Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    27/10/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

“Mi rendo conto che ci sia bisogno di una decisione – disse Galeazzo, guardando il castellano senza riuscire a capire che cosa volesse davvero da lui – ma non vedo perché dovreste chiedere a me, quando è mia madre che decide se...”

Bernardino da Cremona, che si era aspettato, in fondo, che il figlio della Tigre in realtà non avesse idea che la Contessa avesse lasciato la città 'per qualche giorno', guardò un momento anche Luffo Numai che, rispetto al Riario, aveva saputo simulare molto meglio una certa sicurezza di sé.

“Lo sapete che finché vostra madre non torna – disse subito il Consigliere, fissando Galeazzo in modo eloquente – siete voi a dover dare l'ultima parola su questo genere di scelte. Se può esservi utile, trovo che sia una buona decisione dare a vostro fratello Ottaviano la scorta che chiede in vista del viaggio di domani a Imola, purché sia un manipolo di soldati in borghese e in grado di farlo arrivare a destinazione senza attraversare Faenza.”

Il ragazzino, ascoltate con attenzione le parole di Numai, annuì e, seguendo l'onda, senza esprimere a voce alta la propria confusione, si fidò del forlivese e confermò: “Si faccia così. Che mio fratello parta prima dell'alba – soggiunse, trovandola un'ottima idea e vedendosi subito spalleggiato da Luffo, che annuì – in modo che possa arrivare a Imola il più tranquillamente possibile.”

Bernardino da Cremona capì all'istante di non avere ulteriori possibilità di indagare su quanto di fatto il Riario e Numai fossero informati circa la partenza della Sforza, e così desistette, limitandosi a ottemperare ai propri incarichi: “Benissimo. Vado subito dal Capitano Mongardini a dirgli di scegliere gli uomini adatti.”

“Ah – soggiunse il figlio della Leonessa – per il momento, ma di certo anche mia madre ve l'avrà detto, è bene che nessuno sappia nulla della sua momentanea assenza.”

Il castellano fece un mezzo inchino e assicurò: “Dalle mie labbra non uscirà nemmeno mezza parola.”

Al che, Galeazzo lo congedò con un cenno del capo e altrettanto fece Luffo. Rimasti soli nella sala delle armi in cui il giovane Riario era rintanato da almeno un'ora a lucidare le armature, per qualche istante nessuno dei due parlò.

Alla fine, il ragazzino appoggiò al tavolo lo schiniere che si era rigirato tra le mani per tutto il tempo in cui il castellano era stato lì e chiese, a voce molto bassa: “Dov'è mia madre?”

“Non ne ho idea.” ammise il forlivese, che aveva sperato fino alla fine che il suo interlocutore ne sapesse più di lui: “Non sapevo nemmeno avesse lasciato la rocca.”

Fuori il cielo era scuro, la sera avanzava e qualche lampo in lontananza minacciava di nuovo pioggia. Galeazzo avrebbe tanto voluto pensare che sua madre, com'era avvezza fare a volte, si fosse nascosta alla Casina, in mezzo ai suoi boschi, per pensare. Però, dalle parole del castellano e dal fatto che la Contessa avesse scelto dei referenti che decidessero al suo posto durante la sua assenza, il Riario si era trovato ad esser certo che si fosse allontanata più del solito.

“Chi potrebbe sapere dov'è andata e perché?” chiese, retoricamente, Numai, convinto che una risposta non ci fosse.

Galeazzo, invece, ancora mentre il Consigliere stava parlando, già aveva pensato a chi rivolgersi.

Senza dire dove fosse diretto, si scusò in fretta con Luffo e gli disse: “Penso di saperlo. Se avrò novità, vi terrò informato.”

L'uomo lo lasciò correre via, chiedendosi se, per caso, il ragazzino fosse diretto agli alloggi di Giovanni da Casale. Era plausibile pensare che il comandante della cittadella sapesse qualcosa più degli altri, ma Numai aveva la sensazione che quella volta la Tigre non si fosse confidata nemmeno con il suo favorito.

