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Autore: Adeia Di Elferas    10/12/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Dionigi Naldi teneva i gomiti sulla scrivania e la testa tra le mani. Non riusciva a decidersi a firmare l'ordine, ma sapeva che era una cosa necessaria.

Aveva il respiro veloce e sentiva lo stomaco stringersi ogni volta che provava anche solo a pensare di prendere in mano la penna.

Sapeva che nella sua posizione non doveva lasciare che i legami di sangue intralciassero il suo lavoro, specie pensando che sua moglie e le sue figlie erano ancora a Ravaldino, alla mercé della Tigre. Però decretare l'incarcerazione – e quindi probabilmente a breve la morte – di un suo parente lo metteva davanti a una scelta pesantissima.

Non conosceva bene il Naldi che era diventata qualche anno addietro castellano di Tossignano, tanto meno aveva presente il di lui figlio. In questo senso accusarlo di tradimento e mandarlo a prendere avrebbe dovuto essere più facile. Eppure...

“Che c'è?!” sbraitò Dionigi, quando sentì qualcuno bussare alla porta.

“Sono io, ho cose importanti da dirvi.” la voce di Gian Piero Landriani non avrebbe potuto arrivare più gradita alle orecchie del castellano.

Lo fece subito entrare e cominciò a spiegargli il suo dissidio, senonché il milanese lo fermò subito, facendogli capire che ciò che aveva da dire lui era molto più importante.

“Il Bargello...” cominciò, mentre riprendeva fiato per la mezza corsa che aveva fatto fino a lì.

“Ludovico da Lugo?” chiese, pleonastico, Naldi.

“Sì, lui... Ha saputo degli ordini dati dalla Contessa ai forlivesi e ha in animo di bruciare alcuni magazzini di fieno, per togliere al nemico quell'eventuale sostentamento...” Landriani prese una boccata e poi concluse: “Pare che se lo farà, però, gli imolesi lo faranno a pezzi e altrettanto faranno con tutta la sua famiglia.”

“Ne siete certo?” il sudore freddo che scendeva lungo la schiena del castellano gli stava facendo incollare gli abiti alla pelle.

“Sì, anzi, si dice che lo faranno anche se le sue resteranno solo idee.” confermò Gian Piero.

Dionigi si passò una mano sul mento non ancora sbarbato – in quei giorni aveva avuto ben altro in mente, che non andare dal barbiere – e poi, tornando in fretta alla scrivania, disse: “Il Bargello va fatto scappare. Vada a Forlì, con la sua famiglia, e pensi la Tigre che farne di lui.”

“A chi scrivete?” domandò l'altro, vedendo il castellano già a capo chino sulla pagina.

“Sto spiccando un ordine di cattura per il figlio del castellano di Tossignano. È accusato di tradimento.” spiegò Naldi.

“Cosa intenderebbe fare?” si informò il Landriani, a cui sembrava di ricordare come il suddetto non fosse che un ragazzino o poco più.

“Va in giro dicendo che la Sforza li lascerà morire di fame e che tutti dovrebbero arrendersi al figlio del papa – rispose freddo Dionigi – va messo subito a tacere.”

Gian Piero, che si ricordò solo in quel momento del fatto che l'imputato era anche un parente di Naldi, preferì non rigirare il dito nella piaga e se ne andò dicendo: “Vado dal Bargello, intanto, e poi scriverò alla nostra signora per avvisarla di quanto accaduto.”

 

Caterina si passava nervosamente il nodo nuziale da una mano all'altra, mentre osservava in silenzio i soldati che si addestravano nel cortile sotto la finestra alla quale si era affacciata. L'aria era fredda, il cielo grigio, ma non pioveva. Gli unici rumori che si sentivano, a parte il cozzare delle armi, erano quelli fatti dai costruttori che stavano mettendo a punto i lavori di liberazione del mastio.

Mentre vedeva Baccino da Cremona aver ragione di un paio di avversari e vantarsene tanto da perdere la concentrazione e farsi gettare a terra da un terzo, la donna si mise a fare mentalmente il calcolo degli ingredienti che mancavano nel suo laboratorio. Aveva fatto distruggere anche il suo orticello privato, vicino alla rocca, per sottolineare una volta di più la propria decisione a rispettare in prima persona le sue disposizioni, ma l'aveva fatto senza ragionare sugli ammanchi che avrebbe avuto nell'immediato.

