«Edward». La
voce mi uscii flebile e molto roca, quasi
afona. Era la prima parola che dicevo da chissà quanto tempo.
Passarono alcuni interminabili
istanti di sospensione
nel silenzio. Probabilmente non mi aveva sentita. Meglio
così, inutile illudersi…
Ma mi sbagliavo. Perché
lui, e solo lui, mi sentì.
Comparve davanti ai miei occhi, con
una strana
espressione spiritata in viso.
«B…Bella…» ansimò
dopo un attimo «Tu… tu mi
hai…chiamato?».
Non sapevo se rispondere, forse
avevo fatto
semplicemente uno sbaglio, non potevo davvero concedermi tutto quello.
Vidi il suo sguardo incupirsi pian
piano e la speranza
abbandonarlo nuovamente.
Non ce la facevo a sapere di essere
la causa del suo
male. Volevo solo un po’ di pace e riposo, tutto qui, non mi
sarei concessa
altro.
Annuii, vedendo Edward rianimarsi
di riflesso.
«Hai bisogno di qualcosa,
c’è qualche problema amore?
Dimmi, tutto quello che vuoi» chiese su di giri. In quel
momento, se gli avessi
chiesto di fare una qualsiasi impresa titanica, l’avrebbe
portata sicuramente a
termine.
Potevo davvero concedermi di
provare gioia per quella
felicità che gli stavo dando? Sospirai.
Edward si inginocchiò
accanto a me, a terra, per
trovarsi con il viso alla mia stessa altezza. I suoi occhi onice si
facevano sempre
più luccicanti e scrutavano i miei come se stessero
contemplando un tesoro
prezioso.
Sentivo i miei, invece, farsi
sempre più pesanti.
Lottai contro la stanchezza, non volevo rivivere quei terribili incubi.
«Che hai
tesoro?» mi chiese dolcemente Edward,
scrutandomi dentro.
Potevo veramente permettermi di
farlo felice? Respirai
lentamente, indecisa e tremante. Abbassai lo sguardo. Volevo dormire.
Notai che aveva posato una mano sul
materasso.
«Bella…» mi richiamò ancora,
sofferente.
Sollevai il viso, frustrata e
stanca. «… sonno…»
biascicai flebilmente.
Quando ascoltò la mia
voce fu come se fosse tornato
nuovamente in vita. «Hai sonno? Non riesci a
dormire?».
Scossi il capo in segno di diniego,
facendo scendere
delle lacrime silenziose lungo le guance al ricordo degli ultimi incubi
vissuti.
«Ehi, piccola…
angioletto…» mormorò dolcemente.
Sussultai. Quanto tempo che non lo
sentivo chiamarmi
così…
«Su non piangere amore,
ora sistemiamo tutto, te lo
prometto…» mi disse sorridendomi rassicurante. Si
guardò intorno, come in cerca
di qualcosa o qualcuno che potesse aiutarmi. Poi si bloccò,
ritornando a
guardarmi. «Carlisle ti ha prescritto dei sonniferi, vedrai
che dopo starai
meglio. Va bene amore?».
Mi asciugai le lacrime e annuii.
Volevo solo stare
meglio.
Lui mi sorrise, contento.
«Ti chiamo Carlisle…».
Sussultai.
Edward si bloccò notando
la mia reazione. «Non… non
vuoi Carlisle?».
Scossi il capo.
Lui sospirò, non facendo
però scomparire il suo
entusiasmo. «Allora… ti chiamo Rosalie, va
bene?».
Scossi ancora il capo e decisi di
agire. Solo per la
sua felicità. Non sapevo a cosa mi avrebbero portato le mie
azioni ma volevo
solo vivere quel momento e donare felicità al mio amore.
Lentamente, allungai
la mia mano sul materasso. Tremava, lo sentivo. Piano, facendola
scorrere lungo
le lenzuola morbide la feci giungere accanto alla sua. Risollevai lo
sguardo su
Edward, che intanto faceva scorrere lo sguardo dalle nostre mani al mio
volto.
