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Autore: Adeia Di Elferas    04/12/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Che cosa?!” Vincenzo Naldi sgranò gli occhi, incredulo davanti a ciò che Gian Piero Landriani gli aveva appena riferito.

“Vi dico che è così!” assicurò, l'ex castellano: “Ero alla riunione e quando ho visto che strappavano l'ordine... E vi giuro che Corradini ha ceduto e si è unito a loro! Ha dato loro ragione e...”

“Va bene, va bene, ho capito.” tagliò corto Naldi, il cui pensiero stava già correndo a sua moglie Dianora e alle sue due figlie.

La Sforza avrebbe fatto loro qualcosa di male, sapendo di quella rivolta e, soprattutto, sapendo che lui non aveva fatto nulla per provare a fermarla? Dionigi aveva imparato a conoscere la Contessa come una donna di indole violenta, ma il più delle volte giusta, quando si trattava di affari di Stato.

L'unica volta in cui non era stata corretta nei confronti dei suoi sudditi era stato quando le avevano ucciso il secondo marito, e in quel caso il castellano di Imola sentiva quasi di poterle dar ragione...

“Io non posso uscire dalla rocca.” disse Naldi, cercando di ragionare in fretta.

“Questo lo so bene.” confermò il Landriani: “Prima, al vostro posto, c'ero io.”

Dionigi annuì, si premette un istante la punta delle dita sugli occhi e poi, non trovando altre cose sensate da fare, disse: “Farò arrestare Corradini. Lo farò portare qui dai miei soldati e lo metterò in cella. Lo useremo come esempio per tutti gli altri. Poi scriverò alla Contessa e le domanderò come fare...”

Gian Piero non vedeva alternativa migliore, perciò gli diede manforte: “Se conosco un po' gli imolesi, vedendo un Governatore finire in cella, si spaventeranno e abbandoneranno queste idee da rivoltosi.”

Il castellano non frappose altri indugi, e, con un sospiro pesante, lasciò lo studiolo, seguito dal Landriani e andò a ordinare a un manipolo di soldati particolarmente fidati di andare a cercare Corradini – che sembrava fosse ancora nella sala del Consiglio – e arrestarlo.

“Andateci armati di tutto punto.” precisò: “Dichiarate subito la vostra intenzione di catturare il Governatore. La popolazione, nel vedervi, si spaventerà e si sparpaglierà.”

“E se non succedesse?” chiese uno dei soldati più giovani, visibilmente teso all'idea di dover prendere in custodia Corradini.

“Allora usate pure la forza anche con la popolazione.” decretò in un soffio il castellano: “Meglio due contadini morti che una città persa per non alzare la spada...”

 

Caterina cominciava a essere irrequieta. A palazzo si era presentata molta più gente del previsto, tanto che il salone sembrava troppo piccolo.

La Contessa, per quell'occasione, aveva voluto mostrarsi in vesti più consone del solito, indossando un abito da donna, abbastanza accollato, e qualche gioiello. Aveva preferito non esagerare, però, nello sfoggio dei preziosi, per paura che, vedendoli, i forlivesi non pensassero più al suo potere, ma solo alla sua ricchezza.

Fuori la pioggia scrosciava senza sosta e l'unica, magrissima consolazione era che non faceva abbastanza freddo per nevicare. In realtà, forse, la Tigre avrebbe preferito una bella bufera. Avrebbe rallentato il figlio del papa, e, in quanto a Forlì, non avrebbe fatto grandi danni, dato che ormai le campagne erano spacciate comunque.

La risposta della cittadinanza era stata molto vivace e, benché quella riunione non fosse stata pubblicizzata più di tanto, la Sforza poteva scorgere davanti a sé non solo i possidenti e i notabili di Forlì, ma anche bottegai, manovali, proprietari dei postriboli, gente dei bassifondi... Insomma, ogni strato della società su cui lei comandava pareva aver mandato un proprio gruppo di rappresentanza.

