comunque
primeggiava.
Eliott
l’osservò di sbieco, ancora perplesso e non completamente al cento per certo in
possesso delle facoltà mentali limpide, c’era qualcosa nell’aria che proprio
non trovava di proprio gusto e che in qualche modo urlava di rintanarsi in un
posto sicuro, ma esisteva?
Annuì
ai tre presenti senza davvero crederci ed all’improvviso tutta l’aria dei
polmoni si arrestò. Lucille sembrava essere divenuta afona.
«Gli-
gli avevo scritto per informarlo» era cerea ed esangue, le lettere faticavano a
mettersi in fila ed a prendere il giusto suono per comporre una frase di senso
compiuto. «Per sapere se si trovasse con te, se eri con lui, se fosse a
conoscenza del luogo in cui ti trovassi. Tu eri sparito e noi non sapevamo cosa
fare» si erano spaventati spesso, al limite del terrore, ma quella era
un’occasione diversa, una variabile che in passato non avevano considerato.
Eliott era in uno stato che non avevano mai incontrato, se fino alla domenica
mattina era gestibile ed ancora in fibrillazione per il suo grande amore, al
vertice dell’eccitazione entusiasta, pronto a donare tutto il profondo
sentimento che nutriva per Lucas, poi si era spento come una fiamma estinta per
mancanza di ossigeno. Di netto.
Era
stata una settimana atroce ed ingestibile. Collimata con la sua completa
sparizione dalla faccia della Terra.
«Lui
chi?» ma quanti lui potevano esserci in quella particolare tappa della
sua vita? «Hai ricontattato Lucas, quando ti era stato espressamente vietato.
Più volte» perché ne stavano parlando? Perché continuava a trovarsi in casa una
figura che non voleva più nei dintorni, che aveva scacciato, rinnegato,
trattato male, gridandogli di sparire? Eliott veniva soffocato più da lei che
da qualunque fattore erroneo nella sua testa.
«Dovevo
tentare» aveva commesso una fatalità, una da cui non c’era redenzione. «Era
l’ultima spiaggia, non credevo avesse davvero la soluzione» non dopo quello che
gli aveva gettato addosso, il disprezzo e la cattiveria, l’arma che aveva usato
per distruggerlo. «Però, forse, l’aveva».
Fu un
tuono sordo, un lampo che inghiottì tutti i suoni che l’accerchiavano, il
trascorrere del tempo che improvvisamente si arrestò, impossibilitato a
riprendere il suo percorso, ad andare avanti e defluire, ritornando alla
normalità. «Che significa?».
Lucille
si raggelò, sua madre tremò vistosamente e suo padre voleva essere ovunque
tranne che lì.
«Lui…
Lucas, evidentemente sapeva dove andare, dove trovarti» era un’informazione di
cui Lucille non avrebbe mai beneficiato. «Era andato a cercarti, a prenderti».
«No» se
fosse stato vero, se fosse stato reale e non un’allucinazione partorita dalla
sua mente, Eliott ne sarebbe stato consapevole, l’avrebbe visto, testimoniato,
avrebbe beneficiato della presenza del suo riccio anche nel periodo più critico
e distruttivo del suo stato depressivo. Avrebbe fatto la differenza, in qualche
modo. «Non è arrivato nessuno» sapeva, sapeva che se Lucas si fosse realmente
mosso nella sua direzione, sarebbe spuntato all’orizzonte.
«No»
confermò Lucille, la morte definitiva nell’organo involontario. «Non è riuscito
ad arrivare».
Con
Lucas, aveva cessato di esistere Eliott stesso.
Non le
aveva creduto, non poteva crederle, le sue facoltà mentali disturbate e
difettose non riuscivano a processare una notizia irrealizzabile come quella
che gli veniva propinata.
L’aveva
accusata di manipolarlo, raggirarlo, di giocare talmente sporco da giungere ad
utilizzare una carta meschina come quella, perché c’era un limite alla gelosia
ed alla mania di controllo.
Le
aveva urlato contro, graffiando le corde vocali, stirandole e tirandole; quasi
le aveva sentite sfibrarsi e l’afonia bussare alla sua porta, ma era andato
avanti ignorandole. Era esploso, divampando l’incendio che non poteva più
contenere, le fiamme che avvolgevano tutto quello che statuarie gli
soggiornavano intorno ed aveva spaccato ogni cosa, sgretolandola, esattamente
nelle condizioni in cui si trovava la sua anima nell’intermezzo tra la vita e
la morte.
Era
quasi certo di aver incrinato il vetro delle finestre con lo stridere delle
grida, in un’implosione, il rimbombo che gli assordava l’apparato uditivo, riecheggiando
nei timpani e scuotendogli la testa, in vibrazioni che perduravano all’interno
della scatola cranica assordandogli i sensi. Era completamente devastato dai
rumori, stordito dalle sensazioni ed emozioni che non gli davano tregua, che lo
inglobavano ed incatenavano a una coltre abissale e nera.
Era
nato per distruggere, tutto quello che toccava diveniva cenere, particelle
talmente piccole da non poter essere osservate ad occhio nudo, così
infinitesimali da far credere di non essere mai esistite.
Radere
al suolo la propria camera, la camera in cui l’aveva accolto e che sapeva
ancora di loro, testimone di una nascita che era evaporata, fu conseguenziale,
il passo successivo alla cancellazione di se stessi.
La
carta fu strappata, l’inchiostro gettato al vento, le pareti macchiate ed i
tasti del pianoforte verticale, che contenevano ancora le impronte di Lucas
perché non aveva più avuto il coraggio e l’ardire di utilizzarli, scossi con
furia, da pugni e manate che non conservavano alcun rispetto, riproducendo
suoni sgraziati e terrificanti, incidendo l’aria e scordando lo strumento.
Ne
pizzicò uno, bianco avorio, che scivolò sotto il sudore dell’ira e della
devastazione, riproducendo una nota strozzata, ma così bisognosa di prendere il
suo spazio e farsi sentire da perdurare tra i muri, installandosi nella
memoria.
Ridestarsi
fu un attimo, il sibilo talmente familiare da fargli tremare le ginocchia, da
perforargli il cuore che voleva rinnegare il lutto, anche se era già appassito
conseguentemente.
Un
polpastrello sfiorò un nuovo tasto che stramazzò, ma che con criticità duplicò
la nota perfetta e le iridi acquamarina si accesero di una consapevolezza che
non avrebbero voluto apprendere.
Le dita
scivolarono su quello successivo e un secondo dopo sul tassello poco più
lontano, replicando una melodia affine ed orribilmente simile al brano con cui
il riccio l’aveva incantato una volta per tutte. Per sempre.
La nota
adiacente gracchiò in un’ottava di troppo, urtandogli un timpano, e quella più
distante chiese pietà, ma le falangi non si fermarono e proseguirono nella loro
suonata accidentale, guidate dai ricordi annebbiati e discordanti, sbiaditi e
contorti dal dolore, che tentavano di riprodurre ad orecchio ciò di cui gli era
stato fatto dono diverse settimane addietro. Aveva mai scoperto il titolo della
composizione?
La
suonò per intero, nelle sue lacune ed improvvisando, sostituendo un tasto con
uno affiliato, procedendo per tentativi ed errori, senza mai tergiversare,
perdendo più tempo di quanto in realtà gliene venisse concesso, immergendosi in
completa adorazione nella sua mansione ed investendo tutte le energie nella
ricerca di motivazioni che non avrebbero mai avuto spiegazioni.
Quando
giunse a far vibrare l’ultima nota della sinfonia, impregnando le mura e dando
interamente se stesso per rispondere a qualcuno che non avrebbe mai potuto
udirlo in quell’esistenza, la desolazione fu dilagante.
Il
cielo era di un azzurro impressionante, non vi era un solo batuffolo bianco,
una scia di qualche sorta che potesse sporcarlo, era limpido come poche volte
l’aveva incontrato. Ed era ingiusto, infido e irrispettoso.
Avrebbe
dovuto piangere, far cadere ettolitri ed ettolitri di pioggia, punire il mondo
con tempeste di fulmini, squarciare strade ed alberi, far saltare il cemento e
sradicare la natura, portare la devastazione, invece era tutto avvolto da una
calma piatta ed illusoria, in una giornata come tante altre dove la vita
trascorreva indisturbata, senza problemi, senza che le brutte cose potessero
capitare alla gente comune e scuoterla, in cui non esisteva un solo male al
mondo. Ma il male c’era e scendeva a fiotti, investiva ed estirpava senza
curarsi minimamente di chi si trovasse dinanzi, inviolabile ed eterno,
inattaccabile.
Agli
occhi dell’artista non c’era abbastanza sofferenza per la vita che era stata
stroncata su quel minuscolo ed insignificante pianeta blu.
C’era
una coltre notevole che usciva dalla chiesa in cui si era svolta la funzione,
disperdendosi nell’ambiente esterno, seguendo un percorso di cui Eliott
diffidava, la moltitudine del nero che affollava le strade, il non-colore per
eccellenza, il pigmento che catturava tutta la luce, la luce che non riusciva
più a scorgere. Non c’era nulla di più sbagliato, la minima traccia delle
sfumature dell’oceano baciato dall’astro d’Apollo che avevano sempre albergato
intorno a Lucas, permettendo che risaltasse sulla massa, distinguendosi,
lasciando che la magia del colore che catturava Eliott sopra ogni cosa lo
conducesse da lui.
Era
stato uno stolto, lo erano stati entrambi.
«Non si
è curato di se stesso, si è preoccupato soltanto per te. Voleva raggiungerti ad
ogni costo» Lucille glielo aveva confessato nel momento della verità, quando la
terribile notizia si era abbattuta su di lui schiacciandolo, neutralizzandolo,
con il peso di chi era sopravvissuto.
Ad ogni
costo era
stato un prezzo troppo salato da pagare.
Eliott non
era riuscito ad assistere alla celebrazione finale di ciò che Lucas era stato
nei suoi quasi diciassette anni, era rimasto all’esterno, tagliato fuori,
davanti le porte che davano nell’edificio sacro, quello da cui il riccio si era
volatilizzato per fiondarsi da lui e trascinarlo via dai suoi demoni interiori
– era stata una punizione divina, la scelta di Lucas di preferire Eliott a Dio?
–; ma chi in totale onestà sarebbe dovuto essere salvato tra i due?
Seguì
la processione in coda, negli ultimi posti, come se non fosse degno di essere
notato e di trovarsi lì, con i pensieri avvelenati che gli affollavano la mente
e l’inesistenza stampata sui tratti facciali; era l’ombra di se stesso, un
fantasma. Che diritto aveva di sopravvivergli?
Giungere
al cimitero fu paradossale, le lacrime dei presenti non venivano trattenute ed
il mondo sembrava aver perso un po’ della sua essenza primordiale, il nero si
immischiava al grigio ed Eliott continuava a ritenerlo una blasfemia. Con Lucas
esistevano i pigmenti, le tempere che prendevano corpo con un tocco, la
manifestazione di ogni sfumatura che i raggi del sole erano capaci di creare,
vividi, pulsanti e vibranti, non c’era spazio per l’oscurità, per
l’offuscamento e la patina sottile che avvolgeva l’inconsistente, prosciugando
un vissuto che persisteva soltanto per una quotidianità plastica senza valore.
Ciò che si stava svolgendo tra le pietre che contenevano corpi esanimi, le
figure accorse che racchiuse in gruppi tentavano di salutarlo un’ultima volta,
non lo rappresentavano in alcuna maniera.
«È la
tua ultima occasione, Eliott» Lucille si materializzò davanti a lui con passo
felpato, la tintura della notte che la vestiva dalla testa ai piedi ed
un’ipocrisia che non riusciva a sopportare.
«Non
hai fatto abbastanza danni?» il risentimento uscì senza che ne avesse
controllo, ma anche se ne avesse avuto, non l’avrebbe trattenuto.
Lei fu
punta sul vivo e tutte le buone intenzioni che poteva aver pensato di
manifestare, evaporarono. «Ci convivrò per tutta la vita, ma non posso
assumermene la colpa» non era lei che correva a perdifiato in mezzo ad una
strada trafficata dal passaggio di automobili, affollata di incroci, incurante
di se stessa e di chi le stava intorno.
