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Autore: Adeia Di Elferas    19/11/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Caterina provò a rigirarsi tra le coperte, ma qualcosa la tratteneva. Lentamente aprì gli occhi, scoprendo che nella sua camera stava già entrando la luce del mattino. Aveva dormito più di quel che si era prefissata, e quando capì che ciò che le impediva di muoversi come voleva erano le braccia forti di Giovanni da Casale, si ricordò anche il perché di quel sonno pesante e privo di sogni.

Anche se all'inizio si era detta decisa a scacciare il suo amante il prima possibile, in realtà era poi rimasta preda del senso di tranquillità e sicurezza che le aveva dato il restare abbracciata a lui, al caldo, assaporando il contatto con la sua pelle e la pace dei sensi che era riuscito a darle, facendole dimenticare per un po' tutto quanto.

E così, al contrario di come le succedeva di solito, aveva finito per addormentarsi, risvegliandosi solo a giorno fatto.

“Abbiamo fatto tardi...” provò a dire lei, sentendo che Pirovano era sveglio, benché fingesse il contrario.

L'uomo sospirò, stringendosi ancora di più a lei, come se non potesse sopportare l'idea di non sentirsela più addosso. Anche se erano stati separati pochi giorni, saperla così lontana e in pericolo gli aveva fatto capire una volta di più quanto l'amasse e quanto non potesse nemmeno prendere in considerazione l'idea di perderla.

“Ho un sacco di cose da fare e devo chiedere a Ottaviano com'è andata a Imola...” riprese la Tigre, divincolandosi dall'abbraccio ferreo dell'amante.

Le braccia di Giovanni si contrassero un momento, insospettendola, e, infatti, subito dopo il milanese disse: “Ma Ottaviano è ancora a Imola...”

“In che senso, è ancora a Imola?!” lo scatto della Contessa indusse anche Pirovano a mettersi seduto: “Cos'è successo? Perché non è ancora tornato?”

“Io di preciso non lo so... Ha scritto qualche giorno fa, ma...” farfugliò il milanese, mentre la sua amante lasciava il loro giaciglio e cominciava a vestirsi in fretta.

“Muoviti...” lo incitò lei, mentre si infilava rapida le brache da uomo e gli lanciava la sua fascia per il seno, avvicinandosi: “Aiutami a metterla...”

Mentre Pirovano faceva quanto gli era stato detto, non azzardandosi a proferir parola o a spingere le proprie mani oltre il lecito, per evitare di essere ripreso malamente, la Sforza cominciava ad arrovellarsi su quanto aveva appena scoperto. Aveva dato per scontato che Ottaviano, dopo l'incontro con la cittadinanza, sarebbe tornato subito a Forlì. Saperlo ancora a Imola la metteva in agitazione.

“Adesso vai subito alla cittadella. Si saranno già accorti della tua assenza, e se sapranno che sono tornata stanotte, capiranno perché stamattina non eri al Paradiso...” la Sforza parlava in fretta, mentre si infilava il camicione e il giubbone: “Sanno già che siamo amanti, ma meno se lo ricordano, meglio è. Devono rispettarti perché sei bravo a guidarli, non perché sei il mio favorito.”

Giovanni era ancora seduto sul letto, quando la Contessa era già pronta. Avrebbe voluto provare a trattenerla un attimo, parlarle di tutte le cose di cui avrebbe voluto metterla a parte, spiegarle le difficoltà che aveva incontrato durante la sua assenza e metterla in guardia sulla disinvoltura che aveva dimostrato nel lasciare un ragazzino come Galeazzo a capo di tutto.

Di fatto, però, quando si decise a cominciare il discorso, la donna era già alla porta e lo stava salutando con un secco: “Muoviti!”

Caterina, lasciatasi alle spalle la sua stanza, calda e accogliente, attraversò come una furia il corridoio, dedicando appena uno sguardo ai soldati che incrociava lungo il tragitto, e arrivò allo studiolo del castellano in pochi minuti. Essendo aperto, entrò senza annunciarsi, trovando Bernardino da Cremona chino su uno dei grossi libri contabili – quello degli inventari alimentari, in realtà – così assorto da sollevare gli occhi verso di lei solo in seconda battuta.