Aveva ancora il necessario per molte pozioni curative, anche per quella a far dormire, ma per altre si trovava in difficoltà. Una fra tutte era quella che prendeva per evitare gravidanze indesiderate. Ne aveva ancora un po', ma si sarebbe sentita molto più tranquilla con una corta maggiore.

Cercando di pensare a dove rivolgersi per avere qualche rifornimento d'emergenza, la donna sollevò lo sguardo dal cortile e intravide sua figlia Bianca affacciata a una finestra della facciata dirimpetto. La ragazza era con una delle sue amiche più care e stava commentando serratamente quello che facevano gli armigeri.

Nel vederla così giovane e piena di vita, alla Tigre si strinse il cuore. Non aveva ancora trovato il coraggio per parlarle a quattrocchi, benché avesse detto a più di una persona che l'avrebbe fatto immediatamente. La Riario sapeva che la partenza era imminente, era vero, ma la Sforza temeva comunque quel colloquio, perché avrebbe reso il tutto molto più reale e incombente.

Così, scoprendosi molto più codarda del previsto, anche quella volta la Contessa provò a distrarsi, riabbassando gli occhi e tornando a pensare agli affari di Stato.

Stavano battendo moneta, e, tutto sommato, i forlivesi più abbienti si stavano dimostrando ben disposti verso quella nuova valuta. Discorso diverso, invece, erano gli ordini relativi all'abbattimento dei boschi e degli edifici posti fuori le mura. Erano pochi, per il momento, quelli che aveva ubbidito, e mettere alla forca tutti gli altri sarebbe stato impensabile.

Dunque, per non perdere la faccia, la Tigre stava prendendo tempo, aprendo un Consiglio al giorno, spesso senza presentarvisi, dando l'illusione a tutti di valutare ogni punto del progetto, man mano, ascoltando le rimostranze di tutti. Sapeva di non poter andare avanti così a lungo, ma confidava quasi in un colpo di mano dei nemici, magari un'incursione improvvisa o anche solo una dichiarazione esplicita, in modo da poter risvegliare le coscienze dei suoi sudditi.

Un altro problema, che si era presentato fin dalla notte del loro arrivo, era poi la convivenza tra gli uomini di Giannotto e i religiosi che li ospitavano. La Contessa poteva quasi sentire la voce di suo figlio Cesare ammonirla, per aver voluto mescolare a forza uomini di Chiesa e uomini d'armi, e forse era proprio quella voce fastidiosa e lontana ad averla convinta ancor di più a non cambiare idea.

Secondo Caterina i preti dei tre conventi esageravano, e aveva anche intimato alla popolazione di non correre a ogni lacrima dei religiosi, ma di fatto, ogni qualvolta gli abitanti dei conventi richiamavano l'attenzione dei concittadini, i forlivesi si presentavano armati di forconi e torce, pronti a passare per i ferri i soldati.

Il culmine c'era stato proprio quella mattina. Guasconi e tedeschi, per precedenti dissidi interni, avevano iniziato una rissa tra loro in piazza. Spaventati dalla confusione, molti cittadini erano arrivati a vedere e qualcuno, quando si erano scorti in terra tre morti, aveva anche provato a dividerli.

La situazione non era degenerata per puro caso: Ottaviano, che avrebbe dovuto essere a Porta San Pietro per supervisionare i lavori, aveva lasciato il suo posto nella speranza di sottrarsi al suo compito, e, trovandosi davanti a quel caos, aveva preso in mano la situazione.

A muoverlo, secondo la madre, era stata solo la paura. Credendosi a sua volta minacciato, infatti, si era fatto circondare da guardie e poi, palesandosi come il Conte Riario, aveva ordinato ai mercenari di smetterla, di portare i feriti a Ravaldino affinché venissero curati, e ai forlivesi di non impicciarsi mai più delle beghe interne a un esercito a loro estraneo.

La Sforza era rimasta, malgrado tutto, molto colpita dall'intraprendenza del figlio e, anche se non gliel'aveva detto apertamente, se non altro non aveva espresso a voce alta parole di biasimo e ciò a Ottaviano era bastato come riconoscimento.

“Mia signora...” Luffo Numai si schiarì la voce, facendo girare la Leonessa di scatto: “Non voglio disturbarvi, ma dovreste incontrare una persona...”