Era commosso.
«Io?» mi chiese con voce tremante.
Annuii, lentamente.
«Ma…»
deglutì «ma io non… non sono bravo come
Carlisle… forse lui sarebbe
più…».
Scossi la testa, interrompendolo.
Presi un
profondissimo respiro. Avvicinai lentamente la mia mano alla sua,
guardandolo
sempre fisso negli occhi.
Poi successe. Lo
sfiorai. Durò solo un attimo, perché mi
ritrassi immediatamente, ma
quell’attimo durò quanto
un’eternità. Quel piccolissimo contatto, freddo,
fu
come una potentissima scossa che ci pervase da corpo a corpo con una
potenza
inaudita.
Edward mi fissò negli
occhi, annaspando. «V…va bene»
disse con voce tremante d’euforia, quando si riprese.
Mentre scompariva dalla mia visuale
mi rannicchiai su
me stessa. Avevo adempito al mio compito, l’avevo reso
felice. Ora volevo solo
dormire. Respirai lentamente finché, sempre più,
fui avvolta da una nuvola di
torpore. Chiusi gli occhi, scivolando in un quieto dormiveglia.
Improvvisamente mi sentii pungere
un braccio.
Sussultai spaventata e non potei far nulla per tentare di contenere le
lacrime.
Ancora una volta i fantasmi del mio
recente passato
tornavano a tormentarmi. Jacob. L’ago nel braccio. Il mio
corpo inerme. La mia
impotenza. La mia pelle esposta ai suoi occhi. Le immagini si
presentarono come
flash bruschi e improvvisi.
Con il fiato corto scattai in
piedi.
Edward mi fissava spaventato,
spaesato. «Scusami… Non
volevo spaventarti…».
Tremando, camminai
all’indietro, impaurita.
Con lentezza e gesti misurati,
posò la siringa ancora
intatta sul copriletto, e tenendo le mani sollevate a
mezz’aria iniziò a
camminare verso di me. Non c’era più la gioia che
solo pochi istanti addietro
aveva albergato in lui. Il suo dolore sembrava più profondo
di prima. E questo
io lo sapevo, l’avevo sempre saputo. Tutto ciò che
avevo fatto era solo servito
a farlo versare maggiormente nello sconforto. Inutile, non
c’erano vie
d’uscita.
«Ahh!»
fremetti, spaventata,
crollando a terra, la schiena contro il muro.
Ne ero certa, più che
sicura: qualcosa di bollente mi
aveva toccato.
Edward si materializzò
davanti ai miei occhi. «Tesoro,
Bella, calmati» mi sorrise forzatamente «guarda,
era solo il radiatore» mi
disse, indicando con lo sguardo un punto alla mia destra.
Mi voltai piano, ansante, e mi
accorsi che era proprio
come diceva. Quando con lo sguardo ritornai su di lui, aveva un sorriso
rassicurante.
«Visto amore?».
Mi stava parlando con calma e
lentezza, proprio come se stesse parlando con una pazza.
Forse… Jacob aveva
ragione. Dopotutto l’aveva detto
anche Carlisle… Tutti pensavano che io fossi pazza, ma non
era, non era così.
Mi dondolai su me stessa,
stringendomi le braccia al
petto. «Non sono pazza…» farfugliai
sconnessamente.
Edward sussultò, poi mi
rassicurò svelto «Nessuno
pensa questo Bella, davvero…».
Lo fissai ancora negli occhi,
attraverso le lacrime.
Io volevo solo Edward, volevo solo riabbracciare mio marito, come se
niente
fosse successo… perché non potevo farlo,
perché?! Volevo cancellare il senso di
sporco, di macchiato, che provavo sul mio corpo. Volevo toglierlo,
rimuoverlo
per sempre…
«Bella, non fare
così, ti prego» m’implorò
Edward.
Non capii di cosa stesse parlando.