 

Caterina stava cavalcando quasi senza sosta da circa tre ore. Voleva arrivare almeno fino a San Benedetto, prima di fermarsi per la notte, ma cominciava a non essere sicura di riuscirci.

Non sapeva che ore fossero, ma il buio era quasi totale, colpa anche di un cielo senza luna e coperto di nuvole. La pioggia, che non si era ancora fatta vedere, da che era partita, era una minaccia sempre più tangibile e, man mano che si avvicinava alle prime salite appenniniche, la Sforza si rendeva conto che il terreno si faceva sempre più fangoso e cedevole.

Il suo stallone nero stava reggendo quello sforza imprevisto in modo magnifico e, almeno per il momento, non dava segni di sofferenza. Però, e nel farsene consapevole la donna si pentì di non aver scelto un altro cavallo, le sarebbe dispiaciuto troppo compromettere la salute del suo purosangue per un viaggio del genere, quindi avrebbe dovuto trovare un posto tranquillo dove fermarsi per qualche ora.

Doveva farlo bere e mangiare, dormire e possibilmente riscaldarlo un po'. Aveva lasciato la rocca tanto di fretta da non pensare a nulla, se non alla propria rabbia.

Stava avanzando sulla stessa strada dritta da un bel po', cercando di scorgere in lontananza qualche luce che denunciasse la presenza di una locanda. Ricordava bene l'ultima volta in cui aveva affrontato un viaggio simile da sola. Era stato quando si era lanciata in corsa verso San Pietro in Bagno nella speranza di poter rivedere Giovanni vivo anche solo per qualche minuto. La via che stava percorrendo quella volta, però, era un po' più a nord e molto più lunga.

Cominciava a darsi da sola della sconsiderata, quando, finalmente, tra la foschia scura intravide il profilo di una casupola, una luce tremolante e un filo di fumo salire da un camino.

“Ancora un po' di pazienza e avrai qualcosa da mangiare...” sussurrò al suo cavallo che, imperterrito, quasi incarnando egli stesso la furia che aveva acceso la sua padrona, continuava a battere gli zoccoli sulla strada fangosa.

 

“Dove stai andando?” chiese Bianca, seduta a ricamare su una delle panchette di pietra del corridoio, vedendo Galeazzo sfrecciarle accanto, diretto alle scale.

“Vieni con me!” le disse, in fretta, facendole un cenno concitato e a quel punto, lasciando da parte il lavoro di cucito, la Riario lo seguì come un fulmine, la gonna un po' sollevata per non inciampare nella corsa.

Quasi senza fiato, dopo che ebbero passato la statua di Giacomo Feo, accorgendosi che qualche passante li guardava stranito, Bianca fece rallentare anche il fratello: “Rallenta, qualsiasi sia il motivo della tua corsa, o tutti penseranno che sia successo qualcosa di grave!”

Il più giovane fece come gli veniva detto, convenendo con l'accortezza della sorella e poi, in un sussurro, la ragguagliò su quanto accaduto e sulla sua intenzione di andare a chiedere a messer Giovanni da Casale se sapesse qualcosa più di loro.

“Non è andata nei boschi?” chiese la Riario, non vedendo dove altro potesse essere diretta sua madre, in un momento del genere.

“Ha detto che starà via qualche giorno e ha incaricato Numai e Pirovano di prendere le decisioni al suo posto, e ha deciso che starà a me avere l'ultima parola su quanto ordinato.” spiegò il quasi quattordicenne, sforzandosi inutilmente di non apparire terrorizzato all'idea di avere sulle spalle una simile responsabilità: “Fosse andata solo nei boschi, avrebbe lasciato detto di mandarla a cercare, in caso di bisogno...”

Bianca si trovò suo malgrado d'accordo con l'ipotesi del fratello e così, pur sempre senza correre, accelerò un po' il passo, anche lei desiderosa di saperne di più.

Arrivati alla cittadella, Galeazzo si fece riconoscere subito dalle guardie, che lo lasciarono passare senza problemi. Chiese a uno dei soldati di aver bisogno di parlare con Pirovano e quegli gli spiegò che avrebbe potuto trovarlo nelle sue stanze.