“Chi?” chiese la donna, staccandosi dalla finestra e fissando il Consigliere.

“Il bargello di Imola.” rispose il forlivese.

Caterina sollevò un sopracciglio: “Che ci fa Ludovico da Lugo qui?”

“Vi spiegherà meglio lui – fece Luffo – ma posso anticiparvi che è stato mandato qui da Corradini, a quanto pare, per metterlo in salvo dalla ferocia degli imolesi.”

Stringendo le mani a pugno, per trattenere il nervosismo, la Tigre fece un respiro profondo e poi annuì: “Portatemi da lui.”

“Vi aspetta nello studiolo...” la invitò Numai, mettendolesi affianco e camminando al suo passo fino a destinazione.

 

“Quello che dice il papa è molto grave...” il Gonfaloniere di Giustizia aveva bloccato Lorenzo Medici proprio un attimo prima che gli sgusciasse via entrando al palazzo della Signoria: “Scrivere un'accusa formale, sostenere che la Repubblica appoggerà Imola e Forlì contro di lui..! Di nascosto, per di più!”

Il Popolano, che era arrivato presto proprio per non dover parlare con nessuno prima della riunione, lo guardava con i suoi occhi tondi e inespressivi, tentato di dire esattamente quello che gli passava per la testa. Pensando, però, che Soderini non avrebbe apprezzato un elenco di improperi, si trattenne e fece solo un lungo sospiro irritato.

“Il papa mente.” disse solo, freddo.

L'altro, chinandosi un po' di più verso il Medici, gli occhi che saettavano alle sue spalle, per vedere chi, avvicinandosi, pareva tendere l'orecchio, e chi, invece, passava senza badare a loro, fece notare, agitato: “Ma il papa ci accusa in modo plateale! Dovete dirmelo, Lorenzo, dovete dirmelo e basta...”

“Che cosa?” chiese il Popolano, incurvando un po' di più le labbra verso il basso.

“Se davvero quando la Sforza è stata qui ha preso accordi segreti con voi per avere l'appoggio di Firenze contro il papa!” sbottò il Gonfaloniere, abbandonando la sua stoica calma e facendo voltare due membri della Signoria che stavano passando sotto al portone proprio in quel momento.

Il Medici gli fece segno di calmarsi e poi, con un filo di voce, assicurò: “Piuttosto che aiutare la Sforza di Forlì, farei bruciare Firenze.”

Soderini, colpito da quell'affermazione, balbettò: “Sì, ma... Ecco, la Contessa Sforza è vostra cognata...”

Lorenzo avrebbe tanto voluto negare, avrebbe voluto dire che, fosse dipeso da lui, suo fratello non avrebbe mai sposato una donna del genere, ma tutto quello che gli uscì labbra fu un gelido: “Se non fosse stato per me, Firenze avrebbe davvero stretto un patto con lei, e ora ci troveremmo contro il re di Francia. Dovreste ringraziarmi e lodarmi come un salvatore della patria, perché è solo grazie a me se quella lupa da noi non avrà nemmeno un soldato.”

“Curioso sentirvi chiamare così vostra cognata...” Machiavelli, che, a dispetto delle attenzioni del Gonfaloniere, aveva ascoltato tutto, nascosto dietro l'angolo del palazzo, si palesò con un ghigno stampato in viso e le braccia strette attorno a una cartelletta di cuoio straripante di documenti: “Se non erro, nell'antica Roma le lupe erano le donne che si guadagnavano da vivere nei bordelli della peggior specie, quelle da un asse o due.”

“Esattamente vostro ideale di donna. O mi sbaglio?” commentò il Medici che, approfittando di quell'interruzione, si sistemò un po' il mantello in spalla e salutò il Gonfaloniere: “Ci vediamo più tardi, in seduta.” ed entrò a palazzo in fretta, evitando altre domande.

Soderini, insoddisfatto da quel brevissimo abboccamento che non gli aveva tolto alcun timore, dedicò un rapido sguardo al Segretario di Stato, che sembrava intenzionato a iniziare con lui un discorso. Siccome, a parer del Gonfaloniere, da Niccolò Machiavelli non ci si poteva aspettare altro che monologhi, si sbrigò a liquidarlo scusandosi ed elencando un sacco di cose che ancora doveva fare, prima di andare in seduta.

