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Autore: Adeia Di Elferas    17/12/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“E che cosa stanno facendo gli imolesi?” Dionigi Naldi si era infuriato, aveva sbraitato, aveva tirato pugni al muro, ma alla fine aveva dovuto calmarsi e cominciare a organizzare la difesa.

Mai, in vita sua, avrebbe creduto di vedere due tradimenti simili perpetrati a così breve distanza l'uno dall'altro. Da uno come Giannotto, francese prezzolato, se lo sarebbe potuto anche aspettare.

Era il Cagnaccio ad averlo lasciato basito. Lo conosceva come un uomo rude e crudele, a volte perfino meschino, ma con l'unico pregio di servire una bandiera e una sola fino alla morte. Che cosa gli fosse successo, su quei camminamenti di cinta che l'avesse fatto cambiare così tanto e così in fretta, Dionigi proprio non riusciva a capirlo.

“Sembra che si stiano radunando per votare.” spiegò Gian Piero Landriani che, pur non avendo più ruoli nell'amministrazione cittadina, quando aveva capito cosa stava accadendo era subito corso alla rocca a riferire: “Tiberti ha fatto capire loro che non farà nulla, per il momento, ma che il tempo stringe. Dice che finché c'è solo lui, darà il tempo a Imola per decidere se arrendersi e vivere o combattere e morire, ma che presto, molto presto, arriverà il figlio del papa e a quel punto, se la città non avrà preso una decisione, il Borja ucciderà tutti e basta.”

“Se la mette giù così – soppesò Naldi massaggiandosi la fronte, affranto – mi pare ovvio quale fazione vincerà.”

“Anche a me.” concordò il Landriani, stringendo le labbra.

La sua mente, da quella mattina, non faceva che correre a suo figlio Piero. Avrebbe dovuto, forse, correre da lui a Forlimpopoli. Non sarebbe riuscito a convincerlo a lasciare il suo posto, quello lo sapeva, ma almeno avrebbero potuto morire fianco a fianco. Poi, però, appena l'idea di seguire quell'istinto sembrava prevalere, Gian Piero riportava alla sua mente l'ultima immagine che aveva di suo figlio.

Si era fatto un uomo fiero e capace, sicuro di sé e leale. Sarebbe stato sicuramente più felice e orgoglioso nel sapere che suo padre si rendeva utile alla causa facendo qualcosa, piuttosto che creargli solo un intralcio raggiungendolo a Forlimpopoli.

Dionigi, intanto, stava pensando a quanto era stato inutile mettere in cella il figlio del suo parente, Carnevale Naldi, proprio in quel frangente così confuso. E ormai, liberarlo sarebbe stato solo un regalo ai nemici, che l'avrebbero usato come simbolo.

“Aspettiamo di sapere cosa decide la popolazione.” concluse Dionigi, cominciano a battere ritmicamente la punta delle dita sull'elmo che teneva sotto al braccio: “Appena avremo conferma della vittoria della fazione che vuole la resa, punteremo i cannoni verso i punti sensibili della città e verso l'accampamento di Tiberti.”

“Quindi verso i magazzini di foraggio?” chiese Gian Piero, pensando che, in effetti, aveva sentito dire che Tiberti stesse spostando proprio nel borgo le sue truppe.

“Tanto per cominciare.” annuì Naldi: “E poi vedremo un po' che altro ci converrà fare.”

 

“Dunque sei davvero convinto che tuo suocero ti verrà a salvare?” chiese Caterina, guardando il figlio del famoso banchiere Giuntino ripararsi il viso con le mani.

Aveva chiesto agli aguzzini di lasciare il prigioniero libero. Non voleva trovarsi davanti di nuovo un giovane uomo legato e immobilizzato, come era accaduto con Ludovico Marcobelli.

Il genero di Tiberti, che era in cella da molto poco, aveva addosso solo i segni della cattura, che a quanto pare era stata abbastanza rocambolesca, ma eccezion fatta per qualche livido e gli abiti strappati, lo si poteva definire in ottima salute.