“Ebbene – disse la donna, senza aspettare troppo, quando le sembrò che ormai il salone fosse saturo – parlate! Uno alla volta. Ascolterò le vostre proposte e, se saranno migliori delle mie, vedrò di cambiare idea.”

Al suo fianco, oltre a Galeazzo, stavano Pirovano e Luffo Numai. L'Auditore, il suo segretario e tutti gli altri uomini che le avevano giurato sinceramente fedeltà, così come i suoi fratelli e Scipione e Paolo Riario, si erano invece mescolati alla folla, più per sedare eventuali rivolte, che non per altri scopi particolari.

In modo più ordinato del previsto, i forlivesi presero effettivamente la parola uno dopo l'altro. Ciò che dicevano, però, suonava alla Leonessa come un'ulteriore inutile perdita di tempo. Più che altro le vennero sottoposte lamentele, mentre di proposte realistiche ce ne furono veramente poche e, quelle poche, avrebbero richiesto una disponibilità economica che lei non aveva.

Ogni tanto, tra quelli che volevano dire la propria, capitava anche qualcuno che criticava solo alcuni degli ordini, lodandone altri o che, per assurdo, promuoveva in toto le proposte della Tigre, cercando, anzi, di convincere gli altri a mettere ragione e fare quanto era stato stabilito.

Di fatto, però, nessuna delle campane che suonò quel giorno riuscì a mettere d'accordo le mille anime di Forlì.

“Ho ascoltato tutti voi – dichiarò la Tigre, quando ormai si era fatto pomeriggio – ma non mi pare che, a fronte di tante parole, qualcuno abbia avuto qualcosa di adatto da dire.”

I forlivesi rumoreggiarono per qualche minuto. Tra la gente, i fratelli Sforza e i due Riario si cercarono gli uni con gli altri con lo sguardo, come a volersi tenere pronti in caso fosse necessario intervenire.

Non ce ne fu bisogno, però, perché Caterina, con un'unica bestemmia, gridata come se fosse un motto di guerra, riportò all'istante il salone al silenzio.

“Mi avete chiesto di discuterne – cominciò a dire, senza aver bisogno di alzare la voce, dato che l'attenzione di tutti era già calamitata dalla sua figura – e io ho concesso questo lusso, perché di lusso si tratta, arrivati a questo punto, con il nemico quasi alle porte e il papa che ci strozza pian piano senza che voi vogliate accorgervene!”

Il mutismo che seguì quest'invettiva aveva un peso molto più gravoso. Gli occhi verdi della Sforza mandavano lampi a tutti i presenti e nessuno, nemmeno i suoi uomini di fiducia, sapevano come avrebbe continuato il discorso.

Dopo aver respirato a fondo un paio di volte, la donna decretò: “Quello che si è consumato oggi altro non è stato se non un abuso della mia bontà. Ho sbagliato a concedervi la parola.”

Anche Galeazzo, che fino a quel momento era rimasto del tutto impassibile, non resistette e si mise a fissare la madre, che stava alla sua sinistra. Il volto della milanese era così tirato che il ragazzino poteva quasi scorgere il profilo di ogni muscolo. L'aveva vista spesso arrabbiata, ma quella volta c'era qualcosa di differente, nella sua espressione.

Malgrado il tono implacabile della sua voce, le mani strette a pugno lungo i fianchi e la fermezza del suo sguardo, al Riario fu chiaro che sua madre aveva paura. Poteva capire di cosa: la guerra si avvicinava e Forlì, sulla cui fedeltà lei non avrebbe mai dubitato, si stava comportando come un bambino capriccioso. Il pericolo non arrivava solo da fuori, ormai, ma anche da dentro le mura, e le occasioni per neutralizzarlo si contavano sulla punta delle dita.

“La mia bontà nei vostri confronti è sempre stata grande.” riprese la Leonessa, caricando un po' di più il tono, per farsi più temibile: “Pure ho prescritto il suo confine.”