«Perché
dovresti?» domandò retoricamente il diciottenne, fissandola senza guardarla
davvero. «La colpa è mia» Lucille lo fissò disorientata, ma il terrore si
affacciò immediatamente. «Se non fossi guasto, un articolo difettoso, non
l’avrei distrutto. Avrei dovuto lasciarlo in pace, non avvicinarmi mai, e lui sarebbe
ancora qui».
«Non
sei stato tu a distruggerlo» lo interruppe la ragazza, rivelando qualcosa che
disconosceva. Era abile con i sensi di colpa di Eliott, il potere che avevano
di sabotarlo, il prendersi carico di qualcosa che non era veritiero. Dava la brutta
impressione di essere propenso a non far ritorno per essi, ma soprattutto per
Lucas ed era quello che tutti i suoi cari temevano. «Gli ho fatto credere che
non lo amassi, che non ne eri capace, che era soltanto un capriccio. Ad averlo
distrutto sono stata io».
Un
silenzio assordante precipitò su di loro e tutto quello in cui Eliott credeva
non esisteva più. «Non amarlo?» lo sconcerto fu talmente deteriorante che non
gli permise di comprendere la totale gravità delle azioni d’annientamento di
Lucille, del modo in cui Lucas doveva essersi sentito e di quanto avesse patito
sofferenze innegabili, lacerandosi dall’interno.
Nessuno
poteva immaginare quanto si fosse pentita di aver rivelato qualcosa che non era
assolutamente corrispondete alla verità. «Era la ragione per cui non pensavo
che sapesse dove trovarti, era solo un tentativo, ma Lucas ti conosceva come
non avevi permesso a nessun altro» nemmeno a lei. «Ti amava e non gli importava
delle ripercussioni».
Lo
amava? Era un quesito a cui non avrebbe mai avuto risoluzione. «Avrei preferito
gli importasse» che lo dimenticasse, che lo cancellasse dall’intera esistenza,
esattamente come se non l’avesse toccato mai, senza che la propria orbita
avesse sfiorato la sua, collassando.
«Concedigli
il suo ultimo saluto» tentò ancora una volta Lucille, invitandolo tra la folla
che faticava a dispiegarsi, formata da presenze troppo giovani. «Digli la
verità».
«Quanti
Eliott e Lucas pensi siano sposati nei tuoi universi
paralleli?».
«Molti».
La
verità era più amara di quanto Eliott si fosse permesso di assaporare, di far
vagare una fantasia che in qualche modo si era ridotta enormemente, incontrando
qualcuno che riusciva a vedere più lontano di lui – era quella una delle
ragioni che l’avevano abbagliato?
La vera
risposta, quella autentica, ad una domanda gettata per caso dalla frenesia di
un suo episodio maniacale era: nessuno.
Eliott
Lucas l’avrebbe sposato senza soffermarsi a riflettere, in una frazione di
secondo. Era ciò che aveva pensato quando l’aveva adocchiato la prima volta,
davanti l’ingresso della scuola il suo primissimo giorno, circondato dagli
amici più cari ed immerso in una conversazione animata che gli accendeva
l’entusiasmo; era stato l’istante in cui Eliott era entrato a conoscenza di
variazioni di colori che non aveva mai incontrato nella sua formazione da
artista ed esteta.
Si
raccontava che quando si incontrava l’amore, quello vero, quello
incontrovertibile, si entrava in possesso della facoltà di vedere l’autenticità
dei colori, l’essenza univoca, le variazioni innumerevoli ed impercettibili
date da ogni riflesso inimmaginabile della luce, e loro li avevano visti
eccome.
Non gli
aveva dato l’estremo saluto, non era nemmeno riuscito ad avvicinarsi, ma era
rimasto incollato nell’angolo di una cappella in cui si era rifugiato a
guardare da lontano. Aveva assistito alla bara bianca che veniva calata con
cura dentro una delle tombe comuni che contenevano più corpi, strettamente
legati all’egoismo umano di mantenere qualcosa di tangibile per ricordare e
mascherare le dimenticanze.
Aveva
visto una bara bianca sull’altare, dentro la chiesa, trasportata all’esterno
per raggiungere il cimitero per essere conservata eternamente sotto un’enorme
spessa lastra di marmo scuro, perché Lucas non aveva raggiunto la maggiore età,
non aveva minimamente sfiorato i diciassette anni e veniva considerato ancora
come un’anima candida e pura.
Lo era,
ma Eliott l’aveva macchiato irrefutabilmente.
Due
giorni dopo l’artista continuava a non essere capace di respirare, di liberare
quell’anidride carbonica associata a veleno per l’organismo e scambiarla con
l’ossigeno.
Irrompere
nella casa dei morti nel cuore della notte e sabotare serrature di ogni tipo
non era mai stata un’attività troppo complicata per lui, incellofanato dentro
una felpa nera pesante e con il cappuccio sopra la testa, come non lo era
inoltrarsi in ambienti tetri e spaventosi. Il primo bacio con Lucas era
avvenuto in un luogo similare – lo stesso in cui si era andato a rintanare,
mentre Lucas tentava di corrergli incontro –, che conteneva una poesia ed una
malia differenti, ma il tema della figura incappucciata e con una falce in mano
non era mai stato estraneo nella sua mente folle. Ma non aveva voluto che
giungesse per portarsi via il riccio, strappandoglielo. Non da solo, per lo
meno.
Era
tutta lì la verità, chiara e nitida, pazzesca e fuori da qualsiasi binario. Dovremmo morire stanotte, allora. Mentre siamo al
nostro apice, non era mai
esistita la singolarità nei piani, non li aveva mai esclusi, non sussistevano
entità separate, Lucas ed Eliott erano un’unica cosa, un solo essere terreno e
trascendentale. Eliott di poche cose era stato certo nella sua vita e quelle
comprendevano un futuro con il ragazzo che amava; un qualsiasi tipo di futuro.
Lucas
semplicemente non l’aveva aspettato.
Sedersi
sulla pietra che proteggeva il corpo dello studente del secondo anno fu
l’esclusiva azione che poteva permettersi, pararsi davanti la lapide su cui
erano incise le lettere del suo nome, insieme ad una foto scelta dalla famiglia
che gli era rimasta, agglomerata a volti e parole di perfetti sconosciuti che
avrebbero riposato per sempre con lui – se gli fosse stata concessa
l’opportunità, avrebbero trovato un posticino disperso e minuscolo per potergli
permettere di restargli accanto finché la stella madre del sistema solare non
avrebbe cessato di risplendere?
La
crudeltà della vita era impressa nero su bianco e non c’era modo di ribaltarla.
«Dovevi
salvaguardarti e depennarmi, farmi diventare un volto senza nome» i fari accesi
di un’auto dietro una curva in un cielo d’inchiostro non erano stati
l’avvertimento migliore che Lucas potesse cogliere, non erano bastati e le sue
orecchie erano diventate improvvisamente sorde per poter percepire i segnali e
muoversi di conseguenza; era stato Eliott, la sua patologia, a farlo divenire
privo di udito e vista.
Aveva
inspiegabilmente avuto costantemente la capacità di togliergli il raziocinio.
Un
volto senza nome, due perfetti estranei, il loro percorso sarebbe stato
differente.
Ti sbagli. Ti sbagli perché ci sono molti Lucas e molti Eliott in
altri universi paralleli che stanno insieme adesso, Lucas aveva
degli occhi diversi dai suoi, una capacità completamente differente ed una
visione che andava oltre la comprensione, ma Eliott non credeva di volere che
quelle divergenti versioni di loro stessi si incontrassero se il risultato era
quello che avevano ottenuto.
E forse, forse ne
era geloso marcio perché avevano qualcosa che lui non avrebbe più potuto
stringere tra le dita.
Tutto ciò che gli
rimaneva era aria senza consistenza.
«Dovevi
rimanere in attesa» soffiò incrinato, la trachea che tratteneva un singhiozzo e
le palpebre che non riuscivano più a contenere le lacrime. Aveva passato delle
ore a piangere, a versare litri d’acqua fino a sentirle seccare, a disperarsi
ed inveire contro il mondo e se stesso, a dannarsi e maledirsi, ad evocare
tutte le ingiurie che potevano abbattersi su quella terra di stolti ed
infedeli. Ma il risultato che aveva ottenuto era unicamente la totale
sottrazione delle proprie energie. Si stava disfacendo. «Aspettarmi».
Aspettarlo,
anche quello era un pensiero egocentrico?
Una
mano sfiorò la foto incastonata nel vetro, protetta a sua volta, e non era
minimamente paragonabile al calore corporeo che era solito assaporare, godere
in ogni centimetro, fino ad assorbirlo interiormente e divenire una parte di
sé. Era freddo come il ghiaccio e privo di qualsiasi forma d’anima. «Puoi
ancora aspettarmi?».
Le
coincidenze non esistevano, Eliott aveva soltanto un’attitudine fuori dal comune
di relazionarsi con il mondo, di captare le vere essenze di chi lo circondava,
quasi potesse sentire il loro canto e vedere il reale colore degli animi.
Condurlo a Lucas era stato inevitabile, l’unico percorso concessogli, quindi
non poteva credere che davanti ai suoi occhi annacquati, nel momento più vuoto
e disastroso della sua vita, potesse rotolare un riccio vero ai suoi piedi dal
nulla. Un riccio autentico, piccolo, marrone e pieno di spunte pronto a
pungerlo. Esistevano davvero a Parigi? Dentro un cimitero? In pieno inverno?
Eliott
lo fissò con sospetto e profonda sorpresa. «Cosa vuoi dirmi?».
Ma
l’animale non parlava, non lo degnava minimamente d’attenzione e rimaneva
statuario sulla lastra di marmo, a frapporsi tra lui e la lapide che non riusciva
a smettere di toccare.
«Non
basterà, Lucas» se era quello il suo modo di dissuaderlo, di essere presente in
qualche modo, di farsi sentire, non era abbastanza. Ma era reale? O era la sua
mente affollata ed iperattiva, accecata dal dolore della perdita, a vedere cose
che non esistevano?
Una
goccia gli cadde sul viso lasciandolo spiazzato, colto del tutto impreparato, e
l’attimo dopo ne seguì un’altra; erano completamente diverse da quelle salate
che gli rigavano gli zigomi, che gli prosciugavano l’esistenza.
Meno di
dieci secondi dopo, aumentò la moltitudine delle stille, il crescendo
dell’acqua che si abbatteva morbida e zelante, con una cura invidiabile, così
simile al tocco ricevuto da una persona amata da contrargli il muscolo cardiaco
ed anelare di essere salvato da qualcosa più grande di lui. Era l’inferno
sottoforma di paradiso – lo sapeva bene, perché era sotto una pioggia quasi
uguale che aveva baciato e toccato Lucas per la prima volta.
Alzò lo
sguardo al cielo e lo trovò grondante, appuntito, in una valle d’oscurità che
inghiottiva la luna. Forse la luce era davvero stata agglomerata e sottratta al
mondo dopo la dipartita di Lucas, privata di variazioni di colore. Si perdeva
il senno senza la guida dei raggi solari o il loro riflesso, si cadeva nella
disperazione e sconforto estremo in una terra dove perseverava il nero
dell’oblio.
Luce, era il significato letterale del
nome Lucas.
Eliott
non avrebbe mai potuto dubitarne, anche se non ne avesse conosciuto
l’etimologia, perché lo era stato, era stato la sua sorgente luminosa in un
deserto tenebroso e stagnante privo di confini, una landa desolata.
Dalla
luce nascevano i colori e Lucas aveva fatto in modo che vibrassero in una nuova
frequenza che esaltasse il senso su tutto quello che li accerchiava.
Lo
sguardo gli cadde sulla palla di aghi, che tentava inutilmente di ripararsi
dalla pioggia gelata, accartocciandosi su se stessa, e tutto quello che
l’artista istintivamente si sentì di fare, senza soffermarsi sulla probabilità
di essere ferito, fu catturarlo tra le mani, avvicinarlo al viso per costatare
in che condizioni si trovasse. Tremava spaventato ed Eliott non poteva
affermare di non trovarsi nella medesima situazione.
