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Autore: Adeia Di Elferas    10/10/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Bianca non aveva smesso per un solo momento di danzare, passando con disinvoltura da un cavaliere all'altro man mano che i musici cambiavano ballata. Non avrebbe saputo dire quanto tempo era passato, da che aveva iniziato a scatenarsi, ma alla fine di un Amoroso per lei particolarmente impegnativo, dovette chiedere al giovane uomo con cui stava volteggiando di fermarsi un momento.

Il soldato fece un breve inchino, le baciò la mano e poi passò subito a un'altra dama rimasta scompagnata, mentre la Riario raggiungeva il tavolo d'onore per bere qualcosa. Era sudata, si sentiva un po' stanca, ma era felice. La libertà che le aveva dato scatenarsi nel ballo era qualcosa che non provava da troppo tempo.

Quando raggiunse finalmente un calice e una caraffa di vino, riprese fiato e si guardò attorno. Oltre a Sforzino, che osservava gli altri con aria assorta, un pezzetto di torta ancora davanti, seduto al proprio posto c'erano solo Galeazzo e Scipione Riario.

Quest'ultimo, un po' come Bianca, aveva dato fondo alle proprie energie a tempo di musica e si stava concedendo un breve riposo. Nel vedere la sorellastra avvicinarsi, sollevò il proprio bicchiere e le fece segno di avvicinarsi.

Senza farselo ripetere, la festeggiata aggirò il tavolo, mettendosi a sedere tra Galeazzo e Scipione.

Diede uno sguardo tutt'attorno e poi chiese, perplessa: “Nostra madre..?”

Non aveva visto nemmeno Pirovano, in effetti, quindi non si sorprese nel sentire il fratello rispondere: “Si è assentata per un po'... Credo sia ancora con messer Giovanni da Casale.”

La ragazza lo fissò un solo istante e nell'incontro dei loro sguardi Scipione lesse qualche commento inespresso che li trovava entrambi d'accordo. Immaginava che, se lui non fosse stato così vicino, le loro silenziose considerazioni si sarebbero trasformate in uno scambio di battute abbastanza sentito.

Quasi a volerli lasciare liberi di confrontarsi com'erano soliti fare, il Riario fece un mezzo sorriso e, appoggiando il calice al tavolo, soffiò: “Io torno a ballare... Convinceresti tu nostro fratello Galeazzo a trovarsi una ragazza e fare altrettanto?” scherzò, rivolgendosi a Bianca.

La Riario vide il fratello al suo fianco arrossire violentemente in risposta all'ilarità espressa dal più grande, e stette al gioco: “Lo farò.” promise.

Dopo che il fratellastro sparì di nuovo tra gli invitati, Bianca finì di bere il proprio vino e chiese, a voce molto bassa: “Sono usciti assieme?”

Galeazzo, che aveva colto alla perfezione i soggetti sottintesi, annuì: “Sì, sono saliti in camera di nostra madre. Così mi hanno detto...”

“Ma torneranno, prima della fine della festa..?” si informò la ragazza, non molto sorpresa, in realtà, da quel defilarsi della madre.

“Non ne ho idea...” ammise lui, apparendo molto più a disagio di quanto non fosse la sorella nel discutere di quelle cose.

“Comunque ha ragione Scipione.” tagliò corto la giovane, ricominciando a occhieggiare verso gli invitati alla festa che, muovendosi come un unico corpo iniziava a seguire una ballata estremamente veloce: “Trovati qualcuno e balla.”

Siccome Galeazzo non diceva nulla, la sorella pensò che fosse il caso di aiutarlo come poteva. Si mise a scrutare con un'attenzione certosina nella calca, per vedere se vi fosse ancora qualche dama libera. Per quello che le parve un colpo di fortuna unico, si accorse che proprio la sua amica delle cucine, la serva che si consumava gli occhi nel guardare il giovane Riario ai bagni, aveva appena lasciato il proprio ballerino per poter riprendere fiato e bere qualcosa.

