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Autore: Adeia Di Elferas    14/11/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Lorenzo era arrivato a casa tardi e Semiramide aveva capito subito dalla sua espressione che doveva essere successo qualcosa di brutto. Il Medici appariva preoccupato e molto più taciturno del solito.

Era così assorto in se stesso che non aveva nemmeno trovato il tempo di esibirsi in una delle battute acide che ultimamente era solito dedicarle e, all'ora di cena, aveva deciso di saltare il pasto, ritirandosi in camera sua.

L'Appiani non aveva fatto domande esplicite, né aveva chiesto a qualcuno dei servi che quel pomeriggio erano usciti per andare al mercato se per caso avessero avuto notizia di qualche novità che riguardasse la Signoria o i francesi. Aveva semplicemente deciso di lasciarsi scivolare addosso quella che era solo una delle tante sere di silenzi a cui suo marito la costringeva, e, finito di cenare, anche lei si era ritirata in stanza, dopo aver dato la buonanotte ai figli.

Era ormai da sola da un paio d'ore, quando, suo malgrado, aveva sentito il bisogno di cercare la compagnia di Lorenzo. Un po' si vergognava ad ammetterlo con se stessa, ma andare a cercarlo solo quando ne aveva voglia, cominciava a piacerle, perché le dava uno strano senso di rivalsa che la ripagava di tante reticenze e incomprensioni.

Si era accorta che anche il Popolano era tornato a essere dipendente da lei, per quanto lo fosse solo di notte, e sperava, in cuor suo, che facendosi sempre più strada nella sua anima, avrebbe finito per riottenere il posto che aveva prima della morte di Giovanni. Anzi, sarebbe stato bello se avesse potuto riavere accanto l'uomo che il Medici era prima della morte del loro piccolo Averardo, ma sapeva che quello sarebbe stato ancora più impossibile.

Così, stretta nella vestaglia pesante, la donna lasciò la sua camera nel momento stesso in cui le campane battevano la mezzanotte. Arrivò fin davanti alla porta del marito senza bisogno dell'ausilio della luce di una candela. Anche se era una notte molto buia, ormai Semiramide aveva fatto quel percorso notturno così tante volte da conoscerlo a memoria.

Senza bussare, provò ad aprire, ma si accorse che l'uscio era chiuso a chiave. Indecisa, rimase qualche istante al suo posto, e poi si convinse a bussare. Non accettava l'idea che Lorenzo potesse pensare di chiuderla fuori così facilmente.

Picchiò il pugno contro il legno per un paio di volte, poi riprovò, con maggior insistenza. Stava quasi per rinunciare, domandandosi se per caso il Medici fosse uscito e avesse chiuso proprio per quello, quando la serratura scattò e la porta si aprì un po', lasciandole intravedere il viso pesto e gli occhi stanchi del marito.

“Che vuoi?” le chiese, la voce strascicata, indosso la vestaglia da notte.

“Perché hai chiuso a chiave?” ribatté lei, incrociando le braccia sul petto.

L'uomo guardò per un lungo istante il viso della moglie, al buio così difficile da interpretare, e poi borbottò: “Perché non volevo essere disturbato.”

“Nemmeno da me?” quella domanda le era scivolata dalle labbra così in fretta che l'Appiani non aveva fatto in tempo a calibrare meglio il tono, finendo per suonare molto più affranta di quanto non volesse.

“Oggi quella maledetta Sforza è arrivata al palazzo.” disse Lorenzo, aprendo un po' di più la porta, ma impedendole comunque di entrare.

“Qui? A Firenze?” Semiramide credeva di aver capito male, perché le sembrava assurdo che la Tigre di Forlì fosse arrivata in città in modo così silenzioso, senza che si sapesse.

“Sì. È arrivata qui da sola, come la pezzente che è, senza nemmeno un uomo di scorta. È venuta qui a minacciarci e a dare a tutti ultimatum..! Come se fosse nella posizione di farlo...” il modo spazientito con cui Lorenzo stava agitando una delle mani dalle dita tozze convinse poco l'Appiani.

Lo conosceva bene, ormai, tanto bene da sapere che c'era sotto di più. Difficilmente il Popolano si sarebbe lasciato destabilizzare da un imprevisto del genere, quindi doveva esserci qualcosa che l'uomo stava tacendo.