Le sue
falangi sottili e bagnate erano tutto quello che proteggeva il piccolo
corpicino, non c’era nient’altro intorno a loro.
Aspirò
a pieno carico l’aria, innalzando le iridi verso le cascate d’acqua, creando un
rumore in sospeso di una risata mal trattenuta, delirante e senza allegria,
così diversa da quelle che gli erano tipiche. «È questa la tua risposta?».
C’era
soltanto Eliott lì, con un minuscolo riccio terrorizzato che vibrava tra le
dita, in cerca di una fonte di calore che lo salvaguardasse dalle intemperie
della pioggia cocente, dispersi nel luogo più inquietante e privo di liete
novelle che una qualunque città potesse offrire, seduto a gambe incrociate e
con le spalle rigide sopra una tomba che conteneva il suo giovane amore
perduto.
Dovremmo morire
stanotte, allora. Mentre siamo al nostro apice. Lucas aveva mantenuto una promessa che non era stata
convalidata, aveva esalato l’ultimo respiro nel suo momento massimo, ma l’aveva
lasciato indietro e non gli dava il permesso di raggiungerlo.
L’egoismo aveva
innumerevoli sfaccettature.
Lucas gli era
apparso in sogno o quello che aveva catalogato come tale.
«Non
dovresti essere qui» proferì il sedicenne in tono grave, un’inflessibilità che
sapeva d’accusa.
«Perché?»
non sapeva nemmeno dove si trovasse, gli sfuggiva completamente la motivazione
del suo malcontento, ma Lucas era lì, dinnanzi a lui, ed era passato troppo
tempo da quando l’aveva visto; vivo e vegeto e non dentro una cassa bianca.
L’ultima
volta che aveva posato lo sguardo su di lui era disteso su un letto appartenuto
a chissà chi, dopo che l’aveva amato con ogni parte di sé, in una barca
illegalmente presa in prestito, ed era avvolto dalla malia del dormiveglia. Non
aveva avuto altre occasioni, ne aveva annientata ognuna.
Era uno
scenario pittoresco, ovattato e stanzio di una nebbia sottile, dalla varietà
che non riusciva a distinguere. Non c’erano colori, non c’era prospettiva,
delimitazioni o sfondi, c’era esclusivamente Lucas e nient’altro. Tutta la luce
e le sfumature che potevano caratterizzarlo gli vorticavano intorno, ad
assorbirle interamente. O a crearle, rappresentandone la fonte primaria.
«Non è
quello che voglio per te» proferì imperiale, ma con una tonalità di morbidezza
che l’avvolgeva interamente.
«Hai la
pretesa di decidere per me?» anche se l’aveva di fronte, se poteva bearsi
finalmente della sua presenza visiva e saggiarne ogni contorno e lineamento, il
controllo che gli altri gli imponevano non poteva digerirlo.
«No»
Lucas esitò nel pronunciarlo, nell’azzardo che aveva commesso, nel raccogliere
le idee ed esternare ciò che gli viveva dentro. «Ma non cambia quello che
provo. Rimani dall’altra parte».
«Dall’altra
parte?» domandò retoricamente in un eco distrutto, la carica piena del
sentimento che provava per il suo riccio. «Senza di te?».
Tutta
l’aria si condensò nei polmoni e Lucas non era più in grado di assimilare
ossigeno, ma di rimanere ghiacciato sul posto, immobile, congelato, bloccato
dalla capacità che Eliott aveva di esternare esattamente la reale intensità
dell’amore che provava per lui, senza fronzoli, senza giri di parole ed abbellimenti
di qualche sorta. Eliott era diretto, intransigente, proiettato verso un’unica
meta, impedendogli di avere dei dubbi, di aver mal interpretato un gesto o
parola. A tutto quello si accompagnava la sua particolarità di non distogliere
mai lo sguardo, soprattutto quando aspettava che il colpo andasse a segno. «Sì,
senza di me» rimanerne incolume era impossibile.
«Non
posso accettarlo» affermò Eliott categorico ed immutabile, sordo ai suoi
desideri. «Ti amo, Lucas» gli avevano suggerito di confessargli la verità, di
metterlo al corrente della reale fattezza che gli era stata venduta come falsa
da qualcuno che ero loro nemico; non ne aveva avuto l’occasione né la vera
intenzione davanti a quel disfacimento di morte, era l’unica opportunità
concessagli.
Eccolo
lì, il momento in cui avrebbe espirato per sempre, se non fosse già avvenuto.
C’era scorrettezza peggiore di quella? «Non è una buona ragione» non era
minimamente quello che l’eterno sedicenne avrebbe voluti dirgli.
«No?»
sorrise a tutta bocca, a se stesso ed a Lucas, con quell’inclinazione un po’
furbetta che manifestava un divertimento conosciuto esclusivamente alla propria
medesima persona. «Voglio stare con te in ogni forma mi sia concessa».
«Non vi
è certezza qui» lo smontò il riccio, annullando la sua azione di prevalsa. O
forse era soltanto se stesso che voleva fermare, trattenere, non permettere che
i suoi concreti pensieri l’abbandonassero. «Non puoi sapere se ci verrà data
una tale possibilità».
Eliott
gli regalò uno dei suoi sorrisi incantevoli, quelli che sapevano stanarlo come
nulla, quelli che avevano il potere di vedere lì dove non riusciva ad arrivare,
a comprendere, e che sapesse sempre di più dei comuni mortali. Esistevano
barriere che sapeva abbattere senza alcun impegno. «C’è la speranza e tanto
basta».
Lucas
sapeva che per Eliott era davvero sufficiente. «Non venire qui. Non
raggiungermi».
Le
lunghe dita di Eliott gli catturarono il viso ed improvvisamente era tangibile,
palpabile ed irrealisticamente vero, ma poteva esserlo? Poteva essere reale?
Sentire perfettamente la sua temperatura corporea, la trama della pelle ed il
pulsare di una vita che non esisteva più? «Sarebbe sbagliato».
Lucas
non voleva crederci, non poteva. «Sarebbe sbagliato chiederti di scegliere la
vita?».
«Sarebbe
sbagliato chiedermi di affrontarla senza di te» non c’era un’opportunità
diversa da quella, una ragione che lo facesse desistere.
Lucas
tremò in ogni atomo, le palpitazioni che gli ferivano il cuore e le lacrime che
gli rigavano le guance. «C’è di più, Eliott. C’è molto di più da scoprire, da
conoscere».
I
polpastrelli dell’artista gli asciugarono con cura e meticolosità le stille
d’acqua, congiungendo appena le due fronti, ripristinando un calore e
collisione totale, e tutto quello che aveva per lui era un sorriso carico
d’amore. «Sì, ma voglio farlo con te».
Le
iridi dell’oceano si affacciarono interamente su quelle acquamarina ed Eliott
non ricordava la loro autentica bellezza, il vortice intenso che erano capaci
di sprigionare, di instaurare; i suoi ricordi non gli rendevano giustizia.
Anche liquide, con le ciglia scure pregne di liquido trasparente, erano lo
spettacolo più maestoso a cui avesse assistito e non poteva barattarlo con
nulla nell’infinito cosmo. Come poteva permettersi di rimanere indenne se le
aveva già dimenticate? «Sei così sleale, Eliott. Così ingiusto».
Eliott
lo baciò, proprio lì, in una nicchia temporale che non sapeva spiegarsi, in
un’istantanea ingiustificata, ma l’unica cosa di cui aveva coscienza era Lucas.
Era la vetta massima che gli lasciava intendere quanto fosse reale sotto le
mani, a contatto totale con la bocca, a bere il suo respiro ed inspirare il suo
odore. «La vita è ingiusta, ne sei la prova».
Lucas
era stravolto, impallidito e con l’espressione facciale contratta, anche in
quella versione era in grado di sconvolgerlo con i suoi gesti. «Credi che non
ti vorrei qui? Ma non posso essere egoista».
Ah, la sua parola preferita. «Non
puoi?» per Eliott lo era. Lo era stato eccome. «Chi lo dice?» Lucas era a
conoscenza di aver provato del rancore nei suoi riguardi? Che l’aveva odiato
per essersene andato senza di lui?
«Trova
qualcos’altro, Eliott. Te ne prego, non fare sciocchezze» in punta di piedi lo
baciò a sua volta, lento, eterno e in una carezza del sentimento più puro. «Scegli
la vita».
«Io
scelgo te» ma non gli era dato sapere se Lucas fosse riuscito ad udirlo, se le
sue parole l’avessero raggiunto, la sola certezza offertagli era stata il
vederlo disfarsi sotto le falangi, la concretizzazione che perdeva consistenza
ed il calore corporeo che svaniva come se non fosse mai stato presente. Non era
altro che una memoria fantasma, esattamente come tutto quello che stringeva.
Eliott
non si svegliò per giorni interi, era in uno stato comatoso da cui era
impossibile ridestarlo, ma non era uno scenario che in passato non si fosse
manifestato.
Le
persone a lui care erano ben consapevoli del crollo che avrebbe subito alla
dipartita precoce del suo giovane amore, dell’avventatezza delle sue azioni, ma
quando si affacciò sulla terra dei giusti, il pericolo sembrava scampato,
eppure non potevano permettersi di abbassare la guardia.
Nell’orrore,
tre giorni dopo, le pareti ed il pavimento erano stracolmi di schizzi che
ritraevano un piccolo riccio, pagine e pagine, fogli e fogli, inchiostrati con
cura e frenesia. Vi erano appuntati numeri casuali accanto ad un procione, un
orsetto lavatore, che sbucava di tanto in tanto, ad indicare un diverso
universo d’appartenenza, una scelta che faceva la differenza, una probabilità
in cui ogni cosa era andata nel verso giusto. Una possibilità concreata in cui
erano vivi entrambi, inseparabili.
Con un
riccio in carne ed ossa che abbandonato si nascondeva tra la carta a contatto
con le punte delle dita rigide e sprovviste del soffio vitale, l’esserino terrorizzato
che aveva salvato dalla tempesta una settimana prima, Eliott si era spento,
svuotandosi di tutta la sua linfa, seppellito da una distesa di cellulosa, tra
pasticche di ogni sorta che non potevano essere mischiate a quelle di cui
faceva uso quotidiano.
Se
l’unica maniera per incontrare Lucas era attraverso i sogni, continuare a
visitare nell’oblio permanente il regno di Morfeo era la sola soluzione.
Prima
che la notte eterna lo cogliesse, l’ultimo pensiero che gli attraversò la mente
soppressa dal tremendo dolore e senso di colpa, fu di aver deluso l’unica
persona che per lui contava nell’intero creato, senza possibilità di
redenzione.
Il
rumore del traffico era quasi del tutto impossibile da estinguere, isolarlo e
far finta non esistesse, ma era qualcosa a cui alla fine si faceva l’abitudine.
Se non vi era qualche clacson impazzito di troppo che stramazzava
incontrollato.
«Potresti
smetterla di fissarmi?» lo rimproverò la figura sconosciuta che sedeva dal lato
opposto al suo nella panchina incassata nella fermata dell’autobus.
Eliott
si risvegliò soltanto al suono della sua voce, incontrando due gemme del blu
più intenso su cui avesse posato gli occhi. Improvvisamente era tutto quello
che riuscisse a vedere. «Scusami, non era mia intenzione».
Il ragazzo
davanti a lui non sembrò persuaso, il suo sguardo chiedeva formalmente delle
delucidazioni, eppure non riusciva a capire se ne fosse infastidito.
«Ero sovrappensiero»
peccato non si ricordasse minimamente dove fosse concentrata la mente, quasi un
attimo prima fosse esistito il vuoto e un rumore sordo ad intermittenza.
«Eri
molto insistente» la giustificazione non appariva bastargli, ma più che
ribeccarlo per il comportamento poco consono ed inappropriato, era quasi come
se cercasse di più. Era quel tipo di persona che aiutava il prossimo e si
faceva in quattro per riuscire nell’impresa?
