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Autore: Adeia Di Elferas    24/10/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Una volta chiusasi in stanza, Caterina si mise alla scrivania. Si passò nervosamente le mani sulle gambe, andando a stirare un po' le pieghe delle brache e poi si decise a scoprire che cosa il Calmeta volesse farle sapere. Spiegò con calma la lettera e poi, dopo aver fatto un respiro profondo, cominciò a leggerla.

Per prima cosa vide che la missiva era stata scritta il 31 ottobre. Il fatto che fosse arrivata già il 4 novembre significava che, in un modo o nell'altro, Vincenzo Colli doveva aver trovato una via di trasmissione non solo sicura, ma anche abbastanza rapida, viste le condizioni delle strade.

Nelle prime righe, il letterato le voleva dire che non avrebbe scritto solo dei dati di fatto, ma anche ciò che aveva visto e sentito e le sue relative congetture in merito.

Come prima notizia, l'uomo faceva presente che, secondo i suoi calcoli, l'esercito dei francesi sarebbe partito per la Romagna entro circa dieci giorni dall'arrivo della lettera. E questo già era un fatto che alla Sforza interessava molto. Anche se continuava a ripetersi che il Borja avrebbe presto fatto rotta verso di lei, in realtà nella sua mente aveva sempre continuato a posticipare e ora capiva che non era più il momento di farlo.

Sempre parlando dei francesi e della loro posizione in merito all'impresa che il figlio di Alessandro VI si accingeva a compiere, poi, il Calmeta aggiungeva: 'Costoro prima per levare el papa da tale fantasia, li hanno recusato di non voler pigliar la impresa allegando non haver denari e che hanno speso assai in questa impresa de Milano. El Papa ha domandato alla maestà del Re solamente gente imprestito e l'artiglaria e che lui vuole fare del tucto la spesa.'.

La Sforza si morse il labbro, mentre leggeva come alla fine Luigi avesse prestato al pontefice alcune armi moderne, oltre che una guardia per l'artiglieria di ben cento lance. Il Calmeta sosteneva di essersi lamentato con Gian Giacomo da Trivulzio del fatto che quello non era ciò che era stato stabilito all'inizio, ma ovviamente nessuno l'aveva ascoltato.

'Lui me resbose – scriveva il Colli, riferendosi al nuovo Governatore di Milano – queste formale parole, se ve facti el male voi medesimi non ve posso ajutare io.'.

Vincenzo sosteneva di non aver capito quelle parole subito, ma solo quando aveva scoperto una serie di accordi abbastanza segreti, di cui pregava la Tigre di non informare nessuno.

Dopo esser stato inizialmente vago, l'uomo aveva scritto, premendo sul foglio molto più del necessario: 'e che gli e tradita da ogniuno e per ognuno sattende a la desfactione e ruina de Vostra Signoria stien larma maximamente dal canto de Roma donde viene tucto el male de quella.'.

La Leonessa non trovava in fondo nulla di nuovo in quelle parole. Sapeva più che bene che il papa era la sua croce, ma ciò che seguiva le fece storcere la bocca. Il Calmeta insinuava che in Vaticano uno dei suoi più grandi pericoli fosse il Cardinale di San Giorgio, ovvero suo cugino Raffaele.

Il Colli a quel punto sottolineava come si fosse preso la libertà di parlare al re in persona della questione di Imola e Forlì e di come Luigi avesse risposto: 'me disse queste poche parole in francese: Noi non siamo judici del papa, che li possiamo vetare che in le terre sue non possa usar la jurusdictione a suo modo, et che coj Capitani da ogni altra potentia ne potevano defendere ma contra del Papa al quale siti censuarie non era licito.'.

Dopodiché la lettera proseguiva spiegando come il figlio del papa elargisse con anticipo le paghe ai soldati, rendendoli pronti a partire anche nel giro di due giorni, se necessario. Il consiglio che ne derivava era chiaro e semplice: 'Non bisogna più qui mandare cosa alchuna ne astributare ne presentare, ma attendere a la defensione e pigliar altre vie. Ben recordo a Vostra Signoria che voglia fare el preparatorio animosamente e non perdersi in coraggio perche bon partito non li porra mandare.'.