“Seguimi.” ordinò Bianca e, vedendo come il fratello eseguisse senza fiatare il suo ordine, si diresse senza altri indugi verso la sua amica: “Mio fratello vuole chiederti di ballare.” le disse, sovrastando come poteva il chiasso fatto dai musicisti e dai ballerini.

La giovane, incredula per tanta fortuna, rise come una pazza e poi, afferrando Galeazzo per una mano, esclamò: “Sia ringraziato il cielo!”

La Riario scoppiò a sua volta a ridere, specie per l'espressione terrorizzata fatta dal fratello che veniva trascinato quasi di peso in mezzo alla pista da ballo, e poi cominciò a cercare anche per sé un compagno per le prossime danze.

Sapeva che il soldato con cui si incontrava quasi tutte le sere, quella notte era di turno sui camminamenti e lei non aveva avuto il coraggio di chiedere né a sua madre, né al nuovo castellano, di lasciarlo libero. Perciò quando se lo trovò davanti, trasecolò.

“Ho chiesto al Capitano Mongardini di farmi sostituire. Ha borbottato un po', ma alla fine mi ha lasciato venire qui.” le disse, prendendola per mano: “Gli ho promesso che appena le danze fossero finite, sarei tornato al mio posto.”

Bianca non perse tempo a discutere su quell'ultimo dettaglio, benché ritenesse che, ormai, il ragazzo avrebbe potuto prendersi benissimo tutta la notte libera. Al massimo, si ripromise, ci avrebbe pensato a lei a parlarne con la Tigre, per convincerla a non far prendere provvedimenti disciplinari contro il soldato.

“Vieni. Balliamo.” gli disse, facendosi seguire in mezzo agli altri ospiti che continuavano a danzare senza tregua.

Una delle cose belle delle feste aperte anche alla servitù e ai soldati era proprio l'apparente instancabilità dei presenti. Dar loro una buona cena, vino a volontà, musica e un motivo per festeggiare, pareva bastare a dar loro un'energia che non si spegneva fino alle prime luci dell'alba.

Sentendosi ancor più felice e spigliata di prima, ora che poteva volteggiare assieme a quello che, tra tutti i soldati della rocca, le piaceva di più, la Riario si lasciò alle spalle anche i pochi freni che si era data fino a quel momento. Sua madre non c'era e, probabilmente, non sarebbe nemmeno tornata nel salone. Non c'erano notabili della città, eccezion fatta per Luffo Numai e pochissimi altri fedelissimi della Sforza. Non c'era nessuno che potesse permettersi di giudicarla. Era una sensazione inebriante.

Estraniandosi senza volerlo da ciò che la circondava, dopo qualche minuto Bianca si trovò a riscoprire nel modo in cui il suo giovane cavaliere la stringeva sempre di più a sé i modi avvolgenti che, mesi prima, Ottaviano Manfredi aveva saputo dedicarle, la prima e unica volta in cui avevano danzato assieme.

Fu un lampo tanto violento e doloroso che la ragazza uscì subito dalla bolla incantata in cui stava andando a infilarsi. La ripresa fu abbastanza immediata, tuttavia la Riario perse per un momento il passo e toccò al giovane riportarla a tempo con la musica.

“Tutto bene?” le sussurrò nell'orecchio, cogliendo in lei un momento di smarrimento tanto profondo da andare a scalfire la sicurezza dei suoi occhi blu scuro.

Incurante degli eventuali sguardi curiosi che avrebbe potuto attirare, la figlia della Contessa scosse il capo e poi affondò il viso contro il petto di lui, continuando a seguire la musica, che si era fatta molto più lenta e cadenzata: “Va tutto bene.”

 

Caterina restava immobile, guardando verso il camino acceso. Era stata lei stessa a ravvivare la fiamma, quando lei e Pirovano erano arrivati in camera, un paio d'ore prima.