Machiavelli, chinando appena il capo in segno di saluto mentre Soderini si allontanava veloce come il vento, si strinse un po' nelle spalle, cercando di non badare al modo in cui tutti continuavano a schivarlo. Si era illuso che la sua missione come ambasciatore di Firenze a Forlì prima e il suo ruolo di Segretario poi gli avrebbero permesso di togliersi di dosso quella patina da intoccabile che, chissà come, gli era rimasta addosso.

Sbuffando tra sé, si decise finalmente a entrare a sua volta a palazzo, senonché sentì la voce di Biagio Bonaccorsi, forse l'unico, in tutta Firenze, che si vantasse di essere suo amico: “Niccolò!”

Trattenendosi a stento dall'andarsene prima che l'altro potesse raggiungerlo, Macchia lanciò uno sguardo al cielo grigio e, sperando che non si mettesse a piovere proprio mentre attendeva che Biagio attraversasse la piazza, ribatté: “Bonaccorsi!”

“Vi siete fatto tagliare i capelli?” fu la prima domanda che l'amico gli pose, quando gli fu abbastanza vicino.

Machiavelli, scrollando inconsciamente il capo come faceva ogni tanto quando portava i capelli più lunghi, rispose di sì, ma senza dilungarsi sui motivi. Non avrebbe voluto portare i capelli così corti, ma era stato l'unico modo per provare a domare una volta per tutte il ciuffo indisciplinato di ricci neri che continuava a crescergli a ridosso della fronte.

“Secondo me stavate meglio prima...” soppesò Biagio, squadrandolo con aria critica.

Quella frase, innocente, scatenò la suscettibilità di Niccolò che, deciso a interrompere sul nascere quella questione, sbottò: “Muoviamoci! Si ha molto da fare oggi, non si ha del tempo da perdere a parlare di acconciature!”

 

Caterina aveva ascoltato a lungo le parole di Ludovico da Lugo e aveva trovato raggelante vedere come un uomo, anzi, un funzionario del suo Stato, che voleva far rispettare le leggi dovesse temere la furia del popolo. Se da un lato, però, la tentazione era stata quella di provvedere immediatamente a ridimensionare le pretese degli imolesi usando la forza, dall'altro la donna aveva capito che quello non era più il tempo di sfoggiare i muscoli.

Doveva dare tempo a Imola, mostrarsi risoluta, ma non troppo rigida, appoggiare Naldi, che, aveva letto nella lettera d'accompagnamento con cui era arrivato il bargello, era arrivato a far arrestare un suo parente, pur di dare il buon esempio.

Discorso diverso a Forlì. L'immobilità che aveva preso la sua città era inammissibile. Le perdite di tempo, le chiacchiere attorno agli uomini di Giannotto e l'insopportabile trascinarsi delle ultime decisioni la stavano logorando. Era stata troppo titubante e aveva aspettato troppo. Quella volta aveva in animo di mettere in chiaro le cose e, a quel punto, se Forlì avesse voluto bruciare per mano dei francesi, sarebbe stata libera di farlo, ma senza più alcuna guida o qualcuno che provasse a contrattare per lei almeno una pace ragionevole.

Aveva quindi convocato un Consiglio Generale – facendo sapere che sarebbe stato l'ultimo – per quel pomeriggio. Aveva anche deciso di farsi attendere, per dimostrare che lei non sarebbe sempre stata presente per i forlivesi, specie se loro non sapevano esserlo per lei.

Così si era rintanata nella sala delle letture assieme a Giovannino e aveva dato ordine all'Auditore di mandarla a chiamare solo quando la sala consiliare del palazzo fosse stata gremita.

Il bambino le si era addormentato in braccio, tranquillizzato sia dalla sua presenza, sia dal rumore costante e rilassante della pioggia che scrosciava contro la finestra. Quel suono piaceva anche alla Contessa, perché quel clima impietoso – almeno così sperava la Tigre – avrebbe rallentato i francesi. Voleva avere ancora un po' di tempo, voleva poter dire addio con calma ai suoi figli, trovare il coraggio di parlare a ciascuno di loro e voleva avere il modo di ricucire o spezzare per sempre il legame con i suoi sudditi. Non voleva lasciare nulla a metà.