Giovanni da Casale, Galeazzo se ne rendeva conto solo in quel momento, mentre osservando la madre l'occhio gli sfuggiva appena oltre, stava scuotendo lentamente la testa, come se sapesse cosa stava per uscire dalle labbra dell'amante. Il Riario sentì una stretta allo stomaco. Pirovano conosceva bene i pensieri della Contessa, e probabilmente più di tutti poteva anticiparne le mosse, quel giorno.

“Vi ho levato tasse, sfamato, curato dalla peste. Ho ridato a questa città la dignità che aveva perso e ho permesso a chiunque volesse di avere un lavoro sicuro alle mie dipendenze.” l'elenco della Tigre era cadenzato, quasi una lista precisa di tutto ciò di cui i forlivesi erano debitori insolventi: “Vi ho protetti in ogni modo possibile. Ho combattuto e combatterò, per voi. Ho evitato guerre, per voi. Ho messo a rischio la mia vita e quella dei miei figli, per voi. E voi state ripagando il mio sacrificio come? Facendomi solo soffrire. Ebbene, sono stanca di soffrire.”

Con un gesto frettoloso, la Sforza si fece passare un foglio da Luffo Numai. L'uomo, preso alla sprovvista, glielo porse subito e poi le passò anche l'inchiostro e la penna che teneva davanti a sé.

La Sforza scrisse in fretta l'ordine che sarebbe diventato attuativo in quel momento stesso e poi, sollevando la pagina su cui l'inchiostro era ancora umido, gridò: “Le decisioni che ho preso sono irrevocabili, e con la presente decreto che in piazza vengano inalberate due forche e piazzato un ordigno da tortura e che chiunque non faccia ciò che è stato stabilito venga passato per quei ferri in modo commisurato all'infrazione commessa!”

Caterina, il petto che si alzava e abbassava veloce per la furia del momento, voltò appena il capo verso Numai e gli borbottò di vidimare il suo ordine e di far portare subito le forche e il resto in piazza.

In un clima ovattato quasi irreale, la Tigre sollevò appena il mento, lanciò uno sguardo di sfida a tutti i suoi sudditi e, infine, lasciò il gradino dal quale stava parlando. Passando in mezzo alla gente senza aver bisogno di farsi largo, la donna notò senza problemi come i forlivesi si spostassero prontamente, lasciandole il passo e chinando appena la testa.

Quell'apparente remissività permise alla Sforza di lasciare il palazzo senza troppi ripensamenti. Se avesse visto nei suoi sudditi una più netta insofferenza, non si sarebbe fidata a lasciare lì suo figlio Galeazzo, con il rischio che si rifacessero su di lui.

Insomma, malgrado i malcontenti, Forlì era ancora in mano sua, anche se il pugno in cui la stringeva si era allentato.

Lo sgomento che aleggiava su chi era rimasto nel salone. Luffo, ligio al dovere, prese in mano l'ordine appena stilato dalla Contessa, controllando di quando in quando che i fratelli della sua signora e i due figli illegittimi del defunto Conte Riario fossero ancora ben saldi al loro posto, attenti a ogni movimento strano dei presenti.

Procedette con l'apposizione del sigillo e consegnò il documento al segretario della Leonessa. Dato, però, che nessuno ancora si muoveva, il Consigliere si appellò silenziosamente a Giovanni da Casale, l'unico, lì, ad avere non tanto l'autorità, quanto l'aspetto necessario a farsi ubbidire dal popolo.

Pirovano, però, in mezza armatura e con la spada al fianco, sembrava perso. Aveva le labbra schiuse e gli occhi ancora fissi alla porta da cui era uscita la sua amante. Era palese che fosse sconvolto da quanto era appena successo e, ancor di più, che non volesse altro se non correre dietro alla Tigre, probabilmente per chiederle se si rendesse conto di cosa aveva appena fatto.