La donna aveva chiesto a tutti quanti di lasciarli soli, premurandosi unicamente di tenere una guardia vicino alla porta, che intervenisse in caso di bisogno. Se le fosse servito aiuto, aveva detto la milanese, avrebbe dato personalmente ordine di intervenire. In caso contrario, non gli era permesso entrare, qualsiasi cosa avesse sentito.

“E tu avresti dovuto unirti al figlio del papa e combattere contro i miei soldati?” continuò la Sforza, inespressiva, mentre il ragazzo continuava a raggomitolarsi su se stesso, aspettando dei colpi che, in realtà, non stavano arrivando.

Siccome il prigioniero sembrava in grado solo di piagnucolare delle parole incomprensibili, la Contessa provò a cambiare approccio.

La cella in cui erano era la stessa in cui aveva interrogato – e a volte ucciso – più di un condannato.

Era stata illuminata a giorno, come richiesto espressamente da lei. Paradossalmente tutta quella luce pareva spaventare ancora di più il genero di Tiberti.

Caterina, per convincerlo a parlare, provò a restare in silenzio. Si allontanò un po', lasciò che lui abbassasse la guardia e poi, quando le parve più calmo, gli chiese che cosa intendessero fare, lui e gli altri – perché era certa che ci fossero anche 'altri' coinvolti – e quando.

Un po' rassicurato dall'atteggiamento apparentemente non aggressivo della Contessa, il figlio di Marco Antonio Giuntino deglutì e poi, poco per volta, seppur con immensa fatica, iniziò a spiegare i contatti che aveva preso con altri, e l'idea comune di unirsi al Borja, per tramite di suo suocero Achille Tiberti.

“E perché prendevate le tessere del cibo come foste miei soldati?” chiese la donna, dopo averlo ascoltato con pazienza.

L'uomo sollevò lo sguardo e, per la prima volta da che le si era trovato faccia a faccia, nei suoi occhi lampeggiò una fiammata di irriverenza.

Siccome il prigioniero sembrava deciso a non rispondere, la Sforza ripeté la domanda, con più decisione, ma quando vide le labbra di lui sollevarsi in una specie di sorrisetto arrogante, non si controllò più.

Non era armata – non aveva voluto esserlo proprio per non trascendere più del dovuto – ma sapeva come far male. Gli schiacciò con forza un piede e poi, mentre il genero di Tiberti si ripiegava un po' su se stesso, gli sferrò un forte pugno nel centro dell'addome, facendogli mancare il fiato.

“Ti ho chiesto perché lo facevate e tu mi devi rispondere.” ribadì.

Il figlio di Giuntino si teneva la pancia, aveva la bocca spalancata, in cerca di aria, e dagli occhi erano scivolate giù due lacrime di dolore. Eppure, anche quando riuscì a respirare più normalmente, tacque.

“Questo è l'ultimo avvertimento.” l'avvisò la donna, afferrandolo per il collo: “Perché vi mettavate in fila come foste miei soldati?”

“Perché era comodo. E divertente.” rispose infine lui, con un soffio: “Il vostro amante si era arricchito alle vostre spalle per anni e anche noi volevamo provare a vedere come si stava, a vivere da mantenuti...”

Non ci voleva molto a capire che l'amante di cui parlava l'uomo non era Giovanni da Casale, né Ottaviano Manfredi, né nessun altro se non Giacomo Feo.

“Siete stati molto stupidi.” fece la Tigre, lasciandolo di colpo, facendolo cadere in terra: “Tutto qui.”

Il genero di Tiberti sapeva che nessuno usciva vivo da quelle carceri e la frustrazione che stava provando nel vedere la sua provocazione cadere nel nulla era così forte che si abbandonò a un mezzo grido di rabbia. Mentre la Sforza si voltava verso di lui, istintivamente attirata da quel suono primordiale, al giovane passò per la mente un'idea improvvisa, ma a suo avviso geniale.

Aveva l'occasione per diventare un eroe. Era da solo in una stanza chiusa assieme alla donna che la sua fazione voleva a tutti i costi morta. E lei era disarmata.

Senza pensarci, si alzò da terra raccogliendo tutte le sue forze e le si avventò contro. Sorpresa e spaventata da quell'attacco improvviso, nel sentirsi tirare per i capelli la Leonessa non riuscì per qualche istante a capire che stesse succedendo.