«Forse
perché hai un’aria familiare» troppo familiare, esageratamente, talmente al di
là della comprensione umana che il suo cervello aveva cominciato ad ammattire,
dando i numeri, nel momento in cui l’aveva osservato arrivare e sedersi il più
lontano possibile da sé. Intorno a lui aleggiavano auree variopinte ed Eliott viveva
per i colori, erano il suo cammino, trovare considerevolmente tanta varietà
incentrata su un’unica figura lo sovrastava e l’accendeva. Dalla luce
nascono i colori.
Lo
sconosciuto inarcò eclatante un sopracciglio e l’artista non sapeva bene come
sentirsi a riguardo. «Familiare?» Eliott non riuscì a capire la sua reticenza,
dov’è che volesse andare a parare. «Non è un po’ cliché come approccio?» spiegò
in conclusione il ragazzo senza nome davanti alla sua incapacità di
comprenderlo.
Gli
scappò un mezzo riso imbarazzato, completamente colto impreparato e tutto aveva
una rilevanza di un’altra entità. «Dici?».
«Ne
sono convinto» il suo interlocutore sorrise di riflesso ed Eliott poteva
confessare di esserne incantato, come non ricordava gli fosse mai capitato,
allo stesso tempo sentiva un dolore muto all’altezza del petto, in una
nostalgia che lo stroncava.
Nella
mente gli volteggiavano delle sensazioni sconosciute, immagini di provenienza
non identificabile, eppure riusciva a percepire ogni sensazione, ogni emozione,
il tatto che si svegliava come se il corpo che si ritrovava dinnanzi l’avesse
personalmente toccato, percorrendone ogni lembo di pelle, con le dita e con la
bocca, a venerarlo e santificarlo. Ma non poteva essere lui, non potevano
essere loro. «Si usano i cliché perché funzionano» era esistita un’era in cui
c’era una certa poesia intorno ad essi ed era spaventosamente sicuro di averla
vissuta.
«Pensi
stia funzionando?» domandò il suo conversatore con una certa risonanza,
un’implicazione sardonica.
«Non ne
ho idea» proferì con la risata nasale che gli sfuggì, quel misto di timidezza
inaspettata che sfociava, insieme alla sensazione di leggerezza che lo investì
senza preparazione, lasciandolo privo di fiato ed il senso di perdita che non
riusciva a spiegarsi.
Il
ragazzo arcuò verso l’alto le labbra con lui e vi era una scintilla nuova
d’interesse nelle iridi di zaffiro, ma la magia svanì così com’era arrivata e
si creò una bolla di pacifica convivenza priva di parole e suoni, ritornando
alle iniziali posizioni ed occupazioni.
«Però è
vero» si insinuò Eliott, l’impulso di rompere il divario che si era formato e
ritrascinarlo nuovamente a sé. «Mi ricordi realmente qualcuno» quello stesso
qualcuno aveva accennato alla possibilità concreta che esistessero vite
parallele. Non ci hai mai
pensato? gli aveva chiesto
in un turbine d’emozione. Non ci credo veramente, ad essere onesto fu la
risposta che frivolmente gli diede Eliott, che con il senno di poi si rivelò
infelice. Beh, ti sbagli. Ti sbagli perché ci sono molti Lucas e molti
Eliott in altri universi paralleli che stanno insieme adesso, ma chi
l’aveva detto? A chi apparteneva quella voce distante in un eco antico che in
qualche tempo, in qualche luogo, una realtà diversa da quella attuale, gli
aveva regalato un tesoro? Chi era Lucas? «Una parte di me di cui non ho più memoria».
«Un
déjà-vu?» l’interpellato lo squadrò da capo a piedi, dubbioso, ma stranamente
catturato. «Non è un cliché anche questo?».
Un
déjà-vu? «Può essere» provava una grande frustrazione in proposito. «Ma è come
mi sento, non so spiegarlo».
L’interlocutore
rimase in attesa, ad ascoltarlo in religioso silenzio esprimersi al meglio
delle sue capacità. «Sei uno strano ragazzo» c’era l’ombra di una curva letizia
sulle labbra ed Eliott non si impedì di rispondergli, ma non amava quando
veniva usata quel tipo di espressione o similari nei suoi riguardi, gli
riportava alla mente quanto il suo cervello fosse danneggiato. «Ma sarò strano
anch’io».
Eliott
stentò a credere alle sue orecchie ed improvvisamente fu come se lo vedesse per
la prima volta, un’epifania che lo investì come un treno in corsa. «Sono
Eliott» l’irrefrenabilità di presentarsi fu imprevedibile.
Lo
sconosciuto quasi lo vivisezionò con gli occhi del mare e l’artista poteva
avere il timore che tutto l’ossigeno gli fosse stato strappato via, premendo
scompostamente sulla gabbia toracica. «Piacere, Eliott» la cadenza speziata,
compiaciuta e deliziata con cui pronunciò il suo nome quasi gli fece collassare
un polmone.
Il
ragazzo senza nome gli sorrise a tutta bocca, come se conservasse un segreto ed
avesse visto qualcosa che a lui era precluso, e l’attimo dopo si alzò senza un
accenno di qualche tipo. «È arrivato il mio autobus».
Fu in
quel momento che Eliott si rese conto di dove fossero e che cosa li
accomunasse. Sentirsi svuotato non rendeva bene le condizioni in cui si
trovava. «Sì, okay» poche sillabe paragonabili a coltellate.
Lo
sconosciuto salì sul mezzo dandogli le spalle e dalla posizione privilegiata in
cui si trovava si voltò appena, in una sorta di meditazione titubante e
compromettente, nella cristallizzazione del flusso temporale, soppesando e
facendo i conti con i pro ed i contro. «Lucas».
Le
porte scorrevoli si chiusero nell’attimo in cui l’ultima lettera fu
pronunciata, sottoforma di presentazione, trascinandosela via ed il bus partì
senza possibilità di ripresa, mentre le pupille non perdevano il contatto
visivo, venendo interrotto drasticamente dalla lontananza che aumentava.
Ci sono molti
Lucas e molti Eliott in altri universi paralleli che stanno insieme adesso.
Per
tutta la vita Eliott aveva tentato di combattere le voci che gli affollavano ed
avvelenavano il cervello mal riuscito, soprattutto dopo che il suo disturbo
mentale si era manifestato in tutta la sua gloria nel pieno dell’adolescenza,
ma forse, inaspettatamente, non tutte avevano intenti malvagi, finalizzati a
spezzarlo ed a nuocergli. Erano un’assordante illusione di un’aspettativa di
felicità se corrispondevano a quella specifica tonalità vocale di cui si era
appena riempito le orecchie.
C’è la
speranza e tanto basta, ma
quella aveva il suono della propria di voce, distorta ed instabile, quasi
febbricitante, quella da cui avrebbe dovuto guardarsi maggiormente, con molta
più cura ed attenzione; poteva iniziare ad ascoltarla e fidarsi di lei senza
rimanere scottato ed annientato?
Hidden Track
«Credi
nell’esistenza degli universi paralleli?» gli aveva domandato un giorno, dal nulla,
in mezzo ad una conversazione che trattava di tutt’altro argomento, mentre lo
guardava in totale armonia con se stesso. Aveva imparato con il trascorrere del
tempo a cogliere i piccoli dettagli che lo caratterizzavano, a bearsi di ogni
gesto che rendeva il riccio ciò che era, al modo in cui non riuscisse a tenere
le mani vuote e ferme; era completamente negato. Si muovevano a solleticare
l’aria, a percuoterla, seguendo una melodia costantemente in mutazione, il
ritmo che gli scorreva nelle vene e che non si accorgeva di trasmettere; non
c’era nulla in lui che non si muovesse seguendo uno spartito immaginario in
ogni minuto della sua giornata, ma non ricordava la suonata ad un pianoforte,
la delicata esecuzione delle dita che scivolavano con eleganza sui tasti
bianchi e neri, era qualcosa di più energico, di affine all’istinto
primordiale, della perfetta entrata in scena nel momento in cui si aveva
bisogno di maggiore evidenza ed agitazione, qualcosa che aveva a che fare con
la precisione chirurgica delle percussioni piuttosto che del sentimentalismo
delle corde. Tutto quello che capitava sotto la sua presa diventava
automaticamente uno strumento da utilizzare per fendere le particelle
d’ossigeno. Lucas era divenuto assonanza di musica, oltre a tutto il resto.
Avrebbe dovuto approfondire? Quante sorprese aveva ancora in serbo per lui?
«Sì, ci
credo» Lucas non aveva tentennato, non era nemmeno particolarmente disorientato
dallo stravolgimento del tema, da come Eliott bazzicasse da una parte all’altra
senza perdersi. «E tu?».
L’artista
era rimasto per una quantità di tempo eccessiva a fissarlo, con una scintilla
di incredulità e turbinio di piacevole sorpresa. Si sciolse in un sorriso pieno
di calore solo per lui. «Ho imparato a farlo».
Le
incredibili perle del più profondo degli oceani lo guardarono con un misto di
scetticismo ed avviata concentrazione, quelle che gli scandagliavano l’anima e
sapevano leggerlo in silenzio. Lucas non chiedeva mai, non indagava, gli
lasciava tutto lo spazio di cui necessitava ed anche di più, perfino con le
uscite fuori da ogni canone rimaneva al suo fianco senza dubitare della sua
bizzarra personalità, non provando mai a giudicarlo in qualsiasi modo; restava
in sospeso, prestando orecchio e disponibilità, come se attendesse il momento
giusto in cui Eliott sarebbe stato favorevole a renderlo totalmente al corrente
di ogni pensiero che gli metteva in moto gli ingranaggi che erano stipati nel
cervello iperattivo.
Eliott
poteva soltanto ricompensarlo e ringraziarlo ovunque fossero con una pioggia di
baci che non veniva mai rifiutata.
Baciarlo
era la cosa più naturale che riuscisse a fare, come se in qualche modo non
conoscesse altro ed il suo corpo fosse stato addestrato per quell’unico scopo;
la sua intera esistenza si basava su quello. Era disturbante pensarla così,
credere che tutto il suo essere fosse nato unicamente per amare Lucas? Che
l’intero universo si fosse prodigato per dargli l’opportunità di averlo con sé
e donargli finalmente ciò di cui era meritevole. A quello, si univa la
persistente sensazione di essere rimasto in attesa per migliaia di anni, in
stasi, prima che gli fosse permesso di congiungersi a lui.
Esisteva
una voragine scura nella sua mente difettosa, quasi ad un certo punto le sue
conoscenze fossero state cancellate o mancasse l’anello congiuntivo per dare un
senso al concatenarsi degli eventi a cui aveva assistito e che cercava di non
far riaccadere. Non erano ricordi suoi, non li aveva mai vissuti, erano
frammenti di una vita che non gli apparteneva, che gli arrivavano attraverso
interferenze uditive sconnesse, simile all’audio di una televisione rotta, e
mai in ordine cronologico, ma li aveva interpretati come un monito a cui
prestare attenzione. In qualche modo sapeva che in quella realtà alternativa
qualcosa di terribile e nefasto era accaduto.
Bastava
una variabile, una singola variabile che facesse la differenza, gli universi
paralleli differenziavano anche soltanto per un esclusivo dettaglio cambiato o
percepito in modo differente, da lì nasceva una storia affine.
A mano
a mano che la sua relazione con Lucas andava avanti, tra intoppi di ogni
genere, sentiva l’affievolirsi progressivo di quelle voci che gli sussurravano
nei timpani e che lo mettevano in allerta, quasi stesse passando incolume e
correttamente i vari livelli che costituivano il loro rapporto, finché
qualsiasi evento tragico fosse capitato in una realtà diversa da quella in cui
vivevano non si ripetesse. Erano delle briciole di pane che Eliott stava
seguendo senza rendersene minimamente conto, eppure continuava a dubitare
dell’effettiva efficacia, di come potessero concretamente salvarsi nello stato
di difetto in cui si trovava.
«Cosa
sono quegli occhi tristi e pensierosi?» domandò Lucas tra uno schiocco e
l’altro, il manifestarsi dell’attenzione che gli dedicava perfino quando Eliott
non ne era cosciente.