Così Luffo si guardò attorno spaesato, cercando qualcuno che potesse ordinare lo scioglimento del Consiglio in modo ordinato. L'avrebbe fatto lui, ma non voleva che la gente lo vedesse come un vicario della Sforza. Tutti già lo sapevano un suo uomo di fiducia, anzi, molti si riferivano a lui come al più grande amico della Contessa. Non credeva fosse il caso di mostrarsi più importante di quanto non fosse mettendosi a prendere il suo posto dando ordini.

“Potete andare – fece a quel punto Galeazzo, sorprendendo tutti, Numai in primis – il Consiglio Generale è sciolto. Avete sentito gli ordini. L'Auditore li ribadirà in piazza tra un'ora, per chi non avesse prestato attenzione e per chiunque non era presente.”

I forlivesi guardarono come un sol uomo il figlio della Tigre. Il Riario, rosso in viso, ma con la schiena dritta, non fissava nessuno in particolare, benché tutti avessero l'intimo presentimento di essere i diretti destinatari delle sue parole.

Con calma, come un placido gregge che obbedisce al pastore, i presenti cominciarono a defluire verso la porta e nell'arco di dieci minuti il salone era tornato deserto.

“Avete agito come si conviene al signore di una città.” disse Luffo, puntando lo sguardo su Galeazzo.

Questi, ancora un po' scosso per l'iniziativa presa, annuì e ringraziò: “Ho imparato da mia madre.”

Mentre il Riario finiva di parlare, Pirovano si scusò frettolosamente, senza rivolgersi a nessuno in particolare, e si avviò alla porta, dapprima camminando veloce e poi, senza più ritegno, correndo.

Galeazzo deglutì, e mosse un passo, quasi volesse seguire il milanese, ma Luffo lo trattenne e, scuotendo un po' la testa, lo mise in guardia: “Non fatelo. Lasciate che sistemino le loro questioni da soli.”

“Non sono questioni da amanti – provò a opporsi il ragazzino, che da un po' aveva cominciato a soffrire il ruolo di Giovanni da Casale all'interno degli equilibri della loro famiglia e, ancor di più, del loro Stato – ma da soldati. Lui le parlerà della guerra e degli ordini che si sono appena dati e...”

“Lasciate che se la vedano tra loro.” ribadì Numai: “Non posso certo impedirvi di correre da vostra madre, ma sarebbe un passo falso.”

Il Riario, pur di malavoglia, si lasciò convincere e, con un soffio, decretò: “Vado a seguire i lavori al mastio.”

Il Consigliere fece un mezzo inchino e poi, richiamato dal segretario che voleva una delucidazione circa il documento della Sforza, distolse infine l'attenzione dal piccolo leone che la Contessa, non a torto, aveva individuato come il suo legittimo erede.

 

“Forse dovremmo tornare indietro...” fece Michelotto, calandosi un po' di più il cappuccio in fronte, per proteggersi dalla pioggia.

Cesare Borja non lo guardò nemmeno: “Da quando decidi tu queste cose?”

L'amico preferì non ribattere. Era abituato ai modi sprezzanti del figlio del papa, ma non sopportava quando andavano solo a nascondere le sue incertezze.

L'esploratore che stava con loro, un grande esperto di quelle zone, li precedeva di qualche passo, sia per permettere loro di fare i discorsi che preferivano senza dar l'impressione di essere spiati, sia per poter dare il ritmo e la direzione alla piccola combriccola.

Avevano appena aggirato Imola, senza grosse difficoltà, ma il viaggio era ancora lungo e Miguel aveva uno strano presentimento. Dubitava che in Romagna qualcuno potesse riconoscerli e, di quei tempi, tre uomini vestiti di scuro che viaggiavano da soli non erano certo una cosa che destava l'attenzione. Tra sfollati, sbandati e penitenti, la penisola italiana – almeno fino al confine con Napoli – sembrava un unico via via di gruppuscoli di persone incapaci di decidere da che parte fosse meglio stare.

Ciò che Michelotto temeva era la reazione del papa, quando avesse visto a Roma suo figlio.

