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Autore: Adeia Di Elferas    05/11/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina si era sentita grata al fato di aver avuto in sorte una stanza con camino. In effetti, a ben pensarci, se quella era la camera migliore di tutta la locanda, un motivo doveva esserci.

Era abbastanza pulita e la finestra che dava sulla strada e sulla piccola stalla era grande e con pochi spifferi. Il letto era grande, per due persone almeno, non sporco e con un paio di coperte molto spesse. Il pavimento di cotto era molto irregolare, ma non era un problema per lei. C'erano un telo per asciugarsi e una brocca d'acqua per lavarsi. Avrebbe voluto farsi portare una tinozza per farsi un bagno, ma non aveva voglia di aspettare.

Si era subito tolta gli abiti bagnati e, per non doversi mettere il vestito da donna, anch'esso inumidito per colpa della pioggia, che si era provvidenzialmente ricordata di portare con sé in vista del confronto con la Signoria, aveva preferito avvolgersi nel telo da bagno che aveva trovato in stanza.

Aveva piazzato tutti gli abiti bagnati vicino al fuoco, e poi si era seduta sul bordo del letto e si era messa a districarsi un po' i capelli, sperando così che si asciugassero più in fretta.

Non le importava di farsi trovare discinta dal ragazzino che aveva visto poco prima, quello che l'oste aveva mandato a sistemare il cavallo. Doveva avere all'incirca undici o dodici anni e se anche a vederla in quel modo avesse finito per fare qualche pensiero sconveniente, a lei non avrebbe dato poi molto fastidio.

“Vi ho portato la cena...” una voce molto più profonda di quella che si sarebbe aspettata la fece voltare di scatto.

Dalla porta di legno scuro era appena entrato un ragazzo che doveva avere al massimo diciassette o diciotto anni. Aveva con sé un vassoio e sembrava un po' a disagio, come se non sapesse dove appoggiarlo.

“Siete il figlio del padrone?” chiese la Sforza, guardandolo meglio.

Il giovane, arrossendo violentemente, cercò di non far scivolare troppo l'occhio sulle gambe scoperte dell'ospite, ma senza successo: “Sì, sono il figlio maggiore.”

Caterina avrebbe voluto dire qualcosa, tanto per metterlo più a suo agio, ma era troppo presa a passarlo al setaccio. Se non si badava ai suoi abiti dozzinali, si vedeva subito che si trattava di un bel ragazzo. Era alto, dal fisico asciutto, con morbidi capelli scuri che sembravano lavati di recente, cosa non così comune, specie tra i popolani.

“Mio padre ha pensato di farvi portare un boccale di birra, perché il vino che abbiamo quest'anno è troppo amaro, e non voleva offendervi con la sua scarsa qualità...” spiegò, con un accento toscano fortissimo, indicando con lo sguardo il vassoio che portava ancora in mano: “Mentre la carne è di cinghiale.”

“Appoggialo sul letto.” ordinò Caterina, resa un po' sospettosa da quella lunga spiegazione.

Verosimilmente era dovuta davvero all'agitazione di avere una cliente come lei alla locanda, ma poteva essere anche qualcosa di meno innocente. In fondo, non conosceva minimamente quelle persone.

Il figlio dell'oste, sistemato il vassoio, allacciò le mani dietro la schiena e rimase in attesa, calamitato verso quella donna di cui non sapeva nulla, ma che, facendosi trovare avvolta solo da un telo da bagno e coi capelli sciolti, aveva subito fatto breccia nella sua immaginazione da adolescente.

“Bevi prima tu.” disse la Leonessa, indicando la birra.

“Come..?” il giovane appariva smarrito, ma l'insistenza con cui gli occhi verdi della Sforza lo fissavano, lo indusse a fare come gli era stato detto.

Prese il calice con entrambe le mani e, con cautela, sorbì un breve sorso. Non era solito consumare il vino, tanto meno la birra, perché suo padre gli aveva inculcato l'idea che ogni sorso sprecato a quel modo era un soldo in meno che finiva loro in tasca. Quindi quel breve assaggio gli diede subito una sferzata di euforia, non tanto per la quantità, che era minima, quanto perché quel gesto era per lui una forma di ribellione.