E infine arrivò la frase che più colpì Caterina: 'Non nominarò più nisciuno particularmente da questa volta innante Fiorentini per scaricarsi loro non se hanno curato che la impresa venga sopra Vostra Signoria che altrimente il papa voleva Pisa per el figliolo.'.

La Sforza dovette smettere per un momento di leggere. Quelle poche parole, quasi innocenti, avevano il peso di una montagna sul suo cuore. Era la conferma di un dubbio che aveva da mesi, fin da quando la Signoria aveva cominciato a ritardare il rinnovo della condotta a Ottaviano. Firenze non solo non l'avrebbe aiutata, ma, anzi, era stata tra le potenze a volerla dare in pasto al figlio del papa.

Con un vago senso di nausea, la donna continuò a leggere. Colli spiegava che per quell'inverno, ormai, i francesi non potevano trovare il modo e il tempo di scendere a Napoli e dunque si accontentavano di lasciare campo al Borja, affinché prendesse soprattutto Forlì, ritenuta l'unica vera roccaforte della Romagna.

Senza riuscire a pensare lucidamente a nulla, la Contessa mise da parte la missiva che aveva appena finito di leggere. Ormai conosceva abbastanza bene il modo di comunicare dei diplomatici per capire benissimo come quella frase messa nel mezzo del testo fosse la più significativa e il vero monito lanciato dal letterato.

Tutti la stavano tradendo, tutti la stavano vendendo. Non era cambiato nulla, rispetto a quando aveva avuto nove anni. Quelli che avrebbero dovuto per morale e per legge difenderla e correre in suo soccorso, l'avevano invece messa sul piatto delle offerte per salvare se stessi.

A quel punto, si disse, era veramente sola. Si era illusa che Firenze non le fosse nemica. Sapeva di non averla come alleata, ma si era convinta di poterla almeno non ritenere apertamente ostile.

Cominciò a pensare a come muoversi. Anche se il suo piano di difesa restava tutto sommato invariato, si rendeva conto di dover prestare maggior attenzione a certi dettagli. Uno fra tutti, doveva essere certa di ostacolare i francesi in tutti i modi possibili, questa volta senza aver cura di mantenere vivi eventuali corridoi utili a eventuali rinforzi. Perché i rinforzi, inutile negare ancora l'evidenza, non sarebbero arrivati, anzi, dalla Toscana al massimo sarebbero potuti arrivare altri attacchi.

Con un sospiro, prese un foglio pulito e, sforzandosi di tenere la mano ferma, cominciò a scrivere una missiva per il Marchese di Mantova. Dubitava che il Gonzaga, a capo sì di uno Stato importante e con un ottimo esercito, ma piccolo e collegato a filo doppio con Ferrara, che aveva dato più volte prova, ultimamente, di aver voltato le spalle per sempre agli Sforza, si sarebbe lasciato convincere a rischiare tutto in cambio di due cavalli, ma una prova andava comunque fatta.

Dopo i titoli onorifici con cui sperava di accattivarsi anche la moglie del Marchese, molto più sensibile, si diceva, alle formalità rispetto a lui, Caterina scrisse: 'Ricordandome che la S. V. me fece già intendere havere desiderio de la mia cavalla zanetta, , et sapiando che quella ne ha la razza, li mando et la cavalla et anche uno stallone zanetto, et acio de luno et de laltro se ne venga a servire et essere satisfacta.' deglutì e poi, pregando con tutta se stessa di trovare un amico insperato, provò a lanciare la sua richiesta: 'De le cose nostre sapiando quella haverne notizia, non me extenderò in altro più de quello li hanno significato, se non che il Papa contra ogni justicia ne perseguira per dare questo stato al fiolo, che siando senza alcuno nostro demerito o rasone non possiamo credere che Iddio et li homini del mondo non ce habiamo compassione, nui del canto nostro siamo per non ce abandonare, ma defendere sino poteremo le cose nostre, che forse non le trovaranno si facile come se persuadino.' e con questa frase decise di chiudere il messaggio.

