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Autore: Adeia Di Elferas    17/12/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Quella mattina Bianca non era riuscita a far altro che andare a San Girolamo per pregare davanti alla lapide di Giacomo Feo. Non era un istinto che le venisse spesso, ma quella volta era stato così prepotente da portarla ad affrontare il freddo di quel 21 novembre, attraversando in fretta parte della città e andando nella cappella dei Feo senza nemmeno passare un istante davanti alla tomba di Ottaviano Manfredi.

A spingerla in quella direzione erano state due cose, successe in rapida successione. La prima era stata veder partire l'armata di Giannotto. Se n'era accorta per caso, solo perché si era svegliata presto e ne aveva sentito discutere due soldati della rocca.

Nessuno le aveva fatto sapere il perché di quella mossa strategica da parte di sua madre, ma immaginava che fosse dovuta a un pericolo imminente a Imola. Se era così, significava che ormai la guerra stava cominciando e che i suoi giorni a Forlì erano ormai contati.

Subito dopo aver registrato quest'informazione, si era imbattuta in Bernardino, anche lui straordinariamente mattiniero. Il bambino stava correndo via dalle cucine e la Riario aveva sentito distintamente la voce della cuoca redarguirlo e ordinargli di non provare mai più a rovinarle lo stufato.

Bianca, già tesa per la consapevolezza di una partenza molto più vicina del previsto, si era sentita così indispettita dal comportamento del fratello minore da fermarlo per dargli a sua volta una buona dose di rimproveri.

Era riuscita ad afferrarlo proprio mentre il Feo le passava accanto e, mentre lo strattonava appena per avere la sua attenzione, aveva incrociato per un lungo istante il suo sguardo. Molto di rado le era capitato di fissarlo a quel modo. Non ci aveva mai fatto caso, ma in realtà il più delle volte evitava i suoi occhi.

Quello scambio di sguardi era stato sufficiente per rivedere in lui il padre e, allo stesso tempo, per farla ripiombare in uno stato d'animo che aveva quasi cominciato a dimenticare.

L'aveva lasciato andare, senza provare più a riprenderlo. Camminando lentamente e senza una meta, aveva fatto un breve bilancio della sua vita. La colpa più grande, l'unica veramente incancellabile, di cui si era macchiata era stata il voler morto Giacomo Feo almeno quanto lo avevano voluto morto Ottaviano e Cesare.

Era inutile ripetersi che lei era più piccola, che aveva capito meno le implicazioni del suo silenzio, quando aveva subodorato il piano dei fratelli e non era andata subito dalla madre a riferirlo. Il suo ruolo era pesato esattamente come quello degli altri.

A ricordarle tutto quanto era bastato lo sguardo di Bernardino che ancora, malgrado tutto, non si fidava completamente di lei.

E così era andata in chiesa.

Si era piazzata davanti alla tomba di Giacomo e aveva provato a pregare, poi a domandargli perdono e a promettergli che avrebbe protetto Bernardino come meglio poteva, per ripagarlo dell'immenso torto che gli aveva fatto contribuendo a renderlo orfano di padre.

Quando si era resa conto che una lastra di pietra non poteva né risponderle né darle conforto, aveva cominciato a piangere, sommessamente, ma senza smettere un istante.

“Sai, ieri mentre correvo la piazza sotto la pioggia non riuscivo a smettere di pensare all'ultima volta in cui l'avevo fatto.” la voce della madre fece voltare di scatto la Riario che, colta del tutto alla sprovvista, tentò di asciugarsi gli occhi con la manica dell'abito e a controllare il respiro per non singhiozzare davanti a lei: “Tu eri con me, nella mia pancia. A ben pensarci, sono stata un'incosciente a voler correre la piazza, essendo incinta, ma tuo padre si rifiutava e non volevo perdere subito il favore della città.”

Gli affari di Stato, pensò istintivamente Bianca. Come sempre avevano avuto la meglio su tutto, anche sulla famiglia, e, anche nel ricordare quell'episodio, sua madre sembrava non trovare per nulla grave quell'inversione nella scala dei valori.