I suoi occhi erano pieni di dolore
e angoscia «Ti
prego Bella, smettila, ti stai facendo male!».
Mi accorsi solo in
quell’istante che le mie unghie
graffiavano contro i miei avambracci. Volevo solo cancellare lo sporco,
volevo
toglierlo…
«Basta, basta!»
esclamò ansioso e terrorizzato.
Non lo ascoltai e penetrai nella
mia stessa carne con
maggior forza.
Ciò che avvenne dopo mi
lasciò completamente senza
fiato.
Edward mi aveva presa per i polsi e
bloccata contro il
muro, sollevandomi.
Ansimai, affannosamente. Una volta,
lentamente. Due
volte, graffiando con il fiato la gola. Tre volte, tremando nel
tentativo di
far passare il respiro. Sentivo le mie pupille dilatarsi e perdersi
sempre più
nell’immensità nera degli occhi di Edward.
Riuscii a ritrovare la voce per
urlare a squarciagola.
Inclinai il capo all’indietro, cominciando a dimenarmi come
un’ossessa. Quello
per me significava rivivere le più orrende sensazioni mai
provate in tutta una
vita.
Non mi curai del suono della porta
che sbatteva, né
delle voci concitate che esclamavano il mio nome tentando di calmarmi.
Gridavo. Gridavo e mi dimenavo.
«Carlisle, sul
letto!» esclamò Edward, che ancora non
aveva mollato la presa sui miei polsi.
«Jasper!» era
la voce di Carlisle, era vicino.
«No… non ci
posso fare niente… C’è
sangue… scusate
devo uscire…».
«Vai!»
urlò Edward, a pochi centimetri dal mio viso.
Spalancai gli occhi. Vedevo solo
Carlisle e Edward.
Respiravo affannosamente e non avevo smesso di agitarmi.
«Calma Bella, calma.
Adesso ti lascio, promesso» mi
disse Edward, sofferente, ma determinato.
«Tienila ferma»
gli disse Carlisle, avvicinandosi con
la siringa in mano.
Edward prese un mio braccio e lo
allungò in
orizzontale, bloccandolo contro il muro.
Cacciai un gemito quando vidi
l’ago infilarsi nella
vena.
«Shh,
shh,
è tutto finito amore, calmati…» mi
sussurrò.
Sentii i miei strattoni farsi
sempre più deboli,
mentre le forze abbandonavano tutti i miei muscoli. Infine, abbandonai
completamente il mio corpo.
Edward lasciò la presa
suoi miei polsi e caddi
stremata sul suo petto ghiacciato.
Fu come vedere tutta la scena al
rallentatore. Il mio
corpo che si avvicinava al suo, il suono del rimbalzo contro di lui, la
mia
testa che si appoggiava sulla sua spalla.
Petto contro petto. Pelle contro
pelle. Cuore contro
cuore. Caldo contro freddo.
In quell’istante capii.
Era lì che volevo essere, e
nulla più avrebbe importato. Era lì che volevo
essere. Fra le sue braccia.
«Ti amo»
biascicai al suo orecchio, prima di perdere
completamente i sensi.
Sentivo un odore fastidioso
bruciarmi il naso. Come…
alcool. La mia mente era annebbiata, confusa, eppure dentro di me avevo
un’unica consapevolezza: volevo Edward con me.
Sbattei le palpebre, piano, per
riadattare gli occhi
alla luce. Lo cercai velocemente con lo sguardo, ma non c’era.
Davanti a me Rosalie mi fissava con
un’espressione
severa e determinata. «Basta Bella, ti prego.
Basta» mi disse dopo pochi
istanti, con decisione. «Dobbiamo fare un passo
avanti».
Rabbrividii. Mi guardai ancora
intorno alla ricerca di
Edward. Un passo avanti, volevo fare un passo avanti verso di lui,
credevo.
Rosalie notò facilmente
che lo stavo cercando.
