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Autore: Adeia Di Elferas    01/11/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Ottaviano non era riuscito a chiudere occhio e, mentre finiva di indossare la corazzina che gli era stata caldamente consigliata da Luffo Numai, chiese al soldato che lo stava aiutando: “Lo sapete che mia madre al momento non è in città?”

L'uomo scosse la testa, continuando a stringere i lacci di cuoio del suo signore.

“Non sappiamo quando tornerà – riprese il Riario, benché gli fosse stato ripetuto più e più volte di non parlarne con nessuno – e, durante la sua assenza, ha deciso che sarà mio fratello Galeazzo a sostituirla.”

Siccome il soldato non commentava, Ottaviano, già teso di per sé e molto infastidito dallo scrosciare della pioggia, che sembrava aver deciso di incattivirsi proprio in corrispondenza della sua prevista partenza, fece uno sbuffo.

Pur a mezza bocca, arrivò a chiedere apertamente: “Cosa ne pensate?”

“Del fatto che abbia lasciato momentaneamente il comando in mano di vostro fratello?” domandò, pleonastico, il giovane che, ormai, aveva finito il suo lavoro: “Ebbene, anche se messer Galeazzo è molto giovane, tutti noi lo conosciamo e lo stimiamo. È bravo con le armi, intelligente e giusto. Lo seguiremmo ovunque, anche se vostra madre dovesse non tornare.”

Il Riario, che non aveva affatto ricevuto la risposta sperata, si scansò di malagrazia, fissando con occhi di fuoco l'altro e sbottò: “Ma mio fratello è un bambino! Vi rendete conto che mia madre ha lasciato lo Stato nelle mani di un bambino?!”

“E nelle mani di chi altri avrebbe dovuto lasciarlo?” chiese il soldato, sollevando ironico le sopracciglia: “Nelle vostre?”

L'ilarità del suo intervento era così tangibile che Ottaviano fu sul punto di mettersi a gridare all'insubordinazione, ma tutta la sua furia si spense quando vide entrare in stanza il Capitano Rossetti, che faceva parte della scorta armata che lo avrebbe accompagnato fino a Imola.

“Sarà meglio andare...” disse il forlivese, guardando il figlio della Tigre dall'alto in basso: “Avete preso tutto quello che vi serve? Anche il discorso che vostra madre ha scritto per voi?”

Il Riario avrebbe voluto dire che non ci sarebbe stato alcun bisogno, da parte della Contessa, di scrivergli cosa dovesse ordinare agli imolesi, tuttavia il suono sordo di un tuono affogò definitivamente ogni sua velleità di ribellione: “Sì, ho tutto.” disse solo.

Seguendo Rossetti come se lo stesse portando al patibolo, il ventenne raggiunse il cortiletto, dove il suo cavallo lo stava già aspettando, sotto la pioggia, immerso in un'oscurità che sapeva più di notte fonda che non di primissimo mattino.

Montando in sella con una certa fatica, Ottaviano si strinse nelle spalle, coprendosi la testa con il cappuccio e si guardò alle spalle. Aveva sperato fino all'ultimo che qualcuno, magari sua sorella, arrivasse a salutarlo.

L'unico sguardo che si sentì puntato addosso, però, fu quello di Luffo Numai che, appollaiato a una delle finestre, lo teneva d'occhio al solo scopo di assicurarsi che non si dileguasse, vinto dalla propria codardia, facendo fallire sul nascere quella spedizione.

Affranto non solo per la consapevolezza di essere visto da tutti come un fallito, ma, soprattutto, dalla sensazione di esserlo per davvero, il giovane Riario tornò a guardare davanti a sé e, aspettando che fosse Rossetti a dare l'ordine finale, diede di speroni al suo cavallo e uscì lentamente dal portone della rocca.

 

Avvolta nel mantello con cappuccio che aveva recuperato la sera prima alla locanda, Caterina avanzava lentamente lungo la salita che portava a San Benedetto in Alpe. Il terreno, impregnato di pioggia chissà da quanti giorni, cedeva un po' sotto gli zoccoli del suo stallone nero, ma la donna non aveva intenzione di fermarsi.

La notte aveva appena lasciato il posto al giorno e le sembrava di aver perso già abbastanza tempo per far riposare il suo cavallo. Voleva arrivare a Firenze in fretta e, più ci pensava, più la rabbia che l'aveva convinta a partire così all'improvviso rimontava e l'aggrediva, tentandola di spronare il purosangue ad andare più veloce.