“Mangia un pezzo di carne.” continuò la Sforza, indicando stavolta lo stufato.

Il ragazzo non fece domande e prese un quadratino di cinghiale, masticandolo con gusto. Anche quelle pietanze finivano di rado nella sua pancia, perché a lui, come al resto della sua famiglia, di norma erano destinate zuppe di verdure o minestroni con i maccheroni.

Solo quando ebbe deglutito, il figlio del locandiere si fece due domande e, inclinando di lato il capo, chiese: “Non vi fidate di noi..?”

Caterina, che stava ancora aspettando di vedere il ragazzo stramazzare a terra per colpa di qualche veleno, trovò arguta la sua deduzione. Fino a un momento prima l'aveva etichettato come uno stupido qualunque, che faceva quello che gli veniva detto senza nemmeno domandarsene il motivo.

Doveva ricredersi.

“Sei sveglio.” gli disse, con un sorriso, prendendo il calice e bevendo un lungo sorso di birra.

'E anche bello' pensò, mentre il liquido chiaro le scivolava nella gola, scaldandola più di qualunque altra cosa.

Il giovane non accennava ad andar via e la donna, poco per volta, si mise a mangiare, continuando a guardarlo e maledicendosi per il suo sangue caldo, che la portava a pensare a certe cose anche in un momento del genere. Avrebbe dovuto pensare solo a quello che avrebbe fatto il giorno dopo, arrivata a Firenze. Avrebbe dovuto ragionare sulle parole migliori, sull'atteggiamento da tenere. Al più, avrebbe dovuto chiudersi in silenzio a pensare a tutto quello che stava passando e a come gestire un eventuale fallimento.

E invece, mentre il ragazzo che le aveva portato la cena s'imporporava sempre di più, lasciando scorrere su di lei il suo sguardo, più non riusciva a pensare ad altro.

Come aggravante, quel giovane aveva più o meno l'età che aveva Giacomo quando lei se n'era innamorata, e aveva una prestanza fisica molto simile. Però aveva anche la pronuncia spiccata e inconfondibile che aveva animato anche la voce di Giovanni. Per Caterina era quasi una tortura, da un lato, e una benedizione, dall'altro. Poteva illudersi di averli ancora entrambi, pur non avendo più nessuno dei due.

Finita la carne in un batter d'occhio e bevuta tutta la birra, Caterina si alzò e lo ringraziò, facendo quell'ultimo tentativo per resistere a una tentazione a cui avrebbe preferito non essere così tanto sensibile: “Era tutto molto buono. Dillo, a tuo padre. Prendi il vassoio e vattene.”

Lui annuì, fece un passo avanti, per avvicinarsi al vassoio, ma invece di allungare una mano per prenderlo, voltò il viso verso di lei, abbozzando un sorriso un po' teso. La Tigre non resistette oltre e approfittò di quella posizione per provare a baciarlo.

La risposta pronta e fin troppo irruenta che ottenne le fece capire che non avrebbe incontrato nessun ostacolo. L'unica cosa che avrebbe potuto fermarla era la sua coscienza.

Lo allontanò appena da sé, posandogli una mano sul petto e lasciandola scivolare poco per volta verso il ventre e da lì al fianco. Ciò che sentiva sotto le dita, malgrado la presenza dei vestiti, le piaceva.

Mordendosi il labbro, rinunciò a combattere: “Credi che sia un problema, se ritardi un po' a tornare di sotto..?”

“Io...” il ragazzo aveva la mente spenta, l'unica cosa che sentiva distintamente era il tocco di quella donna sconosciuta e il suo sapore che gli aleggiava ancora sulle labbra.

“Pensi che qualcuno ti verrà a cercare?” domandò, scegliendo meglio le parole, la Leonessa.

A quel punto il figlio dell'oste parve pensarci meglio. Suo padre gli aveva chiesto di badare a quella cliente con grande attenzione, servendola come fosse stata una gran signora, anche a costo di presenziare a tutta la sua cena e star di sopra tutta sera.

Perciò, con una vertigine nel pensare a cosa stava accettando di fare, fece segno di no con il capo e gracchiò, la voce arrochita per la tensione e l'incredulità della fortuna che gli stava capitando: “No, no, non verranno a cercarmi...”