“Saremo a Castelbolognese prima di sera.” si mise a dire il Duca di Valentinois, tirando un po' le redini del suo cavallo, che si era spaventato per un fulmine: “Da lì aggireremo Forlì e andremo verso l'Appennino.”

Miguel de Corella fu felice di pensare che almeno il soldato che stava con loro conosceva tutte le strade possibili. Fosse dipeso dal Borja, probabilmente non sarebbero nemmeno riusciti a trovare la via Emilia.

“I tumulti di cui abbiamo sentito parlare...” riprese l'amico del Valentino, cauto: “Avremmo dovuto sfruttarli. Se non avessi fatto fermare l'esercito per aspettarti, adesso avremmo potuto scendere su Imola e prendere la città in fretta...”

“Fretta, fretta, fretta!” sbottò a quel punto Cesare, tanto forte da far voltare anche l'esploratore: “Io non capisco il perché di tanta fretta!”

Michelotto sollevò le spalle, il viso poco espressivo che si accendeva appena: “Siamo a metà novembre, a breve potrebbe iniziare a nevicare. Sei sicuro che affrontare la Tigre di Forlì in pieno inverno ti convenga?”

“A parte che qualche settimana non fa alcuna differenza.” si schermì il Borja, nervoso: “Ma poi non capisco perché dovrei avere tutta questa paura di una donna!”

L'altro non disse nulla e, dando un colpetto ai fianchi del cavallo, preferì chiudere la questione, per non rischiare di scontrarsi con l'amico.

“Tu sei sempre taciturno.” riprese Cesare, a voce più bassa, mettendosi in pari con Miguel: “E ti preferisco, quando non parli. Quindi vedi di tacere, adesso. Non ho intenzione di arrivare a Roma con la testa piena delle tue stupidaggini...”

 

“Ma come ti è saltato in testa?!” Pirovano, una volta lasciato il palazzo dei Riario, era tornato a colpo sicuro alla rocca.

In altri tempi, di certo la sua amante si sarebbe rintanata alla Casina, ma ormai quel rifugio le era stato strappato per sempre e non le restava altro se non Ravaldino.

“Forche in piazza?!” continuava lui, gridando come un pazzo, aggirandosi come un mastino nervoso per la camera dell'amante, mentre lei, impassibile, restava seduta sul letto, le mani in grembo e lo sguardo basso: “Ma ti rendi conto? Ma come credi che...”

“Se non mi amano – lo zittì Caterina, stanca di sentirlo parlare in quel modo – allora che mi temano.”

Il milanese smise per un momento di andare avanti e indietro, e la guardò. Anche se non era ancora sera, c'era buio fuori, e nella camera della Sforza le due candele accese e il camino mezzo spento non bastavano a illuminare bene l'ambiente.

Così, potendo solo intuire che espressione campeggiasse sul viso dell'amante, Giovanni chiese: “E ti sembra un metodo che funziona?”

Ciò che stava infastidendo più d'ogni altra cosa la Tigre era la tangibile paura che animava le parole di Pirovano. Le ricordava troppo, troppo da vicino la stessa paura che aveva preso Giacomo, la prima volta che si erano visti veramente in pericolo, quando erano scampati a un attentato solo grazie a un colpo di fortuna e a una soffiata del barbiere Bernardi.

“I forlivesi non si fidano più di me?” rispose, retorica, la donna: “E allora che eseguano i miei ordini per paura.”

“Con la paura... Con la paura non si ottiene molto, te lo assicuro.” le fece presente l'uomo, masticando un po' l'aria: “La paura rende una nullità anche il miglior soldato del mondo.”

“La paura non dominata.” concordò in parte la Sforza: “Ma la paura che infondo io è ben strutturata. Ha una logica. Se faranno quel che dico, non rischiano nulla. Se non lo faranno, verranno impiccati.”

“Li impiccherai davvero?” l'incredulità che trapelava dagli occhi scuri del suo amante fece trasecolare Caterina.

“Perché pensi che voglia mettere delle forche in piazza, altrimenti?” chiese lei, allargando le braccia, la rabbia che riaffiorava perfida e cieca, facendole rivedere, nella semioscurità della stanza, il fantasma di Girolamo in Giovanni da Casale.

