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Autore: Adeia Di Elferas    20/12/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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A un calcio ne faceva seguire un altro, senza fermarsi, senza provare nulla, se non una cieca e sorda rabbia. Il volto del figlio di Marco Antonio Giuntino era irriconoscibile, tramutato in un insieme confuso di sangue, denti e carne. Eppure respirava ancora.

Sentiva i propri muscoli dolore, ma non fu quello a frenarla. Smise di colpire per scelta, per non uccidere, per dimostrare a se stessa di essere più forte del proprio istinto. Era stata solo difesa, ma non voleva eccedere, voleva essere sicura di potersi fermare, se se lo imponeva.

L'odore di umidità e di sangue che le riempiva le narici le dava quasi la nausea, ma la consapevolezza di non aver ucciso a calcio il giovane uomo che le stava davanti le permetteva di respirare a pieni polmoni.

Tuttavia, quando si chinò verso di lui, sotto la luce accecante che riempiva la cella, invece di un carcerato ferito, ma vivo, trovò solo un cadavere, già freddo e putrefatto.

Ritirandosi preda dell'orrore, la Tigre gracchiò: “No! No! Stavolta mi sono fermata! Non l'ho ucciso! No!”

Avvertendo la pressione di una mano sulla spalla, la donna sollevò lo sguardo e si trovò dinnanzi un profilo che non aveva dimenticato e che, probabilmente, non avrebbe scordato mai: Ludovico Marcobelli.

“Non l'hai ucciso subito come hai fatto con me, ma è come se l'avessi fatto.” le disse, con tono beffardo: “Non crederai che ferito a quel modo sia sopravvissuto, una volta tornato in cella...”

“No!” gridò ancora Caterina, ritraendosi: “Non l'ho ucciso!”

Nell'alzarsi di scatto e indietreggiare, la Sforza andò a sbattere di schiena contro qualcosa, o, meglio, qualcuno.

Presa da un panico che non ricordava di aver mai provato, si rese conto di essere appena finita tra le gelide braccia di Giacomo. Non era, però, il ragazzo che aveva amato alla follia, ma un corpo esanime, sventrato, il volto sfatto, una gamba spezzata, con l'osso rotto che usciva dalle carni come una bandiera, bianco e luccicante...

“Hai ucciso anche me.” stava dicendo quel mostro, la voce distorta, diversissima da quella con cui il suo Giacomo le giurava sempre il suo amore.

“No!” urlò di nuovo la Leonessa e poi, all'improvviso, si svegliò.

La prima reazione fu quella di allontanarsi dalle braccia – calde e accoglienti, stavolta – che la stavano stringendo. Poi, però, capendo che il giovane che tentava di calmarla era quello con cui aveva passato la notte e non un altro incubo da cui scappare, la Contessa provò a tranquillizzarsi.

Era sudatissima, agitata, tremante. Il sogno era stato così vivido da essere ancora presente alla perfezione nella sua mente.

“Chiamavi Ludovico Marcobelli, e poi Giacomo...” disse piano il ragazzo del postribolo, continuando a fornirle un sostegno di cui sembrava avere disperatamente bisogno: “Non volevo svegliarti, ma...”

“Hai fatto bene...” sussurrò Caterina, affondando il viso contro il suo petto: “Dovevi farlo prima, anzi...”

Quando fu certa che le mani non le tremassero più, la donna si mise seduta sul letto. Dalla luce fioca che filtrava dalla finestra, intuì che dovesse essere già mattina o quasi. Il rumore scrosciante della pioggia, poi, le tolse ogni dubbio sul tempo che avrebbe fatto quel giorno.

“Forse dovresti andartene.” disse piano, mentre, massaggiandosi le dita, si accorgeva di aver accidentalmente lasciato un po' di sangue secco sotto il nodo nuziale.

Nella fretta e nella confusione mentale della sera prima, quando si era pulita le mani non si era tolta l'anello – e c'era un motivo molto preciso, ovvero il voler illudersi di sentire il suo Giovanni ancora vicino, anche un momento simile – e quello era il risultato.