“Bene.” soffiò la Sforza e, senza aspettare altro, lasciò cadere in terra il telo in cui si era avvolta, godendosi l'espressione del ragazzo che aveva davanti, guidando le sue mani sul suo corpo e facendolo poi spogliare a sua volta.

Era una situazione che la Tigre ormai conosceva molto bene. Sapeva come gestirla, sapeva cosa aspettarsi, eppure era sempre qualcosa di diverso. Quel ragazzo era fresco, giovane, e si stava dimostrando anche molto intraprendente.

In un certo senso, mentre gli si abbandonava, senza mai in realtà permettergli di prendere realmente il controllo, Caterina ebbe l'impressione di rivivere la frizzantezza della passione che l'aveva consumata quando al suo fianco c'era Giacomo.

Era tutta una sua fantasia, chiaramente, ma l'assecondò. Aveva bisogno di sciogliere i nervi e liberare la mente e voleva considerare l'aver trovato sulla sua strada quell'amante inatteso un dono del cielo, una risposta alle sue richieste più silenziose.

“Quanti anni hai?” chiese, in un sussurro, la Contessa, quando si trovò alla fine sotto le coperte, stanca, ma soddisfatta, il figlio dell'oste che la stringeva ancora a sé, premendo il petto contro la sua schiena e le labbra sul suo collo.

“Diciassette.” rispose lui, quasi sulla difensiva, forse temendo che ammetterlo avrebbe allontanato quella donna così sensuale e disponibile.

'Lo sapevo' pensò la Leonessa: 'l'età che aveva il mio Giacomo quando ci siamo conosciuti'.

“Sei molto giovane...” disse invece, senza sbilanciarsi troppo, lasciandolo nel dubbio se quel fatto fosse o meno positivo: “Io ho quasi vent'anni più di te.”

Il ragazzo, che aveva capito senza problemi di aver preso un'amante molto più matura di lui, non si era comunque aspettato una differenze del genere. Malgrado i capelli bianchi, il corpo che stava abbracciando dimostrava almeno dieci anni in meno di quelli dichiarati.

“Per me non è un problema...” cominciò a dire lui, premendo il volto contro la spalla di lei.

La sua voce, bassa e dall'inflessione forte, portò la Tigre a pregarlo: “Parlami di te.”

Mentre egli cominciava a raccontare di un'infanzia un po' noiosa, ma tranquilla, Caterina smise di seguire il senso delle sue parole, prestando attenzione solo al suo accento, che la riportava ai giorni in cui cominciava a conoscere Giovanni e ad apprezzarlo, finendo per innamorarsi di lui tanto da decidere di rischiare di nuovo tutto, pur di sposarlo e averlo solo per sé.

Perdendosi sempre di più nei ricordi, la donna pian piano trovò sempre più estraneo il timbro del giovane, fino a trovarsi quasi infastidita dalla sua presenza, perché le mani che le stringevano a tratti il seno e a tratti la coscia non erano quelle affusolate e dolci del Medici o quelle più prepotenti e frenetiche del Feo, ma quelle grezze e un po' ruvide di un ragazzo d'osteria.

Interrompendolo a metà frase, la Contessa disse: “Va bene, basta così... Ti staranno cercando, a questo punto. Non voglio che ti trovino qui. Vattene.”

Un po' perplesso per i modi improvvisamente sbrigativi della donna, il ragazzo tacque subito e, abituato a eseguire gli ordini, anche se in frangenti diversi, si mise a sedere sul letto e, dopo un solo attimo di esitazione, si chinò per recuperare i vestiti.

Caterina, rigirandosi appena tra le spesse coperte invernali si mise a fissarlo, mentre si risistemava illuminato dalla luce tremula del camino.

Il giovane, rosso in viso e coi capelli scompigliati, invece, arrischiava un'occhiata ogni tanto, in imbarazzo. A vederlo così, non sembrava nemmeno quello che fino a poco prima le aveva dato del filo da torcere a letto.

“Di... Di dove sei?” chiese lui, come se parlare rendesse più facile infilarsi le brache: “Solo per curiosità – soggiunse – non perché voglia farmi gli affari tuoi...”