Tuttavia, nel notare il suo solito ostinato voto di silenzio, che l'aveva portato a non aggiungere altro e, anzi, a fissarla in quasi con ostilità, come a invogliarla a non domandare altro, Semiramide aveva deciso di non insistere. Se la Sforza era davvero arrivata a Firenze, mostrandosi al palazzo della Signoria, e aveva lanciato minacce e ultimatum, il giorno seguente non le sarebbe stato difficile scoprire di più.

“Torno in camera mia.” concluse allora la donna, stringendosi un po' nelle spalle.

Lorenzo, che pure avrebbe voluto solo annuire e lasciarla andare, si rese conto di quanto gli pesasse farlo. Ora che l'aveva davanti, così vicina da poterne quasi intuire il calore della pelle, e sentiva il suo profumo leggero, avrebbe solo voluto trattenerla e stringerla a sé fino alle prime luci dell'alba.

“Aspetta...” provò a dirle, la voce strozzata, una mano che si protendeva verso di lei, per fermarsi però a mezz'aria.

Un po' impietosita da quell'atteggiamento, l'Appiani scosse il capo e si fece forza. Anche lei avrebbe voluto dimenticare tutto e restare abbracciata al marito fino al mattino, ma non poteva concederglielo.

“No, non ti disturbo oltre. Torna ai tuoi problemi.” sussurrò, scostandosi quel tanto che bastava per non essere più a portata di mano del Popolano.

Il Medici non provò più a fermarla e, non smettendo di guardarla finché il buio non l'ebbe del tutto inghiottita, quando rientrò in camera da solo sentì un profondo senso di vuoto travolgerlo. Era paura, lo sapeva benissimo. Lo coglieva sempre più spesso, a tradimento, e non sapeva come combatterla.

Era la stessa sensazione orrenda che aveva provato quel pomeriggio in sala consiliare. Quando aveva visto la Sforza entrare, aveva creduto che fosse un fantasma. Gli sembrava assurdo che potesse essere lì, in carne e ossa. Aveva cercato di dissimulare, ma aveva sudato freddo per tutto il tempo.

Quando l'aveva vista battere il pugno sulla scrivania, poi, aveva sentito il cuore battere così veloce da fargli quasi male al petto.

E poi, quando finalmente se n'era andata, la confusione che aveva attanagliato la Signoria gli aveva fatto mancare la terra sotto i piedi. Anche se in presenza della Tigre di Forlì i fiorentini erano rimasti muti e compatti, e il Gonfaloniere aveva cercato di tenere il punto seguendo le silenziose indicazioni del Medici, non appena erano stati soli tutti quanti avevano sentito il dovere di esprimere contrarietà, perplessità e dubbi.

Il Popolano, che fino a pochi istanti prima era stato certissimo di tenere al guinzaglio il potere, aveva improvvisamente capito che quel guinzaglio era solo un sottilissimo filo di lana, che poteva rompersi al minimo strattone.

Avrebbe dovuto mandare subito delle guardie a catturare la Sforza, a fermarla, impedendole di uscire da Firenze. In fondo aveva osato alzare la voce contro il Gonfaloniere, minacciarlo con un pugno, entrare alla Signoria, pur non potendo in quanto donna... E invece non ne aveva avuto la forza, temendo che gli altri membri del Consiglio potessero rivoltarsi contro un decisione tanto drastica. Aveva perso l'occasione di dimostrare la sua forza, e l'aveva fatto per paura di scoprire di non averla.

Con passo lento, andò a sedersi alla scrivania, la testa appoggiata a una mano, e fissò la fiammella di una delle candele che aveva davanti. L'unica cosa che poteva sperare era che il figlio del papa si sbrigasse e arrivasse in Romagna il prima possibile: una volta morta la Sforza, avrebbe potuto concentrarsi sulle cose veramente importanti, riprendendosi una volta per tutte la sua Firenze.

 

Caterina aveva cavalcato per qualche ora, ma poi aveva dovuto scendere da cavallo, perché il suo stallone aveva cominciato a dare segni di stanchezza. Tenendolo per le briglie, aveva camminato ancora per un po', ma alla fine sapeva di doversi fermare.

Ormai aveva capito di non essere inseguita, e quindi non aveva la stessa fretta di quando aveva lasciato la città. Tuttavia non si sentiva tranquilla, e, in più, la delusione e la rabbia che erano seguite al primo momento di smarrimento, dopo la sua apparizione al palazzo della Signoria, la stavano sfinendo.