Era così presa da se stessa e dalle recriminazioni silenziose che continuava a fare verso la Signoria, che si rese conto solo all'ultimo di essere arrivata al punto di strada in cui, da quello che le era stato raccontato, era morto Ottaviano Manfredi.

Ricordava tutto di lui. Anche se il più delle volte si affrettava a ricacciare la sua immagine nel fondo della sua anima, al solo scopo di non soffrire più, in realtà non poteva dimenticare quel giovane biondo e irriverente che aveva avuto il potere di riscuoterla. A volte si diceva anche che Pirovano aveva ragione: se il faentino non fosse morto così all'improvviso, forse a Ravaldino ci sarebbe stato ancora lui e non il milanese.

Il monastero di San Benetto, dove le era stato detto che il suo amante aveva voluto fermarsi qualche minuto prima di rimettersi in viaggio, andando incontro al proprio destino, era a poca distanza da lei.

Fu tentata di fare una breve sosta, per dedicare una preghiera al faentino, ma poi si disse che sarebbe stato un gesto inutile e quasi ipocrita. Manfredi era sepolto a Forlì, nella chiesa di San Girolamo, eppure lei non andava mai a sgranare un rosario sui suoi resti. Che senso avrebbe avuto farlo lì?

Tuttavia, man mano che proseguiva, sempre più stretta nelle spalle mentre dal cielo cominciava a cadere qualche goccia sottile di fredda pioggia, la donna si guardò attorno con maggior interesse, suggestionandosi più di quanto avrebbe voluto.

Nelle piante che costeggiavano la strada, facendosi sempre più fitte via via che la salita diventava più ripida, poteva quasi scorgere il profilo degli assassini di Ottaviano. Si figurò il bel giovane trafitto e gettato in terra, colpito con ferocia e poi abbandonato.

In un lampo le parve di poter figurarsi anche Fortunati, con le sue spalle dritte e il suo volto serio, che si chinava sul suo compagno di viaggio, terrorizzato e attonito, incapace di far altro se non dargli il sollievo di un'ultima confessione.

Il nero denso delle nubi si addensava di continuo sulle montagne. Di quel passo, sarebbe venuto scuro molto prima del calare della sera.

Caterina, dando un'ultima occhiata cupa alla strada che aveva visto la fine di un uomo come Manfredi, diede di speroni al suo stallone e gli sussurrò: “Andiamo. Non voglio restare bloccata sugli Appennini. Saremo in vista di Firenze prima di sera.”

E, nitrendo come se avesse capito alla perfezione le parole della sua padrona e fosse completamente d'accordo, la bestia accelerò il passo, incurante del terreno incerto e ripido.

Si stava già impegnando nella salita che l'avrebbe portata al tratto più difficile e pericoloso della sua traversata, quando la Sforza venne attraversata da un altro pensiero. Non solo Manfredi era passato di lì, ma anche Giovanni, l'ultima volta che era andato a Firenze e poi quando era tornato a casa da lei, a Forlì.

Immaginarselo, nelle sue condizioni, impegnato ad affrontare un simile percorso la rattristò ancora di più e poi, quando le prime timide gocce di pioggia lasciavano il posto a uno scrosciare molto più intenso e fastidioso, la tristezza lasciò il posto alla rabbia.

Il sonno, la fatica e il dolore l'avevano riaccesa di collera. Era la stessa miccia che l'aveva fatta partire dalla rocca senza farsi domande. Più avanzava più sapeva che Firenze si avvicinava e, in parallelo, anche la sua ricerca della verità. Voleva sapere quanto Lorenzo si fosse spinto in là pur di danneggiarla e sarebbe tornata in Romagna solo quando avesse avuto una risposta, fosse stato necessario anche entrare al palazzo della Signoria a cavallo e andare a sbattere i pugni sulla scrivania del Gonfaloniere. Lei e la Repubblica avevano un accordo e un'alleanza. Se i fiorentini avevano deciso di rompere entrambi, allora dovevano avere il coraggio di dirglielo. E se qualcuno le avesse dato della pazza, per quello che stava facendo, non le sarebbe importato: doveva essere sicura di chi stava con lei e chi contro di lei.

 

Ottaviano teneva lo sguardo basso. Sapeva che la stragrande maggioranza delle persone che lo stavano fissando non l'avevano mai visto, o, se l'avevano visto, se lo ricordavano bambino.