Il fuoco rischiarava la stanza e riscaldava bene l'ambiente, benché fuori fosse appena ricominciato a piovere in modo scrosciante, e Giovanni da Casale, stretto a lei, le stava così vicino da infonderle un tepore ancor più piacevole. Eppure la Tigre sentiva una strana sensazione di freddo e solitudine.

L'uomo aveva capito fin da subito che l'amante aveva qualcosa che non andava. Non appena si erano chiusi la porta alle spalle e lui, accecato dal desiderio, aveva cominciato a svestirla, facendo scivolare in terra l'abito rosso che tanto apprezzava, si era reso conto che la Contessa rispondeva in modo automatico, ma molto più freddo del solito, quasi che non stesse dando alcuna importanza a quello che stavano facendo.

Poi, però, perdendosi in lei, aveva messo a tacere la parte di sé che continuava a farsi domande, e si era abbandonato completamente a quello che lei gli concedeva e a ciò che sempre lei gli imponeva.

Alla fine, forse proprio nell'illusione di scacciare quella sensazione di distanza che ancora non se n'era andata, il milanese le si era avvinghiato ancora, restandole incollato come a imporle ancora di più la propria compagnia, quasi che fosse necessario per farle capire che lui c'era.

“Mi era mancato vederti vestita da donna.” sussurrò a un certo punto Pirovano, solleticandole il collo con le labbra.

“Forse dovrei tornare nella sala dei banchetti...” fece lei, quasi assorta, come se il suo uomo non avesse nemmeno parlato.

“Mi piace anche vestita da uomo – proseguì lui, per la sua strada, allungando una mano fino alla coscia dell'amante, sotto le coperte – però un po' mi secca doverti aiutare a rimetterti la fascia per il seno ogni volta...”

Distratta dai propri pensieri soprattutto dalle dita di Giovanni, che cominciavano a indagarla in modo insistente, la Tigre si spostò un po' e ribatté: “Dover mettere quella fascia è l'unica scomodità che devo accettare, quando mi vesto come un uomo.”

Siccome la donna si stava mettendo a sedere sul letto, sottraendosi alle attenzioni del milanese, questi si schiarì la voce e fece una domanda la cui risposta, secondo lui, avrebbe potuto spiegare almeno in parte l'ostilità di fondo che stava avvertendo quella notte: “Mi hai tradito?”

Corrugando la fronte, non aspettandosi una simile richiesta, la Leonessa scrollò le spalle e cercò di sviare il discorso: “Non metterti a fare il geloso. Dai, muoviamoci che si è fatto tardi e voglio controllare che...”

“Sei stata con un altro?” la incalzò lui, puntellandosi sui gomiti.

Caterina, a quel punto, non volendo mentire, lo fronteggiò senza negare né annuire: “Anche se fosse?”

Pirovano rimase in silenzio un momento, osservandola. Nella luce calda delle fiamme, il corpo della sua amante gli sembrava quello di una Dea. Le sue forme morbide e piene sembravano cangianti e impalpabili nelle ombre che disegnavano. Anche se aveva già trentasei anni, un'età on cui la maggior parte delle donne, specie se con molti figli come lei, appariva già vecchia e al di là di ogni tentazione, per lui la Sforza era l'unica donna veramente desiderabile al mondo.

“Perché?” provò a chiederle, prendendo la sua recalcitraggine per un'ammissione di colpa.

La Contessa, che se ne stava sempre seduta sul letto, ma ormai completamente voltata verso di lui, rispose, secca: “Perché tu avevi altro da fare.”

Giovanni avrebbe voluto infuriarsi, avrebbe voluto alzare la voce e andarsene. Però sapeva che facendo così avrebbe rischiato di perderla per davvero. Era una cosa che non voleva, per nessun motivo al mondo. Era disposto a sopportare, sopportare e sopportare ancora. Aveva deciso di servirla fino alla fine dei suoi giorni e di combattere per lei fino alla morte e l'avrebbe fatto, perché in cambio poteva almeno avere i ritagli del suo amore.

“Hai ragione.” disse, gelido, alzandosi, controllato, ma implacabile: “Tra me e lui, tu avevi scelto lui, in fondo...”