“Perché mi sono trovata Giovanni da Casale nella mia stanza, stanotte, quando sono arrivata alla rocca?” fu la prima domanda della Leonessa.

Il castellano deglutì, e provò a schermirsi: “Messer Pirovano mi aveva chiesto di fargli sapere del vostro rientro, qualsiasi ora fosse e così...”

“Voi non ubbidite a lui, ma a me.” gli fece presente Caterina: “E questo non era un mio ordine. Io non vi avevo autorizzato a informare in linea preferenziale nessuno.”

“Non avevate dato disposizioni precise in merito, e non c'era nessuno a cui...” continuò a difendersi Bernardino, temendo qualche punizione da parte della sua signora.

“C'era mio figlio Galeazzo.” lo zittì all'istante la Sforza, sollevando poi una mano, come a dire che l'argomento poteva dirsi chiuso: “Perché Ottaviano è ancora a Imola?”

Il cremonese, assumendo un'aria abbastanza sicura di sé, le spiegò le richieste arrivate dal Riario, che, ufficialmente, era rimasto a Imola sia per aspettare ordini da lei, sia per controllare al meglio i lavori di ristrutturazione della rocca e di muratura delle porte.

“Se non vogliono avere degli sconti sulle tasse, li accontenteremo.” sbuffò la donna, comprendendo benissimo come quella richiesta fosse stata da parte degli imolesi solo un modo per saggiare il polso di Ottaviano: “E che i fuoriusciti rientrino, a patto che vengano subito inquadrati nell'esercito, sotto il controllo del Cagnaccio.”

Bernardino da Cremona annuì e poi chiese: “Lo scriverete voi a vostro figlio o..?”

“Io lo scriverò direttamente a Corradini.” ribatté la Leonessa: “A mio figlio scriverete voi, dicendogli di rientrare qui immediatamente, perché, per sua sfortuna, non sono morta durante il viaggio e ho bisogno di parlargli.”

Il castellano non era entusiasta all'idea di dover mandare personalmente una lettera al Riario, ma era comunque meglio di altre occupazioni.

Come se non ci fosse altro di cui parlare, la Contessa chiese: “Sapete dove posso trovare mio figlio Galeazzo?”

Bernardino da Cremona scosse il capo, ma la frenò, visto che al suo diniego la Sforza stava già raggiungendo l'uscita: “Aspettate un momento, mia signora... Con Dozza e Tossignano che intendete fare?”

“In che senso?” la perplessità di Caterina era così evidente da stupire il suo interlocutore.

“Messer Giovanni da Casale non vi ha detto nulla?” fece, attonito: “Credevo volesse vedervi con urgenza soprattutto per discutere di quello... Non ne avete parlato?”

“Mi pare evidente di no.” si irritò la Tigre, tornando sui suoi passi: “L'urgenza di Pirovano vi assicuro che era di tutt'altra natura: non abbiamo parlato praticamente di nulla, stanotte.”

Bernardino da Cremona capì e l'imbarazzo che provò fu così profondo da farlo rammaricare per la seconda volta nel giro di pochi giorni di aver accettato la carica di castellano in una rocca comandata da una donna sfacciata come la Sforza.

Tuttavia, proprio perché calato abbastanza bene nel suo ruolo, il cremonese decise di passar sopra ai propri pudori e si mise a spiegare: “Ci hanno scritto i castellani della rocca di Dozza e di quella di Tossignano per dire che sono ormai quasi senza grano. E non sono gli unici. Alcune delle rocchette minori che abbiamo sul confine sono messe anche peggio, ma avendo meno uomini di stanza, cercano di tirare avanti anche così.”

Caterina si mise a sedere sulla poltrona che un tempo era stata di Giacomo e fissò Bernardino da Cremona: “Quanto pensano di poter andare avanti?”

“Da quello che ci hanno riferito, non più di un paio di settimane, anche dimezzando le razioni quotidiane.” rispose il castellano, atono.

Ricordava quando era arrivata la notizia, il mattino prima. Giovanni da Casale aveva ascoltato con un certo disinteresse, facendo poi un'affermazione caustica sul fatto che un vero soldato sopporta anche la fame, quando è in guerra, mentre Galeazzo Riario aveva chiesto a Luffo Numai – che era stato sempre presenta al suo fianco in quei giorni – che cosa si potesse fare. Il Consigliere aveva alzato le spalle e aveva rimandato ogni decisione al rientro della Contessa, l'unica, aveva sottolineato, che potesse prendere decisioni in momenti tanto gravi.

La Leonessa si era messa a pensare. Conosceva bene la situazione della scorta di grano e altri generi alimentari di Forlì e Imola, ma aveva delegato troppo riguardo le piccole fortezze che aveva sparse per il suo territorio, e alla fine ne stava pagando lo scotto, trovandosi scoperta laddove credeva di essere a posto.

“Ci devo pensare.” concluse, alzandosi all'improvviso e andando di nuovo alla porta, questa volta per uscire davvero: “Scrivo la lettera per Corradini e poi vado al Quartiere Militare, i soldati devono vedere che ci sono.”

Il castellano chinò appena il capo e poi, rimasto solo, fece un respiro profondo e, per prima cosa, impugnò la penna e si mise a preparare la missiva per Ottaviano, due righe appena, per fargli sapere che la Contessa era rientrata e che anche lui avrebbe dovuto farlo presto, se non voleva peggiorare la sua situazione.

 

“Spero che sia tutto pronto.” disse Alessandro VI, guardando Raffaele di sottinsu: “Si tratta del battesimo di mio nipote, non di una cosa qualsiasi.”

“Lo so, Santità.” rispose Sansoni Riario, lo sguardo basso e una mano al crocifisso che portava al collo: “Tutti gli ornamenti sono stati già controllati e sistemati... I sedici Cardinali che officeranno la cerimonia sono già stati allertati e...”

“Che sia ben chiaro – lo interruppe il papa, allacciandosi le mani dietro la grossa schiena e facendo vibrare il naso – che ogni assenza ingiustificata sarà punita in modo esemplare.”

Il porporato si trovò subito d'accordo e passò a dire: “Il Cardinale Carafa desidera farvi sapere quanto è orgoglioso e lieto di poter essere il primo celebrante di questo...”

“Sì, sì, va bene, ho capito.” tagliò corto il pontefice, infastidito da un tuono che aveva appena aperto il cielo di Roma, facendo vibrare perfino le finestre che proteggevano i suoi alloggi dalle intemperie di quei giorni: “Spero solo che Dio abbia la buonagrazia di far tornare il sole entro lunedì. Un battesimo con la pioggia sarebbe di pessimo auspicio.”

Raffaele si disse di nuovo d'accordo con il Borja e poi, dopo un breve tentennamento, provò a fare una domanda che lo angustiava ormai da giorni: “Credete che vostro figlio Cesare potrà essere presente al battesimo?”

Rodrigo si voltò di scatto verso di lui, gli occhi da aquila che lo avvinghiavano togliendogli quasi il fiato: “Domanda curiosa, da parte vostra.” constatò.

“Perdonatemi...” tentò di rimediare il Cardinale, la voce che si faceva incerta e le lunghe dita secche che cominciavano a tremare un po': “Lo chiedevo solo per riguardo a vostra figlia. Una giovane madre come lei credo sarebbe felice di avere suo fratello accanto in un momento come questo...”

“Scrivete ancora a vostra cugina?” chiese il Santo Padre, apparentemente disinteressato all'arrampicata sugli specchi del Sansoni Riario: “Mi è giunta voce che abbiate incontrato un veneziano, per parlargli proprio di lei...”

“Mia cugina non mi scrive da molto tempo.” aggirò l'ostacolo il porporato: “Temo di non essere tra i suoi amici, al momento.”

Rodrigo era indeciso. Non era da quell'uomo, secco e pauroso, essere astuto, tuttavia, poteva davvero credere che stesse mentendo così spudoratamente?

“Sia come sia...” fece il papa, restando sulle sue, senza dar mostra di aver preso per buone le parole del Cardinale: “Non credo che mio figlio riuscirà a essere a Roma, prima di aver messo in ginocchio quella strega della Sforza. Quindi mia figlia dovrà affrontare il battesimo del piccolo senza di lui, perché, per bravo che sia il mio Cesare, nemmeno lui potrebbe conquistare la Romagna in due giorni, non credete?”

