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Autore: Adeia Di Elferas    23/11/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Ottaviano si allacciò la fibbia del mantello e, scostandosi i lunghi capelli castani da davanti agli occhi, tornò a guardare il Governatore Corradini: “Vi ho detto che devo partire con urgenza.”

“Per la lettera che vi ha mandato vostra madre?” chiese l'uomo, guardandolo con commiserazione, mentre dal cielo cominciava a cadere di nuovo qualche goccia di pioggia: “Vi è arrivata ieri... Se aveste avuto tutta questa fretta, sareste dovuto partire allora, no?”

“Ho preferito aspettare che spiovesse.” spiegò il Riario, senza guardare il suo interlocutore, fingendosi intento a cercare le briglie del suo cavallo, che allargava le froge impaziente: “Non posso mettere in pericolo la mia persona, specie adesso che...”

“Sì, sì, come dite voi.” tagliò corto Corradini, stanco di sentire le chiacchiere del figlio della Contessa: “Però avreste fatto meglio, a questo punto, a presenziare assieme a me al Consiglio, in modo da esporre di persona la decisione di vostra madre.”

Il ventenne sporse un po' in fuori il mento. Sapeva che il Governatore aveva ragione, e il castellano, Dionigi Naldi, gli aveva detto la stessa identica cosa, quando l'aveva incontrato prima di lasciare la rocca. Tuttavia, la Tigre non aveva specificato se lui dovesse essere presente o meno in Consiglio e, dunque, se poteva sottrarvisi, lo avrebbe fatto molto volentieri.

“Ciò che va detta agli imolesi è semplice.” fece Ottaviano, secco, mentre la sua cavalcatura iniziava a dare segno di irrequietudine, battendo uno zoccolo sul terreno fangoso: “Quindi non vedo perché serva l'intervento di un Conte per...”

“Voi non sarete mai Conte, mio signore...” la voce di Corradini era bassa e disillusa, tanto cupa da prendere alla sprovvista il giovane, che non ribatté: “Voi fate come se lo foste, ma sappiamo che la Contessa ha altri progetti, e non ha alcuna intenzione di vedervi comandare. Sempre che dopo la guerra resti ancora qualcosa su cui comandare.”

“Quello che dite è molto...” provò a dire il Riario, ma l'altro lo interruppe.

“Andate, avanti, prima che si metta a diluviare...” lo congedò il Governatore, lasciando da parte ogni tentativo di mascherare il proprio disprezzo per colui che, in linea teorica, sarebbe stato il suo signore: “E comunque, quella ragazza che avevate tanta paura di incontrare per strada, sappiate che non abita più in questa città.”

Ottaviano sapeva che quella cui si riferiva Corradini altre non era che la madre di Cornelia. Era vero, per tutto il tempo che aveva passato in quella città, il Riario aveva temuto di imbattersi in lei.

Non la ricordava quasi, in realtà, perciò ogni giovane donna che incrociava il suo sguardo lo faceva sobbalzare. Ciò che temeva di più, nel caso di un loro incontro, non era tanto il sentir avanzare pretese o richieste, perché sapeva che la Leonessa aveva già fatto in modo di sistemare la bambina e di concedere un buon lascito alla madre. Ciò di cui aveva paura era trovarsi davanti l'abisso e specchiarvici dentro. Ricordava bene quello che le aveva fatto e il perché, e la vergogna non era un sentimento sufficiente per descrivere quello che provava. Si era comportato peggio, con altre donne, ma il sapere che dalla violenza era nata una figlia, aveva su di lui il potere di terrorizzarlo.

In un certo senso, con Cornelia, la storia si era ripetuta, perché era nata esattamente com'era nato lui: da una forzatura.

“Fate quello che ha ordinato mia madre.” concluse il Riario, ancor più desideroso di partire presto e di lasciarsi Imola alle spalle.