Alla Leonessa non servirono nomi per capire l'allusione del suo amante. Dopotutto, lo spettro di Ottaviano Manfredi aleggiava su di loro fin dal giorno stesso in cui Pirovano era arrivato a Forlì dopo la morte del faentino.

Interpretando il silenzio arbitrariamente come un sì, Giovanni scosse il capo e, raccogliendo le sue brache da terra con un gesto secco: “Avevi scelto lui. Se io sono qui, è solo perché lui è morto.”

Caterina, in silenzio, lo guardò mentre si vestiva. Come sempre, non poteva restare insensibile a quella vista, tuttavia riuscì a trattenersi. Avrebbe voluto scusarsi, chiedergli di restare, provare ad appianare quell'abbozzo di litigio nel modo che lei conosceva meglio, lo stesso che aveva sempre usato anche con il suo Giacomo e, qualche volta, perfino con il Medici. Però sapeva che sarebbe stato un errore. Era giusto che se tra loro c'erano delle divergenze, ci fosse il tempo per digerirle.

Dovevano combattere insieme e farlo fino alla morte. Non c'era spazio per ripensamenti dell'ultimo minuto. Se Pirovano doveva accorgersi che per lei non valeva la pena di perdere la vita, allora era meglio che lo facesse subito e non con i francesi già alle porte. Tentare di calmarlo offrendosi a lui, avrebbe solo ritardato quell'eventuale epifania.

Ormai rivestito di tutto punto, Giovanni da Casale fece un sospiro, le lanciò uno sguardo, che indugiò a lungo su ogni punto del suo corpo, e poi sbuffò: “Quando potremo rivederci?”

“Non lo so...” ammise lei.

“Troverai il modo di farmelo sapere.” fece allora lui, quasi tra sé, per rabbonirsi.

Dopo un brevissimo tentennamento, tornò al letto e vi si appoggiò con un ginocchio, allungandosi verso di lei per darle un bacio. La Contessa l'accettò, anzi, arrivò a passargli una mano tra i capelli ancora umidi di sudore, ma, quando lui provò a imporsi su di lei con un po' più di convinzione, la Sforza si ritrasse.

“Devi andare, ora.” gli disse, e respingendolo in modo abbastanza chiaro con una mano su petto, gli indicò la porta: “Sei già stato lontano dalla cittadella troppo a lungo.”

Inghiottendo una buona dose di malumore e delusione, l'uomo fece un cenno con il capo e si rimise in piedi, si sistemò il giubbone e convenne: “Hai ragione. Sono un tuo soldato e devo ricordarmi sempre che non potrò mai essere nulla più che questo.” e senza guardarla più, andò alla porta e uscì.

 

Bianca aveva deciso di lasciare il salone dei banchetti al solo scopo di potersi ritagliare un momento di pace con il suo soldato. Anche se voleva illudersi che i pettegolezzi non le pesassero, di fatto preferiva non dare troppo spettacolo e quindi era necessario che trovasse un punto tranquillo per poter stare un po' da sola con lui.

L'aveva portato al piano superiore, pensando che un'alcova di quelle che davano sul cortile d'addestramento sarebbe stata perfetta. Aveva capito per esperienza che quel genere di nascondiglio era comodo, ma non impegnativo. Quando le capitava di infilarvisi con qualcuno, le aspettative di quel qualcuno non andavano praticamente mai oltre un certo limite.

Teneva la mano del giovane stretta nella sua e nel precederlo in corridoio avvertiva un senso di potere che le piaceva sempre di più. Anche se in misura contenuta, credeva di cominciare a capire ciò che portava sua madre a vivere i propri desideri in modo tanto libero e volitivo.

Stavano quasi raggiungendo il posto scelto dalla Riario, quando la ragazza intravide un'ombra che aveva imparato a conoscere molto bene. Il fatto, poi, che stesse uscendo dalla camera di sua madre, le toglieva ogni dubbio.