“Perdonami se ti ho interrotto mentre pregavi, ma devo discutere assieme a te di alcune cose importanti.” continuò la Contessa, mettendosi al fianco della figlia, le mani giunte in grembo e lo sguardo rivolto alla lapide di Giacomo, per evitare di fissare gli occhi blu della figlia, arrossati e acquosi per colpa del pianto: “Se vuoi possiamo parlarne qui, per me non è un problema, anzi, forse è un posto più sicuro di altri.”

Bianca annuì appena, e deglutì, incapace, per il momento, di trovare la voce.

“Achille Tiberti sta attaccando Imola. E, se non l'ha ancora fatto, lo farà presto.” iniziò a sussurrare Caterina: “Ha attaccato una pattuglia faentina e aspetto da un momento all'altro notizie da Naldi, perché secondo me ora che si è palesato, non aspetterà. Ho avuto modo di conoscerlo e ricordo bene come ragiona. È un ottimo comandante, ma a volte ha troppa fretta e agisce anche senza il permesso dei suoi superiori.”

La Riario annuì e si sentì in dovere di dire: “Ho visto che avete mandato messer Giannotto. Ho capito da quello che la situazione sta precipitando.”

“Non mi fido più molto di Giannotto...” soppesò la Tigre, felice di vedere come sua figlia fosse informata sui fatti e sveglia: “L'ho mandato a Imola per limitare i danni. Qui stava facendo troppa confusione, con quei barbari dei suoi soldati... Tanto Imola è persa comunque. Se Giannotto si dimostrerà un uomo migliore di quello che sembra, tanto di guadagnato, altrimenti, confido in Naldi e basta.”

Quell'ammissione di debolezza, perché tale sembrava alle sue orecchie, fece voltare un momento il viso a Bianca, per cercare lo sguardo della madre. La Leonessa, però, teneva lo sguardo fisso sul nome di Giacomo e il suo volto, marmoreo come appariva spesso, non lasciava trasparire nulla di particolare.

“Tu e i tuoi fratelli dovrete andarvene presto. Temo sia questione di due o tre settimane al massimo, dipende da quanto ci metterà il figlio del papa a prendere Imola e marciare alla volta di Forlì.” disse piano Caterina, finalmente un lieve cambiamento sia nella sua voce, sia nella sua espressione, che si faceva più preoccupata e meno impassibile: “Non posso farvi partire tutti assieme, però.”

La Riario fece un respiro profondo e poi, accigliandosi, domandò: “Avete già pensato a come dividerci?”

La donna annuì: “L'ultimo a lasciare la rocca sarà Ottaviano, ma sarà il primo tra voi a lasciare la città.” la Contessa inclinò un po' la testa e, allungando una mano verso la lapide, accarezzandola appena, quasi avesse paura di scottarsi nel farlo davvero, proseguì: “Mentre tu e gli altri sarete ancora a casa di Numai, lui uscirà da Forlì e se ne andrà a Firenze. Pensò che manderò con lui l'Auditore, perché da solo non saprebbe trovare nemmeno il cavallo delle sue brache, figuriamoci la strada per la Toscana...”

La ragazza non si era attesa, in tutta onestà, che l'apripista sarebbe stato Ottaviano. Come in un certo senso aveva ammesso anche sua madre, era tra loro quello meno affidabile, bambini piccoli esclusi.

“Ottaviano è il più sacrificabile.” arrivò puntuale la spiegazione della Sforza, per quanto non apertamente richiesta: “Se scopriranno la sua fuga e la via che io e i miei collaboratori abbiamo studiato, lo uccideranno, ma nessuno penserà che voi dovete ancora partire e allora potrete seguire la via secondaria, meno breve, meno agevole, ma a quel punto più sicura.”

Bianca non commentò. La Tigre aveva tirato su col naso, mentre la sua mano, fino a quel momento sospesa sopra la pietra che celava i resti di Giacomo, ora premeva contro la fredda lapide.

