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Autore: Adeia Di Elferas    01/12/2019    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Ti ho cercata dappertutto...” il tono basso, ma furibondo di Pirovano, irritò la Sforza, che era andata al Paradiso per convocare il suo amante al Consiglio ristretto che aveva appena indetto.

“Ero nei boschi.” fece lei, sulla difensiva, guardandolo armeggiare con i lacci del suo giubbone: “E, comunque, se mi hai davvero cercato finora, perché era qui nel tuo alloggio, in abiti da camera?”

“Sono stato tutta la notte in piedi per la ronda, ho riposato un paio d'ore.” si schermì lui: “Ma comunque non è questo l'importante. Quello che è successo a Imola lo è!”

La donna, che si sentiva via via sempre più sopraffatta da ogni cosa che le veniva riferita gli domandò che intendesse. Il milanese, finendo di rivestirsi, le disse di aver avuto dal castellano una lettera di Corradini in cui si spiegava che l'ordine inviato da lei era stato rifiutato dalla popolazione in quanto manchevole della corniola che vi avrebbe dato ufficialità.

“Che diamine...” sbuffò lei, mentre finalmente il suo amante era pronto e l'affiancava nell'uscire dalla stanza: “Lo riscriverò e lo farò partire entro sera.”

Giovanni non sembrava troppo convinto che quel provvedimento bastasse. Era vero, si era trattato di una distrazione abbastanza grossolana della Sforza, ma era anche vero che mai, malgrado l'attenzione non sempre certosina della Contessa, Imola si era rifiutata di eseguire un ordine esplicito solo per una manchevolezza del genere.

“Caterina...” provò a dire Pirovano, già pentito di aver accolto in modo aggressivo la sua amante e rimpiangendo di non averla, invece, salutata come avrebbe voluto: con un bacio.

“Che c'è ancora?” chiese la Tigre, voltandosi appena, ma non smettendo di camminare.

Il milanese, smontato dallo sguardo di rimprovero che la donna gli aveva appena rifilato, lasciò perdere e disse solo: “Hai una macchia sulla manica del giubbone.”

La Leonessa guardò laddove l'indice di Giovanni indicava e tagliò corto: “Solo una macchia di sangue... Me la sono fatta a caccia. Non è nulla di che. Andiamo, la riunione comincerà tra poco.”

 

“Io non sto criticando vostra madre – mise in chiaro Bernardino da Cremona, alzando una mano come a difendersi in modo più evidente – sto solo dicendo che un campo arato da troppi uomini può essere in pericolo: nascesse qualche pianticella, nessuno saprebbe dire a chi spetterebbero i frutti.”

Galeazzo, che aveva incontrato il castellano nel corridoio e ne aveva subito approfittato per chiedere notizie riguardo i lavori che aveva proposto per il mastio, non sapeva come gestire quella che era sfociata in una sorta di continua ripicca.

Quando, infatti, aveva domandato al cremonese se avesse già fatto in tempo a esporre alla Contessa il suo progetto, l'uomo dapprima aveva borbottato dicendo che non era un compito che spettava a lui, e che trovava assurdo che la Sforza e i suoi figli sembrassero aver sempre bisogno di un intermediario per parlarsi, e poi aveva cominciato a lamentarsi sempre più apertamente di tutta una serie di comportamenti della sua signora che andavano a rendergli molto difficile il suo lavoro.

Non ultimo, a infastidirlo particolarmente sembrava essere proprio la condotta troppo liberale della Leonessa in fatto di uomini.

“I vostri commenti sono molto sconvenienti.” provò a frenarlo il Riario, che non aveva alcuna voglia di sentire certe frasi riguardo sua madre.

“Lo è anche la condotta di vostra madre!” insistette il castellano.

Galeazzo avrebbe voluto poter accusare Bernardino da Cremona di dire falsità, ma purtroppo si trovava in parte d'accordo con lui. Tuttavia, non avrebbe per nessun motivo lasciato intendere quel che pensava davvero e così già stava aprendo la bocca per rimettere in riga il castellano, senonché Luffo Numai li chiamò dal fondo del corridoio.