Rilesse in fretta, firmò e lasciò asciugare l'inchiostro per qualche secondo, assorta. Quando fu certa di poter chiudere la missiva, la sigillò se la mise della tasca interna del suo giubbone da uomo, e lasciò la sua stanza, diretta alle stalle della cittadella. Doveva scegliere lo stallone giusto per la giannetta e doveva far partire le due bestie prima di sera.

 

“Fossi in voi non sarei così cupo.” disse Gian Giacomo da Trivulzio, appoggiandosi pesantemente allo schienale e puntando i piccoli occhi su Giovan Francesco Sanseverino: “In fondo diventare Marchese di Valenza non è cosa da tutti...”

L'altro, che si era recato presso il nuovo Governatore di Milano solo per ufficializzare la carica che il re in persona gli aveva concesso, fece una smorfia di insoddisfazione: “Parlate bene, voi!” disse, guardando prima il milanese e poi Troilo de Rossi, che gli stava alle spalle: “Voi, che siete già quello che siete e che presto sarete Governatore di tutta la Lombardia!”

Il Trivulzio fece una risata breve e un po' affettata: “Non esagerate...” lo zittì, lasciando però intendere che la previsione del Sanseverino fosse tutto sommato corretta: “Piuttosto, cercate di godervi quello che vi è stato concesso.”

“La mia dignità in cambio di un Marchesato che non volevo...” commentò a denti stretti il condottiero: “E adesso devo anche seguirlo in Francia...”

“Se l'Italia per voi ormai ha così poche attrattive – gli fece notare Gian Giacomo, sollevando un sopracciglio – allora è una vera fortuna che Luigi abbia bisogno di voi nel rientrare in patria. E comunque, che io sappia, non partirete prima di una settimana almeno...”

Giovan Francesco sospirò: “Non lo voglio nemmeno sapere, quando partiremo...”

Il Governatore di Milano, stanco di raccogliere le lamentele di tutti – perché quasi ogni singolo uomo che si fosse offerto al sovrano francese finiva per andare a lamentarsene da lui – gli consegnò gli ultimi documenti e, indicandogli la porta in modo eloquente, gli disse: “Se mi perdonate... Ora avrei altre cose su cui lavorare...”

Il Sanseverino se ne andò subito, salutando con uno stanco gesto della mano. Gian Giacomo fece un altro respiro profondo, ma senza commentare. Poi fece cenno a Troilo di sedersi davanti a lui.

“Ma perché il re torna in Francia?” chiese il de Rossi, che faceva sempre più fatica a capire l'organizzazione dei loro alleati: “Il suo esercito è una bolgia infernale e se lo lascia davvero in mano al figlio del papa...”

“Non sono decisioni che spettano a noi.” lo rimise subito in riga l'amico, più vecchio e più saggio di lui: “Piuttosto, sto cercando di accelerare la questione di Felino. Voglio che il re firmi le carte prima di tornarsene in Francia, altrimenti non ce la caveremo più.”

“Il titolo verrà assegnato a mio padre, giusto?” chiese l'emiliano, che non desiderava altro di esaudire il desiderio del genitore, ovvero non morire esule.

“No.” fece subito il Trivulzio, con durezza: “Sei tu la spada che sta servendo Luigi, quindi sarai tu a essere investito del titolo.”

“Ma...” provò a dire il de Rossi, prima di essere di nuovo tacitato dall'amico.

“Niente ma.” gli disse, sollevando l'indice: “Come ti ho già detto, devi prendere quello che ti danno, finché te lo danno.”