Senza perdere tempo a farsi annunciare, il Riario, che conosceva abbastanza bene la cittadella, pur essendoci stato poche volte, condusse la sorella fino alla porta del comandante. Bussò tre volte e alla fine sentì la voce, stranamente collerica, di Giovanni chiedere chi lo stesse disturbando.

“Sono Galeazzo Riario, figlio della Contessa.” si annunciò lui e tanto bastò a far spalancare subito la porta.

Pirovano, in sole brachette da camera, dava l'impressione di essersi appena svegliato. Il letto era sfatto e i suoi abiti da giorno erano ammonticchiati sull'inginocchiatoio. Quel dettaglio attirò l'attenzione di Bianca, che ricordava di aver visto anche sua madre usare quel mobile come ripostiglio improvvisato.

L'uomo, nell'accorgersi della presenza della figlia della sua amante, oltre che del figlio, si grattò un momento la nuca e poi si guardò alle spalle, come tentato di mettersi addosso qualcosa di più, ma fu la stessa Riario a dirgli che non ce n'era bisogno: “Per me non è un problema, se siete in abiti da notte, non sono il genere di donna che si scandalizza per così poco.”

'Anzi – avrebbe voluto aggiungere, guardando di sfuggita il petto ampio e le spalle muscolose del soldato e riportandosi alla mente le immagini del medesimo uomo che si immergeva nella tinozza per il bagno – vi ho visto anche molto più nudo di così', ma ovviamente non lasciò seguire parola alcuna al suo pensiero.

“È successo qualcosa?” chiese a quel punto Giovanni, ripresosi un po' dal risveglio brusco: “Come mai siete qui?”

Galeazzo, che intanto aveva richiuso la porta alle sue spalle, scrutò il milanese, illuminato solo dalle fiamme del camino, e chiese: “Sapete dov'è nostra madre?”

Pirovano batté le palpebre. Guardò prima il Riario e poi la ragazza e infine si accigliò. Ricordava anche troppo bene il modo brusco in cui lui e la Sforza si erano lasciati, qualche ora prima, quando, dopo essersi attaccati a parole, lei era passata ai fatti, dandogli uno schiaffo che difficilmente avrebbe dimenticato.

“Non è andata nei boschi?” domandò, pensando che fosse il rifugio più logico, per la sua amante, che, quando si trovava in difficoltà, pareva trovare conforto solo nella solitudine e nella caccia.

“No.” disse con fermezza Galeazzo.

Allora Giovanni sollevò le sopracciglia e, cominciando a sentirsi un po' infastidito, anzi, quasi sotto processo, si chiese se i figli della Contessa sapessero qualcosa del loro ultimo litigio e lo collegassero alla scomparsa di lei: “E che ne dovrei sapere io?” chiese quindi, alzando le spalle e mostrando i palmi delle mani: “Conoscendo vostra madre, sarà andata in qualche osteria con un paio di soldati per passare la notte in compagnia!”

Per quanto cattiva, quell'insinuazione portò comunque i due fratelli a cercarsi un momento con lo sguardo. Bastò un istante, però, a entrambi per scartare quell'ipotesi. Non perché fosse campata per aria, ma perché in quel caso la Tigre non si sarebbe presa il disturbo di scegliersi dei referenti da interpellare in sua assenza.

“No, no, deve aver lasciato la città...” cercò di insistere Galeazzo.

Quella mezza frase sembrò accendere qualcosa in Giovanni da Casale, che, spalancando all'improvviso la bocca, scosse appena il capo: “No, non può essere... Nemmeno lei sarebbe tanto pazza da farlo...”

“Da fare che cosa?” chiese Bianca, capendo che, per quanto il milanese ne sapesse quanto loro, se non altro aveva avuto un'intuizione.

Pirovano si passò una mano sulla guancia ruvida di barba nera che stava ricrescendo e poi, rivolgendosi più alla Riario che, con i suoi diciotto anni compiuti gli sembrava più adatta a capire rispetto al fratello, disse: “Ho paura che sia andata a Firenze.”

“A Firenze? A fare cosa?” la voce di Bianca era così sottile che si sentiva appena.