Avvicinò una mano per sfiorarmi e mi ritrassi, sibilando,
come scottata. La sua
espressione si fece ancor più irremovibile. «Non
c’è. Non verrà, non per ora.
Prima mi dovrai dire alcune cose, parleremo di quello che è
successo, e ti
aiuterò».
Sussultai, colpita, sentendomi
braccata. Il cuore
prese a battermi più veloce, e l’angoscia per la
mancanza di Edward mi sembrò
troppo familiare a quella di un recente passato.
«Bella» mi
richiamò ancora, sporgendosi verso di me.
Feci pressione sulle braccia per
sollevarmi e mettermi
seduta e fui colpita da delle fitte. Gemetti.
«Ferma, ti aiuto
io» mi disse Rose dolcemente,
sistemandomi il cuscino dietro la schiena e aiutandomi a mettermi
seduta.
«Guarda cosa ti sei fatta» mi rimproverò
indicando gli avambracci bendati. Poi
sollevò ancora lo sguardo su di me, scrutandomi.
«Mi dici cos’è successo?».
Mi lamentai, come un animaletto
braccato. Alcune sue
parole, delle intonazioni… mi ricordavano troppo lui. Non risposi, e distolsi lo sguardo
dai suoi occhi indagatori,
spostandoli velocemente da un angolo all’altro della stanza,
angosciata. La
porta, dovevo uscire. Ma era veramente una porta? C’era la
finestra? Lo
strapiombo?
Lei sospirò.
«Edward dice che gli hai parlato, è
così?».
In suo nome mi trafisse la testa.
«Edward» gemetti,
quasi involontariamente.
Lei sgranò gli occhi.
«Allora è vero». Fece una pausa,
poi cominciò nuovamente, più determinata di
prima. «perché hai reagito così?
È
stato malissimo… si sente terribilmente in
colpa…» confessò addolorata.
Mi portai le mani alla testa. Non
ero più
imprigionata, Edward era lì, era lì con me.
«Edward» lo richiamai, più
angosciata.
Rosalie ricercò il suo
sguardo con il mio, muovendo il
capo «Bella».
Fui costretta a guardarla negli
occhi.
«Avete bisogno di andare
avanti. Entrambi. Non sei sola.
Lui è con te, ma gli devi permettere di entrare nel tuo
dolore, nel tuo buio.
Devi permettergli di aiutarti. Devi raccontargli».
Ansimai, angosciata, divisa. Una
fiammella di speranza
si accese dentro di me, e poi si spense. Fidati, non ti fidare. Non ti
fidare,
fidati. Non cambierà mai, non cambierà mai.
Fidati, fidati, fidati. Edward,
Edward, Edward. Mi portai le mani alle orecchie per non ascoltare
più quelle
voci e gridai, forte.
Balzai giù dal letto, e
gemetti frustrata, tirandomi
indietro quando Rosalie mi sfiorò con le sue lunghe dita per
fermarmi. Afferrai
le pesanti coperte ed incerta e barcollante mi trascinai verso
l’angolo più
buio della stanza. Mi avvolsi nelle coperte e mi coprii completamente
la testa.
Ignorai Rose, le sue proteste, i
suoi richiami.
Avevo bisogno di un posto in cui
sentirmi al sicuro
per poter provare a pensare lucidamente.
Non mi accorsi di chiamare
compulsivamente il suo nome
finché non chiamò il mio
«Bella» e nel suo sospiro il mio suono lamentoso
scomparve.
«Bella, amore»
mi chiamò ancora Edward, e mi parve che
sotto l’infinita amorevolezza vi fosse un abisso di dolore.
Scostai un poco le coperte con la
mano, e vidi il suo
viso gentile, incerto e preoccupato. Gemetti, esprimendo in
quell’unico suono
tutto il mio dolore. La sua espressione si fece ancor più
carica di affetto.
Sollevai una mano e muovendo le
dita lo invitai ad
avvicinarsi.
Cauto mi scrutò
attentamente, muovendo ogni muscolo
con estrema concentrazione. Non mi toccò, si
fermò con il busto a pochi centimetri
dal mio.