La Sforza, che in fondo non era avvezza a sentirsi dare del tu dai suoi amanti occasionali, dato che quasi tutti erano suoi soldati e, proprio per questo, anche in momenti così intimi non si permettevano mai di cercare una familiarità maggiore del solito nel parlarle, rimase un attimo stranita, prima di rispondere: “Non sai chi sono?”

Il ragazzo, ormai quasi del tutto rivestito, la guardò di nuovo e poi, deglutendo, scosse il capo: “No, non vi conosco...” e poi domandò: “Dovrei?”

“Probabilmente no.” convenne Caterina, che era stata convinta fin dall'inizio che l'oste avesse erudito suo figlio circa la sua identità, prima di mandarlo di sopra da lei: “Comunque... Prova a dirmelo tu, di dove sono.”

Intrigato da quello che stava interpretando come una sorta di gioco di complicità, il giovane si mise un momento a sedere sul letto accanto a lei, allungando una mano fino a passarne in rassegna la sagoma, da sopra le coperte: “Devo pensarci...” prese tempo, cominciando a ragionare sui vari accenti che aveva sentito negli anni uscire dalle labbra dei tanti viandanti passati dalla locanda di suo padre: “Di Milano?”

La Tigre fu tentata di contraddirlo, ma poi si rese conto che aveva più ragione lui e così sorrise, un po' spenta: “Bravo, hai indovinato al primo tentativo. L'avevo detto che eri sveglio.”

Il ragazzo sollevò l'angolo delle labbra e poi, con un sospiro, smise di accarezzarla, alzandosi e dicendo: “Allora me ne vado...”

“Passa una buona notte.” lo salutò la Leonessa: “Ah, e porta indietro tutto...”

Il giovane prese il vassoio, che era stato accantonato in terra, poi sollevò appena una mano, andò alla porta e si congedò con un semplice: “Spero che prima o poi vorrai essere ancora nostra ospite.”

La Sforza avrebbe voluto ribattere in qualche modo, magari anche con una battuta di spirito, ma ormai la porta si era richiusa e lei si trovava di nuovo sola. Respirando lentamente l'aria che aveva ancora il sentore del figlio dell'oste, la Contessa si rigirò tra le lenzuola, finendo per premere il viso contro il cuscino.

Era stata una bella distrazione, ma il suo effetto era già finito. Avrebbe voluto poter non pensare a nulla, e invece, oltre alle preoccupazioni usuali, adesso si era anche messa a rimuginare sul fatto di non aver portato con sé la sua pozione per evitare di avere figli. E, non paga di ciò, aveva cominciato a chiedersi anche se fosse stata una saggia idea lasciare tutto nelle mani di Galeazzo.

Sapeva che Numai avrebbe saputo fare bene da cuscinetto e che, in caso di pericolo, Giovanni da Casale si sarebbe dimostrato un ottimo sostegno per suo figlio, ma restava il fatto che il suo quintogenito non aveva ancora quattordici anni...

Ci mise un bel po', alzandosi dal letto più volte e girando per la stanza come una penitente, ma alla fine, mentre la pioggia iniziava a perdere intensità nel battere contro la finestra, si disse che, in ogni caso, in quel momento, a quell'ora, in quella locanda, non avrebbe potuto far altro che aspettare l'arrivo dell'alba.

Così, accoccolatasi al caldo, sfinita, si addormentò.

 

Bianca si fece il segno della croce, poi, dopo aver controllato che il canonico che stava vagando per la chiesa in preghiera non la stesse guardando, si baciò la punta delle dita e, in un gesto simbolico che aveva scoperto dare una certa pace, premette poi la mano sulla pietra tombale che commemorava Ottaviano Manfredi.

Un po' le dispiaceva che il faentino fosse sepolto assieme a una zia, perché avrebbe preferito poter raccogliersi sulle sue spoglie in modo più raccolto, ma d'altro canto quella sistemazione condivisa le permetteva di recarsi lì abbastanza sovente senza che nessuno potesse dire con assoluta certezza che lo faceva solo in memoria di Ottaviano.

Quando entrava in San Girolamo, infatti, la ragazza si premurava di visitare ogni tomba, tenendo però quella di Manfredi – e di sua zia Barbara – sempre per ultima. Impiegava anche qualche minuto a sussurrare un requiescat davanti alla lapide di Giacomo Feo, per quanto la cosa le risultasse penosa, e così si era costruita l'immagine di una giovane donna pia e colma di compassione per i morti.