In realtà non le importava minimamente di essere vista da Giovanni da Casale in compagnia di un ragazzo. E immaginava che nemmeno a lui importasse granché di quello che lei faceva. Però il rischio di imbattersi in lui le diede un brivido che la fece agire senza ragionare.

Trovandosi molto più vicina alla propria stanza che non all'alcova designata, aprì in fretta la porta e si lanciò dentro, trascinandosi dietro anche il soldato. Questi, che non aveva capito il motivo di tanta fretta, sorrise e la guardò interrogativo.

“L'amante di mia madre – spiegò lei, senza fare misteri – stava arrivando e non volevo che ci vedesse.”

“Allora sono stato solo fortunato.” scherzò lui, guardandosi attorno come se la camera della sua amata fosse un panorama mozzafiato.

Anche Bianca sorrise e, un po' intimidita da ciò che le parole di lui sottintendevano, restò per qualche secondo immobile e in silenzio.

Fu il ragazzo a riprendere l'iniziativa, cominciando a baciarla e a sfiorarla, esattamente come facevano quasi ogni volta in cui si incontravano negli angoli più bui di Ravaldino. La stanza era un po' fredda, perché il camino si era spento, e buia. Se non fosse stato per la pioggia che batteva senza sosta contro la finestra, sarebbe stata anche silenziosissima.

La Riario provò a spegnere la mente e a lasciarsi trascinare da quello che stava provando. Anche se i suoi sensi erano vigili come non mai, le risultò molto più facile del previsto spegnere per un po' la coscienza. In quel momento non le importava né della guerra, né di Astorre Manfredi, e tanto meno di quello che ne sarebbe stato di lei, una volta che Imola e Forlì fossero state spazzate via dai francesi.

Il soldato procedeva con metodo, facendosi via via più audace, trattenendosi appena di quando in quando, in attesa dei taciti permessi a continuare che la Riario gli concedeva senza troppi indugi.

Facendola indietreggiare poco per volta, arrivò a spingerla contro il letto. Bianca avvertì il contatto con il bordo del materasso e una scossa attraversarle la schiena. Anche in quel frangente assecondò il giovane che era con lei, finendo per stendersi e permettergli di sistemarsi sopra di lei.

La stava baciando, la toccava con desiderio, ma senza alcuna traccia di fretta. A differenza di altri che, prima di lui, avevano creduto di poterla davvero avere, lui stava dimostrando una sorta di rispetto che, più di ogni altra cosa, le stava facendo abbassare le difese.

Così come la ragazza aveva appena infilato una mano sotto il camicione del soldato, così lui le aveva sollevato un po' le gonne, risalendo con le dita le sue gambe, fin quasi al fianco. Anche Bianca voleva sentire di più e cominciò ad armeggiare con i lacci delle sue brache. Di concerto, lui le allentò i nodi che le stringevano il petto, liberandola da quella che ormai pareva a entrambi una gabbia inutile.

Bianca si sentiva ormai decisa ad andare fino in fondo. Il calore e il peso del ragazzo erano qualcosa di così reale e tangibile da farle quasi annebbiare i sensi. Si sentiva sicura di sé e non aveva alcun tipo di paura.

Però... Nel momento stesso in cui il soldato provò a liberarla definitivamente dal suo vestito di raso blu, la Riario si rese conto di un particolare che per lei non era solo un dettaglio.

Si era resa conto che, come era successo poco prima, mentre ballavano, così anche in quei momenti, mentre i loro respiri si facevano più brevi e spezzati e i loro corpi iniziavano a cercarsi, lei non stava pensando al ragazzo che aveva tra le braccia. Non stava pensando a nessuno in particolare.

Capire che se non ci fosse stato lui, ma un altro, per lei non avrebbe fatto differenza, la spaventò a tal punto che, mentre il soldato cominciava a baciarle il collo, la Riario cercò di sottrarglisi con una fretta che lo allarmò.

“Ho fatto qualcosa di sbagliato?” le chiese, staccandosi subito da lei e sollevando le mani.