“Farò lasciare la rocca per primi a Sforzino e Bernardino.” cominciò a elencare la donna: “Perché di loro si curano in pochi, la loro assenza passerà sotto silenzio per un po'. Poi andrete a casa Numai tu e Giovannino. Sei l'unica a cui posso affidarlo, per starmene tranquilla, te l'ho già detto. Con te piange poco.”

La Riario sussurrò un 'va bene' appena udibile, mentre nella sua testa tornava lo spettro del convento. Aveva accettato di sua volontà di sacrificarsi a quel modo per il bene del fratello e l'avrebbe fatto, ormai era deciso. Pensare, però, al viaggio che si accingeva a fare con un bambino di nemmeno due anni appresso, la spaventava a morte.

“Per ultimo Galeazzo.” concluse Caterina: “Lui ormai vive assieme ai soldati, è sotto gli occhi di tutti di continuo... Dovrà andarsene appena prima di Ottaviano.”

“Con Galeazzo potrebbe esserci un problema.” si lasciò scappare la giovane, ricordando gli ultimi discorsi che il fratello le aveva fatto.

“Che intendi dire?” la tensione nella voce della Tigre era palpabile e Bianca capì di dover scegliere accuratamente le parole, anche se non era facile.

“Dice che vuole restare a combattere con voi.” buttò lì la Riario, stringendosi una mano nell'altra, temendo di aver appena messo il fratello in un guaio.

“Lo temevo.” sussurrò invece la donna, spazientita: “Ma cambierà idea. Farà anche lui quello che dico io. Come tutti.”

Seguì un lungo momento di stallo, durante il quale l'unico rumore che riecheggiò ovattato nella chiesa fu il passo cadenzato di un prete e il bisbigliare devoto di un altro religioso.

“Al momento giusto – aggiunse la Contessa, sollevando un sopracciglio – anche vostro fratello Cesare dovrà raggiungervi a Firenze, perché a Pisa non so quanto sarà al sicuro, una volta che mi avranno uccisa.”

“Ma è Amministratore Apostolico dell'Arcidiocesi di Pisa... Presto sarà a tutti gli effetti un Arcivescovo consacrato...” fece Bianca, che, intimamente, non solo non voleva accettare l'idea che sua madre sarebbe stata uccisa dagli invasori, ma non voleva neanche immaginare Cesare a Firenze, perché di lui e delle sue idee radicali aveva ormai paura e basta.

“È comunque mio figlio.” le fece presente la Sforza, fraintendendo il tono titubante della figlia.

“Sì, ma è un uomo di Chiesa...” tentò in extremis la Riario.

“È anche lui in pericolo.” si ostinò la Tigre, alzando progressivamente il tono: “E finché respiro, io sono sua madre e i miei ordini hanno la precedenza su quelli della Chiesa, del papa e di Dio stesso!”

Caterina ebbe la sensazione di essere osservata e infatti, quando si guardò alle spalle, vide due preti che la osservavano in silenzio, stando sulla soglia della cappella. La sua voce alta doveva essersi sentita un po' ovunque, dato il silenzio imperante di San Girolamo.

Per evitare tanto domande quanto eventuali reprimende, la donna dedicò un'occhiataccia ai due religiosi, che parvero decidere all'istante che non fosse il caso di impicciarsi in quelli che parevano meri problemi di famiglia.

“Hai ancora la pozione che ti ho dato?” chiese la Sforza, tornando a usare un tono dimesso, le iridi verdi di nuovo puntate alla tomba del suo Giacomo.

Bianca annuì, in automatico, ma poi ci ragionò sopra. Ne aveva usata poca, non sempre con cadenza regolare, non sentendosi troppo a rischio di gravidanze indesiderate, ma in effetti si era già ripromessa di assumerla con maggior frequenza, dato che ormai la data della partenza sembrava alle porte.

“Non ho più in casa tutti gli ingredienti necessari e comprarli, in questo frangente, sarebbe troppo difficile. A me non ne resta molta – continuò la Contessa, trattando la questione con un pragmatismo che riuscì a non far imbarazzare la figlia – ma potrò dartene un po', prima della tua partenza, tanto a me non servirà ancora per molto.”

La ragazza annuì, senza commentare, non volendo davvero chiedersi come mai sua madre pensasse di non averne più bisogno tanto presto.

