Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    10/11/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Entrare in città era stato anche troppo facile. Caterina aveva usato solo la sua parola, per avere il permesso, e, anche se portava una spada al fianco, l'unica cosa che le due guardie che stavano al portone avevano visto erano state le due monete d'oro che aveva messo loro in mano.

Una volta per le vie di Firenze, si era resa conto di non sapere che direzione prendere. Tra quei palazzi e quei vicoli sconosciuti non riusciva più a orientarsi e nemmeno sollevare il naso in cerca di un punto di riferimento certo, come una torre o un campanile serviva a qualcosa.

Era un mercoledì, un giorno nel cuore della settimana, e infatti i fiorentini brulicavano come formiche, vociandosi l'un l'altro, così presi dai propri affari da non perdere troppo tempo a osservare una donna a cavallo quale era lei.

Non voleva più tergiversare: doveva andare alla Signoria, finché aveva ancora il sangue che scorreva nelle vene come lava incandescente. Aveva sulla punta della lingua le parole da dire, e sentiva le mani fremere.

Il suo stallone si stava agitando. Pur essendo stato allevato per diventare un cavallo da guerra, la confusione dei mercanti e dei cittadini che riempivano la strada erano per lui due fonti di ansia. Era molto più avvezzo a resistere al suono dei colpi di cannone, che a quel genere di confusione.

La Sforza lo capiva. Anche lei si sentiva frastornata. In parte era per via del viaggio, e in parte proprio per il dedalo in cui si era infilata. Nemmeno Milano, per come se la ricordava, era così pulsante di vita.

“Da che parte per il palazzo della Signoria?” chiese a un certo punto a una popolana che arrancava a bordo della strada, con una gallina tenuta per le zampe.

Questa la guardò stranita e poi, ridendo, scosse il capo: “Questo è palazzo Medici – rivelò indicando l'edificio che stava alla loro destra – sempre dritto e si passa il Duomo e da lì si va al palazzo...”

La Tigre ringraziò, non dando peso all'espressione divertita di quella fiorentina che, evidentemente, trovava comico pensare che qualcuno non conoscesse quelle basilari informazioni.

Passarono quasi due minuti, prima che la Contessa si rendesse, però, davvero conto di quanto le era stato detto. Palazzo Medici, ecco cosa le era stato detto. Si voltò di scatto, in direzione dell'edificio che aveva da poco superato. Là viveva ancora Lorenzo. E sempre là aveva vissuto anche il suo Giovanni. Pur essendoci già stata da bambina, assieme a suo padre, si accorse di non ricordare assolutamente nulla di quel posto.

La chiesa di San Lorenzo doveva essere vicinissima. La tentazione di andare sulle spoglie del marito, prima di recarsi alla Signoria, era fortissima. Però... Però stava quasi per venire buio, non sapeva fino a che ora si lavorasse al palazzo, non voleva dover rimandare al mattino dopo.

Avrebbe trovato il tempo di sostare sulla tomba di suo marito prima di ripartire.

'Anche da morto – pensò, con rammarico, mentre dava un colpetto con il tallone al suo cavallo per farlo andare più veloce – devi aspettare che prima mi occupi degli affari di Stato...'.

Più andava avanti, più sentiva il cuore battere in fretta. Il vento, anche tra le case, la sferzava sollevandole il bordo delle sottane. Aveva notato che, più andava verso il cuore della città, più gli sguardi verso di lei si facevano interrogativi. In realtà pensava fossero dovuti al suo modo di cavalcare, non adatto, secondo l'etichetta corrente, a una donna. Tuttavia quella sensazione di essere al centro dell'attenzione la mise in guardia, anzi, le mise fretta.

Era passata dalla porta cittadina senza problemi, ma poteva essere che suo cognato già sapesse della sua presenza in città? Doveva aspettarsi qualcosa da un momento all'altro? Doveva aver paura?

Oltrepassato il Duomo, sbucò in una piazza dal respiro ampio, illuminata dalla luce calante del tramonto. Il palazzo poteva ben riconoscerlo. Ora che ci guardava bene, infatti, il profilo altero e allo stesso tempo quasi fragile di quella costruzione riaffiorava poco per volta nella sua memoria.

Da bambina, quando al fianco di suo padre era passata davanti a quel palazzo, mai avrebbe pensato di doverci tornare un giorno, men che meno in quelle condizioni.