“Consiglio straordinario! Adesso! Nella Sala della Guerra!” annunciò il Consigliere, dopo aver dedicato una lunga occhiata al cremonese.

“Come vedete, non abbiamo tempo di discutere oltre...” fece il Riario, felice di avere una scusa per sganciarsi da quell'incomodo dialogo.

Bernardino da Cremona non trovò altro da fare se non seguire Galeazzo e Luffo e, mentre anche gli altri membri del Consiglio ristretto della Contessa li raggiungevano, l'uomo poté solo dimostrare una volta di più la sua insofferenza con qualche sospiro che venne deliberatamente ignorato.

Quando la Sforza arrivò, non perse tempo in convenevoli. Mise tutti al corrente di quanto era successo a Imola e avrebbe fatto partire un ordine provvisto di corniola prima di sera.

Dopodiché chiese ai presenti cosa ne sapessero di quello che stava facendo Ottaviano in città e quando le spiegarono che il Riario altro non aveva fatto se non scansare i propri impegni, la donna assicurò che avrebbe fatto il necessario per rimediare anche a quell'inconveniente.

Infine, appoggiandosi appena al tavolo su cui era stesa la mappa d'Italia, la Tigre arrivò al punto più importante. Dapprima spiegò il suo progetto per battere moneta e, rivolgendosi soprattutto ai suoi Capitani, decretò che la raccolta di oro e argento dovesse cominciare immediatamente.

Poi, facendosi, suo malgrado, un po' meno sicura, continuò, guardando l'Auditore, che avrebbe dovuto esporre il bando alla popolazione: “Si annuncerà che daranno prova di fede e benevolenza verso di me tutti quelli che con zappe o altro andranno ad abbattere la Casina nella mia riserva privata.”

Il silenzio pesante che seguì quella disposizione fece correre un brivido lungo la schiena della Sforza. Anche se quella decisione le costava molto, le era bastata la reazione dei suoi uomini di fiducia per capire che era giusta. Sacrificando qualcosa che notoriamente le era molto cara, i forlivesi avrebbero piegato il capo molto più volentieri quando fosse stato chiesto loro un sacrificio simile.

“E poi si imporrà l'atterramento di qualsiasi edificio entro il raggio di un quarto di miglio dalla città.” continuò la Tigre, e, in questo caso, non le sfuggirono gli sguardi attoniti dei più, ma anche quello incredulo di Pirovano e Numai, che erano convinti che la loro signora avrebbe chiesto il taglio a un miglio, e non di più: “E chiunque ha una casa di proprietà o di suoi fittavoli nel raggio di un miglio, dovrà disboscare anche le vicinanze, tutti gli alberi e ogni arbusto, in modo sia che non si possano nascondere edifici, sia che al loro arrivo i francesi non trovino riparo alcuno.”

“Per questo ci vorrà del tempo...” provò a dire Dipintore che, in qualità di Auditore, avrebbe dovuto vedersela in prima persona con le recriminazioni dei forlivesi.

“Avranno tre giorni di tempo.” annuì la Contessa: “Non di più, perché non abbiamo più tempo di così. Se qualcuno non dovesse farlo, manderò i miei boscaioli e non sarà un piacere per nessuno.”

Galeazzo, che era al fianco della madre, deglutì. Sapeva che la Leonessa stava aspettando l'ultimo momento utile per far partire lui e i suoi fratelli, ma non voleva credere che i tempi stringessero così tanto.

“Per far sì che la gente ubbidisca più volentieri – soggiunse Caterina, sentendo un tuffo al cuore, nel proporre un compromesso che fino a quel momento non aveva nemmeno considerato – anche la mia riserva di caccia andrà interamente disboscata.”

Qualcuno parve molto d'accordo, con l'ultima affermazione, e la Tigre si rese conto che solo quelli a lei più vicini apparivano tesi. Sapevano bene quanto quel bosco era stato importante per lei e vederlo mettere sull'ara sacrificale dava loro l'esatta cifra del dramma che stavano per vivere.

“Questo è tutto.” concluse sbrigativa la donna: “Adesso devo andare, ho ancora delle cose da fare, prima che scenda la sera.”