Mentre faceva quella considerazione, le tornò chissà come in mente il ragazzo biondo che lavorava in uno dei migliori bordelli della città. Forse, si disse, sarebbe stato giusto incontrarlo un'ultima volta. Solo per parlargli un momento, ringraziarlo per quello che era stato per lei in passato, e consigliargli, magari, di scappare, finché era in tempo.

Stava valutando come e quando convocare alla rocca quel giovane, quando la porta della sala delle letture si spalancò. La Leonessa, che si aspettava di vedere entrare qualcuno mandato dall'Auditore, si accigliò nel trovarsi invece davanti il Capitano Mongardini.

Giovannino, svegliato all'improvviso, strinse un po' gli occhietti allungati e fissò severo l'uomo, poi guardò la madre e, vedendola relativamente tranquilla, si rimise a sonnecchiare.

“Che c'è?” chiese la Sforza, a voce bassa, per non risvegliare il piccolo.

Mongardini, cercando di non fare troppo rumore, per colpa della mezza armatura che portava, nel muoversi, le si avvicinò e disse, piano: “C'è una questione che dovete sentire...”

Il soldato le spiegò in fretta come, essendo lui il responsabile degli arruolamenti e della distribuzione delle tessere alle truppe, si fosse accorto che alcuni soggetti, pur non essendo effettivi dell'esercito, si fingevano arruolati per poter aver accesso ai benefici accordati ai militari.

“Avete già individuato chi sono?” domandò la donna, stringendo le labbra.

“Sì, ma per esserne certo, dovrei poter richiedere loro i documenti...” si schermì il Capitano.

“Da oggi ve ne do facoltà.” disse subito la Tigre: “Chiunque sarà in coda senza documenti, voglio che venga subito portato qui alla rocca.”

“Sì, mia signora...” annuì Mongardini e poi, dopo una breve esitazione, soggiunse: “Uno di loro so bene chi è, comunque.”

“Ovvero?” la Sforza capì subito dal tono del soldato che doveva trattarsi di qualcuno la cui cattura avrebbe potuto dimostrarsi strategica.

“Il figlio del banchiere Giuntino... Quello che aveva sposato una delle figlie di Achille Tiberti.” la rivelazione fatta dal Capitano fece sollevare di scatto lo sguardo della Contessa.

“Non era tornato a vivere a Cesena?” chiese la donna, mentre Giovannino, ormai infastidito da tutte quelle chiacchiere, aveva smesso una volta per tutte di dormire e si era messo a seguire il discorso, per quel poco che poteva capire un bambino di nemmeno due anni.

“Sì, ma poi si era trasferito in campagna, qui appena fuori Forlì, e adesso sembra essere rientrato in città per seguire l'ordine che avete dato voi stessa.” spiegò Mongardini: “Il punto è che ho sentito dire che potrebbe essere a capo di una fazione che propende più per suo suocero che non per voi.”

“Appena tornerà con a cercare la tessera per il pane, o per qualsiasi altro beneficio, arrestatelo e portatelo qui.” decretò la Tigre: “E poi fate lo stesso per chi non avrà mostrato i documenti, ma solo al secondo giro, perché altrimenti rischieremmo di arrestare troppa gente... Con un buon avvertimento, chi è in regola, si premurerà di dimostrarlo e chi non lo è, se ha un po' di sale in zucca, eviterà di cacciarsi nei guai, rinunciando ai benefici che non gli spettano.”

Il Capitano si disse d'accordo e, dopo aver fatto un sorriso ampio, ma quasi grottesco, al piccolo Medici, si congedò dalla sua signora assicurando: “Avrete il figlio di Giuntino già domattina, ci posso scommettere!”

La Sforza lasciò andar via Mongardini e poi, stanca e distratta da quell'ultima novità, cercò di adagiare il figlio sul tappeto, nella speranza che si mettesse a giocare con il cavaliere di legno che aveva voluto portarsi appresso.

Giovannino, però, non voleva per nessuno motivo lasciare le braccia della madre e così, arrendendosi con una facilità che di norma non le apparteneva, Caterina sospirò e si rassegnò a tenerselo sulle ginocchia finché non fossero andati a chiamarla.

La convocazione a palazzo arrivò nell'unico momento di tregua che la pioggia diede a Forlì quel pomeriggio.