Pure quella mattina non era andata in chiesa per un'opera di carità cristiana, ma unicamente perché si sentiva sola. E quel faentino che per una breve parentesi di tempo era stato sulla carta il suo promesso sposo rappresentava per lei una sorta di appiglio, un pretesto per sentirsi meno abbandonata. Aveva controllato che la lapide fosse ben lucida e che ai piedi della tomba non ci fosse polvere. Aveva pregato per la sua anima e poi, quando aveva deciso che il tempo che si era concessa per ricordarlo era anche troppo, gli si era appellata, chiedendogli di proteggere sua madre, la Tigre di Forlì, che aveva avuto la pessima idea di andarsene a Firenze da sola, senza pensare ad altro se non ad assecondare la propria furia.

'So che è anche per questo che vi piaceva' aveva ammesso, tra sé e sé, proprio mentre usava la punta delle dita per trasferire il suo bacio alla fredda pietra tombale.

Cercando di riscuotersi, la Riario passò un momento davanti all'altare. Dopo una breve genuflessione e un'altra croce, decise di andarsene.

Indossava un abito comodo e non molto appariscente e, con il mantello scuro che aveva indossato per fronteggiare la pioggia, sapeva di poter passare benissimo come una comune forlivese. Tuttavia, malgrado l'abbigliamento anonimo e i capelli biondi celati sotto il cappuccio, mentre da San Girolamo attraversava parte della città per tornare a Ravaldino, venne salutata da molta gente, che l'aveva riconosciuta ugualmente.

Le faceva piacere, in fondo, perché aveva passato buona parte della sua infanzia e tutta la sua adolescenza a mescolarsi con i sudditi di sua madre. Si trovava a suo agio con persone di ogni estrazione sociale e ringraziava intimamente la Leonessa per averle permesso di arrivare a diciotto anni con un'apertura mentale rara per una donna di rango, e una cultura solida come pochissime altre figlie femmine ricevevano.

Però, man mano che si avvicinava alla statua di Giacomo Feo, che sotto la pioggia battente sembrava quasi un segno apocalittico che non un omaggio a un ventiquattrenne morto in modo orribile, si trovò a pensare che quella sua riconoscibilità potesse diventare un problema.

Sua madre stava facendo del suo meglio per preparare a lei e ai suoi fratelli un piano di fuga, ma ci si poteva davvero fidare dei loro sudditi? Se avessero ritardato troppo, nel lasciare Forlì, qualcuno, nel riconoscerla, per quanto sotto mentite spoglie, l'avrebbe fatta trovare dai francesi?

Stringendosi di più nel mantello, fece del suo meglio per evitare le ultime pozzanghere ed entrò alla rocca quasi con sollievo. Forse non era l'ambiente più conveniente per una giovane donna della sua estrazione sociale, ma lei si trovava molto bene tra i soldati di sua madre. Ogni volta, poi, in cui si sentiva circondata dai muri spessi di Ravaldino, si sentiva protetto e in qualche modo al sicuro da tutto.

“Madonna Bianca...” a chiamarla era stato Cesare Feo, che, pur non ricoprendo più un ruolo attivo nei quadri di potere, passava buona parte della sua giornata alla rocca, specie nel tentativo di badare un po' al nipote Bernardino.

L'uomo la stava aspettando in fondo alle scale a aveva un'espressione preoccupata che non lasciava pensare nulla di buono.

“Ditemi...” fece la ragazza, togliendosi il cappuccio e avvicinandosi.

Anche se avrebbe di gran lunga preferito invitarlo ad entrare, invece che restare nell'androne che rimaneva abbastanza esposto al freddo, aveva imparato da sua madre che in alcuni momenti non si deve perdere tempo.

“Ho sentito vostro fratello Galeazzo discutere con i vostri zii... Insomma, coi fratelli di vostra madre che sono arrivati qui da poco.” cominciò a dire il Feo, abbassando ancora un po' la voce e guardandola di sottecchi: “Ora... Non sta più a me dire certe cose, per cui me ne sono andato, anche se credo che...”

