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Autore: keska    31/07/2009    28 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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«Edward»

«Edward». La voce mi uscii flebile e molto roca, quasi afona. Era la prima parola che dicevo da chissà quanto tempo.

Passarono alcuni interminabili istanti di sospensione nel silenzio. Probabilmente non mi aveva sentita. Meglio così, inutile illudersi…

Ma mi sbagliavo. Perché lui, e solo lui, mi sentì.

Comparve davanti ai miei occhi, con una strana espressione spiritata in viso. «B…Bella…» ansimò dopo un attimo «Tu… tu mi hai…chiamato?».

Non sapevo se rispondere, forse avevo fatto semplicemente uno sbaglio, non potevo davvero concedermi tutto quello.

Vidi il suo sguardo incupirsi pian piano e la speranza abbandonarlo nuovamente.

Non ce la facevo a sapere di essere la causa del suo male. Volevo solo un po’ di pace e riposo, tutto qui, non mi sarei concessa altro.

Annuii, vedendo Edward rianimarsi di riflesso.

«Hai bisogno di qualcosa, c’è qualche problema amore? Dimmi, tutto quello che vuoi» chiese su di giri. In quel momento, se gli avessi chiesto di fare una qualsiasi impresa titanica, l’avrebbe portata sicuramente a termine.

Potevo davvero concedermi di provare gioia per quella felicità che gli stavo dando? Sospirai.

Edward si inginocchiò accanto a me, a terra, per trovarsi con il viso alla mia stessa altezza. I suoi occhi onice si facevano sempre più luccicanti e scrutavano i miei come se stessero contemplando un tesoro prezioso.

Sentivo i miei, invece, farsi sempre più pesanti. Lottai contro la stanchezza, non volevo rivivere quei terribili incubi.

«Che hai tesoro?» mi chiese dolcemente Edward, scrutandomi dentro.

Potevo veramente permettermi di farlo felice? Respirai lentamente, indecisa e tremante. Abbassai lo sguardo. Volevo dormire.

Notai che aveva posato una mano sul materasso. «Bella…» mi richiamò ancora, sofferente.

Sollevai il viso, frustrata e stanca. «… sonno…» biascicai flebilmente.

Quando ascoltò la mia voce fu come se fosse tornato nuovamente in vita. «Hai sonno? Non riesci a dormire?».

Scossi il capo in segno di diniego, facendo scendere delle lacrime silenziose lungo le guance al ricordo degli ultimi incubi vissuti.

«Ehi, piccola… angioletto…» mormorò dolcemente.

Sussultai. Quanto tempo che non lo sentivo chiamarmi così…

«Su non piangere amore, ora sistemiamo tutto, te lo prometto…» mi disse sorridendomi rassicurante. Si guardò intorno, come in cerca di qualcosa o qualcuno che potesse aiutarmi. Poi si bloccò, ritornando a guardarmi. «Carlisle ti ha prescritto dei sonniferi, vedrai che dopo starai meglio. Va bene amore?».

Mi asciugai le lacrime e annuii. Volevo solo stare meglio.

Lui mi sorrise, contento. «Ti chiamo Carlisle…».

Sussultai.

Edward si bloccò notando la mia reazione. «Non… non vuoi Carlisle?».

Scossi il capo.

Lui sospirò, non facendo però scomparire il suo entusiasmo. «Allora… ti chiamo Rosalie, va bene?».

Scossi ancora il capo e decisi di agire. Solo per la sua felicità. Non sapevo a cosa mi avrebbero portato le mie azioni ma volevo solo vivere quel momento e donare felicità al mio amore. Lentamente, allungai la mia mano sul materasso. Tremava, lo sentivo. Piano, facendola scorrere lungo le lenzuola morbide la feci giungere accanto alla sua. Risollevai lo sguardo su Edward, che intanto faceva scorrere lo sguardo dalle nostre mani al mio volto.

Era commosso. «Io?» mi chiese con voce tremante.

Annuii, lentamente.

«Ma…» deglutì «ma io non… non sono bravo come Carlisle… forse lui sarebbe più…».

Scossi la testa, interrompendolo. Presi un profondissimo respiro. Avvicinai lentamente la mia mano alla sua, guardandolo sempre fisso negli occhi.

Poi successe. Lo sfiorai. Durò solo un attimo, perché mi ritrassi immediatamente, ma quell’attimo durò quanto un’eternità. Quel piccolissimo contatto, freddo, fu come una potentissima scossa che ci pervase da corpo a corpo con una potenza inaudita.