Si avvicinò all'ingresso e smontò di sella. Le guardie che stavano davanti al portone la fermarono, chiedendole chi fosse.

“Badate al mio cavallo.” disse lei, senza rispondere: “E guai a voi se quando esco non lo ritrovo.”

I due uomini, però, non cedettero, impedendole di passare e non prendendo le redini.

Con un sospiro pesante, sentendo la collera riaffiorare già in tutta la sua potenza, la Leonessa disse, piano: “Sarà meglio per voi far quello che vi dico.”

“Le donne qui non entrano.” mise in chiaro uno dei due: “Tanto meno una straniera.”

“Sono una cittadina fiorentina.” lo contraddisse lei: “Mandate a chiamare qualcuno che si occupa dell'anagrafe di questa città e ve lo confermerà.”

“Chi siete?” insistette allora la guardia più taciturna.

“Sono Caterina Sforza dei Medici.” rispose allora lei, senza fare una piega.

I due uomini si guardarono, apparentemente molto indecisi sul da farsi. Sfruttando quel momento di incertezza, la donna mise le redini del suo purosangue in mano alla guardia che le stava più vicina e passò loro in mezzo.

I due, così attoniti davanti a quel comportamento, gridarono per qualche secondo degli avvertimenti, ma poi, proprio quando stavano per fare qualcosa, vennero freddati dalla voce del Segretario di Stato, che stava entrando in quel momento: “Chi era quella? Perché l'avete fatta entrare armata nel...” la sua voce si spense a metà frase, quando, stringendo un po' gli occhi, Machiavelli riconobbe i capelli bianchi e sciolti della Tigre di Forlì: “Che diamine ci fa qui..?”

 

“Certo che vi avrò volentieri a cena.” assicurò Dionigi Naldi: “Solo mi chiedevo se non voleste prima controllare le porte...”

Ottaviano, che aveva giurato a se stesso di temporeggiare il più a lungo possibile, in modo da ritornare a Forlì solo quando vi fosse tornata sua madre, scosse la testa: “No, non oggi. Ormai fa quasi buio... E si congela. Lo farò domani, con tutta calma, sfruttando le ore più luminose e calde della giornata.”

Il castellano strinse le labbra, ma non osò dire nulla. In effetti era vero. Stava scendendo in fretta la sera, e il freddo si era intensificato molto. Tuttavia la pioggia che era ripresa a cadere incessante non sembrava aver alcuna intenzione di trasformarsi in neve, e quindi non si poteva dire propriamente che si congelasse.

“Intanto – continuò il Riario, che aveva assunto un piglio poco consono al suo solito modo d'atteggiarsi – vorrei che venisse acceso il fuoco nella mia stanza e che mi venisse portato qualcosa da bere.”

Dionigi annuì, sforzandosi di apparire servile e non oltremodo desideroso di liberarsi in fretta del figlio della Tigre, come di fatto era. Anche se nutriva ancora per la sua signora un profondo senso di rispetto e lealtà, non aveva mai sopportato Ottaviano, e gli errori che stava collezionando durante il suo soggiorno imolese non erano che la goccia che stava facendo traboccare un vaso già straripante.

“Forse, comunque, i notabili della città avrebbe gradito avervi come ospite, per la cena...” provò a dire Naldi, che aveva davvero subodorato una certa insofferenza per la distanza presa dal Riario.

“Io preferisco stare qui alla rocca.” rifiutò all'istante il giovane: “Sono molto più al sicuro. Se qualche nobile imolese vorrà avere un'udienza, dovrà fare richiesta e vedrò se sarà il caso di accoglierla.”

Aggirando la scrivania, che da sola quasi riempiva lo studiolo che un tempo era stato di Gian Piero Landriani, il castellano chiese: “Volete che vi accompagni nella vostra stanza, allora?”

Ottaviano, un po' insospettito da quella proposta, che in realtà non aveva alcun secondo fine, oppose un secco: “No, ditemi solo come arrivarci.”

“E io che cominciavo a non riconoscervi...” commentò tra sé Dionigi, rivedendo, finalmente, in quel tono teso e impaurito, il Riario che aveva conosciuto a Forlì.

Il ventenne finse di non aver né sentito né capito ciò che il castellano aveva sussurrato, e ascoltò attento le indicazioni per raggiungere l'alloggio. Non avrebbe sopportato di doverselo far ripetere.