Troilo si grattò la barba rossastra che ricresceva veloce come sempre, quasi a voler sottolineare come, pur avendo già trentasette anni, molti dei quali passati in condizioni incerte, il suo corpo fosse ancora pieno di vita e vigore.

“Adesso dobbiamo valutare la richiesta di Giampaolo Baglioni.” sospirò Gian Giacomo, che, in effetti, cominciava a essere stufo di dover vagliare le richieste che il re non aveva voglia di valutare personalmente.

“Quello di Perugia?” chiese il de Rossi, sistemandosi meglio sulla sedia.

“Lui. Suo cognato ha una condotta dai Veneziani... E i suoi cugini Grifonetto e Carlo sembrano non essere in grado di tenersi un lavoro per più di un mese di fila... Ma Giampaolo potrebbe essere utile alla nostra causa.” soppesò il Governatore di Milano, battendosi la punta delle dita sulla coscia: “Si dice di lui che sia un buon armigero, e che soprattutto non abbia freni. Potrebbe essere un buon appoggio per sfondare le difese di Imola. Tra lui, Onorio Savelli, Vitellozzo, Zitolo e Achille Tiberti, far breccia nello Stato della Sforza potrebbe anche essere un'impresa fattibile...”

Troilo ci pensò sopra un momento e poi, seriamente dubbioso, chiese: “Ma davvero quella donna è così temibile? C'è davvero da averne così paura?”

Gian Giacomo sollevò l'angolo della bocca e poi, in tono eloquente, disse: “Io, fossi nel figlio del papa, sarei terrorizzato al pensiero che la mia prima guerra debba cominciare proprio contro quella Tigre.”

A quel punto il de Rossi non disse più nulla, convinto da quello che l'amico aveva appena detto e, come faceva sempre, si limitò ad ascoltare le valutazioni del Trivulzio, avvallandole quando necessario ed esprimendo le proprie perplessità in caso contrario, senza, però, provare mai a imporre una propria decisione.

 

I due cavalli erano già stati preparati e fatti partire alla volta di Mantova con una scorta di tutto rispetto. Erano due animali troppo pregiati, per rischiare che finissero nelle mani di qualche bandito o, peggio, di qualche nemico.

Era pieno pomeriggio e la Sforza ascoltava in silenzio il lento cadere della pioggia fuori dalla finestra della stanza in cui lei e Pirovano si erano rifugiati. Era quasi ora di dividersi, ma nessuno dei due accennava ad andarsene.

Abbracciati sotto le coperte, ciascuno dei due era prigioniero dei propri pensieri, senza trovare il modo di rendere l'altro partecipe delle proprie preoccupazioni. Però, se Giovanni da Casale era vittima di quella che lui stesso considerava una trappola – ovvero la gelosia scatenata da alcune voci che aveva sentito quella mattina, che volevano la Contessa così disinvolta da portarsi comunque in camera un amante diverso a notte, malgrado fosse ancora in qualche modo impegnata con lui – che avrebbe potuto trovare una mezza soluzione parlandone con l'amante, Caterina era invece invischiata in affari che a tratti sfuggivano a lei stessa e su cui, secondo lei, il milanese difficilmente avrebbe saputo esprimere un'idea chiara e condivisibile.

“Ho visto che hai fatto partire i due giannetti...” disse a un certo punto Pirovano, con la voce un po' arrochita, mentre si sistemava un po' meglio.

La Tigre era quasi del tutto abbarbicata a lui. Gli faceva piacere, la trovava calda e sicura, e non se ne sarebbe andato per nessun motivo, però il braccio che era rimasto sotto il peso della sua amante cominciava ad addormentarsi, ragion per cui si era convinto a muoversi un po'.

Caterina, lasciandolo accomodarsi, senza però scollarsi da lui, annuì appena: “E ho pronti una serie di ordini speciali che ho deciso di estendere anche a Imola. Domani Ottaviano andrà là a riferire quanto ho deciso, mentre qui a Forlì se ne occuperà l'Auditore.”