L'Auditore chiese allora quando avrebbe dovuto divulgare il nuovo bando e la Contessa rispose che l'avrebbe scritto punto per punto nel giro di pochi minuti e, dunque, avrebbe potuto procedere nell'arco di un'ora al massimo.

Congedò tutti quanti, disse a Galeazzo di precederla in camera, perché voleva che ci fosse anche lui, quando avesse preparato l'editto e riscritto l'ordine per Imola, e poi fece un cenno al castellano, affinché si fermasse un momento.

Giovanni da Casale la guardò, mentre si avvicinava a Bernardino da Cremona, ma sapeva che non doveva impicciarsi. Cercò di attirare la sua attenzione, ma siccome l'amante non lo degnò nemmeno di uno sguardo, anche il milanese, come gli altri, raggiunse la porta.

“Se siete di animo troppo delicato per leggere qualche frase volgare – sussurrò la Tigre, al cremonese – allora forse ho sbagliato a volervi come mio castellano.”

Bernardino rimase immobile e, dopo una breve esitazione, si difese: “Mia signora, io sono un uomo di guerra, ho accettato perché so che a breve si dovranno coordinare i soldati e tenere l'ordine, ma non sono abituato a...”

“Conosco i soldati – lo fermò Caterina, prima di dargli il tempo di finire la sua apologia – ho sempre vissuto in mezzo a loro, e quindi posso dirvi che siete un ipocrita, se vi dichiarate un uomo di guerra e poi arrossite come una ragazzina solo perché vi trovate a leggere certe cose.”

Capendo di non aver altri appigli, il castellano chinò un po' il capo, in segno di contrizione.

“Vi tengo d'occhio.” l'avvisò la donna: “Non deludetemi un'altra volta, o potrete considerarvi libero da ogni impegno.”

Bernardino da Cremona strinse i denti e poi, in un ultimo sprazzo di orgoglio, raddrizzò la schiena e affermò: “Se finora vi ho delusa è solo perché non ho ancora potuto dimostrarmi il mio valore.”

“Voglio credervi.” soffiò la Contessa: “Ora ho da fare.” soggiunse e superò l'uomo, senza rivolgergli più nemmeno un'occhiata.

 

Achille Tiberti teneva l'elmo sotto al braccio, guardando sconsolato la mappa che aveva spiegato sul tavolo davanti a sé. I suoi fratelli, Palmerio e Polidoro, gli stavano accanto in silenzio. Anche loro avevano compreso alla perfezione che cosa andasse fatto e sembravano avere le sue medesime perplessità.

“Noi siamo di più.” cominciò a dire Palmerio, passando il peso dalla gamba che era rimasta ferita un paio d'anni prima a quella sana: “Potremmo liquidarli in poche ore.”

Achille sapeva che l'altro aveva ragione, e infatti non era lo scontro in sé a frenarlo.

“Basterà una breve scaramuccia...” provò a convincerlo anche Polidoro, che, comunque, era più propenso alla cautela: “Non ci sono tante alternative...”

“Se usciamo da Cesena per combattere i fuoriusciti – fece allora Achille, indicando con l'indice già guantato di ferro il punto in cui si pensava che i cinquecento fanti tedeschi, spagnoli e guasconi si fossero radunati – lei saprà che siamo qui in forze e allora le ostilità non saranno più rimandabili.”

“Ma che ti importa?” chiese a quel punto Palmerio, reso indisponente più dai dolori alla gamba, che con l'umidità di quei giorni erano insopportabili, che non perché trovasse la prudenza del fratello eccessiva: “Tanto il figlio del papa sarà qui a breve, no?”

“A breve – confermò Achille – ma comunque potrebbero passare ancora un paio di settimane...”

“Ma questa Sforza è davvero tanto terribile da averne così paura?” chiese Polidoro, incrociando le braccia sul petto.

L'uomo che era stato per tanto tempo al fianco della tigre fece una smorfia. Più di tutti i suoi fratelli lui sapeva quanto fosse giusto temere la Contessa Sforza, ma spiegarlo a parole non avrebbe avuto un effetto soddisfacente. Senza contare che, sia Polidoro, sia Palmerio erano sempre stati abbastanza inclini a prenderlo in giro, quando in passato aveva dimostrato una sorta di reverenziale paura nei confronti della Leonessa, e quindi non voleva rischiare di suscitare di nuovo la loro ilarità.