Bianca si sistemò un pochino l'abito, ormai rilasciato e discinto, ma scosse il capo, mentre anche il giovane, alzatosi, cercava con fatica di darsi una sistemata: “Scusami, è che...”

L'altro non le diede il tempo di finire: “Non importa. Non preoccuparti. Ci vuole il suo tempo.”

La figlia della Tigre deglutì e, restando dov'era, annuì in silenzio.

“Aspettare ancora un po' non mi secca.” confessò il giovane: “È un po' come uscire a caccia nei giorni di pioggia. Fai fatica e non è detto che alla fine porti a casa qualcosa, ma se capita, la soddisfazione è doppia.”

La Riario non era certa di poter cogliere appieno una metafora sulla caccia. Anche se sua madre era una grande cacciatrice, lei sentiva di non aver minimamente ereditato la sua passione, né il suo talento.

Così si limitò a fare di nuovo segno di sì con la testa e poi, tendendo una mano verso il ragazzo, lo fece riavvicinare.

Lui accettò quella sorta di scusa e la baciò a lungo, con un trasporto che avrebbe anche potuto portarla a ripensarci. Tuttavia, ben prima che Bianca potesse farsi cogliere da qualche ulteriore dubbio, il soldato si allontanò di nuovo e, un po' in imbarazzo, la guardò.

“Devo andarmene?” le chiese, non sapendo come altro far terminare quel loro incontro che gli aveva dato solo un assaggio molto generoso di quello che avrebbe potuto forse avere un giorno.

“Forse è meglio.” convenne la Riario, alzandosi anche lei, come per accompagnarlo alla porta.

Il giovane la scrutò nella semioscurità per qualche istante. La tentazione per lui era ancora fortissima e, se solo avesse avuto meno scrupoli nei confronti della donna che sentiva di amare, forse avrebbe trovato il coraggio di forzarla un po' di più ad arrivare fino in fondo.

“Aspetto con ansia il momento in cui potrò vedere arrivare l'alba steso su quel letto – le sussurrò, indicando il giaciglio di Bianca con l'indice – stretto a te, ovviamente.”

La giovane arrossì, e fu felice del buio che copriva la porpora che le si stava spandendo in viso.

“Allora vado.” concluse lui, chinandosi di nuovo su di lei, per salutarla con un bacio.

Quella volta le loro labbra si sfiorarono appena, esattamente come avrebbero potuto fare quelle di due sposi avvezzi a darsi l'arrivederci a quel modo, consci che presto avrebbero potuto vedersi di nuovo.

Rimasta sola, la Riario restò per un po' immobile davanti alla porta chiusa e poi, sentendo un calore incredibile salirle lungo il collo, avvertì tutte le sensazioni di quella sera riproporlesi tutte assieme in un turbine incontrollabile.

Sorridendo da sola, confusa, agitata, ma fondamentalmente euforica, si lanciò sul letto, affondando il viso, ancora incandescente, nel cuscino e si perse in tutti i dubbi e le congetture possibili.

Quando si fu un po' calmata, si sfilò l'abito e, cercando la sottoveste, accese un paio di candele. Si mise a trafficare con il camino, fino a rischiarare la camera con le sue fiamme.

Prima di tornare a stendersi, intravide la bottiglia di pozione che sua madre le aveva dato, raccomandandole di iniziare a prenderla. Fino a quel momento aveva sentito di non averne bisogno, ma quella notte una serie di pensieri stava attraversando la sua mente con la forza di una carica di cavalleria.

Se non fosse stato il suo desiderio, pensava, presto sarebbe stata la guerra a metterla in pericolo. La Tigre aveva ragione. Era meglio pensarci prima. Forse quell'intruglio non aveva davvero la capacità di prevenire le gravidanze, ma era sempre meglio di niente.

Con le mani che tremavano un po', la ragazza prese la bottiglia e la stappò. Ne annusò incerta il contenuto e poi, dicendosi che, anche se non le fosse servita, di male comunque non gliene avrebbe fatto, ne sorbì un lungo sorso.