“Non mi avete detto come stanno mia moglie e le mie figlie...” soggiunse alla fine Naldi, che aveva resistito fino a quel momento, ma che non aspettava in realtà altro se non avere un momento da solo con il figlio della Contessa per chiedere notizie della sua famiglia, rimasta a Ravaldino come garanzia della sua fedeltà.

“Non vi è vietato scrivere loro. Dunque fatelo, invece di fare domande a me.” lo liquidò Ottaviano, senza guardarlo nemmeno.

Mentre il Riario lasciava lo studiolo, Dionigi deglutì rumorosamente, ricacciando indietro una buona dose di orgoglio e vergogna. Non sopportava di essere trattato così da uno del genere.

Era vero, non gli era vietato scrivere a Dianora e alle sue figlie, ma non l'aveva ancora fatto perché temeva troppo il giudizio della Sforza. Nemmeno sua moglie gli aveva ancora fatto recapitare una missiva, probabilmente per lo stesso motivo. Accettare la situazione senza cercare contatti era il segnale di abnegazione più forte che potesse dare, e voleva continuare così, nella speranza che, al momento buono, la Tigre se ne ricordasse e permettesse a Dianora e alle bambine di scappare e mettersi in salvo.

Passandosi una mano sul volto, sentendosi improvvisamente troppo stanco, Dionigi sospirò e lasciò a sua volta lo studiolo, per andare nelle cucine a ordinare qualcosa da bere per il Conte.

 

Quando Caterina entrò nella sala consiliare, calò il silenzio. La luce calante che entrava di taglio dalle finestre dava una sensazione quasi irreale a quella scena.

La donna restò per qualche secondo immobile, incapace di parlare. Malgrado tutto quello che l'aveva spinta fino a lì, ora che si trovava davanti i membri della Signoria al completo, sentiva la gola seccarsi e la voce morire.

“Chi è questa donna?” chiese il Gonfaloniere Soderini: “Come ha fatto ad arrivare fino a qui?”

“Sono Caterina Sforza – si presentò la Contessa, sentendo, intanto, arrivare delle guardie alle sue spalle, e sentendo quindi la necessità di aggiungere – dei Medici.”

Il silenzio che calò fu così improvviso e pressante che anche i soldati che l'avevano ormai raggiunta, circondandola, non osavano fiatare.

“Siete davvero voi?” chiese il Gonfaloniere, strizzando gli occhi verso di lei, come se fosse davvero in grado di riconoscerla.

Molti tra i presenti, a quella domanda, invece di cercare il volto della donna e provare a indovinarne la reale identità, si girarono verso Lorenzo Medici, l'unico, là dentro, che potesse rispondere a quella domanda con assoluta certezza.

L'uomo, gli occhi tondi che sfuggivano volutamente a quelli della cognata, incurvò appena le labbra verso il basso, e poi, suo malgrado, fece un breve cenno d'assenso con il capo.

“Sono io – annuì anche la Tigre – e mio cognato lo può confermare, dato che ci siamo già incontrati.”

Il Popolano, irritato nel sentirsi chiamare in mezzo in modo tanto esplicito, fulminò con un'occhiata la Sforza. Le loro pupille, per la frazione di un istante, si incontrarono, facendo tornare entrambi alla giornata infinita in cui si era celebrato il processo per l'affidamento di Giovannino.

Quando il Medici, con un sospiro, fece un cenno che la Leonessa colse appena, il Gonfaloniere sollevò una mano e ordinò alle guardie: “Lasciate.”

Gli uomini si ritirarono in buon ordine, e Caterina colse il nervosismo subitaneo dei fiorentini che le stavano davanti. Erano, ovviamente, tutti uomini, vestiti in modo elegante, con capperoni vistosi e abiti di raso e seta. Era il meglio che la Repubblica potesse offrire, eppure lei li detestava.

“Che cosa siete venuta a fare qui, armata e...” Soderini la squadrò attentamente, vedendo come il bordo del suo abito modesto, sotto al mantello, fosse molto sporco di polvere e malta: “In queste condizioni.” concluse l'uomo, nel chiaro intento di farla vergognare per la propria inadeguatezza.

La Tigre, però, non si lasciò scoraggiare, anzi, posando una mano sull'elsa della spada che portava al fianco, fece un respiro profondo e diede finalmente voce al tormento che l'aveva portata fino a lì, iniziando con un semplice: “I miei abiti sarebbero più puliti, se non fosse che ho dovuto affrontare quasi tre giorni di viaggio in sella al mio cavallo. E sarebbero di certo abiti più consoni, se non avessi dovuto usare tutte le mie sostanze per preparare la difesa del mio Stato.”