“Quando ci scontreremo con lei – disse solo – lo vedrete coi vostri occhi, di che è capace.”

“E quindi, adesso cosa facciamo? Lasciamo che i fuoriusciti restino impuniti?” insistette Palmerio, sporgendo in fuori il mento: “Ci faremo prendere sottogamba da tutta Cesena! Credi davvero che il papa ti vorrà ancora come avanguardia alla conquista di Imola, se non dimostrerai di saper tenere a bada cinquecento ribelli?”

“E va bene!” sbottò Achille, posando sul tavolo l'elmo che teneva sotto al braccio: “Richiamate gli uomini. Usciremo subito. Verrà con noi anche Malatesta Malatesta, sia chiaro. Ah, se qualcuno dei nostri passerà il confine e invaderà il territorio della Sforza, sia chiaro che dovrà risponderne a me.”

Palmerio annuì e, apparentemente soddisfatto, andò subito verso la porta. Polidoro, invece, era ancora un po' perplesso. Anche lui era a favore di un'azione decisa, però capiva ciò che metteva in ansia Achille.

“Lo so che quei fuoriusciti sono favorevoli alla resistenza e sono pronti a entrare nelle file della Sforza – fece Polidoro, a bassa voce – e a maggior ragione è giusto sterminarli, prima che la raggiungano.”

“Sperando che lei non sappia che questi ribelli volevano unirsi a lei...” borbottò Achille: “Quella donna non sopporta che qualcuno le strappi l'osso da sotto i denti.”

 

Caterina era rimasta nella sua stanza più del previsto. Oltre a Galeazzo, aveva voluto che con lei ci fosse anche Giovannino, così, prima di raggiungere il Riario, era passata dalla stanza del figlio più piccolo e aveva lasciato che le si aggrappasse al collo.

Aveva riscritto l'ordine per Imola con il suo ultimogenito ancora in braccio, e aveva redatto l'editto per Forlì nelle medesime condizioni. Aveva mandato Galeazzo a consegnare entrambi i documenti al castellano, affinché facesse partire il primo e desse all'Auditore il secondo, e poi aveva trattenuto il figlio ancora per un po', per discutere.

“Mi hanno detto – aveva cominciato – che hai delle idee per quanto riguarda il mastio...”

Il ragazzino si era morso il labbro e aveva spiegato, con dovizia di particolari e con argomentazioni solide, come le merlature e le banderelle della torre principale della rocca andassero a ridurre non solo la visibilità ai soldati appostati, ma anche l'ampiezza di raggio d'azione dell'artiglieria.

“Abbattere le merlature, però, metterà più a rischio gli artiglieri.” aveva giustamente fatto notare la Tigre.

“Non se riescono a far fuoco a maggior velocità e a tuttotondo.” aveva ribattuto con una certa sicurezza il Riario: “Il mastio è molto alto e per raggiungerlo ci vorrebbe la miglior artiglieria del mondo. Restano gli arcieri, ma se saranno costantemente sotto tiro di falconetti e bombarde...”

Caterina aveva sospirato e poi, dopo averci riflettuto un po', si era alzata dalla scrivania, con Giovannino sempre saldamente aggrappato al collo, e aveva dato un bacio in fronte a Galeazzo, sorridendo: “Lo sapevo di aver fatto bene a puntare su di te.”

Allora la donna aveva discusso coi costruttori che si stavano occupando delle ultime rifiniture ai lavori di ristrutturazione e rafforzamento della rocca e della mura, e quando le era stato prospettato un lavoro abbastanza rapido e tutto sommato nemmeno molto difficile, aveva subito dato ordine di far ciò che suo figlio le aveva suggerito.

Poi, per il resto del pomeriggio, più per non pensare alla Casina, che in quei momenti doveva essere sotto i colpi di zappa dei forlivesi, si era messa a far lavoro di fatica, prendendo il posto che sarebbe spettato a Ottaviano. Quando aveva incontrato il primogenito, intento a imbucarsi in un'osteria, gli aveva intimato di tornare a Ravaldino e di avere il buongusto di non farsi vedere troppo in giro, a meno che non volesse darsi da fare.