“Te ne farò un concentrato, così potrai portare con te una bottiglia piccola. Spero che l'efficacia resti invariata, ma non ci sono molte alternative, non credi?” continuò la Leonessa, quasi tra sé: “Io cercherò di farti viaggiare sicura, ma non si sa cosa potrebbe capitare lungo la via... Basta incontrare un gruppo di fuoriusciti e...”

La voce della Sforza si spense, mentre Bianca sentiva il sangue pulsarle nelle vene in modo spiacevole. Aveva paura, molta, e più pensava ai rischi a cui si sarebbe sottoposta, più si sentiva piccola e indifesa, così estranea alle cose del mondo da non essere pronta a fronteggiare nulla.

“Quando sarai in convento, a Firenze, con Giovannino, invece, non ne avrai più bisogno.” fece la Tigre, con un mezzo sospiro: “O almeno...”

Aveva avvertito l'irrigidirsi della figlia, accanto a lei. Non era certa di aver letto bene quella reazione, ma conosceva abbastanza Bianca da immaginarla insofferente davanti a una vita monastica. Non aveva idea di cosa la ragazza che le stava vicino si sarebbe lasciata alle spalle, partendo da Forlì, non l'aveva mai voluta controllare, né le aveva impedito di fare quello che voleva. All'improvviso l'idea che il giovane soldato con cui a volte, di recente, l'aveva intravista, fosse qualcosa di più serio di quanto credesse si fece strada nella sua mente.

Se era così, a maggior ragione, per la Riario l'idea di chiudersi in mezzo a delle capinere e restarci magari per anni, non poteva essere una prospettiva accettabile.

“Ecco, se non altro, diciamo che in convento potrebbe non servirti necessariamente.” corresse il tiro Caterina, apparendo più a disagio del solito nell'affrontare certi argomenti: “Uomini ne entrano anche in convento, checché le suore ne dicano. Anzi, le Murate pullula di monache di nobile origine, quelle difficilmente rinunciano a vivere, anche se vengono messe in clausura. In tal caso, la Madre Superiora ti farà avere gli ingredienti che vuoi, tanto la ricetta te l'ho già lasciata, e poi starà a te...”

Bianca fece un respiro profondo e poi, abbastanza desiderosa di chiudere il discorso, disse solo, con un filo di voce: “Grazie.”

“Ora devo andare. Ho ancora molte cose da fare.” tagliò corto la Leonessa, dato che ciò di cui avrebbe voluto parlare in quel momento era il passato, ancora la morte di Giacomo e quello che ne era seguito, e non le sembrava il caso di rovinare quel momento di vicinanza che era riuscita in qualche modo a creare con Bianca tornando ad accusarla silenziosamente di averle rovinato la vita.

“Solo una cosa...” la frenò la Riario: “Da casa Numai... Avete deciso come ce ne andremo?”

“Di quello si occuperà Luffo.” rispose prontamente la donna, felice che sua figlia fosse rimasta su un piano tanto pratico: “Ma penso che sarà meglio che Bernardino stia con Galeazzo, perché è l'unico che ascolta.”

“Mentre io partirei con Sforzino e Giovannino.” riassunse Bianca, apparendo giustamente preoccupata.

“Cercherò di fare il possibile per farvi partire nel momento migliore.” provò a tranquillizzarla Caterina, che, sentendo battere le campane, ribadì: “Si sta facendo tardi, ho tante cosa da fare...”

“Io resto ancora un po' qui a pregare.” fece la Riario, più per dare un vantaggio a sua madre e non dover fare la strada verso Ravaldino assieme: “Più tardi, però, se avrete bisogno di me, mi troverete alla rocca.”

Caterina fece un cenno con il capo e poi, dopo aver sfiorato ancora una volta la lapide del suo secondo marito, salutò silenziosamente Bianca e se ne andò.

 

Giannotto, salito sui camminamenti delle mure di Imola per seguire meglio gli spostamenti degli uomini di Tiberti, osservava stupefatto proprio il cesenate avvicinarsi alla porta scortato da appena un paio di soldati.