Giovanni spiegò di come la Sforza fosse rimasta turbata dalla lettera di un certo Vincenzo Colli e di come avessero litigato, dopo che lei gli aveva elencato i provvedimenti che aveva deciso di prendere proprio in reazione al contenuto di quella missiva.

“In effetti sarebbe da lei, fare una cosa del genere...” soppesò la Riario, cominciando a sudare freddo.

Conosceva l'abilità di sua madre, nel cavalcare e nel difendersi, ma temeva che quella volta un viaggio tanto lungo e incerto potesse essere una trappola mortale. La guerra incombeva e se davvero Firenze era loro ostile, ogni passo fatto oltre il confine di Forlì rappresentava per la Leonessa un rischio incredibile.

“Dobbiamo rincorrerla.” disse Galeazzo, dopo qualche minuto di stordimento: “Dobbiamo mandarle almeno dietro una scorta e...”

“Credi che servirebbe?” lo frenò Pirovano, guardandolo con un'aria di disprezzo che il Riario non aveva colto nel milanese.

All'improvviso fu cosciente di quanto quell'uomo lo mal sopportasse, fingendo di apprezzarlo solo per non dispiacere un'amante esigente e volubile come la Tigre di Forlì.

Mettendo da parte l'orgoglio ferito, però, il ragazzino insistette: “Potrebbe capitarle qualcosa di brutto e potrebbe non tornare..!”

“Tua madre sa il fatto suo. E corre così veloce, a cavallo, che probabilmente sarà sugli Appennini prima dell'alba. Anche partendo subito, non la prenderemmo più.” le parole di Pirovano erano amare e ognuna gli costava moltissimo, eppure si impose di proseguire: “Possiamo solo aspettare, pregare per lei e sperare che torni presto. Nel frattempo, tu fatti vedere con le ossa forti e la schiena dritta.”

La frecciata fatta al Riario ebbe l'effetto di fargli raddrizzare all'istante le spalle, incurvate dalla preoccupazione, e sollevare il mento.

“Se per caso non dovesse tornare, starà a te prendere il suo posto.” rimarcò il milanese, gli occhi scurissimi che sembravano due bracieri: “E Dio ci scampi da un ragazzino che non sa fare quel che deve...”

“Mia madre mi ha dato fiducia.” gli ricordò Galeazzo: “E io ne do molta a lei. Tornerà. E, nell'attesa, io farò le sue veci.”

Pirovano fece un cenno secco con il capo e poi, guardando Bianca, si raccomandò: “Tenete la cosa per voi il più a lungo possibile, comunque. All'esercito non piacerebbe, pensare di essere stato abbandonato così...”

La Riario annuì e poi, dopo un'ultima occhiata d'intesa, il comandante della cittadella indicò loro la porta.

“Se qualcuno me lo chiedesse, o lo chiedesse a voi – fece presente – stasera siete venuti a cercarmi solo per farmi sapere che domani sono invitato a cena alla rocca.”

I due ragazzi annuirono e poi, più preoccupati di quanto non fossero all'andata, tornarono sui loro passi, raggiungendo Ravaldino con l'andatura lenta e cadenzata di un condannato.

 

Caterina, con a tracolla la bisaccia con l'abito da donna che aveva avuto la lucidità di portare con sé, smontò di sella e legò il suo purosangue appena fuori dalla locanda, davanti all'abbeveratoio, proprio sotto a una delle piccole finestre, in un punto che, sperava, fosse visibile anche dall'interno. Si fidava poco delle osterie così isolate, e non avrebbe sopportato di vedersi rubare il suo stallone preferito.

Con un colpetto sul collo all'animale e la promessa di tornare presto da lui, andò alla porta ed entrò.

L'aria era abbastanza chiusa, ma ai tavoli non c'era nessuno. Probabilmente era molto più tardi di quanto si era aspettata e i pochi avventori erano già saliti a dormire.

Nel camminare sul pavimento di legno, che scricchiolava a ogni passo, la Contessa si guardò attorno, circospetta. Con una mano sull'elsa della spada che portava al fianco, si schiarì la voce e rimase in attesa.