“Vado a dare un'occhiata io.” assicurò la Riario, cogliendo quale fosse il punto: “Dove sono, adesso?”

“Sono di sopra, in corridoio, non lontano dalla sala di vostro fratello Giovannino... Ero andato da lui, è per quello che li ho visto. Io non voglio impicciarmi, davvero... È solo che mi sembrava in difficoltà, altrimenti non mi permetterei mai di...” si scusò allora Cesare, subodorando nel cipiglio di Bianca un qualcosa che gli ricordò troppo la Tigre, per permettergli di sentirsi tranquillo.

La ragazza, comunque, non rimase lì ad ascoltarlo. Quando l'ex castellano era appena a metà frase, la Riario era già a metà scala.

Non le ci volle molto per trovare Galeazzo e gli altri. I toni si stavano alzando e già all'imboccatura del corridoio poteva distinguere qualche parola isolata. Aguzzando la vista, notò come oltre a suo fratello c'erano, come predetto da Cesare Feo, Alessandro e Francesco Sforza – mentre mancava il Contino di Melzo, che, tra tutti gli zii conosciuti da poco da Bianca, sembrava in effetti quello meno incline a metter becco nelle faccende che non lo riguardavano molto da vicino – ma tra loro c'era anche qualcuno che la Riario non si aspettava: il suo fratellastro Scipione.

“Dico solo che mi sembra assurdo – stava dicendo Francesco, le mani strette a pugno contro i fianchi e il naso adunco che vibrava a ogni respiro – e quindi voglio sapere chi è la persona con cui devo parlare davvero per avere una risposta!”

“Come ho già detto – ribatté Galeazzo, le guance arrossate e gli occhi verdi che faticavano a restare incollati a quelli dello zio – mia madre ha incaricato me.”

“Io trovo impossibile che Caterina se ne sia andata all'improvviso, come dite voi..!” sbottò a quel punto Alessandro, che, piuttosto di porre l'accento sulla scelta poco assennata di dare il comando a un quattordicenne, sembrava deciso a smascherare un comportamento della sorella che trovava inconcepibile.

“Se non credete che mia madre sia andata via all'improvviso e senza darne notizia a nessuno – si intromise a quel punto Bianca, che ormai li aveva raggiunti e aveva anche capito abbastanza bene che cosa stesse mettendo in difficoltà il fratello – significa davvero che non la conoscete.”

“Infatti – commentò Scipione, dimostrandosi, con grande sorpresa della Riario, dalla sua parte – è quello che ho cercato di dire anche io. La Tigre non è nuova a questo genere di azioni, ma quando fa qualcosa così, ha le sue buone ragioni e sa benissimo quello che fa.”

Galeazzo, sentendosi di nuovo spalleggiato non solo dal fratellastro, ma anche dalla sorella, raddrizzò un po' la schiena e convenne: “Infatti. Mia madre aveva calcolato tutto. Mio fratello è a Imola, io sono qui. Non c'è bisogno d'altri.”

Improvvisamente, come messi sotto scacco dai tre Riario che avevano davanti, i due Sforza si scambiarono un'occhiata veloce e poi, cambiando atteggiamento, borbottarono qualche scusa.

“Se è così, se vi fidate davvero – disse Alessandro – allora ci fideremo anche noi.”

Gli altri stavano per congedare i due milanesi, ma l'uomo non aveva finito.

“Io e i miei fratelli siamo venuti qui per partecipare a una difesa condotta in modo serio. Siamo venuti qui per stare agli ordini di nostra sorella, della Tigre di Forlì.” precisò Alessandro, guardando a uno a uno i Riario che aveva davanti a sé: “Sappiate che è lei, il motivo per cui siamo qui, quindi, se dovesse non tornare...”

“Tornerà.” assicurò Galeazzo, ostentando una sicurezza così incrollabile che finalmente lo Sforza si aprì in un sorriso.

Dando una pacca sulla spalla al nipote, decretò: “Vi daremo fiducia. Sperando che vostra madre torni presto.”

Con un cenno del capo, Alessandro e Francesco se ne andarono, confabulando tra sé, e Bianca, guardando i fratelli, chiese: “Possiamo fidarci di loro?”