La tentazione di sollevare una mano e dare ordine ai suoi arcieri di ucciderlo era alta, ma, da buon condottiero, il francese voleva prima vederci chiaro. Anche se reputava il Cagnaccio solo un contadino che aveva imparato a incanalare la rabbia nell'uso delle armi, gli suonava strano pensare che avesse ceduto Porta Spuviglia senza combattere solo per paura. Voleva capire che cosa, di preciso, aveva da dire Tiberti di così convincente da far desistere un uomo come Sassatelli dal mulinare la spada.

“Aprite la porta, fatemi entrare e parliamo!” gridò Achille, riconoscendo senza problemi il brutto viso di Giannotto.

L'aveva incrociato ben poche volte, in vita sua, eppure l'avrebbe riconosciuto ovunque. Sapeva che i suoi soldati erano molto validi, ma anche molto avidi, e immaginava che sarebbe bastato toccare le corde giuste, per farlo arrendere.

Non aveva capito, in realtà, cosa avesse portato quell'uomo a unirsi alla Sforza proprio in quel momento, ma, parlandoci a viso aperto, forse avrebbe ottenuto qualche indizio in più.

“Non posso farvi entrare.” rispose Giannotto, guardando verso il basso: “La porta è murata. Come mai non mi siete arrivato alle spalle, usando quella che dicono abbiate già preso?”

“Perché tra uomini intelligenti è sempre meglio trovare un accordo, a parer mio.” ribatté pronto Tiberti.

“E che tipo di accordo potrebbe esserci, tra voi e me?” chiese il francese, interessato.

“A poca distanza da noi aspettano quasi quindicimila uomini, pronti ad attaccare – rispose Achille, guardando nervosamente i soldati accalcati sulle merlature, rammaricandosi di non poter entrare in città e discutere a voce bassa con Giannotto – questi cinquecento che sono con me non sono nulla, al confronto.”

“E quindi?” lo incalzò il nemico, quasi ridendo all'idea che il cesenate potesse davvero pensare di spaventarlo così.

“E quindi...” Tiberti ragionò in fretta e decise di difendersi attaccando: “E quindi voglio sapere perché un uomo come voi abbia sposato la causa di una donna che si trova contro il mondo e che non uscirà viva da questa guerra.”

L'altro, preso alla sprovvista, venne punto laddove si trovava più scoperto. Mantenere la calma non era mai stato il suo forte e, anche se si riteneva un ottimo stratega in guerra, era sempre stato un pessimo dissimulatore in diplomazia.

“Perché dopo Pisa mi hanno trattato tutti come un buono a nulla!” sbottò: “Non voglio essere ricordato come un perdente! Voglio morire combattendo! Questa guerra non verrà mai dimenticata e la Tigre di Forlì nemmeno! Io sarò un nome che verrà per sempre ricordato accanto al suo!”

“Ben magra consolazione...” fece Tiberti, fingendosi deluso: “Ma se è quello che volete, felice di accontentarvi. Anche se...”

“Anche se?” Giannotto si era così sporto dalle mura che se qualcuno l'avesse anche solo sfiorato per sbaglio, forse sarebbe caduto giù, ma non gli importava, voleva essere sicuro di sentire tutto e di sentirlo bene.

“Anche se il fatto che la Tigre vi abbia mandato qui la dice lunga... So per esperienza che la Sforza non è molto... Socievole, per dirla così, con noi brutti.” sorrise Achille, grattandosi il mento, come a volersi fingere imbarazzato per l'argomento trattato: “Vi ha mandato via dalla sua vista appena ha potuto... Sicuro di voler combattere e morire per una donna del genere?”

“E dall'altra parte che avrei?” chiese Giannotto, mentre avvertiva, distintamente, la fiducia dei suoi soldati farsi meno.

In fondo anche gli imolesi, dopo la caduta di Porta Spuviglia, sembravano decisi ad arrendersi di buon grado e passare dalla parte dei francesi. Come avrebbe potuto combattere, con un'intera città pronta a dargli contro?