Quando era sceso il buio e i lavori alla cinta muraria avevano cominciato a spegnersi, per permettere a tutti di andare a riposare, anche la Contessa aveva battuto in ritirata.

Rientrata alla rocca, era stata un momento in camera, per togliersi di dosso la polvere e sciacquarsi il viso. Stava quasi pensando di farsi portare qualcosa da mangiare in camera, senonché il Capitano Rossetti bussò alla sua camera.

“Un gruppo di forlivesi vi sta aspettando davanti al ponte levatoio...” disse, incerto.

La donna, accigliandosi, si era subito rimessa in ordine e poi, per precauzione, era salita sui camminamenti. Forse avrebbe fatto più presa sul popolo uscire da Ravaldino e attraversare il ponte per parlare a quattrocchi con chi la cercava, ma non era il caso di rischiare: in quegli ultimi giorni molte delle sue certezze si stavano sgretolando e dopo l'affronto degli imolesi, che avevano rifiutato deliberatamente un suo ordine adoperando una scusa, sentiva di potersi aspettare di tutto.

Dalle merlature fissò il gruppo di uomini che aspettava di vederla e quando gridò: “Sono qui! Dite quel che avete da dire!” li vide avvicinarsi come un'unica entità verso la rocca.

Avevano in mano picconi, vanghe e qualche martello. Le fiaccole che portavano con loro sembravano ondeggiare nel vento freddo della notte. Quello tra loro che voleva darsi arie da capo, si staccò un po' dal gruppo e, guardando in alto, le si rivolse direttamente.

“Abbiamo abbattuto la vostra Casina!” gridò: “Come voi volevate! Per farvi cosa gradita!”

Sentirselo dire in modo tanto aperto, mise un po' in difficoltà la Leonessa. Sentì gli occhi pungere e la gola seccarsi. La Casina non esisteva più. Con quel rifugio di caccia era finita un'epoca. La sua vita stava prendendo di nuovo una piega drastica e da cui non si poteva tornare indietro.

“Vi sono debitrice!” riuscì a urlare di rimando: “E ora farete quello che vi è stato ordinato dall'Auditore, perché come io ho rinunciato a ciò che avevo di più caro, così ora anche voi dovrete farlo!”

Il gruppo di forlivesi che era accorso a Ravaldino nella speranza di avere una ricompensa che andasse oltre qualche parola vuota, vociò e si confrontò per qualche minuto.

Alla fine, lo stesso portavoce di poco prima, ribatté: “Un casino di caccia non è una fattoria o un podere! Nessuno farà a cuor leggero quel che chiedete!”

“E cosa volete fare, allora?” la domanda era sorta spontanea alla Contessa, che, però, si rese subito conto di aver sbagliato a dare una possibilità di dialogo.

Avrebbe dilatato i tempi, permesso ripensamenti, e aperto la strada a frange di insubordinazione. Si poteva davvero permettere il lusso di lasciare al popolo potere decisionale? La risposta era semplice: no. Però era esattamente ciò che aveva appena fatto.

“Vogliamo discuterne! Vogliamo un Consiglio Generale! Ogni forlivese deve poter dire la sua!” si sbrigò a dire l'uomo: “Vogliamo che le decisioni vengano prese dopo aver ascoltato le proposte di tutti!”

La Tigre deglutì. Poteva opporsi e sperare che un suo secco rifiuto bastasse a placare lo spirito di indipendenza dell'intera città. Oppure poteva fingersi magnanima, concedere un Consiglio Generale, prendere le eventuali proposte utili, scartando tutte le altre, e poi comunque ribadire gli ordini già dati...

“Così sarà!” accettò, cominciando a sudare freddo: “Domani indico un Consiglio Generale al palazzo! Chiunque vorrà dire la sua, potrà farlo! Ma le decisioni che verranno prese, saranno irrevocabili!”

Soddisfatti del risultato, gli uomini accalcati ai piedi della rocca non ebbero più nulla da recriminare e, finalmente, se ne andarono.