Tremai, stordita dalla sua
vicinanza. Poi singhiozzai,
e mi lasciai andare contro il suo petto, stringendolo forte.
Lentamente le sue braccia si
strinsero attorno al mio
busto, e mi trassero delicatamente a sé. Prese ad
accarezzarmi i capelli,
cullandomi avanti e indietro. Era controllato in ogni gesto, come se si
aspettasse che da un secondo all’altro, per un inspiegabile
motivo, potessi
irrigidirmi, o iniziare ad urlare. Piansi più forte al
dolore che mi provocò
quel pensiero.
«Shh,
shh,
ecco» mi rassicurò «ti va di venire su
con me? Un po’ sul letto?».
Scossi il capo contro il suo petto,
sentendomi
rassicurata e insieme ferita da quella vicinanza.
Non disse nulla. Mi strinse
più forte e prese ad
accarezzarmi la schiena, lentamente, con movimenti circolari.
«Non te ne andare
più» biascicai, sentendomi un po’
vile per quelle parole e la pretenziosa promessa che volevano strappare.
Sospirò, afflitto, ma
anche contento di sentirmi
parlare, di potermi toccare. «No, non me ne vado mai, lo
giuro. Shh, tranquilla
ora».
Passò molto tempo
così. Riuscii a capirlo perché alla
fine avevo il suo odore addosso e la mia mente non pensava quasi
più che se ne
sarebbe andato da un secondo all’altro. Eravamo nascosti
dalle coperte, ed ero
fra le sue braccia. Mi sentii intontita, un poco nauseata, abbastanza
in colpa
e al sicuro per pronunciare le parole che dissi «Mi ha
drogata».
Edward s’irrigidii
immediatamente, ma poi, capendo di
avermi spaventata si rilassò subito, riprendendo ad
accarezzarmi. Non disse
nulla.
Fissai il vuoto, la luce che
filtrava oltre la
coperta. «Mi ricordo solo l’ago nel braccio. E poi
non mi potevo più muovere».
«Mi dispiace
così tanto, Bella. Così tanto… non
puoi
nemmeno immaginare quanto» mormorò, ma dalla sua
voce potevo immaginare quanto.
Chiusi gli occhi, sopraffatta. Non
potevo sopportare
anche il suo dolore, oltre al mio.
«Perché lo ha
fatto?» domandò esitante dopo qualche
minuto.
Sospirai, lentamente e
impercettibilmente. Ero così
stanca. «Non mi volevo cambiare» biascicai atona,
non riuscendo ad imprimere
nelle parole tutto il dolore che provavo «voleva che mettessi
i vestiti che mi
aveva portato. Io non volevo, quindi lo ha fatto lui. Non mi potevo
muovere…
poteva farmi tutto quello che voleva. Poteva uccidermi, violentarmi,
baciarmi,
torturami. E io ero immobile, e tu non c’eri»
mormorai ancora, persa
nell’infinità del mio angosciante dolore.
«Non andare più via, ti prego».
Mi strinse con più forza
e tremò, tremò fino ad
imprimere quel tremito anche al mio corpo. Piangevamo. Volevo che mi
dicesse
qualcosa e che mi rassicurasse, così che in qualche modo
capissi che era stata
la scelta giusta aprirgli la voragine della mia disperazione. Che non
gli stavo
solo facendo dal male.
Riuscii a racimolare il coraggio di
guardarlo negli
occhi. Erano neri come la notte, pieni di paure e incertezze, sicuri
solo di
una cosa: che mi avrebbero amato.
«Mi vuoi
baciare?» gli domandai.
Fece un piccolo sorriso, un
minuscolo spasmo. «Sì».
Annuii, piano, guardando le sue
labbra.
Si avvicinò e mi
lasciò un piccolo bacio, duro e
freddo.
Rabbrividii. Abbassai lo sguardo.
«Lo so che non è
così, ma a volte penso che qualcuno qui possa farmi del
male».