Edward mi fissò negli occhi, annaspando. «V…va bene» disse con voce tremante d’euforia, quando si riprese.

Mentre scompariva dalla mia visuale mi rannicchiai su me stessa. Avevo adempito al mio compito, l’avevo reso felice. Ora volevo solo dormire. Respirai lentamente finché, sempre più, fui avvolta da una nuvola di torpore. Chiusi gli occhi, scivolando in un quieto dormiveglia.

Improvvisamente mi sentii pungere un braccio. Sussultai spaventata e non potei far nulla per tentare di contenere le lacrime.

Ancora una volta i fantasmi del mio recente passato tornavano a tormentarmi. Jacob. L’ago nel braccio. Il mio corpo inerme. La mia impotenza. La mia pelle esposta ai suoi occhi. Le immagini si presentarono come flash bruschi e improvvisi.

Con il fiato corto scattai in piedi.

Edward mi fissava spaventato, spaesato. «Scusami… Non volevo spaventarti…».

Tremando, camminai all’indietro, impaurita.

Con lentezza e gesti misurati, posò la siringa ancora intatta sul copriletto, e tenendo le mani sollevate a mezz’aria iniziò a camminare verso di me. Non c’era più la gioia che solo pochi istanti addietro aveva albergato in lui. Il suo dolore sembrava più profondo di prima. E questo io lo sapevo, l’avevo sempre saputo. Tutto ciò che avevo fatto era solo servito a farlo versare maggiormente nello sconforto. Inutile, non c’erano vie d’uscita.

«Ahh!» fremetti, spaventata, crollando a terra, la schiena contro il muro.

Ne ero certa, più che sicura: qualcosa di bollente mi aveva toccato.

Edward si materializzò davanti ai miei occhi. «Tesoro, Bella, calmati» mi sorrise forzatamente «guarda, era solo il radiatore» mi disse, indicando con lo sguardo un punto alla mia destra.

Mi voltai piano, ansante, e mi accorsi che era proprio come diceva. Quando con lo sguardo ritornai su di lui, aveva un sorriso rassicurante.

«Visto amore?». Mi stava parlando con calma e lentezza, proprio come se stesse parlando con una pazza.

Forse… Jacob aveva ragione. Dopotutto l’aveva detto anche Carlisle… Tutti pensavano che io fossi pazza, ma non era, non era così.

Mi dondolai su me stessa, stringendomi le braccia al petto. «Non sono pazza…» farfugliai sconnessamente.

Edward sussultò, poi mi rassicurò svelto «Nessuno pensa questo Bella, davvero…».

Lo fissai ancora negli occhi, attraverso le lacrime. Io volevo solo Edward, volevo solo riabbracciare mio marito, come se niente fosse successo… perché non potevo farlo, perché?! Volevo cancellare il senso di sporco, di macchiato, che provavo sul mio corpo. Volevo toglierlo, rimuoverlo per sempre…

«Bella, non fare così, ti prego» m’implorò Edward.

Non capii di cosa stesse parlando.

I suoi occhi erano pieni di dolore e angoscia «Ti prego Bella, smettila, ti stai facendo male!».

Mi accorsi solo in quell’istante che le mie unghie graffiavano contro i miei avambracci. Volevo solo cancellare lo sporco, volevo toglierlo…

«Basta, basta!» esclamò ansioso e terrorizzato.

Non lo ascoltai e penetrai nella mia stessa carne con maggior forza.

Ciò che avvenne dopo mi lasciò completamente senza fiato.

Edward mi aveva presa per i polsi e bloccata contro il muro, sollevandomi.

Ansimai, affannosamente. Una volta, lentamente. Due volte, graffiando con il fiato la gola. Tre volte, tremando nel tentativo di far passare il respiro. Sentivo le mie pupille dilatarsi e perdersi sempre più nell’immensità nera degli occhi di Edward.

Riuscii a ritrovare la voce per urlare a squarciagola. Inclinai il capo all’indietro, cominciando a dimenarmi come un’ossessa. Quello per me significava rivivere le più orrende sensazioni mai provate in tutta una vita.

Non mi curai del suono della porta che sbatteva, né delle voci concitate che esclamavano il mio nome tentando di calmarmi.

Gridavo. Gridavo e mi dimenavo.