“Noi siamo l'avanguardia dell'esercito pontificio – spiegò Tiberti, sapendo che era quello, il momento di fare la sua proposta definitiva – e a pagarci è Luigi di Francia. Uno stipendio sicuro, pagato da un re che è appena tornato a casa sua, lasciando tutto nelle mani dei suoi comandanti. Voi avete la possibilità di essere ancora grande, ma come conquistatore della Romagna, non come suo difensore.”

Giannotto rimase in silenzio per almeno dieci minuti, e Achille non gli mise fretta. L'aria era immobile, tanto che, quando cominciò a piovere, il ticchettare delle gocce sulle armature dei soldati sembrava quasi il rollare dei tamburi da guerra.

“Smuriamo la porta.” ordinò, quasi borbottando, Giannotto, rivolgendosi al suo secondo, che gli stava alle spalle: “Passiamo al campo pontificio.”

Quando l'ufficiale del mercenario ripeté l'ordine in tedesco e in guascone, a beneficio delle sue truppe, Tiberti si sentì sollevato e gridò ai suoi: “Spostiamoci! Devono smurare la porta!”

'E adesso – si disse, mentre l'acqua cominciava a infilarglisi sotto la corazza, dandogli la spiacevole sensazione di essere a mollo – andiamo a chiedere le chiavi della città a quel pavone di Dionigi Naldi.'.

 

Caterina era seduta su una delle panche di pietra in uno dei corridoi della rocca assieme a Michele Marulli. Avevano discusso per un po' del piano di fuga dei di lei figli e, poi, avevano cominciato a parlare dell'organizzazione delle truppe a Ravaldino.

Come deciso, i soldati del Quartiere Militare si stavano spostando in buona parte alla cittadella e, entro il giorno seguente, una parte consistente di loro sarebbe giunto a Ravaldino.

La Sforza aveva deciso assieme al castellano come sistemarli all'interno della rocca, ma era stato chiaro a entrambi che non sarebbe stato molto facile, far convivere così tanti uomini in uno spazio ristretto. La Contessa si era detta preoccupata specialmente per la sicurezza delle donne che lavoravano per lei, e aveva decretato che i soldati con famiglia portassero a Ravaldino le mogli, mentre per gli scapoli avrebbe fatto in modo di trovare qualche soluzione. La prima idea era stata quella di prendere a servizio qualche donna dai bordelli della città, facendo leva sul fatto che i francesi, una volta arrivati a Forlì, avrebbero compiuto su di loro qualunque tipo di atrocità, ma temeva comunque che non sarebbe stato facile trovare delle volontarie.

Per il momento, finché la città non era sotto assedio, poteva concedere delle libere uscite ai soldati, ma dopo, per evitare che la situazione diventasse esplosiva, avrebbe dovuto inventarsi qualcosa.

“Li avete addestrati bene, sono soldati disciplinati – aveva fatto notare, per incoraggiarla, Bernardino da Cremona – non combineranno disastri...”

“Uomini che si sentono votati alla morte fanno fatica a tenere a freno i propri istinti. O gli si trova una valvola di sfogo, o si rischia di trasformare Ravaldino in una trappola per tutte le donne che ci vorranno restare.” aveva tagliato corto Caterina.

“Quindi il piccolo e Madonna Bianca non starebbero a casa di mia moglie, giusto?” chiese Marulli, distogliendo la Sforza dai suoi pensieri.

“No, no, loro andranno in convento, è molto più sicuro. Giovannino, a Firenze, non dovrà guardarsi solo dal papa, ma anche da suo zio.” ricordò la donna, lo sguardo basso e le mani strette l'una nell'altra.

Michele, vedendola così affranta, cercò di fare quello che poteva per sollevarle un po' lo spirito. Le posò una mano sulle sue e fece un sospiro profondo.

“Stanno componendo opere su di voi i poeti di tutta Italia. Lodano il vostro coraggio e la vostra determinazione. Vorrebbero essere tutti qui con voi.” le assicurò.

“Vorrebbero, ma non ci sono.” ribatté aspra la Contessa.

“Ma questi loro poemetti vi stanno dando forza, ve l'assicuro. Presto anche i francesi avranno paura di voi. Una poesia può far più danni di una spada.” insistette Marulli.