Mi accarezzò.
«Non è così. Sei al sicuro».
Annuii. «Non vi muovete
velocemente, per favore.
Quando lo fate lo penso di più».
Mi baciò il capo.
«No, piano. Lo giuro. Ora ti va di
venire su con me? Ti stendi un pochino sul letto? Fa freddo
qui».
Tremai, spaventata, guardandolo
negli occhi. «Ho
paura».
Mi accarezzò una
guancia. «No, perché? Non devi
averne. È sicuro, e io sarò sempre con
te».
Mi morsi le labbra, incerta. Non
volevo che intuisse
quanto fossi terrorizzata, ma avevo bisogno di esserne sicura. Mi
chiesi se
pensasse che fossi pazza. I suoi occhi erano dolci, gentili, cauti.
Forse lo
pensava davvero. Mi morsi il labbro per non farlo tremare.
«P-puoi…» balbettai,
agitata «P-per favore, puoi controllare?».
Fece un piccolo sospiro, colpito
dalla profondità
della mia angoscia. Poi il desiderio di prendersi cura di me prevalse,
e annuì.
«Vieni, ecco. Controlliamo insieme» mi disse, e mi
aiutò ad alzarmi, le coperte
avvolte attorno alle spalle. «Guarda, non
c’è nessuno. Piano, piano, vieni con
me. Ecco, non c’è niente di cui aver
paura» mi rassicurò, sostenendomi per i
gomiti e guidandomi verso il letto.
Guardai compulsivamente in ogni
angolo, finché la mia
testa si convinse che non c’era nulla di cui aver paura. Il
battito del mio
cuore si regolarizzò pian piano.
«Ce la fai a
camminare?».
Annuii, muovendo dei passi incerti.
In quel momento la porta della
stanza si aprì e io sussultai,
stringendomi con tutte le mie forze ad Edward. Mi strinse a
sé e mi rassicurò
con un basso mormorio. Era solo Rosalie.
Mi sorrise, avvicinandosi a passo
umano al letto. «Ti
senti meglio? Ti ho detto che sarebbe migliorato».
Mossi il capo in un cenno di
assenso, e velocemente mi
raggomitolai al centro del letto. Mi faceva sentire così
insicura stare in
piedi al centro della stanza. E avevo così paura che quel
terrore mi avrebbe
accompagnato per il resto della vita.
Agitata strinsi la mano di mio
marito, ripentendomi
che era tutto solo nella mia testa.
«Cosa succede
Bella?» mi chiese gentilmente la
vampira.
La guardai, implorante.
«Sono pazza? Rose, dimmi la
verità, ti prego. Sono pazza?» domandai agitata,
facendo passare lo sguardo sui
loro volti.
Scosse lentamente il capo.
«No. Hai solo un disturbo
post-traumatico da stress. Hai vissuto una cosa molto brutta,
è normale.
Sarebbe capitato a chiunque, ma presto starai meglio, e tutto quello
che senti
scomparirà. Lo prometto».
La osservai attentamente,
preoccupata che mi stesse
mentendo. Guardai Edward, e mi sorrise, un ampio sorriso rassicurante.
Mi
rilassai solo un po’.
«Per stare meglio hai
bisogno di raccontare quello che
è accaduto. E di capire che alcune sensazioni o eventi
possono farti pensare
che stia accadendo qualcosa di brutto, ma che non è
così. Possono essere cose
innocue che ti ricordano il passato. Come prima, quello che hai
raccontato a
Edward. Sentire il contatto con l’ago, non poterti accertare
nel buio di chi ne
fosse responsabile ti ha fatto pensare che fosse Jacob, ma non era
così».
Sussultai a quel nome, portando
velocemente la mano a
stringere l’incavo del gomito.
Rosalie annuì.
«È proprio così, vero?».
«Sì»
mormorai, colpita dalle sue parole. Volevo
davvero superare tutto quello che era successo, ma avevo insieme paura
di
affrontare tutto quello che avrebbe comportato.