“Come sempre.” assicurò il Governatore e, guardando Ottaviano montare goffamente in sella, si sentì sollevato, nel vederlo pronto a partire, ma altrettanto furioso per l'inettitudine che quel giovane aveva dimostrato.

'Se la Sforza ci ha mandato uno del genere – pensò, con rancore – significa che per lei noi valiamo davvero meno di un soldo bucato.'

 

“E allora obbligheremo tutti a portare alla banca tutto l'argento e l'oro che hanno in casa!” sbottò Caterina, furiosa davanti a tutti gli ostacoli che i suoi uomini di fiducia continuavano a porle dinnanzi.

“Mia signora, non credo che la popolazione...” cominciò a dire Luffo Numai, che, più di tutti gli altri, voleva metterla in guardia sul rischio di perdere il consenso popolare proprio a ridosso di un attacco francese.

“Al diavolo!” inveì lei, battendo un pugno sul tavolo su cui era era stesa la mappa d'Italia: “Questa terra, prima ancora di essere mia, è loro! Se i forlivesi non vogliono aiutarla, perché dovrei farlo io?!”

“E come pensate di convincere la popolazione a consegnare spontaneamente l'argento e l'oro?” si informò l'Oliva, che, a differenza del Consigliere, aveva una visione più aperta, per quanto cauta, della questione.

“Stabilendo pene esemplari per chi non lo farà.” fece lei, fissando il milanese e poi voltandosi subito verso Bernardino da Cremona che, con un colpo di tosse, stava dimostrando il suo dissenso nel modo che la donna riteneva in assoluto più fastidioso: “E voi che avete? Vi siete ingoiato la lingua?!”

Il castellano, sentendosi gli occhi di tutti puntati improvvisamente addosso – erano presenti anche Galeazzo, Pirovano, Cardella, Baldraccani e Giovanni Dipintore – si staccò un po' dal muro e, quasi timidamente, disse: “Mi chiedevo solo come fareste a controllare che tutti consegnino ciò che hanno... So che i forlivesi vi conoscono per una donna di parola, e forse la paura di una punizione basterà, ma... Per avere certezze andrebbero fatti controlli a tappeto, e non credo che trovarsi l'esercito in casa, intento a frugare in cassapanche e cassetti, sarebbe il modo migliore per accattivarsi il popolo...”

“Infatti, non posso certo fare così.” convenne la Contessa, stringendosi le braccia sul petto e restando in silenzio per qualche istante.

A quel punto, Baldraccani, che aveva studiato a fondo il problema della mancanza di fondi – ed era perfino giunto, in privato, a proporre alla Tigre di vendere i propri gioielli, sentendosi rispondere con un secchissimo no – alzò una mano per chiedere la parola e, ricevuto il silenzioso permesso dalla Sforza, disse: “Si potrebbe numerare la moneta e aumentarne il valore, impedendo l'uso di qualunque altra valuta. In questo modo, sarebbero tutti incentivati a fare come volete voi, perché ne dipenderebbe la possibilità di usare il denaro.”

“E reintegrare ogni perdita, a guerra finita, permettendo a ciascuno di riottenere esattamente quanto versato.” completò il pensiero la Leonessa.

Fu un lampo, ma a Caterina bastò: nel momento stesso in cui aveva detto quell'ultima frase, Giovanni da Casale l'aveva fissata in un modo inequivocabile. Lui sapeva benissimo che la sua amante era convinta non solo che avrebbero perso, ma anche che lei e tutti i suoi più stretti collaboratori sarebbero morti sotto i colpi di spada francese. Quindi, promettere di rimborsare tutti i debitori a guerra finita altro non era che una truffa.

“Questa potrebbe essere un'ottima idea.” annuì Numai, pensando, come Pirovano, che quella fosse solo una trovata propagandistica, che avrebbe visto anche lui tra i danneggiati, se fosse sopravvissuto alla guerra, ma probabilmente molto efficace.

“Quindi faremo così.” concluse la donna, sfuggendo allo sguardo di Galeazzo, che, come Numai e Giovanni da Casale, aveva colto il risvolto più infido della scelta fatta dalla Tigre, e sembrava digerirlo con difficoltà.