Non appena, però, riuscì a ritornare presente a se stessa, non ebbe grandi difficoltà a riprendere in mano la situazione. Assestò una gomitata sul naso del suo aggressore, inducendolo a mollare la presa sulla sua chioma, e poi iniziò a colpirlo rapidamente, un pugno dopo l'altro, facendolo rovinare in terra, il volto trasformato in una maschera di sangue.

Mentre il giovane sputava un dente in terra, Caterina sentì come la propria coscienza spegnersi. Un calcio seguiva l'altro senza sosta, incurante dei lamenti sempre più confusi del prigioniero.

Fu solo un guizzo di lucidità quello che la portò a fermarsi, di colpo, mentre il figlio di Marco Antonio Giuntino ancora respirava. Guardandosi le mani e trovandole rosse e fradice, così come gli stivali che portava ai piedi, la donna si ritrasse. Non voleva ucciderlo. Aveva giurato a se stessa che la prossima volta in cui avesse ammazzato un uomo sarebbe stato in battaglia, con onore, per difendere il suo Stato e non per assecondare un eccesso di rabbia.

In quel caso specifico, lui l'aveva attaccata, ma era il caso di fermarsi. Si era difesa, non voleva infierire.

Uscì dalla cella, chiudendosi la porta alle spalle, e sussurrò alla guardia che aspettava lì fuori: “Ora lo puoi portare di nuovo nella segreta in cui era prima. Non esca per nessun motivo.”

Il soldato chinò appena il capo, fingendo di non vedere il volto sporco e gli abiti da uomo schizzati di sangue della sua signora.

Caterina raggiunse le scale, appoggiandosi di quando in quando alla parete, evitando di guardare le macchie che lasciava sulla pietra con la mano. Mentre risaliva in superficie, la colse un senso di nausea così forte che la fece vomitare. Non sputò altro che un po' di acido, ma quella sensazione, un tempo a lei così familiare, fece più male di tutto il resto.

Era scesa la sera e, tornata in superficie, vedere le torce accese e il buio entrare dalle finestre diede un tal senso di irrealtà alla Sforza da farle quasi provare una vertigine. Cercando di scegliere il percorso più tranquillo, la donna andò verso le sue stanze, sperando di non incontrare nessuno. Si imbatté solo in Argentina, e la ritenne una fortuna. Mentre la serva, esattamente come aveva fatto poco prima la guardia, fingeva di non vedere sulla sua signora i segni di quello che aveva appena compiuto, la Tigre le chiese di portarle in camera un po' di acqua calda per lavarsi le mani e il viso e di prepararsi a lavarle gli abiti il prima possibile.

Congedata Argentina, Caterina andò in stanza. Lentamente si spogliò, infilandosi una vestaglia da camera, e si mise in attesa. Chiudendo gli occhi, si rammaricò di non aver chiesto subito anche del vino.

Si chiedeva se ci fossero notizie più certe da Imola, ma era probabile che ci fosse una tale confusione anche in loco che per avere un quadro chiaro fosse necessario attendere come minimo il nuovo giorno.

Si era aspettata di perdere presto Imola, anche se non avrebbe mai creduto di vederla cedere dopo nemmeno mezza giornata. Confidava nella rocca retta da Naldi. A quanto pareva, per il momento il figlio del papa non era ancora arrivato e questo le dava un esile margine di speranza. Ciò non toglieva che ormai anche Forlì doveva ritenersi prossima a un attacco e lei, più ci pensava, meno si sentiva pronta.

Aveva cercato di fare tutto come meglio poteva, organizzando le risorse e l'esercito, preparando una via di fuga per i suoi figli e circondandosi di uomini che credeva fidati. Aveva ritrovato i suoi fratelli, che si erano dichiarati fedeli a lei, e poteva contare senza dubbio su Piero, che avrebbe tenuto la rocca di Forlimpopoli fino alla morte.

Eppure le sembrava di avere ancora una marea di cose da fare. Per quella sera, però, non poteva fare più nulla.