Più si avvicinava al bancone, più un vago profumo di stufato le metteva in subbuglio lo stomaco, così come il sentore del vino le stuzzicava il palato. Quando finalmente vide un uomo profilarsi oltre una porticina che dava sul retro, gli fece un cenno con la mano affinché la notasse.

L'oste rimase spiazzato, nel vederla e la Sforza ne capì anche il motivo. Aveva i capelli bianchi sciolti sulle spalle e indossava brache di lana cruda, un giubbone da uomo e un cinturone con la spada. Malgrado i suoi abiti di foggia maschile, sapeva bene di essere visibilmente riconoscibile come una donna e proprio quel dettaglio doveva aver messo in allarme il locandiere.

“Desiderate..?” chiese, molto perplesso, restando a distanza di sicurezza.

Caterina aveva già deciso in partenza di non fermarsi lì a dormire, ma aveva bisogno di qualcosa da mangiare, se non altro per il suo cavallo e, se possibile, anche per lei. In più voleva comprare un mantello con cappuccio, in caso avesse dovuto affrontare la pioggia, e una coperta per lo stallone.

“Mi serve del cibo per me e qualcosa da dare al mio cavallo.” iniziò a dire, ma capì che l'oste aveva occhi solo per la spada che le vedeva al fianco.

Come per assecondare una richiesta di rassicurazione non scritta, si tolse il cinturone, appoggiandolo a un tavolo e fece, apparentemente disarmata, qualche passo verso il locandiere.

Questi, un uomo grande e grosso, nel vederla avvicinarsi in quel modo, cambiò espressione. La Sforza riconosceva anche troppo bene quello sguardo. Di norma, quando era qualche giovane soldato a dedicarglielo, le faceva anche piacere, anzi, certe notti era il lasciapassare che le permetteva di capire chi le avrebbe detto subito di sì a una richiesta sfacciata.

Ma quella volta gli occhietti improvvisamente famelici dell'oste le misero solo paura. Le ricordavano molto da vicino la cupidigia del suo primo marito, era come se potesse scorgere oltre quelle iridi dal colore banale, i pensieri viscidi, forse addirittura violenti, di quell'uomo.

“Viaggiate sola?” chiese il locandiere, facendosi a sua volta più vicino, le labbra che si sollevavano in un sorriso insinuante: “Senza un marito o un compagno?”

“Non sono affari vostri.” rispose la Tigre, subodorando il pericolo, ma volendo ottenere comunque quel che le serviva: “Datemi del cibo per me e per il mio cavallo.”

Un tuono, abbastanza vicino, ruppe il silenzio teso che si era creato tra lei e l'uomo che aveva davanti. Quel suono improvviso le fece riacquistare presenza a se stessa.

“E vendimi un mantello con il cappuccio. Quello.” indicò una cappa cappucciata appesa a un gancio dietro al bancone: “E una coperta per il mio cavallo.”

“Vendere il mio mantello a una donna vestita da uomo?” rise lui, il volto un po' più rubizzo di prima, facendo ancora un passo.

Le era ormai così vicino che, se avesse allungato una mano, avrebbe potuto toccarla. La Sforza rimpiangeva di aver lasciato la spada tanto lontana da sé e iniziava anche a credere che di avventori non ce ne fossero nemmeno al piano di sopra. In effetti, in un periodo tanto tribolato, era difficile imbattersi in viandanti anche in pieno giorno...

“Aspetta un momento...” fece lui, accigliandosi all'improvviso, mentre la scrutava con maggior impegno: “Non sei mica la Tigre di Forlì, tu..?”

Da un pericolo a cui era abbastanza certa di saper come reagire, la Leonessa si trovò a doverne affrontare uno che, nell'impeto di furia che l'aveva portata a partire, non aveva minimamente calcolato: essere riconosciuta lungo la strada.

“No.” rispose, troppo in fretta.

“La sei invece.” soffiò lui, incredulo: “Porco mondo, ma lo sai quanti soldi ci faccio, se...”