“Se è quello che vuoi...” fece il ragazzo, senza, però, spostarsi di un soffio.

Dopo averci pensato un secondo, la Tigre si rimise coricata. Le mancava la sensazione di aver accanto qualcuno che fosse disposto a consolarla e dimostrarsi dolce con lei. Giovanni da Casale era un buon soldato, un bravo amante, ma a parte quello era in grado di darle sempre meno. Non riusciva a lenire mai del tutto il senso di vuoto che l'angosciava e, ne era certa, anche in un frangente come quello non sarebbe stato in grado di offrirle ciò che davvero le serviva.

Era da sciocchi, probabilmente, illudersi che potesse riuscirci un giovane uomo che per mestiere doveva compiacere i suoi clienti e fingere di interessarsi a loro, ma tentare non le sarebbe costato nulla.

Coricata accanto a lui, sotto le coperte, cominciò a raccontargli il suo incubo e poi, senza soluzione di continuità, gli parlò dell'interrogatorio che aveva concluso quel giorno e, a ritroso, tutta la sua giornata.

Arrivò a parlare addirittura di quando, al mattino, aveva incontrato sua figlia sulla tomba del suo Giacomo. Saltando un po' da una cosa all'altra, come se stesse parlando da sola, la Leonessa aveva accennato anche a Tommaso, all'importanza che aveva avuto per lei negli anni, e a come poi si fossero persi senza riuscire a evitarlo.

“Avrei voluto permettergli di avere il suo posto nella cappella della sua famiglia, accanto a suo fratello...” bisbigliò, restando aggrappata al giovane, come se così facendo i suoi fantasmi potessero farle meno male: “E invece non so nemmeno se sia ancora vivo o già morto...”

Il ragazzo ascoltava, facendo solo di quando in quando qualche cenno per far capire che la stava seguendo, ma non intervenne mai, tranne quando, alla fine, la donna parlò dei propri figli e di quanto le stesse risultando difficile accettare di staccarsi da ciascuno di loro, Ottaviano escluso.

“A Livio non pensi mai?” fu la domanda, detta con voce un po' roca, che uscì dalle labbra del giovane.

La donna rimase stupite nello scoprire che lui ricordava il nome del figlio che le era morto. Livio era appena un ragazzino, aveva dodici anni mal contati, quando era mancato e Caterina si era convinta che quasi nessuno, a Forlì, se lo ricordasse. Era sempre stato malaticcio, e per questo, a differenza dei suoi fratelli, schivo coi bambini della sue età. Era sempre uscito poco dalla rocca e non erano in tanti, quelli che l'avevano conosciuto.

Per tanti motivi, la stessa Tigre aveva spesso la sensazione di non averlo mai conosciuto.

“A volte ci penso.” ammise, deglutendo: “Ma in linea di massima cerco di non farlo.” confessò.

Il ragazzo non fece altre domande, immaginando che altrimenti avrebbe oltrepassato un confine che la Contessa voleva lasciare invalicabile, e così la lasciò discorrere d'altro ancora per un po'.

Quando le campane, sovrastando il fracasso fatto dalla pioggia, fecero capire a entrambi che ormai il giorno era arrivato e che era tempo di dividersi, Caterina si sentì più malinconica del solito. Di colpo, l'idea di chiedere a quel giovane di restare davvero alla rocca per lei non le parve più così sbagliata.

Tuttavia, mentre lui sospirava e si alzava, quasi a voler prevenire un ordine che credeva fosse prossimo ad arrivare dalla voce della sua signora, la Sforza ci ripensò. Sarebbe stato troppo egoista e anche troppo scandalosa come scelta.

Anche se tutti conoscevano la sua tendenza a non farsi problemi, nel prendersi un amante, se le piaceva, non trovava fosse il caso di alimentare altre chiacchiere su di lei tenendosi al fianco un uomo del genere.