Quando Argentina entrò in stanza con un telo da bagno, una bacinella e una brocca di acqua calda, Caterina la ringraziò e le indicò gli abiti da lavare, chiedendole anche, per favore, di portarle del vino caldo e speziato.

“Che sia forte.” le raccomandò: “In tutti i sensi.”

La serva stava per andare a recuperare quell'ultima comanda della sua padrona, quando la Contessa la fermò un momento. In fondo, stava pensando, siccome era necessario sfruttare tutto il poco tempo che aveva a disposizione, c'era un'altra cosa che poteva fare ancora, quella sera.

Con le mani ancora insanguinate, prese un foglio e scrisse in fretta un messaggio che da tempo non si trovava a vergare. Lo piegò e spiegò ad Argentina a chi andasse consegnato.

Siccome Argentina la stava fissando attonita, chiaramente tentata di rifiutarsi di svolgere quello che le sembrava un compito se non proprio umiliante, quanto meno inadatto a una donna, la Tigre le fece presente: “Puoi mandare uno dei ragazzi di servizio, non mi interessa. Basta che arrivi in fretta a destinazione.”

La serva fece un cenno di assenso e poi lasciò la camera, lasciando la Contessa a ripulirsi con cura il viso e le mani.

Cercando di togliersi il sangue anche da sotto le unghie, dove ancora non si era seccato, la Sforza cominciò a pensare a come avrebbe affrontato l'incontro – l'ultimo – con il ragazzo biondo che lavorava al bordello. Aveva intenzione di parlargli e basta. Voleva dargli una possibilità di avere una vita migliore. Avrebbe voluto farlo con tutti quelli che avevano avuto la sua sorte, ma non era un progetto realistico. Le bastava provare con lui.

E poi, si ripropose, mentre con lentezza prendeva un pezzo di sapone e iniziava a sciacquarsi anche il volto, avrebbe provato a chiedere a lui se conoscesse qualche ragazza disposta a raggiungere la rocca per dare uno sfogo ai soldati. Era una richiesta che lei stessa riteneva squallida, ma aveva imparato dagli antichi romani che quel genere di igiene sociale, come loro stessi la chiamavano, in guerra era indispensabile per evitare ammutinamenti e rivolte.

Comandare, l'aveva imparato a sue spese, spesso significava anche accettare compromessi che, normalmente, si sarebbero evitati volentieri.

 

Raffaele si calò un po' di più il cappuccio sul volto. Avrebbe voluto poter partire immediatamente, senza dover aspettare l'uomo del Cardinale Orsini. Ma come avrebbe potuto? Non conosceva la strada e arrivare vivo a Monte Rotondo senza una guardia del corpo sarebbe stato impossibile.

Così si strinse un po' di più nel suo abito da monaco penitente e ringraziò quella notte senza luna e benedetta da una pioggerella così fitta da sembrare nebbia. Con quel tempo, sarebbe stato più difficile sia vederlo sia, ancor di più, riconoscerlo.

Mentre aspettava nel vicolo che gli era stato indicato, cercava di tenere calmo il cavallo che aveva scelto per il viaggio. Lui non era mai stato bravo a cavalcare, ma con quell'animale, pacifico e resistente, si sarebbe trovato bene, ne era certo.

Si stava lasciando alle spalle il suo sontuoso palazzo, la sua collezione d'arte e i lavori di restauro non ultimati... Ma che altro poteva fare? Se fosse morto, avrebbe perso tutto comunque, quindi tanto valeva rischiare.

Non si era mai sentito tanto ardito come quella notte e quella sensazione lo faceva sentire più vivo che mai.

Forse avrebbe potuto restare a Roma, ma non poteva rischiare. Era legato mani e piedi a sua cugina, che lei lo volesse o meno, e non si sarebbe stupito se il papa avesse trovato un modo per incolparlo di qualcosa e metterlo ai ceppi. Senza un reale motivo, solo per destabilizzare la Tigre di Forlì e farla vacillare.

Raffaele immaginava che Caterina non avrebbe mosso un muscolo, nel saperlo in pericolo, perché lo sapeva responsabile in parte della morte del Barone Feo. Però quel dettaglio sembrava sfuggire al Borja, quindi il pericolo era tangibile.