L'oste non riuscì a finire la frase, che la Sforza, rapida, aveva estratto il pugnale da sotto la gamba delle brache e gliel'aveva puntato al collo. Lo teneva fermo in modo abbastanza saldo, una mano che stringeva il collo del suo giubbetto stinto, ma sapeva che la maggior stazza del suo avversario avrebbe potuto fare la differenza, se solo lui non fosse stata preso dal panico come di fatto era.

“Dammi il mantello, la coperta, del vino e della carne per me e della biada per il cavallo.” ordinò, premendo la lama sulla pelle ruvida del locandiere che, pur essendo più alto di lei di quasi una spanna, restava curvo, alla sua mercé: “Muoviti.”

L'uomo, come paralizzato, non appena fu libero afferrò il mantello, cercò sotto il bancone una coperta, prese un fiasco chiuso di vino e mise in una scodella dello stufato: “La... La biada è fuori nella... Nella rimessa.” balbettò.

“La prenderò io.” tagliò corto la donna e, facendolo riavvicinare, restò stupefatta dal potere che riusciva a esercitare con la semplice ostentazione di sicurezza che sapere tenere in piedi.

Non appena ebbe l'oste abbastanza vicino, lo riafferrò per il colletto, tenendolo sempre sotto il suo gioco con il pugnale puntato alla gola e sussurrò: “Fai sapere a qualcuno che sono passata di qui e ti troverai il mio esercito schierato davanti alla tua locanda.”

L'uomo annuì febbrilmente, gli occhi piccoli che si erano fatti grossi il doppio per la paura e le brache chiare che cominciavano a bagnarsi all'altezza del cavallo. Non era la prima volta che Caterina vedeva un uomo farsela addosso per colpa sua e, come in passato, l'unica cosa che provò fu un profondo senso di disgusto. In quel caso, poi, visto ciò che aveva deciso di fare, avrebbe doppiamente preferito essere al cospetto di un uomo più temerario.

Cogliendolo di sorpresa, gli diede una forte ginocchiata all'inguine, avendo appena il sentore del tessuto umido contro cui si era accanita.

Mentre l'oste si accasciava a terra, dolorante e senza fiato, la donna prese in fretta quanto le era stato dato, recuperò la spada e uscì. Nell'aria pesante della sera, fece una scappata nella rimessa, sperando che il locandiere non si fosse ancora ripreso e afferrò una pastoia piena.

Slegò il cavallo, rimontò in sella con un po' di fatica per l'ingombro di tutto quello che portava con sé e con un colpo di tacco ai fianchi lo fece partire di corsa.

Si fermò solo quando fu certa di aver messo tra sé e la locanda abbastanza strada. E poi lo stallone era ormai sfinito e urgeva dargli tregua. Erano vicini alla salita che portava a San Benedetto in Alpe, ma la Sforza non aveva intenzione di andare oltre, per quella sera.

Sapeva i rischi dello stare all'aperto di notte, ma non la preoccupavano. Era abituata a non dormire e avrebbe vegliato finché ci fosse riuscita. Avrebbe così anche avuto modo di riflettere su cosa fare una volta giunta a Firenze.

Lasciò la via principale, spostandosi tra i primi alberi, in modo da essere più protetta da eventuali sbandati. Aveva più paura degli uomini che non degli animali del bosco. Legò il suo cavallo con cura, lo accarezzò e gli mise la pastoia.

Recuperò il fiasco di vino e lo stufato e si riempì lo stomaco. Era poca roba, ma era meglio di nulla.

Quando lo stallone ebbe finito di rifocillarsi, gli promise che al mattino avrebbero cercato un rigagnolo per farlo bere e poi gli mise addosso la coperta. Quando a lei, si sedette contro l'albero a cui aveva legato la sua bestia e, gli occhi rivolti all'oscurità che la circondava, annusò l'aria, lasciandosi trascinare nel passato, alle sue fantasie di bambina, quando, andando a caccia con suo padre prima che sorgesse il sole, tra la nebbia della pianura del Po, o vicino al Ticino, quando si spingevano fin nel pavese, e da lì alle colline che davano un assaggio d'Appennino, si immaginava adulta e con la spada al fianco, al campo militare in attesa dell'attacco dei nemici.