Era arrivata alla stessa locanda in cui si era fermata la notte prima. Non voleva farsi vedere ancora lì, soprattutto per evitare domande scomode, e anche per non rivedere il ragazzo che aveva sedotto per puro capriccio. Però aveva fame e il suo cavallo doveva bere e mangiare, oltre che riposarsi.

La strada era buia e non aveva incontrato nessuno, da quando il sole era calato. Faceva abbastanza freddo e il vento non demordeva. Non vedendo altre case all'orizzonte, decise di cedere al bisogno del momento e fermarsi laddove si era già fermata una volta.

Quando entrò, l'oste la riconobbe subito. Approfittando del fatto che non c'era nessun altro, in quel momento, nella sala, la donna gli chiese in fretta una stanza e di sistemare il suo cavallo.

“Dammi da bere e qualcosa da mangiare. Me lo porto io in stanza. Non voglio essere disturbata fino a domani mattina da nessuno.” ordinò e l'uomo, dopo uno sguardo un po' indagatore, annuì, così Caterina sottolineò: “Tu qui non mi hai mai visto, va bene?”

“Rischio qualcosa, ad avervi nella mia locanda?” domandò il locandiere, deglutendo.

“Se fai come ti dico, no.” tagliò corto la Contessa: “Avanti, dammi quello che ti ho chiesto, prima mi ritiro in stanza, meglio è per tutti.”

L'uomo fece di nuovo segno di sì e, mettendo sul bancone le chiavi della stanza, una generosa caraffa di birra e un ciotolone di stufato, assicurò: “Non vi disturberà nessuno.”

La Leonessa prese tutto quanto e ringraziò con un cenno del capo: “A buon rendere.”

 

“Davvero vostro marito non vi aveva scritto nulla?” chiese Fortunati, guardando Alessandra Scali con insistenza.

La donna sollevò appena il sopracciglio e scosse il capo: “No, per questo penso che la Contessa Sforza abbia agito d'impulso, partendo all'improvviso senza avvisare nessuno.”

Il piovano strinse appena le labbra e abbassò lo sguardo verso il calice di vino caldo speziato che gli era stato offerto. Se non fosse stato a Firenze per puro caso, non avrebbe saputo di quella visita inattesa della Tigre se non con un ritardo di giorni. Sempre che qualcuno si prendesse il disturbo di avvisarlo...

“Per quello che la conosco – dovette ammettere – sarebbe capacissima di farlo.”

La moglie di Michele Marulli fece un sospiro. Avrebbe voluto poter conoscere quella donna dai tratti leggendari presso la sui corte suo marito prestava servizio. Non si era opposta, quando, a nemmeno due anni dal loro matrimonio, il bizantino che aveva deciso di sposare le aveva detto di voler partire per Forlì, per difendere la vedova di Giovanni Medici. Aveva capito il motivo che aveva spinto il suo uomo a una decisione tanto grave, e l'amava ancor di più, per la sua abnegazione.

Però, quando aveva saputo, il giorno prima, dell'arrivo in città della Sforza, si sarebbe attesa di poterla almeno vedere. Sapeva che incontrarsi sarebbe stato un pericolo: erano settimane che prendevano accordi sottobanco per poter sistemare i figli della Leonessa in quella casa, e dunque farsi scoprire assieme sarebbe stato un modo stupido per rivelare a tutti il loro piano. Però la curiosità di scorgere almeno il viso della persona per cui suo marito e lei stessa si stavano giocando il loro futuro, le avrebbe fatto piacere.

Francesco sorbì un paio di sorsi. Anche lui stava facendo un ragionamento simile, seppure mosso da spinte diverse. Se Alessandra si trovava scontenta di non aver visto la Contessa per una questione di legittima curiosità, per Fortunati la questione era decisamente più complessa.

Era dal maledetto viaggio fatto assieme a Manfredi che il piovano non rivedeva la sua signora e nella sua memoria quella donna si faceva ogni giorno più bella e dolce. Sulla bellezza non c'era nulla da ridire: Francesco era obiettivo, su quel punto. Sulla dolcezza, invece, sapeva che la sua mente gli stava giocando un brutto scherzo, portandolo a desiderare sempre di più qualcuno che in realtà non esisteva. Standole lontano, stava scordando i suoi modi bruschi, il suo sguardo lontano e la distanza che sapeva mettere ogniqualvolta la vicinanza tra loro si faceva troppo evidente.

Dunque avrebbe voluto rivederla sia per riaverla vicina, seppur per poco, sia per dimostrare a se stesso che quella che si trovava a sognare la notte era solo un'idealizzazione.