Radunare il Consiglio generale della città era stato molto facile, per il Governatore Corradini, che, dopo aver fatto la convocazione ufficiale con solo un'ora d'anticipo rispetto alla riunione, aveva spiegato quanto gli imolesi sapessero dimostrarsi malleabili e comprensivi, se si sapeva come prenderli.

Il Riario ne era rimasto ben impressionato, sentendosi subito più tranquillo, ma comunque, desideroso di chiudere in fretta tutta quella questione e tornarsene a casa. Avrebbe voluto, prima, passare un attimo sulla tomba di suo padre. Di rado si soffermava a ripensare a lui, ma dal momento stesso in cui aveva visto in lontananza le mura di Imola, il desiderio di stare qualche minuto vicino ai suoi resti si era fatto sentire.

Però aveva preferito differire la cosa a un secondo momento, ragionando su quanto fosse meglio prima occuparsi delle incombenze sgradevoli e, solo dopo, di ciò che gli interessava davvero.

In piedi davanti a una buona fetta della popolazione, Ottaviano sentiva le mani sudate e le guance roventi. Benché fosse meno imbarazzante che trovarsi davanti ai forlivesi, anche gli imolesi lo mettevano in soggezione.

Mentre si schiariva la voce, per cominciare il suo discorso, il giovane si rammaricò molto di non averlo imparato a memoria e di doverlo, invece, leggere dalla grafia nervosa e spezzata di sua madre, che gli trasmetteva in egual misura sicurezza, perché sapeva che quelle erano esattamente le parole che avrebbe usato lei, e senso di inadeguatezza, perché era cosciente del fatto che lui, al contrario della Tigre, non avrebbe mai avuto il coraggio di esprimersi personalmente in modo tanto franco: “Carissimi miei imolesi – lesse, catturando subito la loro attenzione e guadagnandosi il loro silenzio – Parecchie fiate sono venuto da voi indotto dall'amore che vi porto, e che vi porta anche Madama Caterina mia madre, e che vi portò mio padre mentre fu vostro signore, ma ora la sola avversità dei tempi mi ci ha condotto.”

Quell'incipit venne accolto senza reazioni degne di note. Anche se molti sapevano bene che in realtà il giovane Riario era stato a Imola ben poche volte, e, perlopiù, da piccolo, nessuno parve trovare sconveniente quella che, alla fin fine, era solo un'esternazione di vicinanza.

“Il pontefice vuol levarci i nostri Stati e darli a un suo figliuolo.” riprese il Riario, cercando con tutto se stesso di non far calare la voce, dato che, quella volta, non c'era nessun Auditore pronto a sostituirlo al bisogno: “Le prime sue vedute sono di levarci questa città, che come sapete parte fu dote di mia madre, e parte du comprata da mio padre con quarantamila ducati.”

Qualcuno, tra la folla, annuì e Ottaviano, che colse quei brevi moti d'assenso, trovò uno sprazzo di coraggio e, dopo aver deglutito, continuò, con maggior fermezza.

“Ci accusa – spiegò – che non abbiamo pagati i censi, ovvero annui canoni, eppure abbiamo mandato a Roma persona riguardevole, che saldi ogni conto, e a tutto soddisfaccia, e per aver motivo di coprire i suoi fatti, non ammette i conti nostri giustissimi, e però il suo Camerlengo ci ha dichiarati dai nostri Stati decaduti.”

Forte dell'apparente consenso facile che stava riscuotendo, il figlio della Tigre continuò a leggere, toccando più o meno i medesimi punti già affrontati a Forlì, sottolineando come fosse proprio il figlio del papa il maggior fautore di quell'ingiusta guerra, e di come l'unico scopo non fosse riportare la legge e aver ripagato un debito, ma bensì creare uno Stato per il giovane Borja a scapito di chi avrebbe avuto invece diritto di restare sul proprio trono.

Da lì, non sollevando più gli occhi dalla pagina, assicurò a tutti che era proprio per un senso di giustizia che sua madre sarebbe rimasta a combattere fino all'ultimo respiro, sostenuta dalla speranza di trovarsi contro un esercito meno numeroso di quanto predetto e confidando nell'aiuto di Dio, che di certo avrebbe appoggiato loro, che erano innocenti, e non gli oppressori che andavano per derubarli.