“Ricordati i soldi.” fece la Contessa, mentre cominciava a sua volta a vestirsi, decisa a uscire dalla camera poco dopo il ragazzo, e dedicarsi subito agli impegni della giornata, primo tra tutti cercare informazioni sulla situazione di Imola.

Il giovane si passò una mano tra i capelli biondi e poi, quasi con vergogna, recuperò la scarsella dalla scrivania e, sollevandola un po', chinò il capo: “Vi ringrazio ancora.”

“Mi davi del tu, fino a poco fa.” gli ricordò la donna.

Lui arrossì e poi, annuendo, si corresse: “Ti ringrazio.”

Dopo essersi assicurato il denaro alla cinta, il giovane le si avvicinò e sussurrò: “Non posso tornare al bordello con questi soldi. La mia padrona mi passa sempre al setaccio... Se li terrebbe lei.”

“E allora scappa subito.” fece la Sforza, con un velo di tristezza nella voce: “Lascia immediatamente Forlì.”

“Ma mi avevate detto di cercare delle donne da mandare qui e...” prese a dire lui, incerto.

“Manderò qualcuno al tuo posto, non preoccuparti. Tu mettiti al sicuro.” sorrise Caterina, notando come il ragazzo fosse di nuovo passato al voi.

Gli diede un ultimo bacio, tranquillo, senza più la smania che gli aveva riservato fino a qualche ora prima, e poi, gli accarezzò la guancia su cui stava ricrescendo una fitta barba chiara.

“Abbi cura di te.” lo congedò, indicandogli la porta con un cenno del capo.

“Siete stata l'unica di cui mi sia mai importato davvero qualcosa.” le rivelò lui, il sorriso che si spegneva un po', mentre raggiungeva l'uscio.

La Leonessa non disse più nulla, guardandolo uscire. Gli diede qualche minuto di vantaggio e poi, ravviandosi i lunghi capelli bianchi, lasciò anche lei la sua stanza, pronta – o, almeno, sperava di esserla – a quello che l'attendeva quel giorno.

 

Cesare Borja guardò di nuovo fuori dalla finestra. Diluviava, senza tregua, con tanta forza che il sole, quel giorno, a Cantalupo, era come se non fosse sorto.

“Non sono d'accordo e basta.” stava dicendo il figlio del papa, voltando volutamente le spalle a Zitolo da Perugia, che era andato da lui per scortarlo fino al campo imolese.

Da quando Achille Tiberti si era fatto consegnare le chiavi di tutte le porte di Imola, facendo smurare quelle ancora chiuse e accogliendo tra i suoi uomini Giannotto con i guasconi e i tedeschi, l'esercito pontificio si era avvicinato alla città e l'avanguardia si era addirittura messa a requisire i palazzi e le stalle, in modo da preparare Imola a diventare un unico enorme accampamento militare.

La popolazione, per il momento, non era stata trattata con brutalità, proprio per volere del cesenate che, conoscendo un po' gli imolesi, aveva deciso di usare il più possibile le buone maniere, bilanciando il disagio che si stava dando con la concessione di un trattamento di favore.

“Poco conta, temo, che voi non siate d'accordo...” disse piano Zitolo: “Savelli, Vitelli e perfino Gian Paolo Baglioni sono in linea con il pensiero di Tiberti, e anche i comandanti francesi l'appoggiano.”

“Dovevano aspettarmi, per attaccare.” disse Cesare, stringendosi le mani dietro la schiena e sollevando il mento, assumendo una posizione che aveva imparato a imitare osservando suo padre quando doveva rimettere in riga qualche Cardinale troppo intraprendente: “Le decisioni prese non erano queste.”

“Ma di fatto la città è caduta.” riprese l'altro comandante, lanciando un'occhiata anche a Michelotto, che se ne stava in silenzio in un angolo: “Voi non c'eravate, ma il momento era propizio e quindi...”