Caterina scostò con un gesto secco le mani, sottraendole a quella del bizantino, e controbatté, con ancor più durezza: “Preferirei comunque le spade, alle poesie, adesso come adesso.”

“Lo so, però...” Marulli si interruppe a metà frase, vedendo Giovanni da Casale avanzare deciso verso di loro.

Caterina si voltò, seguendo lo sguardo di Michele e quando vide Pirovano, gli chiese: “Che ci fai qui? Dovresti essere alla cittadella, come ti avevo ordinato. Devi occuparti della sistemazione dei soldati e...”

“Imola è sotto attacco.” rivelò l'uomo, con aria grave, fissandola coi suoi occhi scuri come se si aspettasse da lei una reazione ben diversa dall'impassibilità che gli stava dimostrando: “Pare che almeno due delle porte siano cadute.”

“E Giannotto?” chiese la Leonessa, senza scomporsi.

Il suo amante lanciò uno sguardo di striscio al bizantino, con un velo di sospetto.

“Per Dio, parla!” inveì a quel punto la donna, perdendo la pazienza, mentre finalmente l'entità della notizia che aveva ricevuto la colpiva in pieno: “Lo sai che lui è dei nostri! Parla!”

“Forse ci ha traditi. Ma su Giannotto non ci sono notizie certe...” rispose Giovanni, prima di farsi gridare di nuovo addosso: “Quello che sappiamo ci è arrivato perché un ragazzo è scappato dalla città per venire ad avvisarti. Non ci sono notizie ufficiali.”

“Dobbiamo reclutare il maggior numero di soldati possibili tra i civili.” disse piano la Tigre, guardando Marulli: “Mandate un connestabile in piazza, che apra le liste di coscrizione. Chiunque riesca a tenere in mano una spada venga arruolato.”

Michele, che pure trovava quella decisione improvvisa non abbastanza ragionata e, probabilmente, nemmeno molto utile, arrivati a quel punto, annuì e, dopo un cenno di saluto anche a Pirovano, se ne andò, capendo che la donna voleva restare da sola con il milanese.

“Che intendi fare adesso?” chiese Giovanni, mentre Caterina si alzava dalla panchetta.

“Ammassare i soldati che mi restano qui.” rispose la Contessa, seria: “Imola si sta arrendendo, e anche se Naldi resisterà fino all'ultimo, a questo punto non vale la pena mandargli altri aiuti.”

“Allora lo lascerai morire così?” chiese Piorivano, accigliandosi.

“Sapeva a cosa andava incontro.” rispose secca la Sforza.

“E noi? Tu...” riprese lui, dopo qualche secondo: “Tu vuoi tutti alla cittadella e alla rocca, ma a questo punto i nemici potrebbero arrivare anche da ovest e arrivare così alle spalle di Ravaldino. In fondo, Firenze ormai non solo non ci è più amica, ma ci è apertamente ostile, da quando sei andata a gridare in faccia a...”

“Tu non sai nemmeno cosa ho fatto o non ho fatto a Firenze!” sbottò la Tigre, perdendo la calma, sentendosi così in trappola da aver solo voglia di urlare e dimenarsi come una belva in gabbia: “E se credi davvero che la Signoria darà dei soldati a Lorenzo per marciare contro di me, allora sei più ingenuo del previsto! È vero, abbiamo perso un possibile alleato, ma almeno possiamo star certi che non arriveranno fiorentini ad attaccarci!”

“Però, se tu in tutti questi anni avessi evitato di farti terra bruciata attorno...” era evidente che Giovanni non volesse lasciar cadere il discorso.

La Leonessa non capiva il perché di tanta ostilità da parte sua. I suoi occhi scuri la sfuggivano e, anche se non accennava ad andarsene, era come se non volesse avere nulla a che fare con lei e, soprattutto, con il suo modo di gestire quella situazione.

“Avanti...” continuò l'uomo, scuotendo il capo: “Non ti sei salvata nemmeno un alleato, men che meno da quando non hai più i soldi del Medici a coprirti le terga.”