“Non vogliate lasciar fallite le speranze sue, né le mie – incitò il Riario, rendendosi conto in quel momento di quanto la Leonessa di Romagna fosse stata abile nell'unire la propria immagine alla sua, rendendolo in qualche modo partecipe, se non addirittura complice, di richieste che sembravano consigli, ma che in realtà erano ordini – né sia mai che per colpa vostra insorga in noi pentimento dell'amore e dei servigi che abbiamo gradito sempre di compartirvi...”

Mentre continuava nei panegirici che volevano imbrigliare in modo definitivo gli imolesi, rendendoli non solo riconoscenti, ma proprio debitori verso i loro padroni, il Riario si chiese a cosa sarebbe servito tutto quel teatrino. Era andato lì con ordini precisi e se da un lato avrebbe annunciato il mantenimento dell'abolizione dei dazi sul pesato e sulla beccaria, dall'altro avrebbe dovuto dare disposizioni circa l'ingresso forzato in città dei contadini, della tagliata a un miglio e, cosa forse ancor più pesante, decretare in modo categorico che chi non fosse stato disposto a combattere per la Sforza, poteva considerarsi un uomo morto. Non per mano della Tigre, quello era chiaro, ma sicuramente per mano francese, perché chi non avesse atteso alle disposizioni della Contessa, sarebbe stato lasciato fuori da Imola, alla mercé di chiunque.

“Io da questo punto cancello fra voi ogni gabella, e ogni dazio, e per quanto si aspetta a rifare checché si sia al bisogno o a provvedervi di ciò che sia stimato opportuno alla difesa – concluse Ottaviano, tirando un silenzioso sospiro di sollievo nel vedere che ormai era arrivato in fondo alla pagina – non vi sarà altra regola che la vostra proposta, ben sicuri che per parte mia io col consiglio dei miei Ufficiali farò tutto di presente eseguire.”

Arrivò a quel punto il momento di sentire la reazione degli imolesi. Dapprima i presenti si confrontarono tra loro, all'inizio con toni distesi, poi sempre più concitatamente.

Lucrezia Feo, mescolata assieme agli altri, in fondo al salone, ascoltava tutti, senza dire nulla. Era stata lei a convincere Simone a restare a casa. Non che avesse paura per lui, ma era certa che il Conte Riario e chiunque l'avesse accompagnato fino lì, avrebbe riconosciuto più facilmente l'ex Governatore Ridolfi che non lei. Siccome riteneva la cautela l'unica qualità veramente degna di nota, aveva preferito perseguirla anche in quel momento.

Quella convocazione straordinaria della cittadinanza l'aveva messa fin da subito in guardia e ciò che si stava decidendo, in effetti, la riguardava molto da vicino. Lei e il marito non avevano ancora scelto la via da seguire, ma, a quel punto, capire da che parte propendesse la città era fondamentale, specie se fosse stato vero quel che si diceva circa l'ordine di lasciare il contado al momento dell'arriva dei francesi.

Ottaviano cominciava a innervosirsi di nuovo. Si era aspettato una risoluzione molto rapida, da parte della cittadinanza. Il modo attento e rilassato in cui era stato ascoltato l'aveva illuso di potersela cavare facilmente.

Sotto lo sguardo attento di Corradini e di Dionigi Naldi, il Riario si sentiva come uno studente sotto interrogazione. Avrebbe voluto reclamare il silenzio e interpellare il rappresentante degli imolesi, chiedendogli una risposta immediata, ma sapeva che non poteva. E poi, anche se avesse potuto, non ne avrebbe mai avuto il coraggio.

“Ringraziamo le loro Signorie.” disse a un certo punto un membro del Consiglio degli Anziani, che era stato frettolosamente eletto portavoce di tutti: “Ma in cambio delle esenzioni, noi crediamo che sarebbe più utile ai fini della difesa dello stato, far ritornare in città i fuoriusciti.”

Preso dal panico – perché una simile variazione del programma non era affatto prevista – il figlio della Tigre guardò dapprima il Governatore e poi il Capitano Naldi, in cerca del loro aiuto. Nessuno di loro, però, pareva intenzionato a spalleggiarlo, nemmeno con un'occhiata di incoraggiamento.

“Io...” balbettò Ottaviano, accorgendosi dell'attesa spasmodica del suo interlocutore: “Io... Io... Io ecco, credo che ciò sia facile a concedersi... Ma... Ma non oso accordarlo, senza che mia madre ne sia informata.”