«A cosa pensi?»
mi domandò ancora.
Mi chiesi perché Edward
non parlasse, perché lasciasse
parlare la sorella. E poi notai come la controllava, come stringeva la
mandibola per non parlare, come controllasse ogni gesto e parola. Anche
lui
aveva un disturbo post-traumatico da stress?
Mi strinsi le ginocchia al petto,
osservando le bende
che venivano fuori dai pantaloni del pigiama, avvolte lungo le gambe.
«Penso
che se ti racconterò ogni cosa Edward soffrirà
molto. E anche io» mormorai
semplicemente.
«Bella, tu
non…» iniziò mio marito, ma sua sorella
lo
interruppe.
«È probabile
che sia così, ma è anche necessario
perché possiate stare di nuovo bene insieme».
Lo fissai di sottecchi.
«Mi puoi toccare» gli dissi
«ma a volte mi farai paura, e tu non devi stare male per
questo, va bene?»
sussurrai spaventata.
Scosse il capo. «No, va
bene».
«Bene» fece sua
sorella, risoluta, aprendo le braccia
per invitarmi ad andare da lei «vieni qui. Ti devo rifare le
medicazioni».
«Posso»
mormorai, sollevando il capo «posso fare una
doccia?».
Edward mi sorrise «Ma
certo…».
«No» lo
interruppe Rosalie.
Sgranai gli occhi e mi voltai verso
di lei, che mi
fissava con fermezza.
«Rosalie…?»
cominciò a chiedere Edward, sorpreso, per
poi essere nuovamente interrotto dalla sorella.
Lei alzò lo sguardo
verso il fratello, poi ancora su
di me. «Non se ne andrà così, fidati,
non c’è nessun sapone che può
lavarlo».
Abbassai lo sguardo, colpita.
«La sensazione di sporco
non si può cancellare, ma si
può imparare a conviverci. E poi… parlandone,
riuscirai a dimenticarla. A
nasconderla in un cassetto tanto piccolo della tua mente che neppure ti
disturberà».
Risollevai il capo, lasciando
scorrere due lacrime
lungo le mie guance.
Lei mi sorrise. «Vieni,
andiamo di là…».
La guardai supplicante.
«È
l’ultima volta, lo prometto, oggi ti tolgo le
bende» mi rassicurò.
Senza opporre resistenza passai
dalle braccia di
Edward a quelle di Rosalie. Lo guardai, intensamente, e lui mi sorrise,
accarezzandomi la guancia prima di andarsene.
«Ecco qui» mi
disse Rose togliendomi l’ultima benda. I
graffi lungo le gambe erano tutti piccoli segni rossi. Non dolevano
più.
«Se ne
andranno?» chiesi preoccupata che fossero
l’ennesimo segno tangibile che sarebbe rimasto di quel trauma.
«Certo che
sì» mi rispose lei con un sorriso. «Ho
usato tutti i migliori unguenti che sono riuscita a trovare».
Le strinsi la mano, riconoscente.
«Grazie, Rose, per
tutto quello che hai fatto…».
Lei mi fece un gesto con la mano
per zittirmi. «Sei
mia sorella».
Sussultai, colpita dalle sue parole
affettuose.
Posò una mano
sull’elastico del mio intimo, con uno
sguardo intenso in una muta richiesta. «Devo controllare
anche lì, i graffi
dovrebbero essere quasi spariti».
Sospirai, annuendo.
«Tranquilla, non
c’è nessuna lesione interna» mi
rassicurò brevemente.
Mi lasciai andare sul lettino.
Come al solito Rose fu veloce e
delicata.
«Grazie» le
dissi, lasciandomi prendere fra le braccia.
Poi rabbrividii. «Rosalie, credo di aver bisogno di un
pigiama più caldo».
Lei capì il senso delle
mie parole e sul suo volto si
aprì un meraviglioso sorriso. «Certo, tesoro,
certo».