Il Duca di Valentinois aveva appena sollevato una mano, per zittirlo. Non aveva intenzione di sentirsi rimproverare di nuovo per la sua repentina decisione di andare a Roma. Ormai l'aveva fatto, non c'era nessun bisogno di rinfacciargli quel suo pessimo tempismo una volta di più. Suo padre aveva già provveduto in abbondanza a farlo sentire un idiota.

“In ogni caso, l'Aubigny, il Ligny e anche il Balì di Digione, che io sappia, non si sono ancora presentati al campo imolese.” fece il Borja, come a volersi riparare da altri eventuali moti di biasimo di Zitolo.

“No, perché aspettano voi.” annuì lui, suo malgrado: “Anche se l'esercito è quello francese, per la fase romagnola siete voi il referente.”

“E allora vedete che Tiberti avrebbe dovuto attendermi?!” sbottò il figlio del papa, più per ostinazione che non perché morisse dalla voglia di scendere in campo con le armi in pugno.

“Voi avreste conquistato Imola in un giorno appena come ha fatto lui?” il perugino aveva usato un tono insinuante, ma non aveva intenzione di suscitare ulteriormente le ire del Valentino.

Cesare, malgrado tutto, lo capì e, invece di mettersi a gridare – cosa che in realtà avrebbe volentieri fatto – fece un respiro profondo e spiegò, come se avesse davanti un ignorante irrecuperabile: “Sì, ha preso la città e probabilmente gli imolesi gli si piegheranno, perché è un uomo conosciuto, lì, però...”

“Però?” chiese Zitolo, accigliandosi.

“Però se non prende la rocca, è come non aver preso nemmeno Imola!” questa volta il Borja non riuscì a tenere la voce bassa e, anzi, voltandosi di scatto verso il condottiero quasi lo spaventò, battendo una mano contro l'altra per sfogare il nervosismo: “Prendere la città era il meno. Perché immagino che quel cesenate si sia ben guardato dall'attaccare la rocca...”

L'altro non poté che ammettere che in effetti Achille Tiberti aveva deciso, per il momento, di non far nulla contro la rocca tenuta da Dionigi Naldi, ma subito dopo si prodigò a spiegare il motivo di quell'apparente mancanza di intraprendenza.

“Il castellano della rocca si è asserragliato dentro con i suoi e non sappiamo quanti siano...” iniziò a dire.

Il Duca di Valentinois, dopo un'occhiata a Michelotto, fece una breve risata: “Quanti volete che siano! Saranno al massimo qualche centinaio. Dovremmo averne paura?”

Zitolo non commentò, continuando: “Naldi ha puntato tutti i cannoni sui punti sensibili della città, ma per il momento non ha ancora fatto fuoco.”

“Quindi è probabile che non abbia abbastanza munizioni.” soppesò Cesare.

Il perugino sembrava sorpreso dalle battute del figlio del papa. Glielo avevano sempre descritto tutti come un bamboccione da poco spretato che di guerra capiva poco, per non dire nulla.

In effetti il Borja si era sentito esattamente come lo credeva Zitolo per tanto tempo. Solo di recente aveva cercato di colmare le lacune più grosse che aveva, in questioni d'armi, e Miguel de Corella era stato un aiuto molto prezioso, perché con le sue intuizioni aveva insegnato all'amico a sospettare di tutto e tutti, cercando di vedere sempre dietro ogni azione i motivi più profondi e non solo quelli più palesi.

“Comunque...” sbuffò il Valentino: “Della rocca di Imola ci occuperemo noi, senza problema alcuno. Piuttosto... Sapete dirmi qualcosa su come sia organizzata al momento Forlì?”

Zitolo cominciò a dire quello che avevano scoperto, ovvero che la Sforza stava ammassando truppe e viveri, che aveva fatto abbattere case e boschi attorno alla città e, a quanto dicevano certi, aveva dato fuoco ai granai e ai fienili in campagna, allagando quei pochi campi che davano ancora qualche frutto.

“La cittadella, poi, è stata ultimata di recente, ma pare sia strategicamente impeccabile, anzi, dicono pressoché imprendibile.” spiegò il condottiero, serio.