Scrutando l'angolo della strada in trepidante attesa, il Cardinale ripensò all'incontro che aveva avuto quel giorno con Giulio Orsini. L'uomo era stato molto comprensivo e gli era parso sincero, specie quando avevano parlato di compensi. Aveva preso i soldi senza batter ciglio e in cambio, con una fermezza degna di un uomo d'armi, più che di un porporato, gli aveva assicurato un asilo sicuro e protettissimo presso i suoi parenti a Monte Rotondo.

“Ricordo molto bene come vostro zio, papa Sisto IV, mi abbia fatto Cardinale – gli aveva detto – e ancor di più non posso scordare di vostra cugina, madonna Sforza, e del suo impegno nella guerra contro i Colonna.”

Quelle parole e la mancanza totale di accenni a Girolamo Riario avevano fatto capire a Raffaele che il Cardinale parlava in modo genuino e non per mera convenienza.

L'attesa si stava facendo lunga, e il savonese si trovò a ripercorrere un altro punto dell'incontro di quel pomeriggio. Giulio gli aveva fatto sapere che il papa aveva mandato una lettera a Firenze in cui accusava apertamente Caterina di aver cercato di ucciderlo con dei vestiti avvelenati.

“Veneficium quod ipsa comitissa contra nos moliebatur – aveva ripetuto, andando a memoria, il Cardinale Orsini – et quemadmodum, Dei beneficio, detecto negotio, deprehensisque veneficis liberati sumus...”

Sansoni Riario era ancora intento a ricordare le parole riportate da Giulio, quando finalmente vide l'uomo che aspettava avvicinarsi a cavallo.

“Perdonate il ritardo – gli disse il soldato, il volto celato dalla cappa scura – ho dovuto fare una strada diversa da quel che pensavo. Il papa ha messo delle guardie in più attorno a Santa Maria in Portico...”

Raffaele fece un cenno di assenso, pensando che, in effetti, anche lui aveva visto più soldati in giro.

Aveva sentito dire che il figlio di Alessandro VI, Cesare, fosse rimasto a Roma tre giorni e fosse ripartito quella notte. Si chiese se per caso quel fatto avesse qualche collegamento con l'aumento dell'allerta in Vaticano.

“Andiamo.” fece l'uomo dell'Orsini: “Voglio essere fuori dal pericolo prima che venga l'alba.”

Con un movimento un po' goffo, il Cardinale Sansoni Riario diede di sperone al suo baio e affiancò il suo accompagnatore, a passo lento, esattamente come lui, per evitare di attirare l'attenzione di chicchessia. Finché fossero passati come due monaci in pellegrinaggio, nessuno, Dio piacendo, avrebbe fatto caso a loro.

 

Il ragazzo del postribolo era arrivato prima del previsto. Caterina stava ancora finendo di pulirsi, quando lo vide entrare nella sua stanza, senza che si fosse nemmeno annunciato.

Il giovane, vestito come sempre con abiti troppo vistosi per essere ritenuti eleganti, e di tessuti troppo grossolani per potersi dire pregiati, si fermò un momento sulla porta, gli occhietti chiari attirati dalle ombre rosse che ancora si potevano scorgere sul viso e sulle mani della Contessa.

La Tigre lo osservò di sottecchi, continuando a curarsi di sé e poi, quando finalmente fu certa di essersi tolta di dosso anche l'ultima traccia dell'interrogatorio da poco condotto, prese un calice di vino speziato e ne bevve qualche sorso: “Che hai?”

Il ragazzo deglutì, abbassando lo sguardo. Quando aveva ricevuto la convocazione alla rocca, si era sentito euforico. Aveva voglia di rivedere la Sforza, e, ancora di più in quel momento di confusione, sentiva il bisogno di concedersi una notte di piacere, come accadeva ogni volta in cui la cliente da soddisfare era la Leonessa, e non solo di lavoro.

Però, quando aveva intravisto il sangue, pur non sapendo che cosa potesse essere successo, la sua memoria lo aveva riportato alla volta in cui la Contessa lo aveva cercato dopo aver fatto a pezzi uno degli assassini di Ottaviano Manfredi.