Dopo aver lasciato, non senza fatica, il figlio più piccolo a una delle balie – non avendo trovato Bianca, che, di certo, avrebbe saputo gestire meglio il bambino – la Contessa attraversò a passo svelto la lunga strada che la divideva dal palazzo in cui aveva vissuto per qualche orribile anno con il suo primo marito.

Quando entrò nella sala grande, i forlivesi presenti si zittirono come un sol uomo. Quel giorno la Tigre aveva evitato di vestirsi in modo attento e aveva lasciato da parte i gioielli e le formalità di ogni tipo.

Con indosso gli abiti maschili con cui ormai la città si stava abituando a vederla, aveva raggiunto il rialzo da cui avrebbe parlato senza salutare nessuno. Aveva intravisto nella folla anche sua figlia e aveva capito solo in quel momento il perché non l'avesse trovata alla rocca.

Vicino al palchetto c'erano i suoi uomini più fedeli, compreso Pirovano e Galeazzo. Si sentiva abbastanza protetta, ma sapeva che quello che avrebbe detto avrebbe potuto avere un effetto simile allo scoppio di un cannone.

Avrebbe voluto parlare un momento in privato con Giovanni da Casale e chiedergli di portare via Bianca, per paura che, se fosse andato storto qualcosa, le sarebbe potuto accadere qualcosa.

Ovviamente, però, non poteva. Poteva solo dire quel che aveva da dire e sperare che la gente su cui aveva governato fin da quando era una ragazzina accettasse le sue parole. Era stata lei e non suo marito Girolamo, anni prima, a correre la piazza tre volte. Era stata lei a sottoporsi al furto del cavallo e sempre lei a salvare la città dai francesi, dai veneziani, dagli spagnoli, dai ribelli... Dalla peste, perfino.

Se i suoi sudditi non ricordavano nulla di tutto quello che lei aveva fatto per loro, allora potevano anche impiccarsi con un metro di corda: non le importava più.

“Avete voluto, non con le parole, ma coi fatti, sospendere tutti i punti da me proposti – cominciò a dire Caterina, la voce ferma, ma accesa come una fiamma, molto diversa da quella fredda e imperiosa che avrebbe voluto usare – e così mi vedo costretta a manifestare pubblicamente che le mie entrate in Forlì non ascendono a più di ventiduemila lire.”

Lasciò decantare un po' silenzio che aveva accolto l'incipit del suo discorso. Scorgeva senza problemi la confusione sul viso di alcuni, l'incredulità su quello di altri e la perplessità generale nel saperla tanto povera.

Non aveva mai dato sfoggio di lusso, aveva sempre lamentato forti ammanchi nelle casse dello Stato, ma il suo patrimonio personale non era mai stato reso realmente pubblico. Tutti sapevano che aveva fatto molta fatica a rialzarsi, dopo la morte di Girolamo Riario, perché il marito li aveva riempiti di debiti, ma l'opinione comune voleva che, con l'arrivo di Giovanni Medici, i suoi problemi economici fossero risolti e in tanti additavano i gioielli ritornati al collo e ai polsi della Tigre come il segno più chiaro di una ritrovata agiatezza.

“Di queste ventiduemila lire, più della metà se ne andrebbero – riprese la Leonessa, quando fu certa che il primo concetto fosse stato ben digerito – se si accordassero le esenzioni esorbitanti che molti di voi domandano con questo chiasso eccessivo. Con una simile diminuzione, né io né i miei figli potremmo vivere da padroni, anzi, nemmeno riusciremmo a vivere da Signori privati.”

Quella volta, notando come le sue parole stessero per accendere delle recriminazioni, la Sforza decise di incalzare il discorso, evitando di permettere a chicchessia di intervenire.

Prese fiato e riprese subito: “Per cui, secondo il mio avviso, le esenzioni della pesa e della beccheria possono dirsi bastevoli, specie se sommate alle centocinquanta lire non richieste delle Porte. Quindi non c'è alcun bisogno di cambiamenti o alterazioni di altre cose.”

Il Capo dei Magistrati Tornielli, in prima fila ad ascoltare le parole della Sforza, si voltò verso i suoi concittadini e disse, a voce molto alta: “La Contessa ha ragione! Come possiamo pensare che il papa e il re di Francia si fermino, se a combatterli trovano qualcuno che non ha nemmeno gli introiti di un mezzadro?!”