“Ma davvero ha detto quelle cose?” chiese l'uomo, ancora in parte perso nei suoi pensieri.

“Mio padre ha detto così.” assicurò Alessandra, ricordando le parole che Bartolommeo aveva riportato, non appena era rientrato dalla Signoria: “Quindi direi di sì.”

Il piovano si morse il labbro, finì il vino e concluse: “In effetti, sì, sono proprio le parole che mi aspetterei da lei.” poi, facendosi un po' più mesto, guardò di sottinsu la donna che gli stava dinnanzi e chiese: “Siete sempre decisa a darle il vostro appoggio?”

“Mio marito si fida di lei e vuole proteggerla.” fece la Scali, lo sguardo che indugiava sul bel viso di Fortunati, un profilo, secondo lei, sprecato per essere quello di un prete: “E dunque lo farò anche io.”

“Siete veramente preziosa, per la nostra causa.” la ringraziò Francesco, prendendole un momento una mano.

Alessandra, che era famosa in Firenze per la sua cultura e per la sua innata capacità di scrivere e recitare versi in greco come fosse ella stessa una greca, sorrise appena e ribatté: “La vostra causa adesso è anche la mia.”

 

Il viaggio di ritorno verso Forlì si stava trasformando poco per volta in una vera tortura. Caterina era distratta, preda di mille dubbi e aveva anche perso quasi mezza giornata di cammino perché aveva sbagliato strada.

Quando se n'era accorta, per fortuna abbastanza presto, era riuscita a tornare sulla via giusta, ma prima di poter affrontare il punto più impegnativo – il passaggio sulle montagne – aveva dovuto fermarsi di nuovo.

Suo malgrado, il buio, la pioggia che aveva ricominciato a battere incessante e la stanchezza avevano avuto la meglio su di lei e così si era dovuta rifugiare in una locanda, l'unica che si vedesse in quel tratto così desolato.

Guardinga, aveva varcato la soglia cercando subito il padrone. Quando aveva visto che nella sala c'erano una mezza dozzina di avventori che cenavano in relativo silenzio, e che dietro al bancone c'era una donna rubizza, intenta a riempire delle brocche di vino, si era sentita più tranquilla.

Con la spada al fianco e il cappuccio umido calato sulla fronte, la Tigre le si avvicinò. La locandiera squadrò la sua figura, apparendo incuriosita dai suoi abiti maschili, ma non fece commenti, chiedendo solo se volesse mangiare e una stanza.

La Contessa annuì, e, cercando di tenere la voce bassa, disse anche di aver già sistemato il cavallo nella piccola stalla lì accanto e di avergli dato un po' di biada e dell'acqua. Era convinta che gli altri presenti avessero fatto poco caso a lei e, con un po' di fortuna, guardandola solo di spalle e distrattamente, non si sarebbero nemmeno accorti che era una donna, figurarsi riconoscerla come la Leonessa di Romagna.

“Posso stare a questo tavolo?” chiese la Sforza, indicando quello più vicino al bancone, un po' in ombra.

Malgrado a poca distanza ci fosse già una tavolata con tre uomini, quella sistemazione le avrebbe permesso di dare le spalle a tutti gli altri. Mangiando un po' in fretta, avrebbe potuto ritirarsi prima degli altri e sarebbe passata del tutto inosservata.

La donna non ebbe nulla da ridire e così Caterina prese posto, e si mise ad aspettare, senza osare togliersi il mantello. Anche se era bagnato e le dava fastidio, restava sempre un modo come un altro per essere meno riconoscibile.

Quando la locandiera le mise davanti al naso un piatto di minestra fumante e una brocca di vino scuro, la Tigre si permise di sorridere. Era il primo momento di sincera gioia che provava da quando aveva lasciato Firenze.

Cominciando a mangiare, per qualche minuto riuscì a estraniarsi completamente dalle sue afflizioni. Non metteva nulla sotto i denti dalla sera prima e il suo stomaco protestava da ore. Il vino che le bruciava un po' la gola e il brodo caldo che lo seguiva le stavano dando una parvenza di pace che non aveva prezzo.

Quando fu ormai a metà piatto, placata in parte la fame, cominciò involontariamente a origliare il discorso che stavano facendo gli uomini seduti alle sue spalle, a poca distanza da lei.