«Carlisle, sul letto!» esclamò Edward, che ancora non aveva mollato la presa sui miei polsi.

«Jasper!» era la voce di Carlisle, era vicino.

«No… non ci posso fare niente… C’è sangue… scusate devo uscire…».

«Vai!» urlò Edward, a pochi centimetri dal mio viso.

Spalancai gli occhi. Vedevo solo Carlisle e Edward. Respiravo affannosamente e non avevo smesso di agitarmi.

«Calma Bella, calma. Adesso ti lascio, promesso» mi disse Edward, sofferente, ma determinato.

«Tienila ferma» gli disse Carlisle, avvicinandosi con la siringa in mano.

Edward prese un mio braccio e lo allungò in orizzontale, bloccandolo contro il muro.

Cacciai un gemito quando vidi l’ago infilarsi nella vena.

«Shh, shh, è tutto finito amore, calmati…» mi sussurrò.

Sentii i miei strattoni farsi sempre più deboli, mentre le forze abbandonavano tutti i miei muscoli. Infine, abbandonai completamente il mio corpo.

Edward lasciò la presa suoi miei polsi e caddi stremata sul suo petto ghiacciato.

Fu come vedere tutta la scena al rallentatore. Il mio corpo che si avvicinava al suo, il suono del rimbalzo contro di lui, la mia testa che si appoggiava sulla sua spalla.

Petto contro petto. Pelle contro pelle. Cuore contro cuore. Caldo contro freddo.

In quell’istante capii. Era lì che volevo essere, e nulla più avrebbe importato. Era lì che volevo essere. Fra le sue braccia.

«Ti amo» biascicai al suo orecchio, prima di perdere completamente i sensi.

 

Sentivo un odore fastidioso bruciarmi il naso. Come… alcool. La mia mente era annebbiata, confusa, eppure dentro di me avevo un’unica consapevolezza: volevo Edward con me.

Sbattei le palpebre, piano, per riadattare gli occhi alla luce. Lo cercai velocemente con lo sguardo, ma non c’era.

Davanti a me Rosalie mi fissava con un’espressione severa e determinata. «Basta Bella, ti prego. Basta» mi disse dopo pochi istanti, con decisione. «Dobbiamo fare un passo avanti».

Rabbrividii. Mi guardai ancora intorno alla ricerca di Edward. Un passo avanti, volevo fare un passo avanti verso di lui, credevo.

Rosalie notò facilmente che lo stavo cercando. Avvicinò una mano per sfiorarmi e mi ritrassi, sibilando, come scottata. La sua espressione si fece ancor più irremovibile. «Non c’è. Non verrà, non per ora. Prima mi dovrai dire alcune cose, parleremo di quello che è successo, e ti aiuterò».

Sussultai, colpita, sentendomi braccata. Il cuore prese a battermi più veloce, e l’angoscia per la mancanza di Edward mi sembrò troppo familiare a quella di un recente passato.

«Bella» mi richiamò ancora, sporgendosi verso di me.

Feci pressione sulle braccia per sollevarmi e mettermi seduta e fui colpita da delle fitte. Gemetti.

«Ferma, ti aiuto io» mi disse Rose dolcemente, sistemandomi il cuscino dietro la schiena e aiutandomi a mettermi seduta. «Guarda cosa ti sei fatta» mi rimproverò indicando gli avambracci bendati. Poi sollevò ancora lo sguardo su di me, scrutandomi. «Mi dici cos’è successo?».

Mi lamentai, come un animaletto braccato. Alcune sue parole, delle intonazioni… mi ricordavano troppo lui. Non risposi, e distolsi lo sguardo dai suoi occhi indagatori, spostandoli velocemente da un angolo all’altro della stanza, angosciata. La porta, dovevo uscire. Ma era veramente una porta? C’era la finestra? Lo strapiombo?

Lei sospirò. «Edward dice che gli hai parlato, è così?».

In suo nome mi trafisse la testa. «Edward» gemetti, quasi involontariamente.

Lei sgranò gli occhi. «Allora è vero». Fece una pausa, poi cominciò nuovamente, più determinata di prima. «perché hai reagito così? È stato malissimo… si sente terribilmente in colpa…» confessò addolorata.

Mi portai le mani alla testa. Non ero più imprigionata, Edward era lì, era lì con me. «Edward» lo richiamai, più angosciata.