“Sicura che sia una mossa saggia?” la domanda, così improvvisa e inattesa, fece voltare di scatto Caterina.

A parlare era stato Baccino, quella notte di turno sui camminamenti. Il giovane non aveva potuto fare a meno di ascoltare lo scambio di battute tra la sua signora e il popolino e aveva trovato quel siparietto molto pericoloso, per la Tigre.

La donna lo fissò per qualche istante, indecisa se provare a chiedere consiglio anche a lui, o rimetterlo in riga per la familiarità non richiesta che si era appena preso. Il volto regolare del cremonese era illuminato da una delle torce, e il vento gli spettinava qualche ciocca di capelli castani che usciva dal bordo del mezzo elmo. I suoi occhi erano accesi da quella che la Sforza riteneva pura arroganza, tuttavia c'era qualcosa nel suo atteggiamento che la stava per indurre a concedergli un minimo di confidenza in più.

La somiglianza, però, dei modi un po' insolenti di quel giovane con quelli di Manfredi, frenò la Contessa. Pur sentendosi attratta da quel soldato fin dalla prima volta in cui l'aveva visto, temeva di infilarsi in un ginepraio, se avesse provato ad avvicinarglisi troppo. Aveva imparato a sue spese che giocare coi ricordi e cercare qualcuno che non c'era più in qualcun altro le faceva solo del male.

“Non sono affari vostri.” disse solo, dato che il giovane era ancora in attesa di una sua risposta.

Tesa, non solo per quello che aveva appena concesso ai forlivesi, ma anche per come le era bastato soffermare per qualche secondo di troppo lo sguardo su Baccino per sentirsi confusa, la Tigre lasciò in fretta i camminamenti, decisa a passare il resto della notte chiusa in stanza a ragionare su quello che sarebbe accaduto al palazzo il giorno seguente.

Si era appena cambiata e seduta sul letto, però, quando qualcuno batté due pugni sulla porta. Con uno sbuffo, la milanese andò ad aprire e si trovò davanti Luffo Numai.

“Dovreste essere a casa vostra, a quest'ora...” gli disse, vendendolo però molto agitato.

“Mia signora, è appena giunta notizia che Achille Tiberti e i suoi fratelli hanno attaccato un gruppo di fuoriusciti di Cesena...” spiegò l'uomo, stringendosi una mano nell'altra: “Una scaramuccia è bastata loro per aver ragione di cinquecento uomini...”

Caterina si incupì, ma chiese comunque: “E quindi? Degli affari interni di Cesena non mi importa molto. Anzi, meglio, almeno i Tiberti hanno sprecato uomini ed energie che altrimenti avrebbero potuto usare contro di noi.”

“Il punto è che i fuoriusciti volevano unirsi a voi, mia signora, e che durante la scaramuccia i soldati di Tiberti siano sconfinati anche sul nostro territorio, portando danno alla popolazione.” la voce di Numai era appena un soffio: “Si comincia a dire che non siate in grado di difendere il confine.”

“Se i contadini avessero fatto come ho ordinato, non ci sarebbero confini da difendere!” esplose la Tigre, incapace di trattenersi: “Avevo dato ordine a tutti di raggiungere la città per un motivo molto preciso! Non ho abbastanza uomini per proteggere ogni villaggio o ogni casa isolata delle mie campagne! Era inevitabile che prima o poi capitasse qualcosa di simile!”

Luffo teneva lo sguardo basso e attese che la sua signora finisse di sfogarsi con una dozzina di bestemmie, prima di riprendere la parola: “So che avete ragione, ma questo il popolo non lo capirà.”

“Penserò a come fare.” sbollì lentamente la Sforza: “I Tiberti si sono ritirati, comunque, per il momento?”

“Pare di sì.” confermò il Consigliere.

La Contessa sospirò e, passandosi una mano sul viso, lo congedò: “Andate a casa a riposare, adesso. Alla vostra età non va bene, passare le notti così...”

Luffo deglutì e fece una mezza riverenza, prima di fare quel che gli veniva detto: “Io resto dalla vostra parte – soggiunse, già sulla porta – e come me tanti che vi conoscono bene. Ma la massa è volubile e cambia idea molto in fretta. Vi prego: trovate il modo di riportare l'onda a vostro favore.”