“E per la questione dell'armare i civili?” chiese allora Dipintore, che, invece, non aveva minimamente subodorato il mezzo inganno sottostante l'ultima decisione.

“Distribuiremo corazze, celate e lance finché ne avremo.” disse, questa volta senza la minima esitazione, Caterina: “Si armino anche le donne e i ragazzini. Chiunque vuole combattere, lo faccia.”

“Così, però, apriremo la strada alla confusione.” provò a opporsi Pirovano, rigido: “Dare una spada in mano a una donna può essere un gran rischio.”

“Faremo come ho deciso e basta.” fece la Contessa, non prestando il fianco alla provocazione gratuita di Giovanni: “Ah, e c'è un'altra cosa...”

La Tigre si passò una mano tra i capelli, pensierosa. Aveva preso in considerazione, già durante il viaggio di ritorno di Firenze, di prendere delle precauzioni straordinarie, temendo ormai non solo gli attacchi esterni, ma anche quelli interni.

Gli uomini che la circondavano erano in attesa di sentire le sue parole, così la Leonessa si decise a dire: “Voglio che tutti gli amici conosciuti e i parenti di Achille Tiberti vengano arrestati.”

“Solo quelli che risiedono in città?” chiese l'Auditore, con fare pratico, senza fare una piega.

“Anche quelli che si potranno trovare a Forlimpopoli.” aggiustò il tiro la Sforza, pensando che suo fratello Piero non aveva bisogno di trovarsi addosso anche dei potenziali traditori.

“La gente potrebbe non capire...” tentò debolmente Cardella, che, dopo tutto ciò che si era detto quel giorno, cominciava a temere anche per la propria incolumità, convinto che, nel bene e nel male, il suo nome sarebbe stato collegato alle scelte della sua signora.

“Achille Tiberti era sul palmo della nostra mano – ribatté Caterina, guardando il suo cancelliere con durezza – lo abbiamo perdonato e riaccolto mille e mille volte, eppure lui ci ha traditi, diventando il favorito del figlio del papa. Questo anche il popolo lo sa.”

Cardella stava per dire ancora qualcosa, quando qualcuno bussò alla porta e la Contessa ordinò di entrare.

“Mia signora – si inchinò Scipione Riario, tenendo poi lo sguardo basso in segno di rispetto – mi hanno mandato a informarvi che vostro figlio Ottaviano è appena rientrato in città.”

“Bene.” disse a denti stretti la Tigre e poi, battendo sbrigativa le mani dichiarò: “Per ora la chiudiamo qui. Metterò a punto gli ultimi dettagli e nel giro di un paio di giorni renderò effettive le mie decisioni. Per il momento, procedete solo con gli arresti e la distribuzione di corazze e lance, a partire dai ragazzi più giovani che non sono arruolati, e andando, fino a esaurimento, a tutta la popolazione.”

I presenti, parlottando tra loro, cominciarono a guadagnare la porta. Solo Pirovano restava un po' in disparte.

L'uomo attese di essere relativamente solo con l'amante – restavano appena Galeazzo e Scipione, giusto fuori dalla porta – per avvicinarlesi e sussurrare: “Sei certa che non sia un errore? Dare le armi al popolo... E se le usassero contro di te?”

“Non lo faranno.” scosse il capo lei, cercando di aggirare il milanese, che, però, la frenava con il suo corpo: “Al massimo qualcuno di loro rivenderà una piastra o una lancia, ma non si organizzeranno contro di me.”

“Sembri convinta di quello che dici.” commentò lui, accigliandosi.

“La sono. Così come sono convinta che tu dovresti stare più attento a come parli. Sono stufa di dirtelo.” anche se stava a mala pena sussurrando, la Contessa riusciva ugualmente a essere intimidatoria e Giovanni, per quanto non volesse, cominciava a sentirsi in difficoltà: “Prima quando hai fatto quel commento sulle spade lasciate in mano alle donne...”