Certo, nei suoi sogni dormire all'addiaccio era molto meno scomodo e il freddo non era così fastidioso, tanto meno gli abiti si impregnavano così facilmente di umidità. Però aggrapparsi a quelle sensazioni di tanti anni prima l'aiutò ad affrontare meglio quella sosta forzata e, mentre il suo stallone finalmente si addormentava, vinto dalla stanchezza, la donna riuscì a ragionare in modo lucido su quello che stava facendo.

 

“Ti ho detto che devi partire prima dell'alba.” disse Galeazzo, fissandosi la punta degli stivali.

Ottaviano, che era diventato furibondo nel momento stesso in cui gli era stato consigliato di restare alla rocca, quella notte, in modo da poter essere più fresco per la prossima partenza verso Imola, lo mandò a quel paese con un gesto della mano: “Nostra madre se lo scorda. Io parto con la luce del sole. Non mi infilerò nei boschi con il buio...”

“Non l'ha deciso nostra madre.” il Riario più giovane aveva deciso di mettere a parte anche il maggiore di quello che stava succedendo e così, non appena Ottaviano era stato rintracciato e riportato a Ravaldino, l'aveva raggiunto in camera.

Quella notte a Galeazzo sembrava infinita e non vedeva l'ora di poter andare a coricarsi per riprendersi un po', ma quel confronto con suo fratello era necessario.

“E chi l'avrebbe deciso, allora?” chiese il più vecchio, corrucciandosi e fissandolo: “Bernardino da Cremona? No, perché se è così, sappia che nostra madre...”

“Nostra madre è andata a Firenze.” lo interruppe Galeazzo: “O almeno, così crediamo, e non sappiamo quando tornerà. Durante la sua assenza, ha deciso che sarò io a prendere il suo posto.”

Il ventenne rimase tanto attonito da restare senza parole per qualche secondo, finché, recuperando la sua consueta aggressività, sbottò: “Figurati se io mi faccio dare ordini da un ragazzino di quattordici anni!”

“O farai come dico o sarò costretto a metterti in custodia.” disse, con durezza il ragazzino.

Ottaviano deglutì. La fermezza del fratello minore l'aveva sorpreso. Sapeva che era mille volte più disciplinato e intelligente di lui e soffriva come un cane nel vederlo esaltare dalla loro madre, che lo elogiava con un orgoglio che il più grande non aveva mai potuto guadagnarsi.

Tuttavia trovava ridicola e paradossale quella situazione: “Nostra madre non può andarsene così e pretendere che... Che senza nessuno a capo dello Stato...”

“Ti ho detto che ha lasciato me, a capo.” ribadì Galeazzo, cominciando a faticare seriamente a tenere i nervi saldi.

“Ha lasciato un bambino? Allora tra i suoi difetti oltre all'amore per il vino e alla lussuria c'è anche la pazzia.” commentò a denti stretti Ottaviano.

“Ascoltami bene, perché non lo ripeterò.” fece il quasi quattordicenne, prendendo fiato: “Nostra madre non c'è e gli ordini li do io finché non torna. Tu partirai con il buio, per tua tutela, e non intendo cambiare idea. Se mi disobbedirai, ti farò isolare nella tua stanza, esattamente come ti è successo quattro anni fa. Non credo che tu ci tenga a ripetere l'esperienza, quindi farai come ti dico.”

Senza aggiungere altro, il Riario più giovane puntò finalmente gli occhi verdi in quelli del fratello e se ne andò.

La freddezza del suo sguardo e la rigidità della sua voce ebbero una presa incredibile in Ottaviano che, attonito, rivide nel fratello gli stessi identici tratti della loro madre e fu certo, senza ombra di dubbio, che anche Galeazzo, come la Tigre, sarebbe stato in grado di far seguire alle parole i fatti.

Perciò, suo malgrado, cominciò a prepararsi i bagagli per il suo breve soggiorno a Imola, convinto che fosse meno pericoloso, a quel punto, affrontare i boschi di notte che non suo fratello.

 
 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas