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Autore: Slits    01/08/2009    3 recensioni
Alzò lo sguardo incontrando il viso rilassato del proprio sfidante.
« Le tue spade sono già sguainate. »
« Mi sono sempre chiesto che sapore avesse il sangue di un traditore… » le labbra del biondo si spezzarono in un ghigno insolitamente compiaciuto prima di aprirsi e parlare ancora una volta. Persino l’aria sembrò incrinarsi al suono di quelle ultime parole.
« Puro veleno. Ti andrebbe di morire nel tentativo di spillarne una goccia, spadaccino? »
Persino lei non riuscì a non inchinarsi al richiamo dell’imminente battaglia.

In un mondo in cui l'unico modo per sopraffare l'avversario è usare l'inganno, il Governo avrà a disposizione una nuova arma.
Un mugiwara muore. Dalle sue ceneri nasce la vera minaccia.
[Sanji/Nami; Franky/Robin]
[OOC; !Angst]
Genere: Azione, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nami, Sanji
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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26. Memories wear out
________

Le molle del letto si piegarono un’ultima volta, soffocando appena un gemito metallico.
Fissava ancora il punto dove era scomparso Carlos. Avrebbe voluto sfogare tutta la rabbia che sentiva scorrere dentro di lui.
Si, proprio rabbia.
Rabbia per non aver potuto far niente per quella ragazza, rabbia per aver permesso a quel fottuto Drago Celeste di entrare ancora una volta nella sua esistenza e prendersi quel poco che gli era dovuto.
Rabbia contro se stesso perché stava provando sensazioni che non avrebbe nemmeno dovuto conoscere.
Ed alla rabbia si univa il dolore.
Una macchia ingiustificata in fondo, lui quella ragazza nemmeno la conosceva. Eppure la sentiva lo stesso dentro di se, crescere prepotentemente e soffocarlo.
Si alzò e spalancò le tende della stanza; l’aria stava divenendo irrespirabile lì dentro. Con lo sguardo accarezzò ancora una volta le mura immacolate dell’arena, reprimendo a fatica una smorfia di puro disgusto.
Per proteggere e servire. Certo.
Era per questo che lo avevano creato, plasmandolo dal fango in cui le loro stesse armi lo avevano gettato. Ma più guardava quel cerchio imperfetto, curvilineo e malleabile come i criteri di giustizia che lui stesso si era ripromesso di servire, e più risentiva quell’antica rabbia fiorire dentro di se e ricominciare ad annusare l’aria. Speranzosa.
Ed adesso l’insostenibile bisogno di sfogarsi, lasciarla andare una volta per tutte nella speranza di non scorgerla più, era divenuto un desiderio sfrenato. Aveva bisogno di gridarlo, di gettarlo fuori da se.
Altrimenti sarebbe certamente impazzito.
Richiuse il cotone marcio delle tende, accartocciandolo su se stesso. Persino la luce lo infastidiva.
Doveva impedire alla sua mente di pensare, ai ricordi di affiorare. Impedire al suo cuore di non battere solo ed esclusivamente per tenerlo in vita; era la prima regola che lì dentro fosse riuscito ad imporsi.
Si scostò dalla parete e con passi ignari, sebbene sempre più veloci, tornò a sedersi sul letto. La rete malandata del materasso non mancò a sottolineare il proprio disappunto al suo peso bilanciato, abbandonandosi all’ennesimo stridulo richiamo.
La ignorò, indirizzando lo sguardo al vetro sbeccato che adesso stringeva avidamente fra le dita. Lasciò indagare ancora un po’ i suoi occhi scuri nel diamante fuso dello wiskey, cogliendone la minima increspatura fra i rivoli perfetti. Poi mandò giù il primo sorso.
Un secondo ed un terzo gli succedettero a distanza di pochi istanti.
Rimase immobile, in attesa che l’alcol incominciasse a fare effetto e la testa divenisse più leggera.
Iniziò a scavare dentro la sua mente riportando i ricordi indietro nel tempo. Voleva arrivare all’inizio di tutto, alla genesi di quel dolore. Da dove era partito e dove l’aveva portato. Ogni giorno se ne aggiungeva altro, sempre più forte. Ma lui doveva trovare l’inizio di tutto.
E quando l’immagine si presentò chiara davanti ai suoi occhi, la sua mente iniziò a rivivere quella scena come se fosse reale. Credeva di aver dimenticato tutto, invece ricordava anche il piu’ minimo particolare. Scosse la testa per cercare di mandare via tutto quello che aveva dentro. Ma sapeva perfettamente che quella sarebbe rimasta solo una sua stupida illusione.
Si rimise a sedere nella vana, ed oltremodo stupida speranza, di riuscire a trovare un equilibrio fra i frammenti di quel pomeriggio. Inutilmente.
Aveva sperato di poter cancellare ogni cosa, di vanificare ogni attimo di dolore con pochi colpi decisi. Ma quella macchia informe dentro di se non aveva smesso un singolo attimo di pulsare, allargandosi dal cuore e ramificandosi ovunque, pronta ad esplodere.
E da dolore inconscio era divenuta un sordo pulsare, in continuo movimento lungo l’intero fascio di nervi della gamba. La sentiva scivolare lungo i muscoli del polpaccio, insinuandosi come un cancro malizioso fra i tendini della coscia. Era una cicatrice vecchia, la sua.
Un errore di calcolo che nell’assalto dell’ennesima nave pirata gli era quasi costato la vita. Questo almeno gli avevano detto quando risvegliandosi, fra una bestemmia ed un’imprecazione, era persino riuscito a mormorare qualche debole domanda. Ma non ci aveva mai creduto davvero, lui.
Quel segno era troppo profondo per poter anche solo pensare di esser generato da un proiettile; probabilmente neanche una palla di cannone avrebbe potuto causare un simile danno.
La pelle era bruciata, le cicatrici appena pronunciate fra i rivoli di sangue. Eppure quella ferita era vecchia.
Eppure gli avevano voluto far credere così.
Scosse la testa, deciso ad ignorare l’ennesimo dubbio destinato a far da contorno amaro alla sua vita.
Si trascinò a fatica sino ad un tavolinetto di cristallo a cui lui solo aveva l’accesso, aprendone un’anta con un movimento impaziente del polso. Aveva bisogno di qualcosa per mettere a tacere il dolore, e soprattutto di un disinfettante forte a sufficienza da camuffare l’odore amarostico del sangue. Lo sentiva viaggiare nell’aria e circondarlo del suo sapore metallico.
Non lo sopportava, avrebbe fatto di tutto pur di allontanarlo da se.
Ma tutto ciò che quelle ante furono in grado di offrirgli, oltre ad un’invidiabile scorta di alcolici, fu il semplice manico intarsiato di una rivoltella. O qualcosa di vagamente somigliante a questa.
La prese, soppesandola accuratamente.
Un mandarino, un cappello, tre spade ed una fionda. Un fiore, un petalo di ciliegio ed un ultimo simbolo.
Cancellato.
Trevor socchiuse gli occhi nel vano tentativo di riuscire a scorgere fra le fenditure del metallo i tratti appena abbozzati di ciò che ad un primo sguardo sarebbe potuto apparire come un lumino appena acceso. Ma lì dove i punti sembravano congiungersi, una fiamma aveva deciso di cancellarne i contorni, fondendo fra loro linee morbide e schizzi graffianti.