L’artista
si ritrovò a specchiarsi nelle iridi dello zaffiro, le labbra gonfie e
scarlatte a causa delle morse che continuavano a scambiarsi, con la pelle
diafana arrossata dal perpetuo toccarsi; sarebbe mai riuscito a smettere di
guardarlo? «Non ho pensieri tristi quando sono con te».
«Ma hai
dei pensieri» sottolineo il riccio con accuratezza, la capacità evidente di
smascherarlo.
Eliott
lo fissò dall’alto della sua posizione, interamente disteso su di lui sul letto
del sedicenne, nell’appartamento che condivideva con i suoi coinquilini
bislacchi che l’orsetto lavatore adorava, probabilmente perché le persone fuori
dall’ordinario erano le sue predilette – non era il solo in quel mondo avverso
ad avere problemi, Lucas doveva proteggersi dalla disfunzionalità della sua
famiglia. «Ho una cosa da dirti, ma non so come farlo. Non so come potresti
prenderla».
Il
padrone di casa rimase in attesa, in religioso silenzio, semplicemente a
scrutarlo, ma era evidente il turbinio di pensieri che gli imbrigliava la
mente. «Ci hai ripensato?».
Per
poco Eliott non sputò un polmone. «Ripensato? Certo che no. Come potrei?».
Ma lo
sguardo adombrato di Lucas non variò. «Sei così volubile».
Lo era,
sì, in modi in cui Lucas non poteva ancora comprendere. In passato ed in tempi
attuali erano state molte le parole con cui l’avevano additato, privo di cura
verso la sua persona; volubile era sicuramente la più gentile, lontano
da pazzo, fuori di testa e malato. Anche Lucas aveva usato
una particolare composizione di lettere che faceva parte di quell’insieme che
Eliott detestava, nella sua totale inconsapevolezza, nell’ignoranza dovuta a
delle conoscenze che non gli aveva fornito, ma anche in quei casi non era mai
per offenderlo, per denigrarlo o schernirlo, era più che altro un pazzo
d’amore, ubriaco totalmente dal sentimento degli amanti; era un dato di
fatto nella loro felicità da immutabile e perpetua luna di miele. «Mai con
quello che provo per te» nella sua esistenza aveva imparato a camminare nelle
tenebre, seguendo le pulsazioni imprevedibili e parte della coscienza, ma un
giorno era arrivata una coordinata, uno scintillio fatato, era fiorita e
sbocciata nel nulla, in mezzo al nero d’inchiostro e gli aveva suggerito una
via che Eliott non aveva dubitato di seguire. La seguiva ancora.
Il
fiato gli si incastrò in gola ed anche se l’artista non era qualcuno che teneva
certe rivelazioni per sé, soprattutto quando ruotavano intorno a lui, Lucas non
riusciva ad esserne immune, ad abituarsi, finiva costantemente per esserne
travolto senza possibilità di salvezza. «Di cosa hai paura?».
Il
diciottenne aveva innumerevoli paure, la maggior parte guidate dall’incapacità
di far perdurare le cose belle nella propria vita, che portavano tutte
indistintamente una data di scadenza incisa con il fuoco. Distruggerle era il
suo vero ed unico talento. «Di perderti».
«Perché
dovresti perdermi?» chiese di riflesso, inevitabile, cercando di carpirgli la
risposta che si ostinava a tenere per sé.
Perché
è già accaduto, con
conseguenze terrificanti, incontrovertibili, le peggiori che potessero toccare
la vita di qualcuno. Non riusciva mai a scacciare gli incubi che le ritraevano.
«Perché riduco in cenere tutto quello che tocco».
«Eliott»
le mani di Lucas andarono a circondargli il volto, accarezzandogli
istintivamente le gote e costringendolo a puntare le gemme del cielo nelle sue,
a dargli la dovuta attenzione. «Sono qui, Eliott. Esattamente qui, ti ascolto e
non ho alcuna intenzione di lasciarti da solo».
Ad un
primo impatto gli occhi sgranarono, persero del tutto il contatto con la
realtà, ma il tocco di Lucas, le dita che si facevano sentire in ogni modo inimmaginabile,
il calore corporeo che gli invadeva i tessuti e le pupille nere e serie che non
distoglievano lo sguardo dalle proprie, avevano il potere di riportarlo alla
luce. «Lucas significa luce» rivelò in una contemplazione illuminata più a se
stesso che al suo interlocutore, sorridendogli in modo birichino, rincuorato in
tutte le forme possibili, abbandonando la fronte contro la sua, disfacendo il
legame istaurato dal padrone di casa ed abbracciandolo con ogni fibra di sé con
sconclusionatezza, nella capacità che la posizione scomoda ed impacciata gli
permetteva.
Lucas
non fiatò e non articolò un singolo vocabolo, non chiese nemmeno che cosa
intendesse, si limitò a concedergli tutto il tempo di cui necessitava.
Le
labbra cantarono le sue, il setto nasale vezzeggiò quello del compagno e ad
Eliott poteva andare perfettamente così se quella sarebbe stata l’ultima volta
concessogli di amarlo, di assaporarlo ed imprimerlo nella mente disturbata che
si ritrovava. Anche se Lucas si prometteva a lui, anche se la luce era l’unica
sorgente in grado di creare i colori, evitando una terra latente di oscurità e
monotonia, spargendo la diversità e la bellezza globale che ogni cellula poteva
offrire, non c’era certezza di non assistere al suo svanimento. «Sono bipolare»
dichiarò al suo riccio, al mondo intero, a chiunque potesse prestare orecchio,
anche se l’unico di cui gli interessava era il ragazzo che soggiornava sotto di
lui, in una colonna portante.
Vide lo
scintillio dei suoi occhi blu spegnersi, un dirupo che inghiottì le pupille e
la consapevolezza attraversarlo tutto in un istante. Fu l’attimo in cui prese
coscienza di chi avesse realmente davanti, a chi avesse consegnato il suo
cuore.
I
tasselli si compattarono in una volta sola, le stranezze, le domande senza
risposta, le particolarità dell’atteggiamento di Eliott, l’imprevedibilità e
l’essere scostante, l’estrosità e l’instabilità, che si concretizzavano in un
ballo con un ritmo diverso da tutti quelli a cui aveva assistito, in un sincro
improduttivo, come se sbagliasse l’entrata della battuta musicale successiva,
ma seguisse uno spartito e una chiave di lettura che Lucas non era in grado né
di sentire né di leggere. «Va bene» spesso Eliott non era rintracciabile, di
tanto in tanto l’aveva visto apparire dal nulla dopo un silenzio stampa
ininterrotto, uditivo e visivo, ma non se n’era preoccupato perché non sapeva
nemmeno in che fase fossero ed a che gioco stessero giocando. Successivamente
era stato sopraffatto dall’ansia, dall’indefinito, dalla ricerca di certezza e
dal volere semplicemente la sua presenza che per una ragione a lui ignota gli
era preclusa. Appuntamenti promessi e saltati, occasioni depennate a sua
insaputa, pugnalate reciproche che non si erano negati, ma Eliott tornava
sempre per chiedere scusa, preoccupandosi esclusivamente della sua persona e
cancellando chiunque fosse intorno a loro, puntando direttamente a lui e
prostrandosi ai suoi piedi, tentando di riconquistarlo, con la voce roca ed
assopita come se non l’usasse da tempo indefinito, gli occhi spenti e vitrei
che si accendevano appena riuscivano ad inquadrarlo e la vitalità nel suo
splendore totale che sbocciava con una sola nota. Eliott le tentava tutte per
rimediare ai suoi errori, perfino quando veniva rifiutato, con una classe un
po’ impacciata che lo confondeva.
Eliott
non riuscì proprio a capire cosa gli avesse detto, a coglierne il senso. «Va
bene?».
«Sì»
confermò imperscrutabile Lucas, senza alcuna esitazione.
«Lo sai
cosa significa? Cosa comporta?» domandò con un’ottava d’isteria, l’angoscia e
il terrore che bussavano alla porta.
«Ne
sono consapevole» articolò distintamente il sedicenne, le idee che si
raccoglievano tutte in una volta. «Vuol dire che suderò un po’».
«Come
può andarti bene?» chiese in botta e risposta, l’incredulità che in qualche
modo non l’abbandonava. Forse era arrabbiato più lui con se stesso per la
propria condizione svantaggiosa che il ragazzo che continuava a guardarlo come
aveva sempre fatto, con il sentimento autentico e puro che lo contraddistingueva
anche da chilometri di distanza.
«Non è
che mi hai mai reso le cose semplici, Eliott» gli fece ben presente, a
rivangare un passato non tanto prossimo, ma proprio lì, dietro l’angolo, ad
alitargli ancora sul collo, in una minaccia continua. «Combattere per te è
quello che faccio».
Era
vero, certo che lo era, la loro frequentazione non era stata tra le più
idilliache, oltre all’innamoramento fulmineo, vi erano ragazze uscite dal
nulla, giochi di pessimo gusto ed un corteggiamento senza fine, prese che venivano
allentate e cuori spezzati. Non c’era stato il tempo di riprendere una boccata
d’ossigeno, si erano soltanto rincorsi in una danza priva di precedenti. «Sarà
un inferno, Lucas. Non è quello che voglio per te».
«E cosa
vorresti per me?» domandò in risonanza ed in modo diretto, senza che Eliott
potesse ribattere. Nel suo persistente mutismo, improvvisamente fu abbagliato
da una nuova verità. «È per questo che ti sei allontanato la prima volta?».
Eliott
scansò i suoi occhi come se fosse stato colpito da una frusta, sapeva bene a
quale momento storico si riferisse. «Anche» non ho bisogno di pazzi nella
mia vita, Lucas l’aveva esternato senza sapere, senza che vi fosse
dell’autentica cattiveria dietro, completamente all'oscuro della reale natura
del ragazzo per cui si era preso una sbandata – molto più di una sbandata –;
era stato più che altro un ti terrò fuori dai miei problemi, dagli affari
della mia famiglia, perché Lucas ne era pieno, stracolmo, a volte non
riusciva nemmeno a respirare per quanto la sua vita ne fosse assediata, tra la
disfunzione mentale da profeta ossessiva che era affiorata in sua madre, il
consequenziale divorzio voluto dal padre incapace di reggere la situazione,
l’allontanamento di riflesso di quest’ultimo che in qualche modo aveva abbandonato
suo figlio a se stesso, non lasciandogli altra scelta che contare
esclusivamente sulle proprie forze, e il dover trovare la maniera di essere una
presenza di supporto per l’unico genitore che ancora si preoccupava per lui,
anche se lo bersagliava con versetti biblici di ogni sorta e non aiutava
affatto il suo difficile cammino accidentale, di comprensione di sé. A quello
si affiancava l’incapacità di Lucas di accettare il suo reale orientamento
sessuale, con un ragazzo incomprensibile e sfuggente che gli ronzava intorno in
una corte spietata, facendogli andare fuori fase la bussola.
Lucas,
nella sua ingenuità di voler fare del bene, aveva colpito lì dove faceva più
male, lì dove Eliott non poteva raggiungerlo. Eliott sapeva anche di non poter
fargli un torto simile, di non poter condannare la sua vita appresso alla
propria e di impegnarsi a rispettare il desiderio inconsapevolmente espresso.
Tutto quello a cui Lucas ambiva era una vita normale, senza ulteriori avversità
e traversie, imprevisti ed affanni di qualsiasi livello; nessun salto
pindarico. Eliott rappresentava in ogni singolo aspetto tutto quello che non
voleva.
Si era
allontanato, aveva preso le distanze, fatto del suo meglio per ricominciare in
un altro modo, ritornando sui suoi passi, errando vistosamente e poi non aveva
mantenuto fede alla promessa che aveva fatto a se stesso, ma soprattutto ad un
Lucas estraniato dall’intera vicenda.