I membri del Consiglio pendevano tutti dalle sue labbra e, pur non conoscendone nemmeno uno, la Contessa ebbe l'impressione di aver già catturato l'attenzione di ciascuno in modo completo, e questo le avrebbe forse reso meno difficile il compito prefissato. L'unico che pareva del tutto avulso da ciò che lo circondava era Lorenzo, che giocherellava assorto con l'orlo della manica del suo giubbone blu scuro. Quello era l'unico dettaglio che impensieriva davvero Caterina, perché le era stato chiaro fin da subito che in quella sala era solo una la testa che contava, ed era proprio quella in cui sapeva di non poter fare alcuna breccia.

“Io sono qui per chiedere se il vostro aiuto arriverà o meno, quando la guerra toccherà Imola e Forlì.” proseguì a quel punto la Sforza.

“Cosa ve lo fa dubitare?” chiese il Gonfaloniere, guardando poi un attimo sopra la spalla della Leonessa, per seguire l'ingresso di Niccolò Machiavelli, che, con discrezione, si era messo a osservare la scena.

“Ho i miei motivi, e penso siano fondati.” fece lei, deglutendo, lo sguardo tentato di correre al Medici, ma con la determinazione sufficiente per non mollare un solo secondo gli occhi del Gonfaloniere, che ufficialmente era il suo interlocutore: “Inoltre, vorrei ricordarvi che sono mesi che perdete tempo, senza farmi sapere se avete o meno intenzione di rinnovare la condotta di mio figlio. A questo si potrebbe aggiungere l'ostinato silenzio che dimostrate, quando vi scrivo per chiedere di tornare a commerciare con me grano, o quando si tratta della compravendita di armi.”

“Dovete uscire un momento. Dobbiamo discutere e...” provò a prendere tempo il quarantasettenne Soderini, massaggiandosi la guancia perfettamente rasata.

“Non ce n'è, di tempo!” sbottò la Leonessa, sentendo la pazienza affievolirsi di minuto in minuto.

“Suvvia, non c'è bisogno di correr tanto... Noi se ne deve discutere, voi e la vostra scorta potete prendere un alloggio e...” continuò il Gonfaloniere, ma non fece in tempo a terminare il pensiero.

“Io di tempo non ne ho! Un esercito di almeno quindicimila soldati sta marciando verso le mie terre e sapete benissimo che non ho abbastanza uomini per difenderla!” il tono della Sforza zittì Soderini, ma lasciò attoniti anche tutti gli altri, che guardavano quella strana figura, un po' donna un po' erinni, che, con i capelli bianchi sciolti e le guance color porpora, agitava l'indice contro il Gonfaloniere, a metà tra l'ammonimento e la minaccia: “Io sono cittadina di Firenze! Ho un accordo, con voi! Siamo alleati! Siete obbligati a correre in mio soccorso, se ne avrò bisogno! E io devo averne la certezza!”

“Se noi corressimo in vostro soccorso contro il figlio del papa – disse a quel punto Soderini, con una calma gelida che cozzava con le parole caute che aveva usato fino a quel momento – allora il figlio del papa ci prenderebbe Pisa. Credete davvero che sarebbe una mossa intelligente, da parte nostra?”

“Quindi la nostra alleanza non vale nulla?” chiese Caterina, sentendo il sangue pulsarle nella testa come un tamburo da guerra.

Anche se il dubbio fino a quel momento era sempre stato forte, la certezza di aver perso una spalla come quella fiorentina la stava travolgendo in pieno, togliendole quasi le forze.

“Non ho detto questo...” tentennò allora il Gonfaloniere, cercando una conferma o una smentita in Lorenzo, che lo stava fissando in modo eloquente: “Dico solo che dipenderà molto dalle condizioni in cui...”

“La mia festa sarà la vostra vigilia.” sussurrò la Tigre, con voce tanto bassa che, non fosse stato per il silenzio quasi perfetto della sala, forse nessuno l'avrebbe sentita.

“Non vi capisco...” fece Soderini, deglutendo, gli occhi che correvano ancora al Medici, che, però, non lo stava più guardando.

Il Popolano, infatti, dopo quell'ultima affermazione della Sforza, più simile a un vaticinio che non a una battuta da diplomatica, gli aveva fatto sgranare gli occhi tondi e scolorire il viso incavato.