“Quello è vero – stava dicendo uno – quelli che non hanno soldi, a volte non se la possono permettere, una cuffia da notte... Ma i nobili, per Dio...”

“Ti dico che lei non la porta. Mai.” ribatté un altro.

Benché avesse detto poche parole, la Sforza ebbe il sentore di aver già udito quella voce da qualche parte, ma non avrebbe saputo dire dove.

“Se è per questo – si intromise il terzo, con un accento che finalmente lasciò intuire alla Leonessa di aver scelto una locanda infestata di romagnoli – la Tigre a volte non porta nemmeno le sottane!”

La risata che seguì, meno sguaiata del previsto, forse in rispetto al clima silenzioso di quella locanda, portò Caterina a versarsi un altro bicchiere di vino. Parlavano di lei, e la cosa la infastidiva, però non poteva nemmeno fare come avrebbe fatto nella sua città. A Forlì non si sarebbe fatta problemi, alzandosi subito e mostrandosi ai tre uomini al solo fine di farli spaventare. Perché quella era la reazione che sembrava suscitare in tutti i suoi sudditi colti in fragranza di pettegolezzo.

“Nemmeno sua figlia porta la cuffia da notte.” riprese quello che, tra i tre, sembrava saperne di più.

La Leonessa, per quanto stesse cercando di non farsi coinvolgere, sentì il sangue gelarlesi nelle vene. A infastidirla non era tanto la diceria in sé, per altro vera, dato che non aveva mai dato peso a quel genere di abitudini, finendo per influenzare anche Bianca, che di solito dormiva con una vestaglia o al massimo degli abiti da camera, evitando cose inutili come le cuffie che, a detta della Tigre, servivano solo a portare pulci e pidocchi. A innervosirla era il modo in cui era stata detta.

“E tu come lo sai?” chiese il più grezzo dei tre, stupito.

“Mi sono portato a letto un paio di volte un'amica della giovane Riario, una che lavora nelle cucine come sguattera – rispose quello – è stata lei a dirmelo.”

Era poco, ma alla Sforza bastò per rilassarsi un po' di più. Sentendolo parlare, si era convinta che il giovane fosse uno dei soldati che aveva preso come amante per una notte immediatamente dopo la morte di Giacomo. Questo avrebbe spiegato anche il perché fosse lì e non a Forlì. I primi tempi, infatti, per evitare di incontrarli in giro per la rocca o la città, Caterina era solita mandare via gli uomini che prendeva per una notte. Era probabile che lui fosse uno di quelli mandati sul confine...

“Non disturbatemi fino a domattina. All'alba riparto.” fece la Contessa, non appena ebbe trangugiato l'ultima cucchiaiata di minestra e vuotato il bicchiere di vino.

La locandiera annuì e poi le spiegò dove fosse la camera che le aveva assegnato. La Sforza ci arrivò facilmente e, quando si trovò in quella stanzetta angusta e scura, controllato lo stato igienico del letto, si disse che, magari, sarebbe ripartita anche un po' prima del sorgere del sole.

 

Bianca aveva voglia di vedere il ragazzo con cui si incontrava ormai tutte le sere. Sapeva che la stava attendendo già al solito posto e non voleva farlo aspettare troppo.

Dopo la sera del suo compleanno, quando era stata a un passo dall'andare oltre il limite che lei stessa fino a quel momento di era posta, aveva cominciato a tenerlo un po' a distanza, senza, però, privarlo della sua compagnia. Le piaceva parlare con lui e le piaceva ancora di più baciarlo e stringerlo a sé, e stava apprezzando molto il fatto che lui non le avesse più chiesto nulla, né avesse provato in qualche modo a forzarla. Tuttavia qualcosa la frenava ancora.

Si sentiva strattonata da due forze contrastanti. Da un lato si rendeva conto sempre di più di quanto in realtà poco le interessasse il giovane uomo con cui si intratteneva. Di lui apprezzava solo l'aspetto, la gentilezza dei modi e la sensazione di libertà che le dava passare del tempo assieme, ma sapeva di non amarlo e non poteva ingannarsi. Dall'altro lato, però, sentiva farsi strada in lei la paura che sua madre tornasse a casa all'improvviso con notizie catastrofiche ordinando a lei e a tutti i suoi fratelli di scappare all'istante. In tal caso, la Riario non avrebbe avuto tempo di pensare o fare altro, e sarebbe stata costretta semplicemente a lasciarsi alle spalle quel ragazzo e tutto quello che avrebbe potuto fare e scoprire con lui.