Era un paragone strano, che non l'aveva mai sfiorata, ma nella domanda che l'uomo le aveva posto, risentiva tutta la crudele ingenuità del suo primo marito, la sua incapacità di confrontarsi con qualcosa di tremendo come il comandare uno Stato.

“Pensavo volessi solo far loro paura...” fece Pirovano, accigliandosi.

“E credi davvero che gliene farei se, alla prima trasgressione, non mettessi in pratica quel che ho deciso?” il quesito della Leonessa era semplice, ma il milanese sembrava non capirlo, perciò la Sforza si rispose da sola: “No, anzi, capirebbero che erano minacce vane e allora davvero ognuno farebbe quel che vuole, impunemente e anche ridendo di me.”

Giovanni aveva appena schiuso le labbra per ribattere, quando la porta si aprì ed entrò il castellano.

Non aveva bussato per non perdere tempo e, avendo sentito distintamente la lite in atto, non aveva avuto paura di imbattersi nella Tigre e nel suo amante intenti in ben altre battaglie.

Perciò, sfruttando il silenzio che si era creato al suo ingresso, Bernardino da Cremona, rivolgendosi solo alla Contessa, disse: “Mia signora, ci sono notizie terribili da Imola. Corradini ha riletto il vostro ordine alla popolazione e gli imolesi non solo si sono di nuovo rifiutati di ubbidire, ma hanno anche stracciato il documento e fatto passare dalla loro parte il Governatore, che pur di non farsi uccidere ha preso le loro difese.”

Caterina si alzò dal letto, il cuore che batteva all'impazzata. Una simile presa di posizione da parte di Imola poteva trasformarsi in un autentico disastro. Innanzi tutto la città sarebbe stata persa, se non fosse riuscita ad arginare la ribellione in modo efficiente, ma non eccessivamente repressivo, e poi Forlì, che già lasciava intravedere delle spaccature, avrebbe potuto prendere spunto e dare la spallata finale al suo governo, rinnegandola come padrona.

“Dionigi Naldi l'ha subito fatto incarcerare, ma attende vostre disposizioni.” concluse il castellano, mettendosi poi in attesa di una risposta.

“Adesso la situazione in città com'è?” chiese la Leonessa, in apprensione.

“Sembra abbastanza sotto controllo.” spiegò Bernardino da Cremona: “Imprigionando Corradini, gran parte delle velleità degli imolesi si sono spente. Tuttavia resta chiaro che non faranno ciò che avete chiesto.”

“Devo... Devo ragionare.” fece la Contessa, rammaricandosi di non aver più la Casina, come luogo pacifico in cui raccogliere le idee e arrivare a una soluzione: “Voglio essere lasciata sola. Per il momento scrivete a Naldi e ditegli di vigilare e di non lasciar andare per nessun motivo Corradini. E mi raccomando: che la notizia non si sparga qui a Forlì. Dite all'Oliva che voglio sapere quando arriveranno le prime chiacchiere in città.”

Il castellano chinò il capo e assicurò che avrebbe fatto così. Poi, ottemperando subito alla richiesta di restar sola della sua signora, andò verso la porta e uscì.

“Come vedi – fece la Tigre, rivolgendosi a Pirovano, che era rimasto a bocca aperta, nel sentire cosa stesse succedendo a Imola – non ho tempo, per le buone maniere.”

L'uomo boccheggiò, incredulo. Gli mancava la terra sotto i piedi al pensiero che le due maggiori città dello Stato della sua amante si stessero dimenando tra le sue mani come pesci appena pescati.

L'esercito avrebbe fatto lo stesso? In fondo era composto da uomini del popolo. Che cosa avevano di diverso dai bottegai e dai nobili che adesso si rifiutavano di eseguire gli ordini?

“Adesso vattene. Torna al Paradiso e non muoverti da lì finché non l'ordinerò io.” fece la Leonessa, indicandogli l'uscio: “Ho detto che voglio restare da sola.”