I forlivesi vociarono, qualcuno esclamò ad alta voce il proprio dissenso, altri, invece, la maggioranza, diedero ragione a Tornielli. L'uomo, allora, chiese formalmente il potere di parlare a nome di tutti e, dopo aver scambiato qualche frase con gli Anziani della città, domandò alla Tigre di poter esporre il volere dei suoi sudditi.

La Leonessa gli diede il permesso di farlo, sapendo che il Capo dei Magistrati era dalla sua parte, seppur, negli anni, avesse sempre cercato di non farsi vedere troppo in sua compagnia, proprio in previsione di momenti come quello, in cui sarebbe stato indispensabile far credere al popolo la loro quasi estraneità l'uno all'altra.

“I vostri sudditi – cominciò a dire Tornielli, allargando le braccia plateale, come in difesa dei suoi concittadini, ma fissandola in modo inequivocabile, in modo da tranquillizzarla fin da subito – non hanno mai richiesto esenzione alcuna, essendo tutto giunto dalla mera bontà del Signore Ottaviano, e perciò ringraziano tutti la bontà e la volontà di Madonna, e ne sono contenti.”

“Dunque finalmente farete ciò che dico?” chiese la Contessa, non volendo credere che fosse bastato tanto poco.

“Tutto quello che voi, per mezzo dell'Auditore, ordinerete, a patto che tutto sia conforme alle volontà popolari.” assicurò il Capo dei Magistrati.

Caterina finalmente colse uno sguardo d'intesa tra Dipintore e Tornielli e si rese conto che i due, a sua insaputa, avevano escogitato quello stratagemma per far sì che i forlivesi finalmente ubbidissero. Lei, non essendo pronta a quello scambio di battute inatteso, si stava comportando nel modo giusto, ovvero con fare sorpreso e quell'apparente sua perdita di potere stava conquistando il pubblico, che, finalmente, poteva illudersi di contare qualcosa.

L'Auditore, schiarendosi la voce, annuì, senza aspettare il permesso della Sforza: “In cambio del protrarsi della benevolenza della Contessa, ci sono tre cose che si chiedono a Forlì. La prima è che certuni, che per somma imprudenza estraggono grano dalla città, con gran danno di tutti, nelle critiche presenti circostanze, vengano fermati il prima possibile da voi, che siete il Capo dei Magistrati.”

Tornielli si finse afflitto, ma annuì, voltandosi un momento verso i forlivesi spiegando quanto in effetti fosse non solo giusto, ma soprattutto necessario.

“In secondo luogo, si chiede che sulla Torre del Popolo si metta una sentinella in pianta stabile.” la voce dell'Auditore si era fatta più sicura, vedendo come a quella seconda richiesta, scelta proprio perché poco pretenziosa e quindi atta a confondere la reale portata dell'intera operazione, avesse portato tanto forlivesi a mostrarsi più bonari e meno agguerriti nei confronti di quegli ordini: “E infine si chiede che il giuramento antico di fedeltà a Madonna Sforza e a suo figlio si reiteri in questo tempo, che sembra esigerlo gravemente.”

“Così faremo tutti.” assicurò Tornielli e poi, guardando appena la Tigre, soggiunse: “A patto che questa notte la città si consideri in festa, perché il giuramento al Signore di Forlì è sempre stato un momento di giubilo.”

“Sia così.” concluse Caterina, stanca di quel teatrino, per quanto fosse cosciente che, almeno per quel momento, l'avrebbe salvata dalle ire del popolo: “Avete il mio permesso.”

“Correrai la piazza?” chiese Pirovano, avvicinandolesi appena, mentre il Consiglio veniva dichiarato chiuso e la Sforza aspettava il defluire del pubblico per andarsene a sua volta.

“Non mi sembra uno sforzo tanto grande, non credi?” ribatté lei, trovando assurda la preoccupazione che gli vedeva dipinta in volto: “Volessero uccidermi, potrebbero farlo in qualunque momento. Giro per la città senza scorta, mi mescolo ai soldati e passo spesso la sera all'osteria. Credi davvero che debbano aspettare di vedermi in sella a un cavallo in piazza, per tagliarmi la gola?”

L'uomo non disse altro e, incassando quello che riteneva un implicito rimprovero molto ingiusto, abbassò lo sguardo e si tenne il resto dei suoi pensieri per sé.

 

 
 
   
 
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