“Vostra Santità ha ragione, come sempre.” convenne Raffaele, tornando a respirare, convincendosi da solo che il pontefice avesse deciso di credergli e basta.

“Ah, mi raccomando... Non voglio vedere tovaglie o paramenti bucati, dopodomani. Anche se sarà una cerimonia privata, tutto deve essere perfetto.” concluse Rodrigo, tornando a pensare ai preparativi per il battesimo del nipote: “Questo è il momento dei Borja. Tutto deve splendere e non c'è spazio per la mediocrità.”

 

Galeazzo aveva capito fin dal suo risveglio che era successo qualcosa di importante. Gli era poi bastato parlare un minuto con uno dei servi per capire che finalmente sua madre era tornata a casa.

Siccome, però, la Contessa non era andata a cercarlo, aveva pensato che non fosse il caso di importunarla, e così aveva deciso di attendere che fosse lei a farlo chiamare. Fin dalle prime luci dell'alba si era dedicato a ciò cui si dedicava ormai ogni giorno e, più o meno mezz'ora prima di mezzogiorno era ancora nel cortile d'addestramento a tirar di spada.

Stava quasi per smettere, perché il freddo gli stava intorpidendo le mani e il cielo minacciava di nuovo pioggia, quando vide la madre appostata sotto le arcate, intenta a osservarlo. Poteva essere lì anche da parecchio tempo, per quanto ne sapeva lui, perché non aveva mai distolto lo sguardo dall'avversario del momento, per non distrarsi.

“Continuate senza di me...” disse il ragazzino, consegnando la propria spada spuntata e il piccolo pavese di legno ai soldati che, come lui, si stavano concedendo una breve pausa.

Caterina, nel vedere il figlio camminare verso di lei, si staccò dalla colonna cui si era appoggiata e fece un breve sorriso: “Vieni – gli disse – dobbiamo parlare di alcune cose.”

Galeazzo seguì la madre fino alla sala delle letture, senza fare domande, restando in silenzio per tutto il tragitto. Anche se la donna non gli sembrava arrabbiata, aveva paura che volesse riprenderlo per qualche errore commesso senza nemmeno accorgersene. Anche se in quei giorni, tutto sommato, Forlì era stata tranquilla e lui non aveva dovuto intervenire mai in modo plateale, la certezza matematica di aver fatto tutto come avrebbe dovuto non l'aveva.

Proprio appena dopo che la madre aveva chiuso la porta, il ragazzino si sentì di colpo sopraffare dall'ansia che l'aveva accompagnato dal giorno in cui la Tigre era partita per Firenze e che solo in quel momento, avendola davanti a sé in carne e ossa, cominciava a defluire, lasciando esausto e sollevato in egual misura.

Dominato da quel senso di liberazione, che gli permetteva di lasciarsi alle spalle il profondo smarrimento degli ultimi giorni, Galeazzo mise da parte per un istante i suoi sforzi di apparire sempre dignitoso e compassato e si lanciò al collo della madre, per abbracciarla.

La Sforza, presa alla sprovvista, non ebbe subito la prontezza di ricambiare lo slancio, ma al ragazzino bastava vedere che la donna non lo allontanava.

Il Riario, pur lottando contro se stesso in ogni modo, sentì qualche lacrima bruciargli gli occhi, sintomo della tensione a cui si era sentito sottoposto, e, mentre affondava in silenzio il viso contro il collo della madre, che finalmente l'abbracciava a sua volta, si sentì di nuovo protetto e al sicuro.

La Contessa avvertiva il calore cocente della guancia del figlio contro la pelle, e anche l'umidità delle sue lacrime e l'incertezza del suo respiro, che tentava di mascherare i singhiozzi di un pianto infantile, ma comprensibile, e in quel momento si sentì molto in colpa nei suoi confronti.

Non aveva voluto ascoltare, quando le avevano fatto notare che Galeazzo era ancora troppo piccolo, per avere certe responsabilità. Aveva preferito lavarsi la coscienza con la scusa del sangue, della discendenza che, secondo una logica che in fondo nemmeno lei condivideva del tutto, gli avrebbe permesso di supplire l'inesperienza e la giovane età con un'innata capacità di comando.