Non
aveva resistito nemmeno per la quantità temporale di un’intera settimana, sette
giorni, aveva ceduto a cinque – e sapeva bene cos’è che influisse in minima
parte – ed era tornato all’attacco con un Lucas che non voleva più saperne di
lui; nemmeno allora si era arreso, perché Lucas era tutto quello che agognava,
in barba alla rappresentazione estrema di egoismo ed ipocrisia. Ma chi è che
avesse vinto tra i due contro la propria medesima persona, abbassando le armi,
non gli era ancora chiaro. «Ho il cervello rotto».
Era
lodevole come l’artista si prodigasse per non demordere, nel continuare a
sottolineare i difetti come se dovesse instillargli l’idea di correre ai
riparti, peccato fosse per la motivazione sbagliata. «Mi piace il tuo cervello
rotto» proferì il riccio in una dichiarazione che non ammetteva obbiezioni e
che lasciasse intendere che non lo reputava minimamente rotto,
accarezzandogli affettuosamente con i polpastrelli una guancia, sfiorandogli i
capelli e lambendogli accuratamente la fronte, lì dov’era contenuta la sua
materia grigia, gli ingranaggi che procedevano per leggi diverse al comune genere
umano, depositandogli un bacio flebile sulla punta del naso, fino a scendere
all’arco di Cupido ed aspirando la sua stessa aria. «Amo il tuo cervello
rotto».
L’orsetto
lavatore tremò vistosamente, ammattito ed impossibilitato a credere al proprio
apparato uditore, incitando Lucas a coglierlo alla sprovvista e sporgersi di un
millimetro per azzerare la distanza, sigillando le loro bocche in un contratto
imperscrutabile.
Le
iridi azzurre da cui trasparivano sfumature di giada erano tramortite,
interamente incapaci di distogliere l’interesse da quelle dell’oceano e da
tutto quello che rappresentava Lucas.
«Hai
paura che mi allontani da te e non riesci a sopportarlo, ma allo stesso tempo
vuoi che lo faccia e viva al meglio delle mie possibilità, lasciandoti
indietro» realizzò caldamente il padrone di casa in una splendida sintesi
illuminante, raccogliendo tutti i dati che gli erano stati offerti.
«Cosa
non hai capito della definizione bipolare?» gli domandò in
controbattuta, quel leggero rimprovero che lo esortava a prendere le distanze
perché aveva ragione e non aveva ancora capito l’entità in cui si stava
imbattendo; riuscire a prendere parola dopo quello che gli era stato dato in
dono, fu un’azione titanica.
«Questo
non è essere bipolari» enunciò vibrante, la cadenza vocale che riecheggiava tra
le pareti e le mani al completo che tornavano sul viso di Eliott, una per lato,
a circondarlo in ogni parte, con l’impresa ardua di essere il solo da
ascoltare. «Questo è essere umani».
Se la
vita era terminata, se il mondo era imploso su se stesso, qualcuno avrebbe
dovuto avere l’ardire di renderlo partecipe, perché era troppo, era troppo per
una persona che era nata come un prodotto di scarto, mal riuscito. «Allora sono
un pessimo umano».
«Lo
siamo tutti» gli venne incontro Lucas, quasi assecondandolo, incendiandolo con
le gradazioni dei sette mari. «Arranchiamo, sbagliamo, diventiamo ciechi e
sordi, ma cerchiamo di dare il meglio di noi, nei limiti su cui andiamo a
sbattere prepotentemente».
Eliott
era una statua di sale tra le sue falangi, fragile, estremamente facile da
rompere, come polvere di stelle; l’ossigeno che quasi faticava ad entrare
dentro di lui, il sangue che defluiva lentamente e lo spazio temporale che si
era improvvisamente congelato, cristallizzandosi. «Ehy, Eliott» sussurrò in un
segreto, le labbra curvate che inevitabilmente sfioravano le sue,
lambendogliele nello scandire le parole, perché non c’era nient’altro che
dovesse udire, scavandoglielo nell’organismo. «Non mi perderai, mai. Combattere
per te mi rende migliore» Lucas aveva affrontato la sua metamorfosi nell’attimo
in cui aveva incontrato per la prima volta l’artista. Aveva messo in
discussione tutto quello che aveva sempre celato di se stesso, aveva negato,
aveva amato ed aveva negato Eliott medesimo. Si era distrutto ed aveva
distrutto, era stato giustiziere ed aveva aiutato il prossimo. Aveva perso ed
aveva vinto nei più rosei dei pensieri a cui non aveva mai dato voce e si era
reso conto che per Eliott avrebbe attraversato, superato ed abbattuto qualsiasi
confine si frapponesse tra loro; sarebbe stato estenuante, ma non aveva
intenzione di cedere, di arrendersi e permettere che qualcun altro se lo
portasse via, glielo sottraesse.
Eliott
lo guardò con occhi nuovi, la realizzazione che l’attraversava come un fulmine,
la rigenerazione dei neuroni stanchi e deturpati che venivano accettati
interamente, con i pregi ed i difetti, privo di mezze misure, senza che gli
permettesse di farlo demordere ed abbandonarlo. L’ultimo quesito che gli rimaneva
da porsi era cosa avesse fatto per meritarsi il dono immenso che fremeva sotto
il suo tocco e rappresentava il balsamo per la propria malattia.
Tra
l’intreccio delle falangi l’artista gli depositò le labbra sul monte di Venere,
imprimendone le impronte, sciogliendo il legame di un arto e tenendolo per sé,
a riempire la sua necessità di stringere costantemente qualcosa, allontanando
il suo disagio ripetuto di non sapere mai dove mettere le mani e cosa farci,
mentre le dita libere scivolavano tra i capelli incontrollabili del riccio,
trattenendone le ciocche, accarezzando una tempia con il polpastrello del
pollice e schioccandogli un bacio leggero come ali di farfalla sotto le ciglia
inferiori. «Tu mi rendi migliore» non esisteva una certezza più autentica di
quella, l’unico che con la sua esclusiva esistenza rendeva la vita di Eliott
più gestibile, più godibile e mansueta. In un cammino sicuramente molto vasto e
tortuoso, riusciva quasi a fargli accettare la parte di sé che disconosceva.
Lucas sorrise
di un amore inestimabile, quello con un valore troppo ampio ed incalcolabile,
talmente accecante da distruggere le retine ed Eliott lo voleva tutto. «Allora
siamo migliori insieme» soffiò infatuato Lucas nell’attimo esatto in cui
l’artista gli catturò la bocca con la sua, intrappolandolo ed imbrigliandolo lì
dove nessuno poteva sfiorarli, interrompendo il loro momento di idilliaca pace
sofferta e faticosamente ottenuta.
Lucas
significa luce e
quella luce Eliott l’avrebbe tenuta esclusivamente per se stesso.
Secret Track
«E se vivessimo in una realtà in cui
non potremmo toccarci?» Eliott gettò l’ipotesi come se nulla fosse, in una tempesta
in piena nella mente, mentre stringeva tra le mani il libro di letteratura
senza leggerlo seriamente.
Lucas si sentì chiamato in causa,
acciambellato ai piedi del proprio letto con la lezione di biologia da
imprimersi nella memoria. «Specifica il contesto, perché non potremmo
toccarci?» permettere di dare sfogo ai pensieri di ogni natura dell’artista era
ciò in cui si stava specializzando. Eliott ne aveva un disperato bisogno, come
ne aveva di trascorrere un determinato lasso di tempo con lui, anche se non si
scambiavano minimamente parola, posizionandosi ai poli opposti, rimanendo in
un’ambiente senza suoni e limitandosi a studiare materie differenti – o
quantomeno ci provavano.
«C’è una maledizione» sopraggiunse
il diciottenne, le dita che torturavano i bordi delle pagine. «Uno dei due
potrebbe trasmetterla all’altro».
Lucas l’osservò in silenzio,
meditativo, quasi a scandagliargli le riflessioni che lo tormentavano. «Che
tipo di contatto ci sarebbe vietato, pelle a pelle?»
«Sì» confermò di sottecchi,
l’insopportazione per quella visione terrificante.
«Potremmo toccarci attraverso
oggetti, vestiti?» domandò in coro alla sua ipotesi, il volume su cui
abbandonava la presa e cadeva in un angolo dimenticato.
Eliott lo guardò stralunato,
l’attenzione che si riconcentrava interamente sul padrone di casa senza che
capisse i suoi quesiti. «Immagino di sì».
«Okay» convalidò il riccio, come se
la questione si fosse conclusa ed avesse trovato la soluzione.
Eliott non capì affatto cosa
accadde, improvvisamente era stato privato della vista e del suo tomo dalle
movenze fulminee di Lucas; a volte si muoveva talmente velocemente che le
percezioni si annullavano.
Okay, cosa? avrebbe voluto chiedere, trarre delle spiegazioni, ma un velo di tessuto
gli venne gettato addosso, delle braccia lo avvolsero parzialmente ed una massa
robusta lo spodestò dalla posizione a gambe incrociate in cui si trovava, al
centro del materasso, facendolo ricadere indietro ed aderire alla superficie
orizzontale. «Posso toccarti».
I timpani dell’orsetto lavatore
furono perforati, completamente incapaci di dare una forma alla voce che gli
aveva teso un agguato, il lenzuolo vorticava ancora nell’aria celando il
sorriso a trentadue denti del suo assalitore che sapeva con certezza di aver vinto.
Eliott era annichilito e sopraffatto, perché sì, Lucas poteva toccarlo. Non si
era lasciato abbattere da un veto, al contrario si era prodigato per trovare
una soluzione che lo arginasse.
Stanziava sopra di lui,
completamente disteso, il lenzuolo sfatto che si imponeva tra loro a separarli,
a creare quella barriera invalicabile che non poteva essere abbattuta ed
aggirata, il perfetto muro che li privava del tatto, ma che in un certo qual
modo permetteva loro di conoscersi, di riconoscersi. Nel silenzio saturo e
significativo che aleggiava nella camera da letto esistevano soltanto loro due
a fissarsi, in attesa di qualche rivelazione, di un ulteriore passo in avanti,
mentre le epidermidi si accarezzavano attraverso il cotone che preservava i
loro odori. «Vale, giusto?».
Eliott era troppo sconcertato e
basito per riuscire a costruire un pensiero di senso compiuto, non era capace
di mettere le parole in ordine. «Sì» ma di che cosa stavano parlando?
Lucas gli dedicò ancora quella curva
saputa sulle labbra e le mani scivolarono sulla stoffa, lentamente,
accuratamente, districandosi tra le pieghe, distendendole ed avviandosi a
cercare quelle dell’artista, che nel fruscio della stoffa si incatenarono
insieme, senza unirsi davvero. «Non ci è permesso pelle contro pelle».
«Sì» non era una domanda, non era
tenuto a rispondere, ma il diciottenne non poteva trattenersi dal farlo
comunque.
«Labbra contro labbra?» chiese con
un’allitterazione inconsueta, l’allusione giocosa e sporca che celava intenti
su cui erano notevolmente navigati.
Lucas era diventato un baro troppo
eccelso. «Nemmeno».
«Peccato» Lucas si arrese, le palpebre
che si abbassavano, socchiudendosi ed il diletto che in qualche modo scemava.
Peccato, c’era di più, c’era quella costanza di Lucas che con gli occhi, con i
tratti del viso ammorbiditi e propensi verso di lui, in un’attesa imperterrita
e lineare, chiedeva in una litania prolungata e ripetuta di essere baciato. Era
una richiesta muta ma visibile che non smetteva mai di esternagli.
Eliott difficoltosamente sapeva
negargliela.
Nella presa di dita e tessuto
precario, Eliott lo incollò a sé, con il lenzuolo accuratamente tirato fino al
naso che si frapponeva tra loro, il velo della trama fine del cucito che
cozzava tra le loro bocche, permettendogli un bacio raffazzonato, frettoloso e
poco preciso, mentre Lucas lo fissava sbalordito e con gli occhi fuori dalle
orbite. Non aveva minimamente il sapore giusto. «Cotone scadente».
«Ah!» esclamò il padrone di casa
oltraggiato, lo sguardo persistente e sottile, la piega sardonica sulle labbra
e la mano a pugno chiuso che si abbatteva sulla spalla coperta dell’artista con
un affronto ben calibrato, spostando in conseguenza lo strato di stoffa e
scoprendo le labbra dell’artista. «Mi perdoni, sua altezza imperiale, le mie
finanze sono limitate».