Mandando giù quasi a fatica, infastidita dallo strano sapore che aveva in bocca, la Riario si rimise a letto e, con un sospiro, si rimise a pensare a tutto quello che era successo, chiedendosi, con uno spesso velo di paura, quanti altri momenti belli avrebbe avuto da quella notte in poi e quando i francesi sarebbero calati nella sua vita, minacciando di porre fine a tutto quanto.

 

Galeazzo, troppo impacciato per continuare a danzare a lungo con l'amica della sorella, era riuscito a districarsi da quell'impegno non voluto con una certa abilità.

Per non rischiare di dover far da cavaliere ad altre dame rimaste scompagnate, aveva lasciato la sala dei banchetti e si era messo a vagare per la rocca. Di rado girava da solo per Ravaldino, specie con il buio, e quindi quella rassegna inattesa gli stava risultando particolarmente gradita.

Gli piaceva vedere quei luoghi con la pace di quell'orario insolito. Essendo quasi tutti ancora alla festa, poi, c'era una pace invidiabile. Poteva soffermarsi quanto voleva a controllare questa o quella cosa, perdendosi nelle sue congetture a stampo militare che lo portavano a chiedersi quanto un architrave sarebbe stato resistente ai colpi di cannone o a quanti soldati avrebbero potuto stiparsi in un determinato corridoio in caso di intrusione nemica.

Lungo il suo tragitto non aveva incontrato quasi nessuno. L'unica figura degna di nota era stato Pirovano che, apparentemente di pessimo umore, aveva attraversato il cortiletto a passo spedito, per poi lasciare direttamente la rocca a piedi, incurante del brutto tempo.

Si era infatti rimesso a piovere a dirotto e l'acqua che si riversava contro le finestre sembrava in grado di coprire qualsiasi altro rumore. Eppure, quando era arrivato al corridoio si affacciava anche la stanza di sua sorella, aveva sentito benissimo una porta aprirsi.

Il Riario si era a quel punto nascosto in un punto buio del corridoio e aveva occhieggiato verso il cigolio, rendendosi conto che qualcuno stava uscendo proprio dalla camera di Bianca. L'aveva riconosciuto abbastanza in fretta e quindi la sua attenzione di era fatta maggiore.

Non sapeva di preciso cosa ci fosse tra lui e sua sorella, o meglio, l'aveva capito, ma non riusciva a intuire quanto fosse importante la loro relazione. Il modo in cui il soldato, però si risistemava le brache e la giubba, mentre attraversava il corridoio, gli fecero credere che la questione dovesse essere più seria di quanto si era immaginato.

Lo lasciò allontanare e solo allora tornò a camminare normalmente. Sua madre l'aveva abituato con il suo stile di vita ad accettare un modello di donna molto libero, troppo, secondo i canoni che anche i suoi maestri gli avevano insegnato.

Tuttavia, mentre raggiungeva le scale, per scendere nella sala delle armi a ripassare in solitudine tutti i tipi di freccia che venivano confezionati dai loro armaioli, Galeazzo si rese conto che non gli dispiaceva pensare che anche Bianca fosse una donna libera.

Non riusciva ancora a comprendere quanto – in fondo avrebbe compiuto quattordici anni solo quel dicembre – ma era certo che l'essere cresciuto senza determinati schemi mentali alla fine sarebbe stato per lui un vantaggio. E dunque non voleva lasciarsi intimidire da donne che si prendevano quello che volevano quando volevano.

Mentre scendeva gli ultimi gradini della rampa, con un sospiro, si disse anzi che forse anche a lui un giorno sarebbe servita una donna forte e decisa come loro, almeno in amore, perché, almeno per il momento, il giovane Riario si sentiva un grandissimo imbranato, molto più a suo agio con le armi che con le ragazze, rispetto ai suoi coetanei, che già cercavano compagnia nei bordelli della città o che addirittura prendevano moglie, e temeva che gli anni non avrebbero portato grandi cambiamenti.

 

 
 
   
 
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