Non appena ebbe finito la sua claudicante frase, il Riario comprese il suo colossale errore. Forse era vero che gli imolesi volevano il ritorno dei fuoriusciti, ma in quel momento gli sembrava che la loro richiesta fosse stata più che altro un banco di prova proprio per lui.

Il modo in cui il portavoce si voltò verso gli altri, il chiacchiericcio che ne seguì e le tante teste scosse lo fece rabbrividire. Con poche parole incerte, era riuscito a smantellare tutta l'impalcatura che sua madre si era premurata di costruire per lui nel suo discorso. Nell'arco di una frase appena, aveva reso noto a tutti quanto lui fosse un mero fantoccio, un'emanazione del potere di sua madre, impossibilitato a prendere decisioni e dare ordini, come, invece, avrebbe dovuto fare.

E non solo. Capire che la Leonessa aveva mandato un pupazzo a parlare con loro, sicura di non dover apportare la minima variazione alle sue decisioni, sembrava aver colpito nel profondo l'orgoglio di Imola.

“Promettiamo allora ogni sforzo – fece il portavoce, rigirandosi con un sorriso di circostanza che non arrivava fino agli occhi – per mantenere la città, solo... Se le circostanze si dimostrassero essere temerarie o lo sforzo inutile... Ebbene, non crediamo in tal caso sia opportuno doverci precipitare in saccheggi, distruzioni e morti.”

Il messaggio era fin troppo chiaro, tanto che sia Corradini, sia Naldi, istintivamente, si allargarono con due dita il colletto del giubbone. Solo Ottaviano sembrava rincuorato da quelle parole.

Ringraziò la popolazione, assicurando che avrebbe portato le loro richieste a sua madre e che avrebbe fatto sì che venissero esaudite.

Quando la folla si diradò, e il Riario rimase solo con i fedeli di sua madre, fu Corradini il primo a perdere la pazienza: “Ma diamine vi è saltato per la mente?!” sbottò.

Il Riario, sinceramente sorpreso da quello scatto, sollevò le sopracciglia e chiese: “Come?”

“Dovevate accettare o rifiutare. Subito! Non dire che dovevate dirlo a vostra madre!” la voce del Governatore rimbombava nelle orecchie di Ottaviano come un colpo di cannone.

Sapeva di avere sbagliato, ne aveva avuto il chiaro sentore, e adesso ne aveva la conferma.

Tuttavia, in presenza non solo di Corradini e Naldi, ma anche del Cagnaccio e si altri uomini importanti, non poteva certo ammettere pubblicamente il proprio errore: “Ho fatto quel che era giusto.” ribatté, spostandosi una ciocca di capelli lunghi e arricciati che gli era finita davanti al viso pallido e smunto: “E non sta a voi gridarmi contro.”

“Ah, giusto, solo vostra madre può farlo!” continuò il Governatore, ormai fuori di sé.

Corradini aveva imparato in fretta a conoscere gli imolesi e sapeva che, così come era facile accattivarsi la loro simpatia e guadagnarsene la fedeltà, così era altrettanto semplicissimo perdere entrambe le cose, e temeva che il figlio della Contessa avesse appena tagliato l'esile filo che ancora collegava Imola alla loro signora.

“Non vi permetto di..!” cominciò a dire il Riario, diventando paonazzo, sconcertato più dall'immobilità degli altri presenti che non dall'attacco subito in sé.

Mentre il Governatore sollevava una mano per mandarlo a quel paese e se ne andavo borbottando insulti e recriminazioni, Dionigi Naldi cercò di placare Ottaviano e al contempo di farlo ragionare sul da farsi: “Io credo – gli disse, prendendolo per un braccio, nel caso ci fosse stato bisogno di trattenerlo – che fareste a tornare subito a Forlì e riferire ogni cosa alla Contessa.”

Il giovane, improvvisamente pietrificato, non disse nulla. Il Capitano, che aveva sempre ritenuto il figlio della Sforza un inetto e basta, si accigliò, capendo che in quel suo irrigidirsi c'era qualcosa che non quadrava. In seguito a un consiglio simile, infatti, si sarebbe atteso di vedere il Riario annuire febbrilmente e assicurare che sarebbe ripartito all'istante, se non altro per scappare dagli imolesi.

E invece se ne restava immobile, per qualche motivo restio a fare quello che gli era stato suggerito.