Rosalie ricercò il suo sguardo con il mio, muovendo il capo «Bella».

Fui costretta a guardarla negli occhi.

«Avete bisogno di andare avanti. Entrambi. Non sei sola. Lui è con te, ma gli devi permettere di entrare nel tuo dolore, nel tuo buio. Devi permettergli di aiutarti. Devi raccontargli».

Ansimai, angosciata, divisa. Una fiammella di speranza si accese dentro di me, e poi si spense. Fidati, non ti fidare. Non ti fidare, fidati. Non cambierà mai, non cambierà mai. Fidati, fidati, fidati. Edward, Edward, Edward. Mi portai le mani alle orecchie per non ascoltare più quelle voci e gridai, forte.

Balzai giù dal letto, e gemetti frustrata, tirandomi indietro quando Rosalie mi sfiorò con le sue lunghe dita per fermarmi. Afferrai le pesanti coperte ed incerta e barcollante mi trascinai verso l’angolo più buio della stanza. Mi avvolsi nelle coperte e mi coprii completamente la testa.

Ignorai Rose, le sue proteste, i suoi richiami.

Avevo bisogno di un posto in cui sentirmi al sicuro per poter provare a pensare lucidamente.

Non mi accorsi di chiamare compulsivamente il suo nome finché non chiamò il mio «Bella» e nel suo sospiro il mio suono lamentoso scomparve.

«Bella, amore» mi chiamò ancora Edward, e mi parve che sotto l’infinita amorevolezza vi fosse un abisso di dolore.

Scostai un poco le coperte con la mano, e vidi il suo viso gentile, incerto e preoccupato. Gemetti, esprimendo in quell’unico suono tutto il mio dolore. La sua espressione si fece ancor più carica di affetto.

Sollevai una mano e muovendo le dita lo invitai ad avvicinarsi.

Cauto mi scrutò attentamente, muovendo ogni muscolo con estrema concentrazione. Non mi toccò, si fermò con il busto a pochi centimetri dal mio.

Tremai, stordita dalla sua vicinanza. Poi singhiozzai, e mi lasciai andare contro il suo petto, stringendolo forte.

Lentamente le sue braccia si strinsero attorno al mio busto, e mi trassero delicatamente a sé. Prese ad accarezzarmi i capelli, cullandomi avanti e indietro. Era controllato in ogni gesto, come se si aspettasse che da un secondo all’altro, per un inspiegabile motivo, potessi irrigidirmi, o iniziare ad urlare. Piansi più forte al dolore che mi provocò quel pensiero.

«Shh, shh, ecco» mi rassicurò «ti va di venire su con me? Un po’ sul letto?».

Scossi il capo contro il suo petto, sentendomi rassicurata e insieme ferita da quella vicinanza.

Non disse nulla. Mi strinse più forte e prese ad accarezzarmi la schiena, lentamente, con movimenti circolari.

«Non te ne andare più» biascicai, sentendomi un po’ vile per quelle parole e la pretenziosa promessa che volevano strappare.

Sospirò, afflitto, ma anche contento di sentirmi parlare, di potermi toccare. «No, non me ne vado mai, lo giuro. Shh, tranquilla ora».

Passò molto tempo così. Riuscii a capirlo perché alla fine avevo il suo odore addosso e la mia mente non pensava quasi più che se ne sarebbe andato da un secondo all’altro. Eravamo nascosti dalle coperte, ed ero fra le sue braccia. Mi sentii intontita, un poco nauseata, abbastanza in colpa e al sicuro per pronunciare le parole che dissi «Mi ha drogata».

Edward s’irrigidii immediatamente, ma poi, capendo di avermi spaventata si rilassò subito, riprendendo ad accarezzarmi. Non disse nulla.

Fissai il vuoto, la luce che filtrava oltre la coperta. «Mi ricordo solo l’ago nel braccio. E poi non mi potevo più muovere».

«Mi dispiace così tanto, Bella. Così tanto… non puoi nemmeno immaginare quanto» mormorò, ma dalla sua voce potevo immaginare quanto.

Chiusi gli occhi, sopraffatta. Non potevo sopportare anche il suo dolore, oltre al mio.

«Perché lo ha fatto?» domandò esitante dopo qualche minuto.