Il milanese, le mani che tremavano appena, fece un paio di passi verso la porta. Avrebbe voluto dire un sacco di cose, ma alla fine non disse nulla, andandosene e basta.

Caterina rimase per qualche minuto in stanza e poi, quando la solitudine si trasformò in una voragine nera, decise di andare nella stanza di suo figlio Giovannino. Mandò via la balia e prese il piccolo in braccio. Gli parlò, lo cullò e lo coprì di baci. Si distrasse per pochi minuti, però, perché guardarlo le ricordava solo che a breve l'avrebbe perso.

Per Imola, non sapeva che fare. Usare l'esercito sarebbe stato un suicidio. I suoi soldati erano i padri, i figli, i mariti e i fratelli dei suoi sudditi. Se avesse ordinato loro di andare contro il popolo, avrebbe perso per sempre il favore delle truppe. Poteva solo aspettare. Non avrebbe più chiesto nulla a Imola, se non di non ribellarsi. Il grano l'avrebbe trovato altrove e, se anche non l'avesse trovato, avrebbe trovato un modo per non far morire di fame gli uomini di stanza a Dozza e Tossignano.

A Forlì avrebbe fatto il pugno duro, ma la severità sarebbe stata guidata solo dalla giustizia. Non era il momento di eccedere nella rigidità.

E poi, cosa per lei ancor più importante, era tempo di decidere quando e coma far partire i suoi figli. Doveva discuterne coi più grandi, specie con Bianca, e definire meglio gli ultimi dettagli.

Immaginava già che i più difficili da spostare sarebbero stati Ottaviano, la cui inclinazione alla codardia avrebbe potuto mettere tutti in pericolo, e Bernardino, che ancora non era capace di domare il fuoco che aveva nel cuore, rischiando così di compromettere l'intero piano per colpa delle sue intemperanze.

Però anche Giovannino era difficile, da far viaggiare... Non aveva ancora due anni, era piccolo, aveva bisogno di mangiare con una certa regolarità, e chi poteva dire come avrebbe reagito, nel doversi separare da lei...

Bianca era una donna, il che, di per sé, costituiva un grosso pericolo, nel mettersi in strada di quei tempi. Avrebbe dovuto farla partire con le spalle coperte da qualcuno, o avrebbe rischiato di essere presa non per il suo cognome, ma solo per la sottana che portava.

Galeazzo e Sforzino, probabilmente, non avrebbero invece dato alcun problema, anche se erano anche loro appena dei ragazzini e quindi una categoria debole, se si considerava che le strade d'Italia, con una guerra che incombeva, brulicavano di qualsiasi tipo di pericolo.

L'idea di aver quel progetto da portare a termine, le diede l'illusione di aver qualcosa di concreto in cui incanalare i propri sforzi. La sferzata di intraprendenza, però, che le diede quella sensazione fu molto effimera.

Si trattava innanzi tutto di qualcosa di estremamente complicato e delicato e, se anche tutto fosse filato liscio, per lei il risultato non sarebbe cambiato: dal momento stesso in cui avesse fatto uscire da Ravaldino i suoi figli, non li avrebbe mai più rivisti.

“Tu non ricorderai nulla di me – sussurrò, presa da quello sconforto improvviso, guardando gli occhietti allungati di Giovannino, che ricambiava lo sguardo perdendosi nelle iridi verdi della madre – così come non ricorderai nulla di tuo padre. Ma spero che tua sorella ti parlerà di noi, e che, crescendo, saprai diventare un uomo di valore.”

Il piccolo, quasi avesse capito, allungò una manina dalle dita corte e sfiorò la guancia della madre, asciugandole un po' la lacrima che le era appena scivolata dal ciglio.

“So che mi renderai fiera.” concluse Caterina e, baciandolo in fronte, annusò il suo odore, sperando di poterlo ricordare fino al suo ultimo respiro.

 
 
   
 
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