“No.” arrivò addirittura a dire il ventenne, gli occhi confusi che cercavano una via d'uscita da quello che doveva sembrargli un labirinto: “No... No, prima di ripartire per Forlì, ho il compito di assicurarmi che le porte che dovevano essere murate vengano chiuse davvero.”

Gli era costato tanto, mentire così. Non perché dire il falso fosse per lui un grosso problema, quanto per il terrore di essere scoperto.

Il fatto era che non poteva tornare a casa, sapendo che sua madre non c'era, e far aspettare chissà per quanto gli imolesi, che pretendevano una pronta risposta. Che altro poteva fare, se non prendere tempo, restando lì e andando a Forlì il più tardi possibile, nella speranze che, intanto, la Tigre rinsavisse e tornasse?

Dionigi, che si era convinto di avere una linea preferenziale di dialogo con la Sforza, fu sorpreso da quell'affermazione, che cozzava con l'ultima lettera che la Contessa gli aveva mandato. Però sapeva anche che quella donna era quanto di più insondabile esistesse, quindi accettò quella spiegazione, che tutto sommato era sensata, senza fare domande.

“Almeno, intanto scrivetele...” propose, ancora senza lasciar andare il braccio del Riario: “Così...”

“No.” si oppose di nuovo Ottaviano, con maggior sicurezza: “Son cose da discutere di persona, non per lettera.” e detto ciò, dedicò uno sguardo un po' sfuggente a tutti i presenti e poi chiamò a sé il Capitano Rossetti.

Seguendo in silenzio il suo signore fino alla porta, l'uomo, una volta che furono all'aperto, domandò: “Non sarebbe stato più saggio fare come consigliava il Capitano Naldi?”

Il giovane scosse il capo e poi, quando si rese conto di non conoscere abbastanza le vie di Imola per orientarsi, chiese al soldato che l'accompagnava: “Voi sapete da che parte è la cattedrale di San Cassiano?”

Siccome Rossetti non aveva la minima idea di dove fosse, chiese al Riario di aspettare un istante e, avvicinandosi ai banchi dei mercanti che affollavano la piazza, domandò loro la direzione giusta.

“Là, nel convento dell'Osservanza, sta sepolta Madonna Bianca – spiegò una donna che stava comprando delle stoffe, dopo aver indicato la via più breve – e anche sua madre, Madonna Lucrezia.”

Il Capitano, trovando quella precisazione dirimente riguardo i motivi per cui Ottaviano doveva voler vedere quella cattedrale, tornò dal suo signore e lo accompagnò a destinazione, camminando svelto sul terreno ancora impregnato dalla recente pioggia.

“Volevate venire sulla tomba di vostra zia e vostra nonna...” commentò Rossetti, quando furono davanti a San Cassiano, la voce impregnata di comprensione verso un giovane uomo che per tanti motivi a lui sembrava solo un bambino spaventato.

“No.” lo liquidò lui, facendogli segno di non seguirlo.

Con passo lento, ma senza mai fermarsi, Ottaviano varcò l'ingresso della cattedrale. Era immersa nel silenzio e c'era un odore strano. Un misto di petricore e sentore di incenso, qualcosa che smosse nel profondo il Riario.

Lasciandosi guidare più dall'istinto che da qualunque altra cosa, arrivò alla cappella dei Riario. La lapide di suo padre era davanti ai suoi occhi. Sapeva che era stata sua madre a volerla così e a decidere cosa scriverci e proprio per quello preferì non leggere nemmeno una lettera di quanto era inciso sulla pietra.

Che fossero state sperticate e ipocrite lodi e uno scarno resoconto dei titoli che Girolamo Riario aveva accumulato in vita, a Ottaviano non importavano.

Sentiva i passi cadenzati di un paio di preti che stavano camminando nella navata opposta, ma di loro non gliene importava nulla. Si sentiva impaurito, confuso e solo. Così solo da faticare quasi a respirare.

Posò una mano sulla pietra tombale, avvertendo un senso di irrealtà al pensiero che i resti di suo padre giacessero là dietro. Ricordava sempre meno di lui, ma non poteva dimenticarlo. La sua morte aveva segnato nella sua anima un solco netto, un punto di non ritorno che, più nel male che nel bene, aveva fatto di lui ciò che era.

Iniziando a piangere a dirotto senza accorgersene quasi, il Riario si piegò in avanti e si sforzò di pregare, ma più restava fermo con l'aria stantia di quella chiesa che gli pizzicava il naso, più sentiva il rancore e l'odio montare dentro di sé. Ed erano sentimenti distruttivi e incoercibili, rivolti in egual misura a se stesso, a suo padre e, inevitabilmente, anche a sua madre.