Sospirai, lentamente e impercettibilmente. Ero così stanca. «Non mi volevo cambiare» biascicai atona, non riuscendo ad imprimere nelle parole tutto il dolore che provavo «voleva che mettessi i vestiti che mi aveva portato. Io non volevo, quindi lo ha fatto lui. Non mi potevo muovere… poteva farmi tutto quello che voleva. Poteva uccidermi, violentarmi, baciarmi, torturami. E io ero immobile, e tu non c’eri» mormorai ancora, persa nell’infinità del mio angosciante dolore. «Non andare più via, ti prego».

Mi strinse con più forza e tremò, tremò fino ad imprimere quel tremito anche al mio corpo. Piangevamo. Volevo che mi dicesse qualcosa e che mi rassicurasse, così che in qualche modo capissi che era stata la scelta giusta aprirgli la voragine della mia disperazione. Che non gli stavo solo facendo dal male.

Riuscii a racimolare il coraggio di guardarlo negli occhi. Erano neri come la notte, pieni di paure e incertezze, sicuri solo di una cosa: che mi avrebbero amato.

«Mi vuoi baciare?» gli domandai.

Fece un piccolo sorriso, un minuscolo spasmo. «Sì».

Annuii, piano, guardando le sue labbra.

Si avvicinò e mi lasciò un piccolo bacio, duro e freddo.

Rabbrividii. Abbassai lo sguardo. «Lo so che non è così, ma a volte penso che qualcuno qui possa farmi del male».

Mi accarezzò. «Non è così. Sei al sicuro».

Annuii. «Non vi muovete velocemente, per favore. Quando lo fate lo penso di più».

Mi baciò il capo. «No, piano. Lo giuro. Ora ti va di venire su con me? Ti stendi un pochino sul letto? Fa freddo qui».

Tremai, spaventata, guardandolo negli occhi. «Ho paura».

Mi accarezzò una guancia. «No, perché? Non devi averne. È sicuro, e io sarò sempre con te».

Mi morsi le labbra, incerta. Non volevo che intuisse quanto fossi terrorizzata, ma avevo bisogno di esserne sicura. Mi chiesi se pensasse che fossi pazza. I suoi occhi erano dolci, gentili, cauti. Forse lo pensava davvero. Mi morsi il labbro per non farlo tremare. «P-puoi…» balbettai, agitata «P-per favore, puoi controllare?».

Fece un piccolo sospiro, colpito dalla profondità della mia angoscia. Poi il desiderio di prendersi cura di me prevalse, e annuì. «Vieni, ecco. Controlliamo insieme» mi disse, e mi aiutò ad alzarmi, le coperte avvolte attorno alle spalle. «Guarda, non c’è nessuno. Piano, piano, vieni con me. Ecco, non c’è niente di cui aver paura» mi rassicurò, sostenendomi per i gomiti e guidandomi verso il letto.

Guardai compulsivamente in ogni angolo, finché la mia testa si convinse che non c’era nulla di cui aver paura. Il battito del mio cuore si regolarizzò pian piano.

«Ce la fai a camminare?».

Annuii, muovendo dei passi incerti.

In quel momento la porta della stanza si aprì e io sussultai, stringendomi con tutte le mie forze ad Edward. Mi strinse a sé e mi rassicurò con un basso mormorio. Era solo Rosalie.

Mi sorrise, avvicinandosi a passo umano al letto. «Ti senti meglio? Ti ho detto che sarebbe migliorato».

Mossi il capo in un cenno di assenso, e velocemente mi raggomitolai al centro del letto. Mi faceva sentire così insicura stare in piedi al centro della stanza. E avevo così paura che quel terrore mi avrebbe accompagnato per il resto della vita.

Agitata strinsi la mano di mio marito, ripentendomi che era tutto solo nella mia testa.

«Cosa succede Bella?» mi chiese gentilmente la vampira.

La guardai, implorante. «Sono pazza? Rose, dimmi la verità, ti prego. Sono pazza?» domandai agitata, facendo passare lo sguardo sui loro volti.

Scosse lentamente il capo. «No. Hai solo un disturbo post-traumatico da stress. Hai vissuto una cosa molto brutta, è normale. Sarebbe capitato a chiunque, ma presto starai meglio, e tutto quello che senti scomparirà. Lo prometto».

La osservai attentamente, preoccupata che mi stesse mentendo. Guardai Edward, e mi sorrise, un ampio sorriso rassicurante. Mi rilassai solo un po’.