Quella sera cercava di non pensarci troppo, ma sentiva il cuore battere veloce, mentre si preparava per andare da lui. Era appena uscita dalla sua stanza e aveva subito notato uno strano duetto a un paio di torce a muro di distanza da lei. Si trattava di Argentina e di Giovanni da Casale. La donna sembrava quasi intimidita, mentre l'uomo gesticolava con ampi movimenti del braccio, in un modo in cui la Riario non l'aveva mai visto fare.

La ragazza sapeva di essere attesa dal suo soldato, ma, malgrado avesse fretta di rivederlo, pensava che perdere qualche minuto per capire cosa stesse succedendo fosse più che legittimo.

Così si avvicinò ai due e chiese, interrompendo volutamente Pirovano a metà frase – una serie di lamentele incentrate a mettere in difficoltà la serva – chiese: “C'è qualche problema?”

Giovanni la fissò con aria di sfida, incredulo di essere stato messo a tacere da una ragazzina di diciotto anni, ma non osò comunque dire nulla. Forse in Bianca si riconoscevano così chiaramente alcuni tratti della Tigre da intimidirlo.

“Nulla, mia signora.” disse piano Argentina, per poi aggiungere: “Ho solo chiesto a messer Pirovano se sapesse quando la Contessa sarebbe tornata.”

“Come mai volete saperlo?” chiese la Riario, capendo le riserve di Giovanni da Casale, ma provando a gestire meglio di lui la situazione.

“Per riordinare la stanza, prima che torni, e farle trovare l'acqua fresca e...” cominciò a dire la domestica personale della Sforza.

“Non dovete preoccuparvi per questo.” tagliò corto Bianca, con un sorriso un po' affettato, ma che parve convincere la donna: “Non appena saremo certi della data precisa del suo rientro, vi farò avvisare. E, se per caso non faceste in tempo a sistemare tutto, vi assicuro che mia madre non avrà nulla di cui lamentarsi.”

Argentina schiuse le labbra, ma poi trovò più opportuno non insistere. Così, con un'occhiataccia a Pirovano e uno sguardo più benevolo alla ragazza, fece una riverenza e se ne andò.

“Che ci fate alla rocca ancora a quest'ora?” chiese a quel punto la Riario al comandante della cittadella.

Giovanni raddrizzò un po' la schiena, facendo valere la loro evidente differenza d'altezza, e rispose, secco: “Scusatemi, ma non credo siano affari vostri.”

“Li sono, invece. Voi avete ordine di non lasciare il Paradiso, eppure siete qui... Devo andare a riferirlo a mio fratello Galeazzo?” contrattaccò Bianca.

Il milanese fece uno sbuffo, che avrebbe voluto suonare divertito, ma che suonava solo teso: “Io devo sapere quando tornerà vostra madre.” mise in chiaro: “I soldati si sono accorti della sua assenza, in città cominciano a capire che non c'è. Sono arrivati dei nuovi volontari che la vogliono incontrare, che dicono che se ne andranno, se non la vedranno presto... Io non posso tenere l'ordine se...”

“Infatti non spetta a voi.” lo interruppe la Riario, deglutendo, cominciando a sentirsi in difficoltà.

“Spetterebbe a vostra fratello? A un ragazzino di quattordici anni? Siete sicura di volergli davvero mettere un simile cappio al collo?” nella voce del soldato c'era solo una profonda commiserazione.

“State attento a come parlate.” lo mise in guardia la giovane: “E ora fareste meglio a tornare al vostro posto.”

L'uomo strinse i denti ed evitò di attizzare ancora di più il fuoco. Salutò la figlia della sua amante con un breve cenno del capo e poi finse di raggiungere le scale per andarsene. Arrivò fino al piano terra, lentamente, e solo quando fu certo che la Riario fosse ormai lontana, tornò di sopra, per cercare il castellano.

“Voglio che mi facciate chiamare, quando tornerà.” disse a Bernardino da Cremona: “A qualsiasi ora, non mi interessa, fosse anche notte fonda.”

“Ma...” provò a opporsi il castellano, incerto sulla legittimità di quella richiesta, dato che la Sforza non aveva lasciato ordini precisi in merito.

“Non c'è nulla di cui discutere. Vi ho ordinato di fare così e così farete.” concluse il milanese, sporgendo in fuori il mento e, senza dar tempo al cremonese di ribattere di nuovo, se ne andò.

 
   
 
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