“Questo papa, da cui vi siete lasciati legare le mani, non si accontenterà di spogliare me. Io non sarò altro che la prima.” disse lentamente la Contessa, l'espressione che da furente si faceva distaccata e implacabile.

Con passo veloce e sicuro, arrivò fino alla scrivania dietro cui stava il Gonfaloniere e, fissandolo negli occhi, picchiò con forza un pugno sul legno.

“Oggi a me, domani a voi!” gridò, e poi, dedicando per l'ultima volta uno sguardo carico d'odio a suo cognato, che sapeva essere il vero motivo di quella manovra, girò sui tacchi e se ne andò.

La fretta che aveva nel mettere un piede davanti all'altro, man mano che si avvicinava al portone del palazzo, aveva sempre meno a che fare con la rabbia e sempre di più con la paura. Se ne vergognava, ma era così. Sapeva di aver esagerato e di aver passato il limite, anzi, probabilmente di aver infranto qualche legge. Le sue parole, il suo atteggiamento, il pugno che aveva dato, il fatto stesso che una donna come lei fosse entrata nella sala consiliare...

“Dov'è il mio cavallo?!” chiese, appena fu fuori e vide la guardia a cui aveva affidato le redini.

Sudando freddo, temendo non solo per la vita del suo stallone, ma anche e soprattutto di aver perso il mezzo di fuga più veloce che poteva avere, tirò un profondo sospiro quando l'uomo le indicò l'angolo dell'edificio dicendo: “L'ho legato a quell'anello...”

Mettendosi a correre giù dai gradini, Caterina finalmente riconobbe il manto nerissimo del suo purosangue. Con le mani che tremavano, sciolse il nodo delle redini e montò in sella, dando subito di speroni, ben decisa a uscire da Firenze il prima possibile.

Lorenzo aveva probabilmente gli estremi per farla catturare. Aveva osato troppo. Se l'avessero presa, magari anche solo con il pretesto di interrogarla o processarla, cosa sarebbe successo a Forlì?

Già era stato un azzardo lasciare la città per qualche giorno, figurarsi se i giorni si fossero trasformati in settimane e mesi.

Non sapeva bene che strada stesse facendo. Le sembrava grossomodo quella dell'andata, e, infatti, dopo aver passato il Duomo, fiancheggiò palazzo Medici. Avrebbe voluto potersi fermare, andare in San Lorenzo e vedere dove Giovanni era stato sepolto, ma sapeva di non averne il tempo.

Forse suo cognato non avrebbe fatto nulla, ma non era così scontato. Mentre guidava il suo cavallo tra la gente, in una Firenze che andava verso la sera, sempre più buia e sconosciuta, Caterina ebbe una sensazione strana.

Malgrado la frenesia di andarsene in fretta e la rabbia – anche verso se stessa – per il fallimento che aveva segnato la fine di quella missione, la Leonessa si trovò a notare il vento che si era alzato, molto più forte, rispetto a quando era arrivata, e la bellezza dei palazzi in mezzo ai quali galoppava veloce come un fulmine.

Aggrappata alle briglie dello stallone, inspirò a fondo le folate che portavano con loro il sentore di una città così viva e affascinante, a lei forzatamente ostile, ma comunque unico porto in cui potesse sperare di trovare rifugio per i suoi figli. Il cappuccio del mantello sembrava quasi una bandiera che garriva nel vento e i suoi capelli un'orifiamma.

Per lei quell'aria che la spettinava e l'avvolgeva nella sua corsa era come una carezza da parte del suo Giovanni. Era come se fosse lui, che, nell'unico modo in cui ormai gli era possibile, cercasse di abbracciarla e stringerla a sé.

Lasciando che fosse il vento ad asciugare le poche lacrime che le scivolavano dagli occhi, la Contessa pensò: 'Hai visto? Sono nella tua Firenze... Se solo ci fossi anche tu...'.

 

“Saresti dovuto restare a Milano finché il re non fosse partito.” disse Isabella, fredda, senza smettere di scrivere la lettera che aveva sulla scrivania.

Francesco si grattò la nuca e poi allargò le braccia: “Tanto partirà tra un paio di giorni... Non si sarebbe nemmeno accorto della mia presenza!”

“Tu sei il Marchese di Mantova!” gracchiò l'Este, poggiando la penna con tanta forza da rischiare di romperla: “Devi smetterla di pensare come un soldato qualsiasi! Se vogliamo che Mantova diventi importante, e intendo dire importante davvero, devi essere il primo a comportarti come se la fosse! Che cosa vuoi lasciare a tuo figlio?”