L'uomo prese fiato, ma non disse nulla, fingendo di controllare se i due Riario fossero ancora alle sue spalle.

“Solo perché ti lascio entrare nel mio letto, non vuol dire che tu sia libero di aprire la bocca a sproposito.” mise in chiaro la Contessa, riuscendo finalmente a oltrepassare Pirovano e concludendo, a voce molto più alta, tanto che sia Scipione, sia Galeazzo, poterono sentirla: “Tutta questa intraprendenza tienila per quando siamo sotto le coperte, invece di sprecarla quando non serve.”

 

Ottaviano era stato fatto attendere nel cortiletto d'ingresso. Il giovane si era molto risentito di quel trattamento, degno di un ospite minore e non del padrone di casa, ma, d'altro canto, non aveva neppure provato a far valere la sua voce sorpassando le disposizioni e andando al coperto.

Ciò che più lo infastidiva era la pioggia, fine e quasi impalpabile, ma così appiccicaticcia e fredda da rendergli penoso anche solo il respirare. Sentiva i capelli bagnati e ispidi per l'umidità, e sarebbe stato pronto a dare un braccio, in quel momento, per potersi chiudere un attimo in uno stanzino di servizio e vuotarsi la vescica.

Quando finalmente vide sua madre, si sentì sollevato. Era strano, perché di norma la sua apparizione gli causava ansia, se non addirittura panico, ma in quel frangente era pronto a sopportare tutto, pur di avere il via libera ad andare a riposarsi.

“Ti aspettavo prima.” disse la donna, quando era ancora a qualche passo da lui.

Il Riario si morse l'interno della guancia e abbassò lo sguardo, senza commentare. Forse, si era detto, se avesse saputo tenere a freno la lingua, si sarebbe liberato prima del previsto. Sua madre sapeva già che lui era solo una delusione vivente, quindi magari non avrebbe perso troppo tempo a ricordarlo anche a lui.

“Mi sembra superfluo – disse infatti lei – farti notare l'errore grossolano che hai fatto, aspettando che fossi io a dire sì o no alla richiesta degli imolesi...”

“Non sapevo cosa fare...” provò a difendersi lui, con una specie di pigolio appena udibile.

“Non c'era una scelta giusta. L'unica cosa che andava fatta era decidere subito, dimostrandosi forti.” spiegò lei: “E ovviamente tu sei riuscito a fare la cosa peggiore che si potesse: dimostrarti indeciso e debole.”

Il ventenne strinse le labbra. Stava facendo di tutto, pur di non cedere alle provocazioni. Si stava tormentando anche le mani, ancora guantate, dietro la schiena. Era un'umiliazione, per lui, ma ormai era abituato a tutto.

“Più tardi chiederò al Capitano Rossetti come ti sei comportato a Imola e come proseguono i lavori alle porte e alla rocca...” fece la Contessa, quasi tra sé.

“I lavori li ho controllati di persona – intervenne il Riario, non riuscendo più a tacere – è per questo che mi sono fermato a Imola così a lungo.”

“Certo, è proprio per questo che l'hai fatto.” sbuffò sprezzante la Tigre: “Comunque, se sei diventato così esperto di queste cose, non ti spiacerà andare a sorvegliare i lavori di ristrutturazione della cinta muraria.”

Il ragazzo, pur di tagliar corto, annuì: “Lo farò.”

“Bene. E già che ci sei, dovrai girare tutte le botteghe e ordinare a tutti quanti di chiudere e correre ai lavori di muratura.” decretò la Sforza, che aveva già ragionato su quel provvedimento, senza mai metterlo davvero in pratica: “Chi si opporrà, dovrà risponderne a me.”

“Va bene, domattina per prima cosa...” cominciò a dire il giovane, azzardando un mezzo passo avanti.

“Non domattina – lo corresse la madre – adesso. Muoviti: prima cominci, prima la tua città sarà al sicuro.”

Ottaviano era rimasto di gesso. Il viso smunto e grigio si era trasformato in una maschera di incredulità. Era da quanto si era svegliato quella mattina a Imola che non desiderava altro che chiudersi per un po' nella propria stanza e allontanarsi dal mondo e dai problemi, e invece, appena metteva piede a Ravaldino, sua madre che faceva? Gli dava un nuovo compito, pretendendo che venisse messo in pratica subito?

“Ma i bottegai non saranno così inclini a fare quello che dico loro...” provò a declinare, con un filo di voce.

“Non è un mio problema.” lo liquidò la Leonessa: “E adesso muoviti: sono già stanca di vederti ciondolare qui... Hai passato vent'anni a non far nulla, puoi anche darti da fare per qualche giorno, non credi?”

Il Riario, a quel punto, non avrebbe saputo più come ribattere. Tenendosi il mal di schiena e i vestiti umidi di pioggia, fece rigidamente un mezzo giro su se stesso e tornò verso il portone, le gambe che cominciavano a cedere all'idea dell'ingrato compito che gli era stato assegnato.

Caterina lo guardò allontanarsi e, deglutendo, finì per risolversi a chiamare a sé il Capitano Mongardini, che aveva osservato tutta la scena dai camminamenti: “Seguitelo, con discrezione, a meno che non ci sia bisogno di intervenire – gli disse – badate che faccia quel che gli ho detto e che non si imboschi in qualche osteria o in qualche bordello. Se qualche forlivese dovesse provare a osteggiarlo, allora intervenite, ma solo se vi sembra in reale pericolo.”

Il soldato annuì e, con una mezza smorfia che metteva in mostra i suoi piccoli denti bianchi come perle, commentò: “Se però qualche bottegaio gli desse un bel man rovescio...”

“No, non deve succedere.” si oppose la donna, che pure capiva la visione del Capitano: “Altrimenti poi dovrei condannare per lesa maestà un cittadino che ha solo agito seguendo il buon senso...”

Mongardini fece una mezza risata, benché la sua signora fosse rimasta seria e, chinando appena il capo, una mano sull'elsa della spada e l'altra sul cuore, esclamò: “Fidatevi di me, vostro figlio è al sicuro.”

La donna lo ringraziò e, dopo aver seguito anche lui con lo sguardo fin oltre al ponte levatoio, decise che si sarebbe dedicata per almeno un'ora alle sue pozioni. Molte stavano per finire, e doveva controllare bene la dispensa: all'arrivo dei francesi, la sua santabarbara voleva che la sua santabarbara fosse il più fornita possibile.

 

Lucrecia era pallida, e, seduta sul letto coperto di raso rosso e incorniciata dal color alessandrino della stanza, sembrava una statua.

Santa Maria in Portico, quell'11 novembre, si era trasformata in un palcoscenico su cui sfilavano tutti i personaggi più notevoli di Roma, e la figlia del papa era la punta di diamante dell'intera rappresentazione.

Tutti quanti erano sfilati davanti a lei, rendendo omaggio alla giovane madre che stava consegnando il suo primogenito – almeno così doveva passare il piccolo Rodrigo agli occhi del mondo – alla vita cristiana. Quaranta nobildonne, ambasciatori, prelati, amici potenti e parenti: tutti, uno dopo l'altro, si erano inchinati davanti alla donna che aveva dato un figlio ad Alfonso d'Aragona, e, cosa ancor più importante, un nipote al Santo Padre.

Alla Borja un po' dispiaceva, non poter assistere per intero alla cerimonia, ma, di contro, si era trovata a essere così provata dal parto, ormai avvenuto dieci giorni prima, dal sentirsi lieta di essere stata sollevata da un simile impegno.

Sedici cardinali, guidati da Carafa, si erano radunati nella piccola cappella privata del palazzo, per dar inizio alla funzione, e a loro si rivolgevano gli occhi dei curiosi che, dopo essere passati a salutare Lucrecia, erano rimasti rapiti dallo sfarzo degli arazzi e degli ornamenti di quell'ambiente.

L'occhio più attento di tutti, però, fu quello di Johannes Burckardt, il puntiglioso maestro di cerimonie, che, però, era stato estromesso dalla preparazione di quell'evento. Forse anche per ripicca nei confronti del papa, la sua attenzione era più allerta di quella degli altri e a lui non sfuggì il buco che spiccava sulla tovaglia d'altare, un difetto tanto evidente da essere inconcepibile pensare che nessuno dei preparatori se ne fosse accorto.

Quello, per Burckardt era come un segno del fato, un presagio, che condannava i Borja a un regno forse sfolgorante – come i drappeggi e gli ori che ingombravano la cappella con tanta invadenza da coprire interamente gli affreschi delle pareti – ma destinato a finire in fretta e per colpa di distrazioni evitabili e grossolane.

Anche al pontefice non era sfuggito, quel buco messo in bella vista, ma un po' trascinato dall'entusiasmo del momento, e un po' dalle emozioni contrastanti che essere di nuovo nonno glu portava, se n'era dimenticato nel momento stesso in cui dalla cappella era passato alla stanza della figlia, per porgerle il suo ufficiale saluto.

Quando il corteo si era spostato da Santa Maria in Portico alla cappella che veniva ancora chiamata sistina, in onore a Sisto IV che l'aveva voluta qualche anno prima, il palazzo era tornato tranquillo e quieto e Lucrecia aveva finalmente potuto rilassarsi e mettersi buona ad attendere il ritorno di suo figlio.

Sulla parete di fondo della cappella era stato posizionato un palio d'oro, a cui era stata addossata una tribuna di broccato sempre d'oro. Il pavimento era interamente coperto di spessi tappeti, che attutivano i passi dei membri del corteo preceduto dagli scudieri armati del papa, dai cubicolari vestititi di rosa e da Juan Cervillon, unico vero invitato da parte aragonese.

Questi era un amico – o almeno, così si dichiarava – di Alfonso, ma soprattutto era un valoroso soldato che faceva da mediatore tra re Federico e Rodrigo Borja. Proprio in virtù del suo ruolo di congiunzione tra le due corti, era stato scelto lui, per portare il piccolo battezzando al cospetto del battezzatore.

Il piccolo Rodrigo, tra le braccia forti di Cervillon, malgrado i cori e la folla che lo circondavano, era tranquillo, quasi preda del sonno, cullato dalla presa sicura del soldato e dal broccato d'oro foderato d'ermellino in cui era stato avvolto.

Arrivato all'altare, l'armigero consegnò il bambino all'Arcivescovo di Cosenza, Alessandro Borja, che, da lì, portò il neonato fino alla conca d'oro, dove il rigido e severo Carafa l'attendeva per battezzarlo.

Il pubblico, numeroso e rispettosamente silenzioso, osservava ogni mossa del Cardinale senza fiatare. Le donne – molte e molto curiose – avevano occupato le prime file degli stalli cardinalizi e allungavano il collo per vedere il volto del piccolo, cercando di scorgere in lui somiglianze con l'affascinante Alfonso o, ancor di più, con la bella Lucrecia.

Battezzato Rodrigo d'Aragona, la cerimonia poté dirsi quasi conclusa. Mancava solo il ritorno a casa e, su ordine espresso del papa, il rientro al palazzo dei genitori del bambino sarebbe stato affidato non più a Cervillon, ma a Paolo Orsini, in segno della ritrovata pace e coesione tra il papato e la famiglia del condottiero.

Nel momento stesso, però, in cui venne adagiato tra le braccia di Paolo, il piccolo, fino a quel momento pacifico e beato, scoppiò in un pianto a dirotto, così forte e disperato che nemmeno gli inni e la musica, fatti partire in anticipo per coprire quel piagnisteo, riuscirono a mascherarlo adeguatamente.

L'Orsini, lungo tutto il tragitto, pareva a disagio. Lui, come tanti dei presenti, aveva preso quel cambiamento improvviso di atteggiamento del neonato come un brutto segno. Forse era da superstizioso, pensarlo, ma Paolo vide in quel pianto un'ombra che si stendeva sul destino della sua famiglia e della sua amicizia con il papa.

Fu così con grande sollievo che, rientrato a Santa Maria in Portico, consegnò in fretta e furia il bambino, ancora paonazzo e inconsolabile, tra le braccia di Lucrecia. La giovane, cercando Alfonso nel corteo e non trovando né lui né il papa, ebbe un attimo di smarrimento, ma fece buon viso a cattivo gioco, sorridendo a tutti e dicendo che potevano ritirarsi senza problemi, perché Rodrigo si sarebbe calmato presto.

Appena la stanza si svuotò, in effetti, e la Broja rimase sola con il figlio e un paio di dame di compagnia, il neonato smise di piangere, singhiozzando ancora per qualche minuto. La donna gli asciugò il viso e gli baciò la fronte. Stava per chiedersi ad alta voce dove fosse suo marito, quando dalla porta della camera entrò proprio Alfonso.

“Uscite.” disse lui alle donne che affiancavano il letto della moglie.

Queste se ne andarono subito, parlottando tra loro e scambiandosi sorrisetti complici, abituate a doversene andare soprattutto per permettere ai due sposi di abbandonarsi alla passione.

Tuttavia, il volto dell'Aragona lasciava trasparire ben altro. La sua preoccupazione era tangibile e quando si sedette accanto alla moglie, Lucrecia non ebbe il coraggio di chiedergli subito che fosse successo.

“Tuo padre – le disse, a voce bassa, quasi avesse paura che anche i muri avessero orecchie – ha saputo da una delle sue spie che la Sforza di Forlì è appena stata a Firenze.”

“E quindi?” chiese la giovane, deglutendo.

“E quindi si sta convincendo che Firenze la stia aiutando di nascosto.” spiegò il napoletano: “E vuole agire contro la Signoria.”

“Non è un nostro problema.” provò a dire Lucrecia, stringendo un po' di più a sé il piccolo Rodrigo, che, stremato da quella giornata intensa, si stava riaddormentando.

Alfonso sollevò gli occhi chiari verso quelli della moglie, incredulo: “Ma non capisci? Se deciderà di dichiarare Firenze nemica, i francesi prenderanno anche lei e, a quel punto, cosa impedirà loro di prendere anche Napoli?”

“Tu corri troppo...” fece lei, cercando di tranquillizzarlo: “Mio fratello deve ancora mettersi davvero in marcia contro la Romagna... Affronteranno una guerra in pieno inverno... Vedrai che la Tigre di Forlì gli darà una lezione che farà ricredere tutti sul piano di scendere fino a Napoli.”

L'Aragona non sembrava convinto, ma capiva che anche insistere su quella linea non avrebbe portato Lucrecia a dargli ragione. E, in fondo, che senso avrebbe avuto crogiolarsi oltre nella paura?

“Nostro figlio è stato bravo...” disse, allora, cambiando completamente argomento: “Ha pianto solo quando l'ha preso in braccio Paolo Orsini.”

“E chi non piangerebbe – cercò di scherzare la donna – se venisse preso in braccio da Paolo Orsini?”

Alfonso fece un sorriso tirato e poi, dandole un bacio, si alzò dal letto e annunciò: “Vado un momento a parlare con Cervillon. Mi ha detto che ha delle notizie da darmi, ma immagino che sia il suo solito modo per cercare di convincermi a tornare a Napoli...”

“E tu non lo farai.” fece la Borja, non senza una punta di ansia.

“Lo farei solo se tu e nostro figlio poteste venire con me.” precisò lui, per poi abbandonsi a un sorriso triste: “Quindi non lo farò.”

 
 
   
 
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