Dopotutto, la Leonessa doveva arrendersi alla realtà dei fatti: Galeazzo era ancora un bambino, anche se sapeva usare una spada, e lei avrebbe dovuto abbandonarlo senza poterlo vedere diventare uomo.

“Com'è andata, mentre non c'ero?” gli chiese, con un filo di voce, accarezzandogli lentamente i capelli castani, tagliati un po' più corti del solito, quasi fosse davvero pronto a mettersi in armi per militare al suo servizio.

Il Riario, volendo darsi un tono, tirò su col naso e, lentamente, ma con decisione, si liberò dalla stretta della madre. Si asciugò con finta disinvoltura gli occhi e poi, con la voce più ferma che gli riuscì, le riassunse all'incirca quello che era capitato durante la sua assenza, includendo i malumori dei di lei fratello, in special modo di Alessandro e Francesco.

“Scipione mi è stato d'aiuto – concluse il ragazzino – così come Bianca.” avrebbe quasi voluto aggiungere che era rimasto infastidito nel vedere i due maggiori spalleggiarlo a quel modo, finendo per sottolineare la sua incapacità di tenere le redini, ma la realtà era molto diversa, perché Galeazzo era stato loro gratissimo, e quindi sarebbe stato ipocrita dire il contrario.

Nel sentire delle rimostranze dei fratelli, la Contessa strinse un po' le labbra e poi, scuotendo il capo, accantonò la questione dicendo solo: “Penserò io a parlare con loro, stasera.”

“Com'è andata a Firenze?” la domanda del Riario arrivò così inattesa che per qualche istante la Leonessa non rispose.

Sapeva che lui, come gli altri, avevano il sospetto, per non dire ormai la certezza, che il suo viaggio improvviso l'avesse portata a Firenze. Però non si era aspettata di vedere il suo quintogenito domandarle un resoconto in modo così esplicito.

Gli raccontò quello che era successo, cercando di restare il più neutra possibile. Non voleva gettarlo nel panico, ma nemmeno accendere in lui speranze vane.

“Quindi credete che dovremo andarcene presto?” fu l'unica cosa che uscì dalle labbra del ragazzino, quando la madre ebbe finito di parlare.

“Non lo so.” ammise lei: “Ma temo di sì. Dovrò aspettare il momento giusto, perché se vi facessi partire subito, vi rintraccerebbero troppo presto... Sarà necessario attendere l'arrivo dei francesi. So che sarà rischioso, ma è l'unica possibilità che resta.”

Il Riario annuì, con un senso d'amaro in bocca, ma non volle esprimere il groviglio di sentimenti che provava all'idea di dover lasciare la rocca che per lui era stata una vera e propria casa e, soprattutto, sua madre, l'unico punto realmente fisso che avesse avuto da che era nato.

“Hai saputo di Dozza e Tossignano?” chiese a quel punto la Tigre, immaginandosi la risposta.

“Sì.” fece infatti lui.

“E cosa pensi che dovremmo fare?” soffiò la donna.

Galeazzo capì che la domanda non era retorica, ma una sincera richiesta d'aiuto, e quella consapevolezza lo inorgoglì e spaventò allo stesso tempo, perché pur essendo fiero della fiducia di sua madre, allo stesso tempo sapeva, in quel caso, di non meritarla.

“Sai... Prima, mentre ero al Quartiere Militare ho continuato a pensarci... Non possiamo lasciarli con grano sufficiente per quindici giorni...” riprese lei, passandosi una mano sulla fronte, stanca: “E non posso nemmeno comprarne dell'altro, men che meno da Firenze...”

“Si potrebbero fare due cose.” disse, sollevando appena gli occhi verdi, il Riario: “O spostare i soldati di Dozza, Tossignano e delle rocchette nelle rocche maggiori, o requisire parte del grano di Imola e dividerlo tra le fortezze in difficoltà. In fondo, a Forlì c'è grano per appena due mesi e mezzo o tre. Imola, invece, è coperta almeno fino alla primavera...”

“Non possiamo lasciare sguarnito il confine... Pochi uomini sono meglio di nulla. Il Borja va rallentato con ogni mezzo.” argomentò la Sforza: “Ma su Imola ti do ragione: è quello che pensavo di fare anche io.”

Il ragazzino parve felice di aver avuto un'idea simile a quella della madre: “Allora farete così?”