Scipione sembrava il più restio a dire di sì, ma Galeazzo, deglutendo, rispose: “Nostra madre si fida, dobbiamo farlo anche noi. Sperando che torni presto.”

“Ma è andata davvero a Firenze?” chiese il più grande, che aveva saputo la verità solo quella mattina.

Era, in effetti, da quasi due giorni che non la vedeva in giro per Ravaldino, ma si era convinto che fosse così impegnata, tra il controllare le mura e l'ispezionare il Quartiere Militare, da non aver avuto tempo di bighellonare per la rocca.

“Così sembra... O, almeno, così abbiamo pensato noi.” disse, cauta, la Riario: “Secondo Giovanni da Casale, potrebbe essere.”

Scipione si accigliò. Non aveva mai capito a fondo quella donna strana che, da moglie tradita, aveva comunque sempre voluto pagare il suo vitalizio, anche alla morte del Conte Girolamo, e anche in frangenti come quello faticava a comprenderla. Però aveva capito una cosa di lei: se si prendeva un impegno, lo faceva fino alla fine.

Si era presa l'impegno di combattere fino alla morte, e così avrebbe fatto, senza ombra di dubbio.

“Se è andata a Firenze, speriamo che torni con buone notizie.” concluse allora Scipione, posando poi una mano sulla spalla del fratello e una su quella ancora umida di pioggia della sorella, sospirando: “Tanto noi che altro possiamo fare, se non aspettare che torni?”

 

Era ormai pomeriggio. Caterina aveva fatto del suo meglio per arrivare a Firenze prima che fosse sera, e il suo impegno era stato premiato. Le mura della città si stagliavano come disegnate davanti a lei.

Il cielo era coperto e un vento tagliente le imporporava il volta, per quanto cercasse di tenerlo al riparo con il mantello. Se non altro, non pioveva più.

Quella mattina, appena svegliata, aveva indossato l'abito da donna – per poter essere accolta più pacificamente a Firenze – si era assicurata che il suo stallone stesse bene, aveva messo qualcosa sotto i denti e poi aveva ringraziato il locandiere per l'ospitalità. Il modo un po' insinuante con cui l'uomo le aveva risposto con un semplice 'dovere' l'aveva portata a chiedersi quanto l'oste fosse al corrente di ciò che suo figlio e lei avevano fatto la sera prima.

Tuttavia, già mentre gli chiedeva dei consigli per raggiungere Firenze il più in fretta possibile, l'imbarazzo era passato e nella sua mente era ritornato vivo un solo proposito: andare alla Signoria e chieder conto di quanto il Calmeta le aveva scritto.

E così si ritrovava a nemmeno mezz'ora da Firenze con la mente ancora in subbuglio. Anzi, quell'ultima mezza giornata di viaggio aveva avuto l'unico compito di confonderla e farla inferocire ancora di più.

Mentre si avvicinava alla culla di quella che tutti chiamavano pomposamente Repubblica Fiorentina, la Tigre aveva cominciato a sentire le viscere rigirarsi, perché alla collera che l'aveva spinta a prendere il suo purosangue e partire, se ne stava aggiungendo un'altra, molto più sudbola e dolorosa.

Ci aveva messo quasi tre giorni di viaggio, per arrivare, ma alla fine quella serpe cominciava a rimorderla. Ormai i francesi erano prossimi a partire e spazzarli via e quindi lei avrebbe dovuto dire addio, per sempre, ai suoi figli: con quel colpo di testa, stava replicando l'errore che anche il suo terzo marito aveva fatto, più o meno un anno addietro.

Per inseguire una causa probabilmente persa – nel suo caso la fedeltà di Firenze, nel caso di Giovanni era stato l'onore di Ottaviano – stava rinunciando a buona parte degli ultimi giorni che le era concesso di passare accanto a suo figlio Giovannino.

Era una consapevolezza angosciante e dilaniante, ma ormai era andata troppo oltre e rinunciare non avrebbe avuto senso. Dando di speroni al suo cavallo, puntò la porta cittadina, da cui ancora passavano uomini e carretti, e, scrollandosi un po' di polvere dalle sottane, si preparò a dichiarare la propria identità, sperando non solo di essere creduta, ma, sopratutto, di non cadere in una qualche trappola di suo cognato Lorenzo.

 
 
   
 
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