La Contessa sentì i muscoli del milanese tendersi, e capì, malgrado il tono apparentemente disteso dell'uomo, quanto quella notizia l'avesse agitato: “Ordini speciali? Di che tipo?”

“Quando darò l'ordine ultimo, tutti gli abitanti del contado dovranno lasciare le campagne con tutti i loro averi e andare in città. Dovranno portare con loro anche il fieno e la paglia. Faremo la tagliata a un miglio attorno alla città...” le parole di inseguivano sulle labbra della Leonessa, solleticando un po' il collo di Giovanni che, però, quasi non se ne accorgeva, sconvolto da ciò che la sua donna gli stava dicendo: “Ogni cittadino dovrà rifornire la propria casa di cibo, che basti almeno per quattro mesi. E ordinerò che tutti quanti portino gli ori e gli argenti a fondere. Dobbiamo battere moneta. Io distribuirò a tutta la cittadinanza celate, corazze e lance.”

“Se i tuoi sudditi accetteranno di combattere al tuo fianco.” fece presente Pirovano, irrigidendosi ancora di più: “Non si sono ancora espressi e dare ordini simili potrebbe non giocare a tuo favore.”

Infastidita, pensando che avrebbe fatto meglio a non dire nulla al suo amante, la donna si scostò dandogli le spalle, rigirandosi tra le lenzuola ruvide e un po' ingrigite del letto da locanda in cui si trovava: “Non sai di che parli.”

“Tu non sai di che parli!” sbottò Giovanni, mettendosi seduto e allargando le braccia: “La tagliata a un miglio! Ma sai che significa?! Che non ci sarà cibo per nessuno fino al prossimo anno! Che chi resterà fuori dalla città...”

“I casi sono due.” fece la Contessa, tornando a voltarsi verso il milanese: “O vinciamo e allora potremo fare le condizioni che vogliamo, e prenderci tutto il cibo di questo mondo, o perdiamo e a quel punto non interesserà più a nessuno se i campi non daranno frutti per un anno.”

“Ma si può sapere perché hai preso una decisione simile?” chiese Pirovano il petto che si alzava e abbassava veloce, tradendo un'agitazione così profonda che la Sforza non si sarebbe mai aspettata di vedere nel suo amante.

“Oggi mi è arrivata una lettera.” iniziò a dire lei, riassumendo in breve ciò che Calmeta le aveva riferito.

“E dunque? Tu mandi a catafascio il tuo Stato per una lettera? Di un uomo, poi, che nemmeno conosci!” il tono dell'uomo si era fatto molto più aggressivo del dovuto, e, mentre si alzava dal letto, mettendosi a vagare nudo per la stanza, troppo preda del momento anche per sentire il freddo, Caterina lo guardava e quasi stentava a riconoscere in lui il soldato che, per quanto giovane e taciturno, l'aveva affascinata proprio per la sua forza e la sua apparente sicurezza di sé.

Forse, si disse la Contessa, era stata una sciocca a pensare che un uomo come Giovanni da Casale potesse rappresentare per lei un punto fisso e un appiglio solido così com'era stato il Medici. Era quasi ridicolo pensarlo, ma Ottaviano Manfredi sarebbe stato un compagno molto più affidabile, in un momento di crisi come quello. Aveva sperato di avere almeno nel suo amante un alleato incrollabile. E sapere che anche quell'appoggio veniva meno, la spaventò più di tutto il resto.

“Tu non ti rendi conto!” si lasciò trascinare lei, sentendo come la rabbia e la paura si mescolassero nello spingere quelle parole nella sua gola: “Firenze ha tramato alle nostre spalle! Ci sta danneggiando! Non se n'è lavata le mani: ha preso in mano la spada contro di noi!”

Pirovano scosse la testa, ottuso: “Solo perché tuo marito era fiorentino, non vuol dire che Firenza debba...”