“Sì.” annuì lei: “E poi radunerò il Consiglio, o domani o dopo, devo dare una serie di ordini che immagino non piaceranno, ma che ormai sono indispensabili.”

“Cioè?” Galeazzo sentiva le tempie pulsare, immaginava che, dopo la sconfitta diplomatica a Firenze, la Contessa volesse mettere in atto tutte le strategie possibili e immaginabili per aumentare la resistenza dello Stato, ma ormai temeva che far ciò significasse solo allungare un'agonia inevitabile.

“Farò battere moneta, prima di tutto. Bruceremo i granai, dopo aver accentrato le risorse in città. Si dovranno abbattere tutte le case e i palazzi in campagna: i francesi non devono trovare alloggi già pronti. Farò allagare i campi e distruggere tutto.” elencò Caterina, stringendo le braccia sul petto, un sopracciglio sollevato: “Per dare il buon esempio, farò distruggere anche la Casina.”

Il Riario ascoltava senza fiatare e, solo quando fu sicuro che la Tigre non avesse altro d'aggiungere, chiese: “Anche il Paradiso?”

La donna deglutì. Così come le era parso subito logico sacrificare la Casina in nome di una causa così importante, non le era invece passato nemmeno per caso per la mente di fare altrettanto con ciò che restava dell'originaria struttura del Paradiso.

Dissimulando il vero motivo che la portava a voler conservare ancora il nido che aveva visto crescere l'amore tra lei e Giacomo, disse solo: “No, ormai è incluso all'interno della cittadella... Ci sarebbe troppa confusione. La Casina, invece, è in mezzo al bosco... Non daranno fastidio a nessuno, mentre la faranno a pezzi.”

Il figlio non provò a smentirla, benché fosse convinto che i forlivesi avrebbero visto come gesto molto più simbolico l'abbattimento del Paradiso – per tutti ancora il ricordo più vivo del Feo, dato che, dopo la sua morte, tutti avevano saputo che era proprio lì che di fatto lui e la Tigre vivevano insieme – che non quello della Casina, ritenuta da tutti solo come un casotto di caccia della Sforza.

“Sai, sono stata via tranquilla, sapendo che al comando c'eri tu.” disse la Contessa, avvicinandosi alla porta, come a dire che quell'incontro poteva dirsi concluso.

Galeazzo fece un sorriso stentato e poi confessò: “Però io ho avuto paura tutto il tempo. Forse vi sbagliate ad avere tanta fiducia in me...”

“Te l'ho già detto e non credo di dovertelo ripetere – lo redarguì a quel punto la madre – solo gli stupidi non hanno mai paura. Tu avevi ragione ad averne, in questo caso, ma non ti sei lasciato dominare da essa, tutt'altro. Quindi non sei stato una delusione, ma un motivo d'orgoglio, per me. Ti sia chiaro.”

Gonfiando appena il petto, il ragazzino sorrise in modo più sereno e ringraziò con un cenno del capo.

“Adesso andiamo... Ho ancora un po' di cose da fare e prima che piova voglio controllare anche lo stato dei camminamenti...” borbottò la Tigre, tornando ai suoi soliti modi, mentre usciva dalla sala delle letture seguita dal figlio.

 

Cesare Borja si stravaccò ancora di più sulla poltrona. Faceva ormai buio e fuori pioveva. Pareva quasi una maledizione: pioggia, pioggia e pioggia. Lui, che avrebbe voluto sfilare elegante e impettito davanti ai soldati, si trovava a passare le sue giornate raggomitolato sotto un mantello, infradiciandosi fino all'osso, con il rischio di provocare ancora le sue febbri luetiche proprio nel momento sbagliato.

Con l'unghia dell'indice, il giovane si grattò distrattamente una delle croste che aveva sul viso e poi rilesse una volta di più la lettera che gli annunciava che suo nipote sarebbe stato battezzato l'undici di quel mese. Mancavano due giorni scarsi.

Il Valentino chiuse gli occhi e, dopo un sospiro pesante, vano tentativo di calmarsi, accartocciò la missiva con rabbia e poi la lanciò nel camino acceso.

I suoi occhi seguirono l'onda irregolare delle fiamme che andavano a lambire il foglio, per poi catturarlo, avvolgerlo nelle loro spire e ridurlo in cenere, dopo un glorioso guizzo di fuoco.

Era ovvio che non avrebbe fatto in tempo a essere presente. Da un lato ne era quasi felice: non avrebbe sopportato di vedere la faccia da bambinetto impomatato dell'Aragona gongolare per la nascita del figlio. Ma dall'altro, si sentiva rodere di gelosia e rabbia. Sua sorella si stava dimenticando di lui, lo sapeva. E invece Lucrecia avrebbe dovuto sapere che lui era sempre presente, anche se lontano. Doveva ricordarsi tutto, tutto, senza permettersi di dimenticare anche solo un dettaglio di lui e di quello che era successo.

Prendendosi la testa tra le mani, il Borja cominciò a riflettere. Stavano perdendo un sacco di tempo e lui non poteva farci nulla. Finché Bologna non avesse esposto chiaramente la sua posizione, non sapevano che fare. Lui aveva proposto di stanziare comunque il campo a Castel Bolognese, in modo da essere fuori dai territori del Bentivoglio, per quanto abbastanza vicini da poter far sentire loro il fiato sul collo.

Ma i francesi tergiversavano, volevano aspettare, dicevano che Castel Bolognese, essendo così vicino a Rimini, e quindi nella sfera d'influenza del Doge, non era una scelta saggia. Ma come ragionavano, si chiedeva il figlio del papa, dato che Venezia era loro alleata?

Divorato dai ricordi della chioma folta e chiara di Lucrecia, della sua voce e del trillo di paura che aveva attraversato i suoi occhi, l'ultima volta che si erano trovati soli l'uno difronte all'altra, Cesare si alzò dalla poltrona, cominciando a girare per la sala quasi del tutto buia. Non aveva nemmeno acceso delle candele, per quanto era preso da altri pensieri, lasciando che solo il camino illuminasse la sua notte.

Il re sarebbe partito da Milano il giorno dopo, portandosi appresso quel parassita inutile di Giovan Francesco Sanseverino. Il Duca di Valentinois sperava di poter approfittarne per avere maggior potere decisionale e spingere le truppe verso il campo da lui scelto. Ma sia l'Aubigny sia il Ligny si stavano dimostrando con lui meri oppositori, incapaci di formulare idee proprie che fossero costruttive. E con loro anche La Trémoille e il Balì di Digione sembravano non voler altro che tirar tardi, come se servisse a qualcosa... Era come se tutti loro avessero una paura folle di trovarsi contro la Sforza di Forlì, come se una donna, con una manciata di soldati male in arnese, potesse davvero mettere in difficoltà quindicimila francesi!

Incapace di stare fermo, il Borja pensò di uscire, per svagarsi, ma appena prese il mantello, che aveva abbandonato vicino alla porta, in terra, senza alcun riguardo, venne rimesso al suo posto da un tuono tanto forte da fargli vibrare la cassa toracica.

Svanita la voglia di uscire, schiuse appena l'uscio e chiamò: “Miguel!” restando in attesa.

Passò nemmeno un minuto e Michelotto comparve nel buio del corridoio, chiedendogli se avesse bisogno qualcosa.

“Va a cercarmi una donna.” gli disse in fretta il Borja: “Che sia giovane e bionda.” decise, pensando al bel demonio che lo tormentava fin da adolescente.

L'amico, il volto impassibile come sempre, fece un cenno d'assenso, ma non ripartì subito. Il Valentino fece un suono gutturale, e si cercò nella scarsella qualche moneta, pensando che Miguel de Corella fosse in attesa del denaro da versare in anticipo al lenone del lupanare.

Michelotto, aprendo il palmo e prendendo i soldi, non fece trasparire la sua insofferenza, ma, da fedele servo – perché a tratti così sentiva, malgrado ciò che provava per l'amico – mise le monete al sicuro e si voltò, pronto ad andare.

“Anzi...” ritrattò il Borja, tentato da un'ispirazione improvvisa: “Sceglila bionda, ma non giovanissima. Quando avrò davanti questa famosa Tigre di Forlì, voglio essere pronto... Meglio iniziare a fare le prove.” sogghignò, tornando verso la poltrona e raccomandandosi: “Fai presto, che non mi piace aspettare...”

 
 
   
 
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