«Per stare meglio hai bisogno di raccontare quello che è accaduto. E di capire che alcune sensazioni o eventi possono farti pensare che stia accadendo qualcosa di brutto, ma che non è così. Possono essere cose innocue che ti ricordano il passato. Come prima, quello che hai raccontato a Edward. Sentire il contatto con l’ago, non poterti accertare nel buio di chi ne fosse responsabile ti ha fatto pensare che fosse Jacob, ma non era così».

Sussultai a quel nome, portando velocemente la mano a stringere l’incavo del gomito.

Rosalie annuì. «È proprio così, vero?».

«Sì» mormorai, colpita dalle sue parole. Volevo davvero superare tutto quello che era successo, ma avevo insieme paura di affrontare tutto quello che avrebbe comportato.

«A cosa pensi?» mi domandò ancora.

Mi chiesi perché Edward non parlasse, perché lasciasse parlare la sorella. E poi notai come la controllava, come stringeva la mandibola per non parlare, come controllasse ogni gesto e parola. Anche lui aveva un disturbo post-traumatico da stress?

Mi strinsi le ginocchia al petto, osservando le bende che venivano fuori dai pantaloni del pigiama, avvolte lungo le gambe. «Penso che se ti racconterò ogni cosa Edward soffrirà molto. E anche io» mormorai semplicemente.

«Bella, tu non…» iniziò mio marito, ma sua sorella lo interruppe.

«È probabile che sia così, ma è anche necessario perché possiate stare di nuovo bene insieme».

Lo fissai di sottecchi. «Mi puoi toccare» gli dissi «ma a volte mi farai paura, e tu non devi stare male per questo, va bene?» sussurrai spaventata.

Scosse il capo. «No, va bene».

«Bene» fece sua sorella, risoluta, aprendo le braccia per invitarmi ad andare da lei «vieni qui. Ti devo rifare le medicazioni».

«Posso» mormorai, sollevando il capo «posso fare una doccia?».

Edward mi sorrise «Ma certo…».

«No» lo interruppe Rosalie.

Sgranai gli occhi e mi voltai verso di lei, che mi fissava con fermezza.

«Rosalie…?» cominciò a chiedere Edward, sorpreso, per poi essere nuovamente interrotto dalla sorella.

Lei alzò lo sguardo verso il fratello, poi ancora su di me. «Non se ne andrà così, fidati, non c’è nessun sapone che può lavarlo».

Abbassai lo sguardo, colpita.

«La sensazione di sporco non si può cancellare, ma si può imparare a conviverci. E poi… parlandone, riuscirai a dimenticarla. A nasconderla in un cassetto tanto piccolo della tua mente che neppure ti disturberà».

Risollevai il capo, lasciando scorrere due lacrime lungo le mie guance.

Lei mi sorrise. «Vieni, andiamo di là…».

La guardai supplicante.

«È l’ultima volta, lo prometto, oggi ti tolgo le bende» mi rassicurò.

Senza opporre resistenza passai dalle braccia di Edward a quelle di Rosalie. Lo guardai, intensamente, e lui mi sorrise, accarezzandomi la guancia prima di andarsene.

«Ecco qui» mi disse Rose togliendomi l’ultima benda. I graffi lungo le gambe erano tutti piccoli segni rossi. Non dolevano più.

«Se ne andranno?» chiesi preoccupata che fossero l’ennesimo segno tangibile che sarebbe rimasto di quel trauma.

«Certo che sì» mi rispose lei con un sorriso. «Ho usato tutti i migliori unguenti che sono riuscita a trovare».

Le strinsi la mano, riconoscente. «Grazie, Rose, per tutto quello che hai fatto…».

Lei mi fece un gesto con la mano per zittirmi. «Sei mia sorella».

Sussultai, colpita dalle sue parole affettuose.

Posò una mano sull’elastico del mio intimo, con uno sguardo intenso in una muta richiesta. «Devo controllare anche lì, i graffi dovrebbero essere quasi spariti».

Sospirai, annuendo.

«Tranquilla, non c’è nessuna lesione interna» mi rassicurò brevemente.

Mi lasciai andare sul lettino.

Come al solito Rose fu veloce e delicata.

«Grazie» le dissi, lasciandomi prendere fra le braccia. Poi rabbrividii. «Rosalie, credo di aver bisogno di un pigiama più caldo».

Lei capì il senso delle mie parole e sul suo volto si aprì un meraviglioso sorriso. «Certo, tesoro, certo».

 

   
 
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