- Una pistola, Usop? E da quando in qua saresti in grado di fabbricarne una? -
- Sai qual è il tuo problema, Sanji? Confidi troppo poco nelle abilità dei tuoi nakama. –
- Io credo in voi… - si limitò a risponder atono - … è nel progetto di un’arma in cui manca persino il cane che dubito. –  lo sguardo di Usop assunse un’espressione ferita.
- Anche senza cane può funzionare. – aggiunse piatto.
- Non sparerà. –
- Sì invece. –


Cambiò improvvisamente espressione. Le pupille dilatate, il petto che si gonfiava ed abbassava velocemente, il corpo scosso da fremiti incontrollabili.
Si alzò scaraventando quello che incontrava lungo il suo cammino per terra. Raggiunse la finestra e ne spalancò le ante.
Più le apriva e più si sentiva soffocare, come se l’aria non circolasse più dentro di lui. Non riusciva a spiegarsi come mai sino a qualche secondo prima stesse bene e adesso sentisse quel blocco dentro il suo petto.
Provò a calmarsi, ma più i secondi scorrevano, più si sentiva male. Quel dolore al petto vicino al cuore che stringeva sempre di più, le mura che sembravano stringersi attorno a lui in una morsa senza via di uscita, le mani che tremavano, la fronte imperlata di sudore.
Gli sembrava di sentire la morte vicina, gli sembrava quasi di toccarla. Era convinto che da un momento all’altro avrebbe chiuso gli occhi per sempre.
E invece non li chiuse. La morte avrebbe dovuto aspettare ancora prima che lui la raggiungesse. Tornò a respirare regolarmente e il tremore abbandonò il suo corpo.
Come se non fosse successo niente, come se appena qualche minuto prima lui fosse stato sol uno spettatore. Si appoggiò alla parete e prese un lungo respiro. In mano stringeva ancora la pistola.
Una nuova fitta gli fece allentare la presa. Si piego’ leggermente su se stesso mentre con una mano si reggeva al muro. Respirava a fatica, aveva bisogno di riprendere fiato, ma il tempo giocava contro di lui.
Fece la sola cosa che in quel momento il suo spirito avrebbe potuto concepire; prese la mira e sparò.
Ma nessun colpo si infranse contro la specchiera, nessun eco riecheggiò nella camera.
Rimase immobile, nel vano tentativo di fermare le fitte che incontrollabili solcavano ogni singolo capillare.

- Non sparerà. –
- Sì invece. –


Non aveva sparato, e questo lui lo sapeva sebbene i suoi occhi si fossero posati per la prima volta su quell’arma. Lo aveva saputo dal primo istante in cui l’aveva stretta fra le lunghe dita.
Si abbottonò la camicia ed uscì dalla camerata.
- Capitano! Capitano, dove stai andando? – la voce di Hige gli giunse come un sospiro ovattato.
Sollevò una mano come per zittirlo e continuò imperterrito la propria marcia verso le prigioni della base.
Quei pirati di merda gli avrebbero dovuto un bel po’ di spiegazioni…


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