La donna, più o meno al terzo mese di gravidanza, si era portata una mano al ventre e l'altra alla bocca, gli occhi che facevano di tutto pur di non posarsi sul Gonzaga.

Francesco, che in tutta onestà non riusciva a capire l'acrimonia della moglie, spostò il peso da un piede all'altro e poi cercò di cambiare argomento, sperando che almeno quello potesse appianare un po' i dissidi tra loro, dato che dal suo ritorno, quella sera, non avevano fatto altro che litigare: “E dei cavalli che ci ha mandato la Sforza che mi dici?”

“Sono belle bestie.” ammise Isabella, senza sbilanciarsi troppo: “Specie la femmina.”

“E di quello che chiede in cambio cosa ne dici?” fece il Marchese, muovendo mezzo passo verso di lei.

“I Riario sono stati formalmente sollevati dal papa.” furono le uniche parole che uscirono dalle labbra dell'Este.

“Ma la sua è una causa giusta, e quei cavalli...” tentò di ribattere Francesco.

“Noi non aiuteremo una causa persa, per giusta che sia.” tagliò corto Isabella: “La Sforza sarà anche una donna degna di ammirazione per la sua tenacia, ma si è attirata l'odio del papa, e noi non dobbiamo fare altrettanto.”

Il Gonzaga stava per ribbattere in qualche modo, ma poi qualcosa lo trattenne. Forse era trovarsi nello studiolo privato di sua moglie – un luogo così intimo e colmo di oggetti preziosi e libri che lui non capiva da intimidirlo – o forse era la presenza stessa dell'Este, così altera e algida, ma qualunque cosa fosse, l'uomo capì che non sarebbe servito a nulla provare a ribellarsi.

Lui aveva già sbagliato troppe volte, aveva commesso troppi passi falsi e ogni volta era stata lei a rimetterlo in piedi, spesso a un prezzo molto alto.

“E quindi che facciamo? Le rimandiamo i giannetti?” chiese alla fine il Marchese, sconfitto come non mai in vita sua.

I cavalli erano la sua grande passione, l'unica consolazione che gli restava davvero nella vita, perché non c'era battaglia o bordello che gli desse la stessa soddisfazione di una bella cavalcata in sella a uno degli esemplari migliori della sua scuderia. Anche quella sera, quando era rientrato a Mantova, saputo dell'arrivo delle due nuove bestie, aveva innanzi tutto voluto vedere loro e solo dopo la moglie. La figlia, poi, aveva addirittura deciso di salutarla la mattina seguente, dopo che avesse avuto il tempo di controllare le stalle e vedere come stessero tutti i suoi cavalli.

Adesso, pensare di dover restituire la giumenta e lo stallone che la Tigre di Forlì gli aveva regalato, era per lui un vero dolore.

“Rimandarglieli?” chiese Isabella, accigliandosi e tornando alla scrivania dopo aver acceso qualche candela in più: “E perché mai? Nella lettera dice che sono un regalo. I regali non si restituiscono.”

“Ma era un regalo interessato.” fece notare il Gonzaga.

“Non ci ha chiesto nulla in modo esplicito.” sottolineò la Marchesa, sollevando i palmi delle mani e le sopracciglia: “Ha solo fatto un elenco delle sue disgrazie, delle quali mi dispiaccio, ma contro le quali non posso far nulla. I cavalli ormai sono nostri. Non può chiederceli indietro e noi non siamo tenuti a pagarglieli in alcun modo.”

Francesco, che aveva sentito tante volte parlare del mal celato dispotismo della defunta Duchessa Beatrice, guardò a lungo la consorte e poi, ricordandosi tutte le volte in cui Isabella aveva detto con sprezzo di essere molto diversa dalla sorella, la salutò con un pungente: “Anche tu sei figlia di tuo padre. Tramontana, ecco il nome che doveva darti: sarebbe stato perfetto anche per te.”

L'Este guardò il marito raggiungere la porta e uscire e poi, rimasta sola, si abbandonò contro lo schienale della sedia e, una mano sulla pancia, che ancora nascondeva perfettamente la piccola vita che cresceva in lei, disse: “Ti prego, figlio mio, sii un maschio. C'è bisogno di un uomo, in questa famiglia. Non posso fare sempre tutto io da sola...”

 
 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas