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Autore: Adeia Di Elferas    28/11/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Corradini si morse il labbro, mentre rileggeva ancora una volta l'ordine della Tigre e si preparava a esporlo ai rappresentanti della città.

La recente visita di Ottaviano Riario aveva avuto un effetto molto più deleterio di quanto si sarebbe immaginato e ormai gli imolesi che contavano sembravano convinti di poter fare il bello e il cattivo tempo, con le disposizioni che arrivavano da Forlì. La goccia che aveva reso colmo il vaso era stata la dimostrazione di debolezza del giovane che, evidentemente incapace di prendere decisioni da solo, aveva dovuto attendere la risposta della madre, prima di concedere il rientro dei fuoriusciti.

Tutto sommato, però, al Governatore la crisi era parsa rientrare in fretta, ma era sicuro che quel nuovo documento, appena arrivato dalla rocca di Ravaldino, avrebbe scatenato una tempesta, e, questa volta, resistere ai flutti del mare agitato sarebbe stato molto più difficile.

Quando arrivò alla sala Consiliare, si tolse il mantello bagnato di pioggia e, schiarendosi la voce, decise di abbreviare i tempi, cominciando subito a esporre la richiesta della Contessa.

Gli imolesi restarono in silenzio ad ascoltarlo, mentre spiegava delle difficoltà incontrate dai soldati di stanza nelle rocche di Dozza e Tossignano, ma il loro mutismo si trasformò in confusione nel momento stesso in cui il Governatore disse: “E quindi la Contessa ordina che la città di Imola divida tra queste rocche in difficoltà quattromila staia di grano, dato che ella non ha fondi per comprarne da altri paesi, mentre la nostra città...”

“La nostra città se l'è sudato, il grano che è stato messo da parte!” inveì uno dei Consiglieri, seguito subito dalle rimostranze di altri.

Ci volle qualche minuto e le aperte minacce del Cagnaccio – che si era messo ritto in piedi accanto a Corradini – per placare la furia dei presenti, ma alla fine il Governatore riuscì a farsi sentire, mentre concludeva: “Si tratta di un ordine! Non è discutibile!”

“Vogliamo vedere il documento.” si impuntò allora uno degli Anziani.

Corradini, in fondo felice per quella richiesta, diede subito la pagina a chi gliel'aveva chiesta, sicuro che vedendo la grafia della Tigre si sarebbero tutti persuasi che non si poteva far diversamente da come egli stesso aveva detto.

Uno dopo l'altro, i Consiglieri si passarono di mano in mano il documento della Sforza, confabulando tra loro. Il Governatore, all'inizio così fiducioso, vedendo alcuni di loro sorridere e scuotere il capo, cominciò a sudare freddo. Lanciò un'occhiata a Sassatelli, al suo fianco, ma anche quel nerboruto capopopolo sembrava confuso dalla reazione degli imolesi.

Lo stesso Anziano che aveva domandato di poter vedere coi propri occhi l'ordine vergato dall'implacabile mano della loro signora, lo restituì a Corradini e, con un'espressione fintamente addolorata disse: “Vorremmo poter ubbidire, ma...”

“Ma?” chiese l'altro, sgranando gli occhi, incredulo.

“Ma in tempi come questo non ci si può fidare di nessuno...” fece l'Anziano, alzando un po' una spalla: “Questo documento potrebbe essere falso... Manca la corniola della nostra signora e quindi...”

“La corniola?” il Governatore, attonito, controllò il foglio e si rese conto che, probabilmente per questioni di fretta, non essendo di natura molto attenta alle formalità, la Sforza doveva essersi scordata quel segno distintivo che doveva vidimare ogni ordine ufficiale che andasse messo in pratica immediatamente: “Non c'è, questo è vero, ma... Per Dio, che intendete fare, allora?”

“Per il momento proprio nulla.” spiegò l'Anziano: “Se l'ordine è autentico, chiedete alla Contessa di rimandarlo in forma corretta. Se lo farà, obbediremo, come la legge comanda.”

Corradini, sperso, masticò l'aria per qualche istante e poi, furioso – con la Leonessa e la sua disattenzione, con gli imolesi e la loro doppia faccia, e perfino con se stesso, che non aveva controllato adeguatamente, prima di convocare il Consiglio – ripiegò la pagina, mettendosela in tasca e sbottò: “E va bene! Ma state pur certi che quelle quattromila staia di grano le dovrete far partire, che vi piaccia o no!” e, gridato ciò, se ne andò quasi di corsa, improvvisamente spaventato da quella città che, in teoria, avrebbe dovuto essere quella più docile e facile da comandare, ma che, in pratica, forse si sarebbe dimostrata molto più ingestibile della collerica e indisciplinata Forlì.

 

Malgrado tutto ciò che aveva detto, Caterina ancora non se l'era sentita di dare l'ordine di distruggere la Casina. Anzi, quella notte aveva deciso di lasciare alla chetichella Ravaldino proprio per immergersi ancora una volta nell'atmosfera silenzio e intima di quell'alcova in mezzo al bosco.

Aveva portato con sé la lancia da cinghiali e l'arco, ma non aveva intenzione di cacciare fino al mattino dopo. Non pioveva, ma l'odore di terra umida e di selvatico era così forte che le si era impregnato addosso e, anche quando si era spogliata e messa sotto le coperte, davanti al camino acceso, non la lasciava.

Si era presa quella notte non solo per prendere in un certo senso congedo con quella casetta, che l'aveva vista felice assieme a Giovanni, ma anche per pensare. Quel pomeriggio notizie poco incoraggianti davanti il Borja nella zona del ferrarese, in attesa di avere il nullaosta di Bologna per accamparsi nelle terre dei Bentivoglio.

Di quel passo, i francesi sarebbero arrivati a Forlì in fretta, e, ancor prima, a Imola. Doveva seriamente pensare a come far uscire dalla rocca in modo sicuro i suoi figli, e poi farli andare verso Firenze in incognito. Marulli, quella sera, mentre cenavano, le aveva assicurato ancora una volta che il suo canale era più che sicuro, ma che le cose andavano fatte con attenzione, perché sua moglie stava rischiando tantissimo, e, se qualcosa fosse andato storto, lui non se lo sarebbe mai perdonato.

La chiave della riuscita di quel progetto, la Sforza lo sapeva e ne aveva discusso a lungo anche con Numai, era riuscire ad allontanare i suoi figlio proprio all'ultimo minuto, non dando il tempo materiale al Borja di sapere in anticipo dove fossero. Si trattava di rischiare molto, ma ne valeva la pena.

Luffo aveva confermato una volta di più la sua disponibilità a nasconderli il tempo necessario, anche a costo di mettere in pericolo la sua stessa famiglia, e la Contessa gli era stata così grata da non saper esprimere a parole ciò che provava. Negli anni, aveva imparato a fidarsi di quel Consigliere e vedere come lui ricambiasse la sua fiducia con tale cieca abnegazione le dava più coraggio di quanto potesse credere.

Gli occhi fissi alle fiamme, la Sforza, seduta sul letto, si strinse un po' nelle spalle, le lenzuola che le scaldavano piacevolmente la pelle. Non voleva perdersi nei ricordi delle notti che aveva passato lì con il Medici, ma più la notte arrivava al culmine, più era impossibile riuscirci. La Casina, per loro, era stato un rifugio dal mondo impagabile. Li aveva protetti e accolti con la sicurezza di una fortezza e la semplicità di una casa comune.

Se si concentrava, poteva quasi sentire ancora l'odore della carne messa ad abbrustolire nel camino, il sentore pieno dei loro abiti, impregnati dell'aroma del bosco, dove erano rimasti per ore a cacciare, e, chiudendo gli occhi, poteva avvertire ancora il sapore di Giovanni.

Deglutendo a fatica, la donna scosse il capo. Non voleva cedere ai ricordi, perché avrebbero reso tutto più difficile. Si mise a coricare, una mano sul petto e l'altra sotto le coperte, tastando il vuoto che aveva accanto.

La solitudine, uno stato d'animo che, come la collera, nel corso della sua vita era sempre stata presente, si stava facendo strada nel suo petto con prepotenza. Quel giaciglio, troppo piccolo per permettere a due persone di sdraiarsi senza starsi addosso, per una sola era troppo grande. In un certo senso, alla Leonessa parve una metafora perfetta della sua vita: non aveva mai avuto abbastanza spazio per farvi entrare qualcuno senza finire per cozzarvi contro, e, allo stesso tempo, quando aveva fatto uscire tutti, si era sentita in una landa desolata.

Si rigirò qualche volta, cercando inconsciamente di riempire così il vuoto che la circondava. In quel momento, pensava, anche Pirovano forse le sarebbe andato bene. Non sarebbe bastato per lenire del tutto i tormenti della sua anima, ma almeno l'avrebbe distratta.

Chiedendosi cosa ne sarebbe stato di Giovanni da Casale, che aveva giurato di starle accanto fino alla fine, rinunciando a una carriera militare promettente e, più in generale, a un futuro, Caterina si trovò a ragionare su ciò che aspettava lei stessa.

Erano tante le chiacchiere che giravano su Cesare Borja e molte la vedevano, tragicamente, come coprotagonista. Si era sparsa la voce che il figlio del papa andasse in giro a dire che, dopo aver preso le sue terre, si sarebbe preso anche lei, come bottino di guerra.

Tirandosi le coperte fino al mento, la Sforza si augurò di morire in battaglia molto prima di finire tra le grinfie del Valentino. Essere uccisa con ancora la spada in pugno: a quel punto era il meglio che il fato potesse concederle. Una morte in guerra, tra i fragori del ferro e le urla dei soldati, era la massima aspirazione per uno Sforza.

Era una sorte che non era toccata né a suo nonno Francesco, morto di malattia, a letto, come un vecchio, né a suo padre, pugnalato come l'ultimo dei traditori mentre entrava in chiesa il giorno di Santo Stefano. Entrambi, Caterina ne era certa, avrebbero preferito andarsene stando nel cuore dello scontro, dando la vita per qualcosa in cui avevano sempre creduto.

Tuttavia... Facendo un respiro profondo, la Leonessa si sforzava di non pensarci, ma sapeva che l'ipotesi di non morire durante lo scontro esisteva e, in tal caso, sarebbe stato difficile sfuggire al Borja.

Non sapeva che faccia avesse. Forse l'aveva intravisto una volta quando era piccolo e lei vive a Roma, o forse si confondeva con un altro dei figli del papa. Di lui sapeva solo quello che le voci riportavano. Dicevano fosse bello, alto, dotato di un certo fascino. Quel modo di descriverlo non le sembrava molto dissimile dal modo in cui, vent'anni prima, aveva sentito descrivere anche il suo primo marito Girolamo.

Probabilmente per questo parallelismo, nella sua mente Cesare aveva preso vagamente le sembianze del Riario e, come lui, altro non le suscitava se non un profondo senso di repulsione.

Volendo scacciare il demone del mostro che l'aveva strappata alla sua infanzia, la Tigre ricominciò a rigirarsi, come su una graticola, richiamando alla mente tutti gli uomini della sua vita. Quello che aveva cercato di fare con ciascuno dei suoi amanti e con i due mariti che si era presa di propria volontà, senza sentire il parere di nessun altro, era stato proprio schiacciare ed eliminare il ricordo del primo.

Non c'era riuscita, in realtà, perché il fantasma di Girolamo c'era sempre e non se ne sarebbe andato mai. Però si era concessa delle parentesi di pace, con Giacomo e poi con Giovanni, prendendosi la rivincita con il destino, quando si era scelta Ottaviano Manfredi e Pirovano. E via via, benché molti dei volti e delle voci ormai fossero coperte dall'oblio, la donna si trovò a ringraziare silenziosamente tutti gli uomini che aveva avuto, perché ognuno di loro, chi più chi meno, era servito a annebbiare i suoi sensi quel tanto che bastava per provare a scordare Girolamo.

Quasi senza accorgersene, la Contessa cominciò ad assopirsi e, quando il sonno la colse, nella sua mente l'unica immagine distinguibile era il suo Giacomo, con il suo corpo giovane, la anima ancora da forgiare, e la sua innocenza, quella stessa innocenza che lei aveva amato alla follia, ma che, suo malgrado, aveva contribuito a strappare in mille pezzi.

 

Andrea Bernardi, come tutti, aveva ricevuto il giorno prima la visita di Ottaviano Riario che, affacciandosi appena alla sua bottega, aveva detto frettolosamente che ogni uomo in forze era precettato seduta stante per aiutare coi lavori di ristrutturazione e messa in sicurezza delle mura e dei rivellini.

Il Novacula, lì per lì, aveva annuito e anche il cliente che stava sbarbando aveva subito assicurato che avrebbe immediatamente lasciato la barberia per unirsi ai manovali. Di fatto, però, appena il figlio della Tigre se n'era andato, Bernardi aveva finito di rasare il forlivese ed entrambi, senza farsi troppi problemi, erano andati avanti a occuparsi delle proprie faccende.

Quella mattina, però, chi, come Andrea, aveva preso sottogamba l'ordine del Riario, si era trovato in bottega i soldati che, con maggior decisione, avevano ribadito la disposizione, presa, dicevano, per 'le drammatiche contingenze' in cui verteva la città.

A quel punto anche Bernardi aveva dovuto piegare la testa al dovere e, in virtù della sua cultura, era riuscito a scansare i lavori più faticosi per occuparsi di affari di concetto. In fondo, arrivava pur sempre da una famiglia di muratori e di costruzioni ne capiva abbastanza. Così, quella mattina, lasciando da parte il rasoio, aveva fatto assieme ad altri il giro del perimetro delle mura e aveva ascoltato i progetti dei capimastri, dicendo la sua ogni qualvolta gli pareva ce ne fosse bisogno.

Se da un lato il coinvolgere a quel modo la popolazione sembrava aver dato subito dei frutti, dall'altro il barbiere si chiedeva quanto potesse andare avanti una città in cui non si trovava una bottega aperta.

Era quasi mezzogiorno, aveva smesso di piovere da un'oretta, e Andrea era riuscito a congedarsi dal suo gruppo di lavoro, con la promessa di riunirsi a loro nel primo pomeriggio. Stava passando proprio accanto al rivellino di San Pietro, quando vide, sotto un tendone scosso dal vento forte di quel giorno. Sotto di esso era stata imbandita una piccola tavola e, in mezzo a una dozzina di notabili della città, vestiti a festa, c'era Ottaviano Riario.

Il Novacula cercò di passare inosservato, muovendosi il più possibile vicino alle case, ma i suoi occhi indagatori seguivano ogni mossa del figlio della Contessa. Il giovane continuava a versarsi da bere e, benché si affannasse nel tentativo di sembrare rilassato e, anzi, intento a divertirsi, era chiaro, anche da quella distanza, quanto stesse mal sopportando quel pranzo.

Dopo aver preso nota mentale di tutti i volti che circondavano il Riario, Bernardi si concentrò su un altro dettaglio: gli sguardi che i passanti – molti occupati a trasportare carretti di pietre o sacchi di sabbia – lanciavano alla tavolata. Trapelava indignazione, sopra ogni altra cosa, e, a tratti, si notava anche disprezzo e incredulità.

Il barbiere, voltando infine le spalle a quel disgustoso teatrino, si disse che se la Leonessa avesse saputo che suo figlio pensava di rendersi popolare e di farsi credere vicino alla causa mettendosi a banchettare assieme a una decina di nobili mentre i poveracci si spezzavano la schiena, probabilmente avrebbe preso delle contromisure esemplari. Se solo la Sforza avesse visto...

Era distratto, tanto che, mentre si perdeva nei suoi pensieri, Bernardi si perse anche tra le vie di Forlì, benché le conoscesse meglio di chiunque altro. Sollevando lo sguardo corrucciato verso il cielo grigio, l'uomo si orientò subito, ma, mentre girava l'angolo, venne nuovamente distolto dal suo itinerario da una scena che attirò la sua attenzione.

Un gruppetto di ragazzini stava correndo in mezzo alla via, mentre qualcuno da una bottega mezza chiusa – come lo erano tutte, quel giorno – gridava improperi. Il Novacula guardò meglio e, come si era atteso, tra i bambini che scappavano vide distintamente Bernardino, il figlio che la Sforza aveva avuto dal Barone.

Restando fermo dov'era, attesa che la piccola fiumana di scalmanati arrivasse fino a lui e lì, con un guizzo felino di cui non si era creduto capace egli stesso, afferrò proprio il Feo per un braccio.

Il bambino, dimenandosi come un pesce nella rete, cercò di andarsene, ma poi riconobbe il volto noto di Bernardi, e smise di divincolarsi.

Andrea gli dedicò una lunga occhiata. Ricordava molto bene il profilo del Barone e anche l'espressione che faceva, quando qualcosa lo spaventava. In quel momento, se anche non avesse avuto a prescindere la certezza che il ragazzino che aveva agguantato era proprio il figlio di Giacomo, l'avrebbe comunque capito senza fatica.

“Tua madre non è ancora tornata da Imola?” chiese, sapendo in realtà già la risposta.

Bernardino, corrucciandosi, non riuscendo a capire se il Novacula fosse per lui un amico o un pericolo, ribatté: “E che ti importa?!” e poi, con lo sguardo, cercò i suoi compagni di bravate, già dileguatisi chissà dove.

Il barbiere, che pure non aveva creduto di perdere la pazienza, lo scosse con forza, infastidito più di tutto dal tono che il bambino aveva usato nel rivolgerglisi: “Arrogante e insopportabile come tuo padre!” sbottò, senza riuscire a trattenersi, trovandosi a riversare sul piccolo tutto l'astio che aveva provato per il Feo: “Ma come ha fatto una donna come la Sforza a compromettersi con un...”

La lingua di Andrea si fermò di colpo, troppo tardi, forse, ma comunque prima di aggiungere qualcosa da cui davvero non avrebbe potuto tornare indietro.

Bernardino lo fissava attonito, incapace di ribattere, e, anche quando il Novacula lasciò la presa sul suo braccio, non riuscì neppure a scappare.

“Si tratta di una cosa seria.” riprese Bernardi, cercando di recuperare il recuperabile e arrivare a ciò che gli premeva: “Dov'è tua madre?”

Il piccolo Feo, sospettoso, era rimasto così sorpreso dalla breve invettiva del barbiere, che rispose automaticamente: “Credo sia nei boschi.”

“Tornerà presto?” chiese l'uomo, specchiandosi negli occhi spalancati del bambino, accorgendosi solo in quel momento di quanto fosse stato cattivo il suo attacco.

“Quando tornerà, dille di chiedere al suo primogenito che fa, invece di aiutare a portare i sacchi di sabbia alle mura.” concluse il Novacula, convincendosi da solo che, persa la vecchia familiarità con la Leonessa, quello era il massimo contatto che potesse sperare di ottenere.

Il ragazzino annuì e poi, cominciando a correre in direzione della rocca, seminò il barbiere prima che potesse aggiungere altro.

Passandosi una mano sulla nuca, Bernardi riprese a camminare verso casa. Forse aveva sbagliato a fermare il Feo, forse avrebbe passato un guaio per quello che gli aveva detto... Ma gli era parso il modo più semplice per far sapere in qualche modo alla Tigre cosa stava facendo Ottaviano. La Contessa credeva forse di poter gestire una città prossima alla guerra andando a caccia nei boschi, ma la realtà era che avrebbe dovuto pensarci dieci volte, prima di dare al figlio maggiore un compito che stava mettendo la sua incompetenza sotto gli occhi di tutti.

 

Caterina era appena rientrata a Ravaldino, dopo una mattina passata a cacciare e ragionare. Stare sulle tracce del giovane cinghiale che era riuscita a prendere, l'aveva aiutata a schiarirsi le idee. Ciò che al risveglio le era parso quasi folle, passato il mezzogiorno le sembrava invece un progetto fattibile e, anzi, necessario.

Prima di tornare alla rocca, si era presa una mezz'ora per dire addio alla Casina. Non sapeva se avrebbe fatto in tempo a rivederla, e, avendo deciso che andava sacrificata in nome degli affari di Stato, davanti ai suoi occhi appariva già distrutta e ridotta a un cumulo di macerie. Salutò anche i boschi, che le avevano dato rifugio molte volte, ma, in quel caso, si ripromise di fare almeno ancora una battuta di caccia in solitaria, proprio come le era sempre piaciuto, prima dell'arrivo del Borja.

Scuoiato, sventrato e diviso in quarti il cinghiale, quando le era sembrato di non aver altro da fare, la Sforza aveva finalmente preso la via di casa.

Dopo aver consegnato la carcassa ai cuochi e il suo purosangue a uno stalliere, la donna andò nella sala delle armi per riporre l'arco e la lancia da cinghiali, regalo del suo terzo marito. Stava ancora trafficando con la porta dell'armario, quando sentì una presenza alle proprie spalle. Si sorprese non poco, quando si girò, nel vedere Bernardino che la fissava.

“Mi stavi cercando?” gli chiese, tornando subito a occuparsi dell'arco.

Il Feo annuì e poi, dopo aver passato nervosamente la lingua sulle labbra, disse, incerto: “Il barbiere Bernardi mi ha detto di dirvi che dovreste guardare cosa fa Ottaviano invece di faticare assieme agli altri.”

La Contessa aggrottò la fronte: “Ti ha detto solo questo?”

Bernardino fu tentato di scuotere il capo e raccontare anche il preambolo, il modo in cui il Novacula l'aveva agguantato e il tono irrispettoso con cui si era rivolto alla memoria di suo padre, ma alla fine annuì e basta: “Sì, solo questo.”

La Leonessa distolse lo sguardo, fece un breve sospiro e poi disse: “Va bene. C'è altro?”

Il bambino fece segno di no e allora la madre fece un gesto con la mano, come a congedarlo.

Mentre il figlio si allontanava, visibilmente deluso dal modo sbrigativo con cui era stato mandato via, la Tigre si mise a riflettere. Aveva già capito che Ottaviano aveva combinato un mezzo disastro a Imola, ma non poteva credere che stesse riuscendo a fare altrettanto anche a Forlì, specie avendogli messo alla calcagna il Capitano Mongardini.

Chiudendo l'armario con un colpo secco, la Contessa sbuffò e andò in fretta allo studiolo del castellano. Non vi trovò Bernardino da Cremona, ma Luffo Numai, che stava riordinando delle lettere.

“Che ci fate voi qui?” chiese la donna, sulla difensiva.

“Controllavo la corrispondenza. Il vostro nuovo castellano si rifiuta di farlo.” spiegò Luffo, impassibile.

“Come sarebbe a dire che si rifiuta di farlo?” Caterina mise una mano su quelle nodose del Consigliere, per fargli smettere di scartabellare tra le missive.

Le dava fastidio tutto, in quel momento, perfino il respiro pesante di Numai e l'odore un po' stantio dei suoi abiti di raso e velluto.

“Vedete, mia signora...” fece l'uomo, un po' a disagio: “Il nuovo castellano sembra non sopportare di leggere un certo tipo di lettera...”

La Leonessa seguì lo sguardo del forlivese, che si era posato su un messaggio aperto e posato in mezzo alla scrivania. Le bastò scorgere un paio di frasi per capire che si trattava di una delle tante missive scritte in modo sgrammaticato e goffo da uno dei suoi amanti occasionali.

“Anche a me danno fastidio.” disse in fretta lei: “Ma il castellano dovrebbe capire che anche questo è parte del suo lavoro: se do un ordine, va rispettato.”

“Forse dovreste cominciare a pretendere lo stesso rigore da vostro figlio, e magari allora uomini come Bernardino da Cremona piegherebbero la testa più facilmente.” consigliò Luffo, pacatamente, ma con una certa risolutezza.

“Ma si può sapere che cosa sta facendo Ottaviano?!” fece a quel punto la donna, che, per la seconda volta nel giro di pochi minuti, si trovava a domandarsi in che modo il suo incapace primogenito si fosse messo in ridicolo.

“Cosa non fa, sarebbe meglio dire.” fu la risposta di Numai: “Ha dato qualche ordine, all'inizio, ha fatto la voce grossa, ma poi non ha sollevato personalmente nemmeno una pietra. Non ha aiutato a issare neppure una trave di rinforzo. Non si è neanche dato l'incomodo di spingere un carretto di sabbia... Ha solo radunato qualche nobile della città per andare a mangiare insieme sotto al rivellino di San Pietro, servito e riverito come suo solito.”

La Sforza ascoltava in silenzio, una mano sulla bocca e gli occhi scuri. Il Consigliere capì che nella sua testa stava avvenendo una piccola battaglia. Probabilmente alcune delle decisioni che la sua signora voleva prendere, ora stavano assumendo nuove sfumature che, forse, lei stessa faceva fatica ad accettare.

“Ma il Capitano Mongardini non ha..?” cominciò a chiedere.

Luffo la frenò subito: “Mongardini ha dovuto occuparsi di alcuni tafferugli sorti nelle campagne appena fuori città. Roba da poco, litigi per il grano, come sempre. Giovanni da Casale ha deciso di mandare lui, perché è quello che i contadini temono di più. La storia del neonato decapitato aveva fatto presa, sulla gente semplice, sapete...”

Il rimando al giorno in cui la Tigre aveva ordinato a Mongardini di uccidere il figlio di pochi mesi di uno dei congiurati che avevano portato alla morte Giacomo, fece gelare il sangue nelle vene della Sforza, che, per convincersi a ritrovare la parola, dovette deglutire un paio di volte: “Ha fatto bene, probabilmente anche io avrei mandato lui.”

“Comunque, fossi in voi, prenderei dei provvedimenti.” concluse Numai.

“Lo farò.” annuì lei: “Convocate il mio Consiglio ristretto tra mezz'ora nella Sala della Guerra. Ho delle disposizioni nuove da dare. Questa volta non si passa da nessun Consiglio Cittadino. Decido io cosa fare e basta.”

Il forlivese chinò appena il capo, sinceramente felice di vedere la Contessa prendere finalmente in mano la situazione in modo irrevocabile. Avrebbe voluto, già che erano soli, chiederle se avesse notizie riguardo alla cauzione per la custodia di Giovannino. Sapeva che sarebbe stata lei stessa a chiedergli i soldi, se fosse stato necessario, ma temeva che in quella confusione se ne stesse dimenticando.

Tuttavia, quando l'uomo stava per trovare il coraggio di esporre la questione, la Sforza era già alla porta e stava ribadendo: “Voglio il Consiglio radunato entro mezz'ora! Non perdete tempo ad avvertire Giovanni da Casale: da lui sto andando io.”

 
 
   
 
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