«Ti perdono» nel dirlo Eliott
scoppiò in una fragorosa risata, indotta dallo sguardo inceneritore del ragazzo
che gli sostava sopra.
Per quanto Lucas apprezzasse quel
suono soave e liberatorio che con fatica quel giorno era nato, non si trattenne
dallo sbuffargli contro, fintamente offeso ed Eliott avrebbe voluto baciarlo nuovamente,
ma nel modo appropriato, senza barriere, senza che un oggetto estraneo gli
impedisse di assaggiare la perfetta consistenza della bocca soffice del riccio,
delle increspature irregolari delle labbra e le impronte uniche nel loro genere
che si stampavano sulle proprie, cercandosi insaziabili. Il calore, la saliva,
la composizione stessa che rendeva Lucas quello che era ed Eliott totalmente
assuefatto. «Dovevi proprio?».
«Demolire le tue lenzuola?» lo
interrogò lo studente del terzo anno con un’ironia ad ampio spettro, il sorriso
instancabile che non si spegneva, benché fosse conscio che si riferisse ad
altro. «Te ne troverò di migliori».
«Sei squattrinato quanto me, Eliott»
non che avesse necessità di ricordarglielo, ma la sua imprevedibilità era fin
troppo nota e c’erano determinate sorprese che preferiva non ricevere. Tipo
quella di vederlo indebitarsi per qualsiasi fantasia eccessiva nella frenesia.
«Vero» acconsentì il maggiore,
l’immaginazione che navigava lontana. «Ma potrebbero servirci, trascorro più
tempo qui che a casa mia».
«È una proposta?» in passato glielo
aveva chiesto chiaramente, anzi, l’aveva dato per scontato, come se non
esistesse la possibilità che venissero separati, come se la certezza che
sarebbero rimasti per il loro intero arco narrativo nella reciproca compagnia
non potesse essere messa in discussione. Insieme, sposati, un unico involucro
ed una sola anima. Ma era prima, prima che Eliott gli rivelasse la verità,
prima che lo mettesse al corrente di quanto la sua mente fosse dislocata e non
conforme alla normalità conosciuta, che lo mettesse davanti ai suoi problemi e
lo incitasse a considerare bene la loro posizione, che lo invitasse a
lasciarlo, anche se era l’ultima cosa che voleva. Quell’equilibrio precario di
alti e bassi Lucas li aveva ben presenti e l’unica cosa che poteva fare era
assisterli, senza mai tergiversare sui dubbi della loro relazione, della loro
unione; combattere per Eliott costantemente e privo di riserve. «O solo uno
stratagemma per dirmi che vuoi baciarmi di più?».
«Entrambi» dichiarò senza esitazioni
il diciottenne, le falangi che intensificavano la presa tra loro, dibattendosi
contro la stoffa che non poteva essere scostata, ma compressa. Eliott non
riusciva a sentirlo com’era corretto. «Quale sarebbe la tua risposta?».
«Penso tu la conosca molto bene»
aveva già acconsentito, aveva espresso il suo sì dimenticandosi
totalmente della loro giovane età, del fatto che si conoscessero da un paio di
mesi e stessero ufficialmente insieme da una singola settimana. Se l’amore
rendeva ciechi, Lucas aveva smarrito completamente i bulbi oculari. E il senno.
Eliott lo ammirò dalla posizione
svantaggiosa in cui si trovava, le pupille che danzavano sui lineamenti morbidi
e il quesito ad un interrogativo che non veniva esternato. «Anche se vivremo
separati da teli ed involucri di ogni sorta per non trasmetterci la
maledizione?».
«Soprattutto» affermò vivido,
potente, era arrivato troppo in là per lasciare che qualcosa, qualsiasi cosa,
lo rallentasse, che potesse in qualche modo intaccarlo e fargli perdere lo
slancio che faticosamente aveva acquisito, scontrandosi con la negatività
distruttiva di Eliott.
Le iridi acquamarina non
distoglievano lo sguardo, chiuse in un raccoglimento di pensieri continuo, e
Lucas poteva osservare come le dita libere fremessero per alzarsi ed azzerare
il divario che c’era tra loro, come desiderassero toccarlo e riattivare il
contatto, ma non l’avrebbero fatto, Eliott non era ancora stato liberato dal
sortilegio a cui lui stesso si era condannato. «Che tipo di maledizione è?» gli
domandò con cura, il tono caldo e pacato, il giudizio che non esisteva e la
completa disposizione ad ascoltarlo, sistemandosi meglio sul torace, giocando
con le pieghe del lenzuolo, un testimone che rendeva quella condizione reale.
«Non lo so» elargì l’artista
distante, la mente che lo teneva ancora separato da lui, in un luogo in cui non
gli era permesso raggiungerlo. «Una che annulla tutti i sensi, che non fa
provare più nulla, né la fame né la sete né ciò che un qualsiasi umano può
sentire. È come essere morti senza esserlo davvero» Eliott odiava quella parola, non voleva mai che morte
fosse associata al ragazzo che a quanto pareva ricercava in ogni vita
alternativa. La sua dipartita in qualche tempo, in qualche variante distante
millenni, era ciò che aveva attivato le voci che per un lungo lasso temporale
si erano immolate per metterlo in guardia; in un momento non ben precisato si
erano spente. L’aveva perso una volta – chissà quante altre – ed era una delle
poche cose che non voleva per lui, che si affannava per non far capitare mai. A
dispetto di ciò nelle sue fasi di depressione nera e di perfetto pessimismo ed
odio contro se stesso, riuscire a contenerla gli era impossibile. Anelarla gli
era impossibile.
«Se non provi niente, non dovresti
desiderarlo» realizzò il riccio seguendo il fiume della sua immaginazione.
Eliott negò vistosamente con il
capo, smentendolo. «Soltanto perché non senti gli effetti del contatto, non
vuol dire che non lo reclami».
Lucas poteva davvero stupirsi della
mente perfezionista di Eliott? «Quindi ne sentiremmo il bisogno, ma non
potremmo appagarlo» né la fame né la sete, essere morti senza esserlo
davvero, significava che la necessità di dissetarsi e riempirsi lo stomaco
li avrebbe divorati vivi, che avrebbero costantemente sentito gli effetti
collaterali del non soddisfarli, in un digiuno perenne. L’impotenza e la
profonda sconfinata solitudine.
«Sì» confermò inequivocabilmente lo
studente del terzo anno. Eliott ne sentiva il bisogno anche in quel preciso
momento, trovava insoddisfazione ed il basilare obbligo di annientare la
distanza che incorreva tra loro, il fastidio che quel sottile strato di fili
intrecciati gli impediva di rimediare.
Il padrone di casa lo scrutò nel
silenzio meditativo, studiando ogni suo tratto, i lineamenti del viso, gli
zigomi pronunciati ed il colore del cielo nelle ore più calde incastonato nelle
iridi fisse su di lui. «Potremmo stare insieme così».
Nessun contatto, nessuna interazione
fisica, ma soltanto strati di tessuti tra loro, a colmare il senso di vuoto. A
simularlo nell’unico modo in cui gli era concesso. «Senza mai cedere?» Lucas
aveva già accettato, messo la firma, ma si rendeva effettivamente conto di che
cosa comportasse?
«Se è per il bene dell’altro, non ci
è concesso cedere» era quello il discorso, ciò che angustiava Eliott, il grande
peso sulle spalle che la sua mente iperattiva creava per lui senza riserve,
senza alcun riguardo per i profondi sentimenti che provava, facendogli
impennare la vastità già considerevole delle emozioni. Lucas era ancora acerbo,
ma dava tutto se stesso per corrergli in aiuto; non era vero che non potesse
raggiungere Eliott ovunque fosse.
Le labbra di Eliott si serrarono, i
canini morsero quello inferiore ed era papabile come quella situazione gli
fosse stretta ed intollerabile, per quanto fosse uno scenario immaginario, per
lui era vero in quel momento; concreto, reale e soffocante.
«A chi toccherebbe?» domandò in
conseguenza Lucas, la serietà che si palesava e la motivazione di agire che
diveniva vitale, perché non amava vedere Eliott in quello stato di continua
sofferenza, tutto il suo essere si muoveva per salvarlo. «Chi sarebbe
maledetto?».
L’artista lo guardò senza capire,
inarcando un sopracciglio e quasi non riconoscendolo. «Ci sarebbe
distinzione?».
«Forse» soppesò lo studente del
secondo anno, le falangi che si stringevano maggiormente a quelle dell’altro
attraverso le lenzuola. «Dipende con quale testa pensiamo».
Eliott non sembrò per nulla
convinto. «Io».
Certo, chi altri. «Perché?» Lucas non ne era minimamente impressionato, non ne aveva
dubitato fin dal primo attimo in cui Eliott aveva esternato quella fantasia,
riempiendola di dettagli specifici. Ne era stato consapevole, ma di fronte allo
scrollare delle sue spalle, un disinteresse quasi arreso che sembrava dire una
maledizione in più cosa vuoi che sia, la morsa attanagliante al petto
l’aveva avvertita interamente. «Non attribuirti sempre il ruolo del cattivo,
non sei l’antagonista della storia».
«No?» gli fece coro l’ospite senza
alcun calore, lo sguardo che diveniva perforante e l’assolutezza della verità
che si schierava dalla sua parte. «Chi potrebbe interpretarlo meglio? Ci sono
nato».
Da una certa prospettiva, con la
convinzione che la sua bipolarità fosse un maleficio, designandosi
automaticamente come il mostro spietato da sconfiggere dalle scaglie di rubino,
la grande piaga con cui si scontrava il protagonista dalla scintillante
armatura, buono e caritatevole – che Lucas non credeva affatto di essere, ma
Eliott sì –, era difficile da ignorare, da non considerare come un fattore
degno di nota che facesse la differenza. La prospettiva pessimistica
abbracciava Eliott senza esclusione di colpi. «Non c’è niente che non vada in
te, Eliott».
Il respiro si bloccò all’altezza
della trachea, i polmoni si riempirono e lo sterno pressò, improvvisamente
tutto l’ossigeno contenuto nella stanza si dissipò. Se era una nuova tecnica
per friggergli il cervello, stava riuscendo nel suo intento perfettamente.
«Buffo, perché è l’esatto opposto».
«Credi che sia un problema?» chiese
il sedicenne con accurata intensità, le pupille meticolose che non si
staccavano dalle sue.
A volte Eliott desiderava che Lucas
non lo guardasse in quel modo, come se nulla avesse potuto fargli cambiare idea
qualunque cosa avesse combinato e non fosse inclino ad arrendersi. «Lo è, se ti
trascino con me. Anche adesso, con le mie improbabili congetture».
«Non posso dire che tu sia noioso»
Lucas ridacchiò leggermente, una singola nota che si espanse alle pareti, una
che dava nuovo lustro all’ambiente e spezzava la pesantezza tetra che era
caduta su di loro, ma le labbra dell’artista, anche se avrebbero voluto, non si
mossero in suo riflesso e Lucas era capace di comprenderlo. «A nessuno piace
l’ordinarietà».
Eliott non era minimamente
d’accordo. «Tu desideravi una vita ordinaria».
«Sì» confermò privo di esitazione,
la verità che imperlava tra di loro, mentirgli non aveva alcun senso, era solo
una brutta carta da giocare che Eliott interpretava in modo catastrofico. «Era
quello che volevo, quello che cercavo. La mia vita familiare era già fuori dai
binari canonici, la normalità non credo di averla conosciuta, non per molto
tempo, e la stabilità senza problemi di alcuna sorta era ciò a cui ambivo, anche
se rinnegavo me stesso, anche se combattevo contro il mio vero io e detestassi
quella parte di me. Era legittimo trovare un terreno solido che non mi
richiedesse troppe energie, troppo interesse ed una fatica inconsistente».
«Non è quello che hai adesso» non
gli si avvicinava nemmeno, erano due cariche negative che si respingevano
categoricamente.