Ricordava bene quell'incontro. L'aveva morso, graffiato, l'aveva spaventato, mostrandosi per l'animale selvatico che era. Non era sicuro di essere pronto a riaverla a quel modo.

“Non sei qui per quello che credi.” mise le mani avanti lei, lasciando la scrivania e avvicinandoglisi, il calice profumato in mano e il corpo avvolto solo da una vestaglia da camera così sottile da lasciare molto poco all'immaginazione.

“Perché sono qui, allora?” chiese lui, accigliandosi.

Caterina non poté evitare di accorgersi di quanto, negli anni, fosse cambiato. Non solo nei lineamenti, che si erano fatti molto più decisi e virili, ma anche nell'atteggiamento, meno remissivo e adolescenziale.

“Devo parlarti.” rispose, e, dopo una lunga sorsata, proseguì: “Tra poco arriveranno i francesi, e vinceranno loro.”

Il giovane si morse il labbro. Standogli accanto, la Contessa poteva sentire arrivare da lui una leggera fragranza di fiori, probabilmente dovuta agli olii con cui era stato cosparso anche le altre volte in cui era stato da lei. Però, il fatto che fosse arrivato tanto in fretta, le faceva immaginare che fosse già pronto per qualcun altro e che, arrivando il suo biglietto, avesse preferito correre da lei, piuttosto che da un cliente meno gradito.

“Scappa, finché puoi.” continuò, distogliendo a fatica lo sguardo dal suo viso regolare e ben sbarbato: “Non farti trovare, vattene più lontano che puoi.”

“E perché, mia signora?” chiese a quel punto lui.

“Davvero non lo capisci da solo?” ribatté lei, stringendo un po' le palpebre, ma non riuscendo ad allontanarsi da lui come avrebbe voluto.

Che accettasse o meno l'idea, avere quel ragazzo così vicino e a sua disposizione, la portava a ronzargli attorno come un ape con un fiore profumato. Si vergognava della sua debolezza, ma dopo quella giornata infernale, così lunga da sembrare interminabile, si trovava molto più vulnerabile del solito a una tentazione tanto facile da cogliere.

“Forlivesi, francesi... Che differenza volete che faccia per me? La vita che si fa in un bordello è la stessa, quale che sia la lingua che parlano i clienti che vi entrano.” si oppose lui, restando fermo al suo posto, perplesso dal discorso che la Tigre gli stava facendo.

“Che stupido che sei!” si alterò lei, appoggiando il calice alla scrivania con tanta forza da rovesciare un po' di vino: “Loro ti faranno di tutto, a te come agli altri, ti faranno pentire di essere nato, e poi vi ammazzeranno come cani!”

“Ma non credete che a loro converrebbe...” provò ad argomentare il giovane.

“Sei un illuso se credi che abbiano bisogno di tenersi i bordelli di questa città. Arriveranno in quindicimila e se il figlio del papa ha un minimo di senso pratico, il seguito del suo esercito darà di poco meno numeroso. Magari qualcuno di voi lo terranno anche, ma per le cose peggiori, e a quel punto scommetto che si preferisce la morte a continuare a subire...”

“Ho capito.” fece a quel punto il giovane: “Ma se me ne andassi adesso...”

“Questi sono per te.” lo anticipò Caterina, che, mentre lo aspettava, aveva racimolato qualche moneta d'oro e un paio dei suoi anelli meno costosi e li aveva messi in una scarsella: “Ti basteranno per vivere bene per qualche tempo e comprarti una nuova vita.”

Il ragazzo biondo prese quanto gli veniva dato e, dopo aver controllato il contenuto, scosse il capo con forza: “Non posso accettare.”

“Devi, invece. È un mio ordine.” tagliò corto lei, andando a sedersi sul letto, per mettere tra loro un po' di distanza: “E ti ordino anche di cercare qualche ragazza, dove lavori, che sia disposta a restare alla rocca, anche quando saremo sotto assedio, a fare il lavoro che già fa. Non posso promettere altro se non grandi riconoscimenti, se dovessimo, per assurdo, vincere la guerra. Non so in quante accetteranno, ma fai presente che qui sarebbero sotto la mia protezione. Pur facendo quello che devono, nessuno le importunerebbe, all'infuori dei momenti in cui verrà richiesta la loro opera.”