Ma la Leonessa, in piedi davanti a lui, lo fissava con gli occhi accesi di collera: “Tu non capisci nulla, di politica! Loro si sono impegnati!”

“Non è vero!” ribatté lui, chinandosi su di lei, come se avvicinandosi a quel modo le sue grida potessero arrivare meglio alle sue orecchie: “Firenze ti sta prendendo in giro da mesi! Solo tu non volevi vedere!”

“Io ho la cittadinanza fiorentina!” si ostinò a continuare lei, dando un piccolo spintone all'amante, per scrollarselo un po' di dosso: “I miei figli hanno la cittadinanza fiorentina! È preciso dovere di Firenze aiutarci!”

“Dovevi pensarci prima di legarti a una città come Firenze!” fu l'affondo di Pirovano: “E dovevi pensarci prima di inimicarti tuo cognato! Almeno far finta di essere una vedova affranta! Il corpo di marito era ancora caldo e tu già lo stavi tradendo!”

Il suono secco dello schiaffo che colpì in pieno viso Giovanni da Casale parve porre fine a ogni alterco. In silenzio, raccogliendo uno per uno i propri vestiti, la Sforza si rimise in ordine e andò alla porta, lasciandosi alle spalle il suo bell'amante, ancora nudo e attonito per le proprie parole che, lo sapeva, erano contate come mille pugnalate.

Caterina, tanto furiosa da sentire le lacrime arrivarle agli occhi, fece tutta la strada di ritorno alla rocca quasi di corsa. Aveva sbagliato a confidarsi con il milanese, aveva solo peggiorato la situazione.

Tornata in camera, riuscendo a evitare anche le domande di Bianca, che, incrociandola in corridoio e vedendola sconvolta le aveva chiesto se fosse tutto a posto, la Contessa si prese la testa tra le mani. Da un lato, doveva ammettere che Giovanni da Casale aveva ragione, su un punto: poteva davvero basare la sua strategia difensiva fidandosi di una lettera?

La pioggia stava smettendo di cadere e dalla finestra, benché fosse chiusa, entrava un odore di terra bagnata che per un istante riportò la Tigre indietro di tanti anni, alla sera in cui, sotto un temporale incredibile, lei e il suo Giacomo si erano baciati per la prima volta. A quello si unì la sensazione fredda e strana di portare ancora al dito il nodo nuziale che l'aveva legata al Medici. La confusione della sua vita e della sua mente si tradusse in un gesto improvviso.

Alzandosi dal letto su cui si era seduta, la donna prese dalla cassapanca una bisaccia e vi gettò dentro un abito da donna. Si legò in vita una bisaccia con qualche soldo, si assicurò di avere il suo fedele pugnale nascosto sotto la stoffa delle brache e poi, uscendo quasi di corsa dalla propria camera, andò dal castellano.

“Starò via qualche giorno.” disse solo: “Per qualsiasi cosa, rivolgetevi a messer Numai o a Giovanni da Casale, ma prima chiedete sempre conferma dei loro ordini a mio figlio Galeazzo.”

Bernardino da Cremona, attonito, poté solo annuire e guardarla andar via di nuovo.

Senza darsi nemmeno il tempo di ragionare sulla giustezza della sua decisione, la donna andò nella sala delle armi, prese una spada, e poi si recò alle stalle. Abbaiò con uno stalliere finché non ebbe sellato il suo stallone nero e, incurante dell'aria umida e delle poche gocce che ancora cadevano dal cielo, la Sforza lasciò la rocca, sfilando sotto la statua di Giacomo Feo senza nemmeno sollevare un istante lo sguardo sull'effige del suo grande amore.

Era vero: non poteva fidarsi di ciò che una lettera le riferiva. L'unica soluzione era andare a Firenze di persona e, mentre raggiungeva Porta Schiavonia a spron battuto, si disse che così avrebbe fatto e sarebbe tornata a Forlì solo quando fosse stata sicura di avere la città del suo terzo marito come alleata o come nemica.

 
 
   
 
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