«Ma è quello che voglio, adesso»
Lucas non ci aveva neanche riflettuto a quel tempo, aveva rincorso soltanto ciò
che sentiva appartenergli. Ciò a cui pensava di appartenere.
«Perché?» esistevano delle
motivazioni che Eliott non era in grado di elaborare. O accettare.
«Ah, perché…» se esisteva qualcuno
in grado di mettere alle strette qualcun altro privo di particolare impegno,
quello era Eliott Demaury. «Perché sei arrivato tu».
Eliott era consapevole di avere un
certo ascendente su Lucas, sin dalla prima volta che le loro strade si erano
intersecate, ma a volte era incapace di non farsi assalire dall’insicurezza.
«Ed è un buon motivo per rinunciare al tuo piano perfetto?».
«Piano perfetto?» gli fece eco un
Lucas al limite dell’inorridito. «Era un piano tremendo» davvero, davvero
terrificante. «Avrei continuato a nascondere me stesso senza alcuna ragione».
Nel silenzio che si stanziò nella
camera, Eliott continuava a non essere persuaso ed era nella sua fase da lasciami
perdere, cercati qualcun altro. «Quando sei arrivato non ho capito più
niente» era un agghiacciante cliché, ma tant’è che tutta la loro relazione era
basata su quelli – glielo aveva fatto notare fin dall’inizio, tutta la loro
prima interazione ci girava intorno. «Hai messo in discussione tutto quello in
cui credevo, tutto quello che non volevo cercare, anche se era la mia vera
strada. Ho messo in discussione la mia vita, mi sono mosso verso di te senza
nemmeno rendermene conto, ho accettato me, ho accettato te e noi senza
domandarmi dov’è che stessimo andando» le dita di una mano scivolarono sul
polso e sull’avambraccio, risalendo verso la clavicola che percepiva sotto il
lenzuolo, tambureggiando impercettibilmente, secondo una melodia
sconclusionata, ma che per lui evidentemente aveva un senso. «Ho capito che per
te sono disposto a rischiare, a fare tutto quello che è necessario per non
essere separati e non sarà mai una scelta sbagliata».
Eliott non permise che quelle parole
attecchissero, si ramificassero dentro di lui prendendo il controllo, Eliott
platealmente lo agguantò per il collo, trascinandolo verso di lui e
congiungendo finalmente ed animatamente le due bocche, divorandogli senza
grazia le labbra, incurante di aver appena infranto il veto che lui stesso
aveva imposto, mandando a quel paese le lenzuola furbamente usate da Lucas ed
entrando totalmente in contatto con la pelle nivea e bollente del riccio, quel
calore corporeo e di completa aderenza che la massa di stoffa gli impediva di
bearsi e tranne nutrimento. Non aveva nulla a che vedere con quello che si
erano scambiati tra le lenzuola; stava tornando a vivere.
Lucas soffocò uno sbuffo di risa nel
bacio e l’artista ne approfittò per imbrigliargli la cavità orale. «Ha perso,
vostra maestà».
Le iridi acquamarina si specchiarono
in quelle dell’oceano ed Eliott era sicuro di aver agito correttamente,
ritornando a baciarlo. «Ho perso dal momento in cui ti ho incontrato a quella
fermata» o forse anche prima. Forse l’esclusivo scopo di Eliott, di tutti gli
Eliott, era perdere a favore di Lucas.
Lucas arcuò le labbra verso l’alto,
eccessivamente innamorato, ed Eliott le baciò nuovamente, assaporandole per
bene, un centimetro alla volta, dedicandosi esclusivamente ad esse. «Mi hai
appena maledetto?».
Era un tono giocoso mischiato allo
sconvolgimento del misfatto di cui si era macchiato l’artista ai danni del
padrone di casa, l’ilarità genuina che permetteva all’ospite diciottenne di
osservare il suo operato, la bocca dello studente del secondo anno che non
tendeva mai verso un rosso cremisi preciso dopo le morse che si scambiavano, ma
optavano per un violaceo, come se in qualche maniera tutto il blu che lo
caratterizzava facesse la sua dimostrazione di esistenza anche lì. «Ops».
La risata spontanea, autentica e
riecheggiante, insieme all’inconfondibile firma di imbarazzo timido di Eliott
rimbombò tra le mura e Lucas si permise di ascoltarla interamente, essendone
stato sottratto per delle ore in quella giornata altalenante; ma Eliott era
un’altalena vivente, che oscillava da un eccesso ad un altro, e quello era un
giorno mediamente buono tra quelli disfunzionali. Lucas decretò che
depositargli un nuovo bacio fosse un premio che entrambi meritassero. «Va bene,
posso sopportare una maledizione per te. Anche qualcuna in più».
Le falangi di Eliott si ancorarono
ai capelli del padrone di casa e con accuratezza lo scostò da sopra di sé,
conducendolo al suo fianco, perfettamente distesi di profilo. «Sì?».
Un rinnovato schiocco vibrò ed i
visi si incastrarono tra loro, beandosi della reciproca vicinanza. «Sì».
Per Eliott generalmente risultava
ostico prendere confidenza con il mondo circostante, ma si presentava
maggiormente laborioso quando veniva abbagliato dalla luce di Lucas, da come
fosse in grado di venirgli incontro in ogni singola evenienza senza arrancare.
«A ruoli inversi, tu non avresti mai voluto trasmettermi la maledizione» gli
fece notare il maggiore, percorrendogli il setto nasale con la punta del proprio.
«No» confermò il riccio con
sincerità, le dita che si stringevano intorno alla spalla dell’altro. «Avrei
fatto più attenzione, ma tu avresti agito comunque di testa tua ed avresti
scatenato la mia rabbia, ma non ti sarebbe importato».
Era esattamente il modo in cui si
sarebbe comportato. «Non proveresti a farmi cambiare idea?».
«Se intendi ragionando con te, sì» eccolo
lì, il campo minato in cui era difficoltoso inoltrarsi, l’errore dietro
l’angolo che aspettava di coglierlo di soprassalto. L’agguato. «Ma non è quello
che mi stai chiedendo».
«E cosa ti starei chiedendo?» lo
provocò con intenzione Eliott, il sorriso a metà sardonico e machiavellico, in
profonda attesa di un responso.
«Vuoi che mi imponga? Che tenti di
manipolarti?» Eliott sembrò punto sul vivo, anche se non abbassò la guardia e
non si alterò, ma Lucas sapeva che il fuoco stava divampando dentro di lui.
«Non è nella mia natura, non ho motivo di farti sottostare ai miei desideri,
alle mie intenzioni e condizioni. Se accadesse, scapperesti» anche quando non
sarebbe stato intenzionale. Eliott aveva già vissuto quel tipo di situazione,
aveva alle spalle un trascorso che vedeva una relazione tossica, stracolma di
travisamenti e distorsione dei fatti; nelle condizioni in cui l’artista si
trovava, con la bipolarità che spesso gli privava della facoltà di avere
controllo su pensieri ed azioni, era estremamente facile manovrarlo,
istillargli il seme del dubbio. Ma era un’arma a doppio taglio, esattamente
come poteva essere agevolato, allo stesso tempo poteva rivoltarglisi contro. La
dualità di Eliott colpiva in entrambi i sensi. «Sei libero di prendere le tue decisioni,
Eliott» anche quelle che non erano nelle sue corde.
Le dita affusolate dell’ospite
scivolarono su uno zigomo di Lucas e le iridi azzurre tendenti al verde si
specchiarono interamente su quelle blu cobalto. «Tutte le mie decisioni?».
«Beh, se magari potessi ridurre le
infrazioni, sarebbe gradito» gettò lì lo studente del secondo anno, la tonalità
che puntava ad un divertimento lieto e nessuna condanna.
Eliott si liberò direttamente sulla
sua bocca in quel suono tipico rimbombante di vita, ma dall’inclinazione
vacillante ed impacciata, baciandola in una successiva frazione di secondo,
mentre l’echeggio era lontano dall’esaurirsi. «Non ti prometto nulla».
Lucas rispose alla morsa con un
incurvarsi verso il soffitto delle labbra, in un istintivo gesto che non poteva
negargli e negarsi. «Molto caritatevole».
Eliott gli regalò un ultimo e
singolo colpo di risa, che gli sporcava ancora la bocca e che sarebbe rimasto
lì ancora per un notevole lasso temporale, esattamente come accadeva quando la
sua vera personalità dedita all’amore per la vita non veniva soppressa e
bersagliata dai suoi sbalzi di personalità ed umore, perché era quello Eliott:
l’arista che inchiostrava su tela l’essenza stessa dello splendore della linfa
vitale. Era ossigeno. «Nel mio caso, non scateneresti la mia di rabbia perché
avresti accettato la maledizione?».
Distrarre Eliott era un’impresa
titanica, ma anche essere capaci di seguire i suoi pensieri che non si
distaccavano dall’argomento di apertura non era uno scherzo. «O sì» senza riserve,
senza che Lucas si ponesse il problema delle conseguenze. «Ma non potrei mai
lasciarti da solo ad affrontare le piaghe di questo mondo e di qualsiasi mondo
senza di me. In realtà è solo la mia forma di egoismo».
Eliott ispirò il suo respiro e gli
parlò direttamente sulla bocca, senza alcuno spazio. «Egoismo nell’altruismo?».
Lucas sorrise di sbieco interamente
su di lui ed era tutto più accettabile. «Il genere umano è prettamente
complicato».
«Sì» affermò conoscitore l’artista,
il pollice affusolato che gli accarezzava una tempia, le labbra che gli
donavano un bacio rigenerante sulla fronte, sul naso e su una guancia. «Molto
complicato».
Nel silenzio che istaurava la
stabilità, quel lungo frammento di tempo in cui gli animi abbassavano le asce e
si donavano l’uno all’altro, il riccio si strinse a lui, aderendo totalmente ed
Eliott l’accolse privo di reticenze – come se potesse averne –, accettandolo di
buon grado. Era la quiete sacra e doverosa dopo l’arrivo della tempesta che si
concedevano ogni singola volta.
«Lucas» lo chiamò in un sussurrò
melodioso, l’attenzione che veniva indirizzava interamente verso la sua persona
ed il loro legame che procedeva in un crescendo. «Troverò il modo di spezzare
la maledizione».
Lucas brillò di luce propria e per
Eliott non c’era nient’altro che contasse. «Spezziamola insieme» una sola
entità non poteva essere scissa, nemmeno e soprattutto dai malefici.
Tutto è nato semplicemente guardando
la famosa scena dell’auto magistralmente schivata da Lucas ed automaticamente
il pensiero è affiorato subito: in un universo alternativo Lucas è morto ed
Eliott è morto con lui. Botta di vita portarmi via, insomma.
Era un mezzo scherzo, ma più ci
tornavo su e riguardavo, più volte, la terza stagione e riflettendo su ogni
variante di Eliott, su quale fondo fosse in grado di toccare, l’idea
difficilmente mi abbandonava.
Nelle fan fiction – e anche altrove
– creare delle Au è una costante, ma con lo spopolamento di ogni versione di
Skam che più paesi trattano a modo proprio, si esce dal canonico? L’alternativa
universale in Skam è diventato un filone canonico, quindi forse il margine di
confine si è perso. Ma sto divagando, tutto questo per dire che questa è un au,
di un’au, dentro un’au che contiene un’altra au – e altre?
Fermarsi è stato abbastanza
difficoltoso, più digitavo le parole, più ne prendevano vita altre, con più
scenari e frasi che si scambiavano ed il bisogno di Eliott di sentire Lucas
come unica ancora di salvezza ne richiedeva l’esigenza. Per sentire che fosse
ancora vivo, integro.
Ma eccola qui, con troppe a
ed eccessive u, innumerevoli altre idee che vogliono prendere vita,
scritta nel pieno dell’estate e pubblicata sempre troppo tardi.
Ringrazio la mia Beta (EarthquakeMG) che non riesce
mai a salvarsi dai miei progetti.
Ringrazio chiunque passerà di qui,
chi le darà un’occasione e chi si soffermerà un po’ di più, chi lascerà qualche
parola e chi si limiterà a leggerla.
Alla prossima,
Antys