“Non ho intenzione di continuare questo discorso.” tagliò corto Caterina: “Se le cose non ti stanno bene, sei ancora in tempo per andartene.”

“Ma smettile di dire queste cose...” fece lui, spostandosi un po', per cercare di non farla sgusciare via.

La Contessa, infatti, per sottrarsi a quello scontro, di cui non sentiva alcuna necessità, aveva cercato di passargli accanto per levarsi di torno. Vedendosi, però, la strada bloccata, si decise ad affrontarlo.

“E a chi avrei dovuto allearmi, secondo te? A Venezia, vendendomi al Doge? A Milano, che non esiste più? A Napoli, che non ha nemmeno due lance per andare a salvare mia cognata Isabella? Ho provato con Firenze, perché volevo credere con tutta me stessa che avere la cittadinanza fiorentina potesse servirmi a qualcosa, ma è vero, ho fallito.” man mano che elencava tutte le possibilità che aveva visto sfumare, la Sforza sentiva la propria voce farsi più incerta: “Cosa restava? Le città della Romagna. Ho scritto a tutti, a tutti e non mi hanno nemmeno risposto. Bologna? Anche se mia nipote ha sposato uno dei suoi figli, so che Giovanni Bentivoglio si mangerebbe una mano, piuttosto che mettere a rischio le sue terre mettendosi contro il re di Francia. Ferrara? Ora come ora credo che Tramontana sia addirittura felice che sua figlia Beatrice sia morta da tempo, così almeno ha avuto una scusa credibile per lasciare noi Sforza al nostro destino. Chi altri restava?”

“Mantova.” buttò lì Pirovano, più perché nell'elenco mentale che si stava facendo, quella era l'unica forza rimasta fuori.

“Ho ben provato a tirare Francesco Gonzaga dalla mia...” borbottò la donna, scuotendo il capo, con rabbia: “Ho solo perso due dei cavalli migliori che avevo.”

“Volevi convincerlo a schierarsi dalla tua con due cavalli e basta?” Pirovano non avrebbe voluto suonare così ironico, ma di fatto l'impressione che diede alla sua amante fu quella di aver trovato le sue parole ridicole.

“Potevo farcela, se non mi avesse risposto sua moglie.” ribatté la Tigre, secca: “Si è tenuta i cavalli e ha fatto finta di non capire che in cambio volevo qualcosa. Ha la scuola di suo padre, in fondo. Se solo avessi potuto discuterne direttamente con il Marchese...”

“Che avresti fatto? L'avresti sedotto e poi, mentre eravate ancora sotto le lenzuola, lo avresti implorato di darti il suo esercito?” il tono del milanese piaceva sempre meno alla Sforza, che però non riuscì a sottrarsi.

Quell'attacco la riportò indietro di anni, a quando una domanda molto simile era stata posta dal suo Giacomo con la stessa punta di veleno che aveva inacidito ora la voce di Pirovano. All'epoca l'oggetto del contendere era un Aragona, ma la sostanza cambiava poco.

Appena ripresasi da quel momento di buio, la Contessa stava per ribattere, con fermezza, ma anche con una certa indulgenza, volendo imputare tutta quell'aggressività solo alla tensione del momento e a una gelosia mal incanalata, ma ciò che uscì dalla labbra del suo amante le fece cambiare idea.

“Sei brava – gli sussurrò Giovanni – ma non abbastanza da credere che un uomo ti darebbe in mano il suo esercito dopo una sola notte.”

“Levati di torno.” ringhiò allora la Tigre, dandogli uno spintone: “Ho da fare e adesso non ho più voglia di vederti.”

“Mi stai cacciando?” chiese l'uomo, voltandosi per guardarla mentre lei se ne andava.

“No. Tornatene alla cittadella, però. Per oggi non voglio più saperne di te. Ho già abbastanza problemi, non mi serve un altro amante geloso.” lo liquidò Caterina e poi, imboccando in fretta le scale, si ricordò del figlio di Giuntino che aspettava nelle segrete, e si disse che era giunto il momento di vedere cosa avesse da dire.

 
 
   
 
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