Non sapeva dire quanto tempo fosse passato, da che era entrato, ma quando finalmente riuscì a smettere di singhiozzare, e uscì di nuovo all'aperto, pioveva così tanto e c'erano nuvole così fitte e scure da fare sembrare che sulla città fosse scesa una notte infinita.

 

Caterina tossì un paio di volte. Faceva freddo, aveva abbastanza fame, e si sentiva bagnata fino all'osso. Aveva preso più pioggia quel giorno che in tutta la sua vita. Il mantello con cappuccio che portava ormai non serviva più a nulla, anzi, peggiorava la sensazione di umidità che provava.

Era tardo pomeriggio. Firenze era ancora lontana. Il suo stallone era stato comunque formidabile e anche in quel momento, mentre lo convinceva quasi a fatica a rallentare un po', dava l'impressione di non essere neppure stanco.

Caterina aveva sperato di essere più rapida, ma ormai sapeva che il buio l'avrebbe colta troppo distante dalla città a cui diretta e quindi doveva fermarsi.

Attraversare gli Appennini l'aveva fiaccata e non poco, e doveva asciugarsi. La strada era quasi deserta, ma si cominciava a incontrare qualche piccolo villaggio e la sensazione di pericolo che aveva avvertito all'inizio del suo viaggio era molto attenuata.

Così, quando intravide una locanda dall'aspetto rassicurante, da cui arrivava un allegro vociare e una luce intensa e calda, decise di fermarsi.

Entrò con attenzione, il cappuccio calato sul viso e raggiunse il bancone dell'oste: “Mi serve un riparo per il cavallo e una stanza per la notte.” gli disse.

L'uomo, che aveva all'incirca una cinquantina d'anni, si accorse subito di avere a che fare con una donna, ma le sue iridi castane erano molto più sveglie e molto meno lascive di quelle del locandiere in cui la Tigre si era imbattuta appena il giorno prima.

“Qual è il cavallo?” chiese l'uomo, guardando verso la finestra più vicina, nella speranza di scorgerlo già da lì.

“Il purosangue.” fece la Sforza, e, trovandosi a temere per la propria bestia, prese una moneta dalla bisaccia e gliela porse: “Voglio che domattina sia ancora qui e vivo.”

L'oste annuì, facendo subito sparire il soldo. Fece un fischio e un ragazzetto che stava servendo ai tavoli accorse da lui. L'uomo gli spiegò che fare con il cavallo e poi assicuro di nuovo alla Contessa che non ci sarebbero stati problemi.

“Voglio una stanza tranquilla.” continuò allora la Leonessa: “E che mi porti di sopra qualcosa da mangiare e da bere.”

Il locandiere lanciò uno sguardo significativo alla sala piena di uomini che ridevano e divoravano grossi piatti di carne e di zuppa. Stava già per dirle che quella non era un'osteria di lusso, che se voleva mangiare doveva mettersi a un tavolo come tutti gli altri, e che le stanze probabilmente erano già tutte occupate, ma la Sforza lo anticipò.

Gli mise in mano una moneta d'oro e gli soffiò: “Per il cibo, la stanza e il tuo silenzio.”

A quel punto, istintivamente, l'oste abbassò gli occhi verso il denaro e si accorse subito di un fatto strano. Stando vicino alle montagne, non era insolito che qualche viandante lo pagasse con soldi diversi dai fiorini di Firenze, ma quella coincidenza gli fece scattare una molla.

“Siete la Tigre di Forlì?” domandò, quasi senza voce, confrontando il profilo inciso sul l'oro e quello della donna in carne ossa che aveva davanti.

“Cibo, stanza, silenzio.” ribadì lei, che non desiderava altro, a quel punto, che potersi cambiare e riposare per qualche ora.

“Va bene, va bene...” si affrettò ad accettare lui, nascondendo la moneta nella tasca interna del giustacuore e prendendo una chiave da sotto il bancone: “Salite le scale, la prima porta a sinistra, la stanza migliore che ho. Tra poco vi mando mio figlio con la cena.”

“Fa piacere avere a che fare con qualcuno di intelligente, ogni tanto.” si lasciò scappare la Contessa, con un sorriso d'approvazione.

 
 
   
 
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