La Sforza annuì e poi, quando rimase sola, sentì la rabbia riaffiorare come la fiamma che ridà vita a un braciere. Non poteva passare una notte ad arrovellarsi su tutto quanto. Aveva troppi problemi da affrontare e troppe poche soluzioni da mettere in pratica.

Prendendo per buono il metodo che aveva sempre usato, dopo la morte del suo Giacomo, andò nelle cucine e si fece dare del vino. Quando si sentì abbastanza sollevata dal liquido nero che aveva messo nello stomaco, scese nei baraccamenti. Giocò a dadi coi soldati, si abbandonò a qualche battuta volgare e solo a notte più che inoltrata scelse un paio di giovani che non aveva mai preso in considerazione e riuscì a portarseli in camera senza il minimo sforzo. Agli affari di Stato avrebbe pensato solo una volta che fosse sorto il sole.

 

Corradini era agitatissimo. Le sue mani tremavano come foglie e, malgrado il freddo, sulla sua fronte continuavano a formarsi piccole gocce di sudore che scivolavano verso le sopracciglia.

Quel giorno Imola sembrava come sospesa in una bolla. La cittadinanza era stata radunata per presenziare alla lettura dell'ordine della Sforza, lo stesso identico che gli imolesi avevano rifiutato con una scusa che il Governatore aveva subito trovato ridicola.

L'unica differenza, dal primo documento, stava in una maggior durezza e nella pretesa che l'ordine di fornire grano alla rocche in difficoltà venisse eseguito immediatamente, senza più la concessione di qualche giorno di elasticità.

Ad aggravare il peso che Corradini sentiva sullo stomaco, erano arrivate le notizie che quella mattina gli aveva dato il castellano Naldi. Vincenzo gli aveva spiegato che i fratelli Tiberti avevano attaccato una squadra di fuoriusciti da Cesena, sconfinando nelle terre della Tigre e facendo anche dei danni ai contadini che abitavano in quella zona. Non si sapeva ancora come la Contessa avesse preso la cosa, ma era probabile che quella fosse la prima scintilla della guerra.

Il tempo, quindi, stringeva come non mai e Corradini aveva il terrore che qualcosa andasse storto.

Cosa avrebbero fatto, se anche quel giorno gli imolesi avessero trovato qualche motivo per rifiutare gli ordini della loro signora? Come avrebbe potuto a quel punto la Leonessa farsi ubbidire anche in altri frangenti?

Quando la riunione cominciò, il Governatore di Imola lesse a voce alta e cadenzata le parole della Tigre. Si piegò, come aveva fatto anche la prima volta, alla richiesta degli Anziani di poter vedere coi proprio occhi e toccare con mano l'ordine.

Quando il foglio tornò al primo che l'aveva letto, Corradini allungò una mano per riprenderlo, ma questi, dopo un'occhiata d'intesa con quelli che gli stavano attorno, impugnò il documento con maggior fermezza e, con un gesto improvviso, lo strappò in due, e poi in quattro e così via fino a farne tanti piccoli brandelli che finirono al suolo.

Il salone esplose subito con un boato che al Governatore ricordò il rimbombo dei cannoni da guerra.

“Ma che volete?!” ululò, in preda al panico, vendendo come molti imolesi stessero brandendo pugnali e bastoni, tenuti fino a quel momento nascosti: “Ma che volete?!”

“Privare la nostra città di queste provviste – disse l'Anziano più autorevole, dopo aver tacitato tutti con un solo gesto della mano – in un momento simile, non ci va in nessuna guisa a genio.”

Siccome tutti sembravano attende una reazione di Corradini, questi valutò in fretta le possibilità che aveva: opporsi, e morire travolto dalla folla, una vera belva pronta a ucciderlo, o assecondare ciò che il popolo chiedeva, e cercare poi una difficile mediazione con un'altra fiera, la Tigre di Forlì.

Scegliendo di scansare semplicemente il pericolo più lontano, e non quello peggiore, l'uomo sollevò le mani e gridò: “Avete ragione! Avete ragione! Io sono con voi!”

 

 
 
   
 
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