“Se loro possono restare, allora voglio restare anche io. Qui, per voi.” si propose lui, prontamente.

Caterina inclinò il capo. Era quasi tentata di accettare. L'idea di avere qualcuno come lui sempre pronto per i suoi bisogni l'allettava. Però non sarebbe stato giusto.

Così scosse il capo e, invece di dirgli la verità, ovvero che non lo voleva lì per non saperlo votato alla morte, disse, fredda: “Ho già Giovanni da Casale. Tu non mi servi.”

Il giovane, senza parole, guardò di nuovo la scarsella gonfia d'oro e poi, boccheggiando, invece di andare verso la porta, si avvicinò alla Contessa.

“E ora che vuoi?” chiese lei, ruvida.

“Mi avete detto che non sono qui per quello che penso, ma se è davvero l'ultima volta che ci vediamo...” provò a farsi intendere lui.

Caterina sollevò le iridi verdi verso quelle chiarissime del ragazzo. Lo osservò per un po', e poi, prima che potesse accettare o rifiutare quello che lui proponeva, si trovò le labbra di lui premute sulle sue.

Il giovane aveva lasciato sulla scrivania, accanto al vino, la scarsella e si era chinato verso di lei per baciarla. Portandola al punto di non riuscire più a resistere, la fece stendere pian piano sul letto, cominciando a sollevarle la vestaglia da camera.

La Tigre non si fece più domande, non provò a opporsi e assecondò un'onda a cui stava cercando di resistere fin da quando il giovane era arrivato nella sua camera. Sentendo tutte le tensioni di quel giorno sciogliersi e convogliarsi in una spinta vitale completamente diversa da quella rabbiosa e colma di paura che l'aveva guidata nelle segrete poco prima, la Contessa sfruttò quell'occasione fino all'ultimo.

Il ragazzo non provò mai a imporsi su di lei, lasciandole fare quello che voleva, come ogni volta, e fu felice di vedere come quella notte, a differenza di altre, la Leonessa di Romagna avesse deciso di non mostrare gli artigli, ma di dar forma alla sua forza in altro modo.

Alla fine, mentre si stringevano ancora l'uno all'altra sotto le lenzuola, riscaldati dal camino acceso e l'uno dalla pelle dell'altro, Caterina si lasciò scappare: “Non dovevamo finire a letto.”

“Mi hai dato abbastanza soldi anche per questo, sai?” sussurrò il ragazza, che aveva cominciato a darle del tu quasi senza accorgersene, forse per la maggior intimità che aveva sentito nascere tra loro mentre si stringevano al caldo, tranquilli, il respiro dell'uno che si mescolava a quello dell'altro.

“Non parlo di soldi...” fece lei, provando a sciogliersi un po' dall'abbraccio con cui il giovane la teneva saldamente addosso a sé: “Non dovevamo farlo e basta... Mi ero ripromessa di...”

Il ragazzo la zittì mettendole l'indice sulle labbra e poi, con dolcezza, le diede un bacio in fronte.

Quel gesto, che gli era venuto spontaneo, riportò alla mente di entrambi il loro primissimo incontro, avvenuto pochi mesi dopo la morte del Barone Feo. Anche quella volta il giovane l'aveva baciata a quel modo, dopo essersi consegnato anima e corpo a lei.

“Resti a dormire?” chiese la Sforza, sorprendendosi per prima, ma sicura di non voler aspettare l'alba da sola, divorata com'era sempre dalla profonda solitudine che, assieme alla rabbia, non l'abbandonava mai.

“Va bene, resto.” accettò subito lui e, prima che la donna potesse aggiungere qualcosa, si sistemò meglio e si assopì.

Caterina lo scrutò per un po' alla luce morente del camino e poi, perdendosi nell'odore ormai familiare della sua pelle, gli si accoccolò contro e, mentre prendeva sonno a sua volta, si disse che, anche se sarebbe durato solo per quella notte, voleva godersi quell'attimo di pace.

 
 
   
 
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