“E sappiamo chi la comanda?” chiese il Borja, che stava cercando di non lasciarsi spaventare dalla descrizione apocalittica che l'altro gli aveva appena fatto.

“Giovanni da Casale, il favorito della Tigre.” rispose prontamente lui.

“Il favorito della Tigre!” scoppiò a ridere Cesare, cercando l'appoggio anche di Michelotto, il quale, però, sorrise stentatamente e basta, non trovando quel dettaglio così divertente come il suo amico: “E noi dovremmo temere un uomo che lascia portare le brache alla sua donna, arrivando anche a farsi definire come il suo favorito?!”

“Io non riderei così, se fossi in voi.” lo redarguì Zitolo, senza la minima traccia di ilarità.

Il Valentino tornò subito cupo, come se la risata sguaiata a cui si era abbandonato non ci fosse mai stata: “E la rocca di Ravaldino? Tutti sanno che chi ha quella rocca ha Forlì. Chi la comanda?”

“La Sforza.” fece con semplicità il perugino: “Lo sanno tutti.”

“Sì, lei ci vive, ma io voglio sapere chi la gestisce, chi dà gli ordini, chi sta coi soldati!” esclamò il figlio del papa, perdendo la pazienza.

“La Sforza.” ripeté Zitolo, per poi soggiungere, a beneficio di un interlocutore che sembrava troppo tardo per capire una cosa così semplice: “La Tigre si occupa personalmente del suo esercito e della rocca. Il castellano di Ravaldino è più un... Amministratore, ecco, che non un comandante vero e proprio.”

Il Borja strinse i denti. Anche se tutti continuavano a dirgli che quella Leonessa era un vero diavolo, capace di tenere personalmente a bacchetta più di duemila soldati, lui insisteva nel non volervi credere.

Gli sembrava una cosa così assurda che una Contessa, una donna, potesse esercitare un simile ascendente sulle truppe, che non poteva dar ragione alle voci che sentiva. Gliel'avevano descritta come una spadaccina abilissima e una stratega sopraffina, ma per Cesare erano solo chiacchiere.

Una donna, per capace che fosse, non poteva certo sopportare il peso di un'armatura o quello di uno spadone. Figurarsi, poi, se aveva il coraggio di mescolarsi davvero ai militari e vivere come loro! Si era chiusa in una rocca, sì, ma per sua difesa. Era pronto a scommettere che nelle sue stanze ci fossero fiori freschi tutti i giorni e un comodo baldacchino imbottito, altro che le privazioni a cui si sottoponevano i soldati di professione..!

“Sia come sia...” tagliò corto, pensando che Zitolo non sarebbe mai stato oggettivo, nel parlare della Tigre: “Entro domani sarò al campo e vedremo di chiudere questa questione in meno di una settimana, parola d'onore. State pronto a scommettere che domenica prossima quella cagna della Sforza non si inginocchierà davanti al prete a prendere l'ostia consacrata, ma davanti a me, a prendere ben altro!”

Questa volta la risata di Cesare tagliò l'aria come un coltello e, forse anche per colpa dell'espressione truce che aveva preso il viso di Miguel de Corella, Zitolo ebbe per la prima volta davvero paura dell'uomo che aveva davanti.

Deglutendo, mentre il Borja ancora rideva, disse: “Se volete davvero aver ragione della nipote di Francesco Sforza in sei giorni, allora vi consiglio, se non altro, di cominciare a montare a cavallo e partire in direzione di Imola, dato che con la pioggia di oggi non potrete certo andar veloce come pensate.”

Il Borja si asciugò gli occhi con il dorso della mano e poi, risentito per il tono paternalistico del perugino, ribatté: “Non sta a voi darmi ordini.” tuttavia, trovando le parole di Zitolo tutt'altro che campate per aria, soggiunse, rivolgendosi a Michelotto: “Miguel... Prepara i cavalli.”

 

Stava scendendo il buio e la pioggia su Forlì cadeva ancora incessante, senza tregua. Caterina era stata tutto il giorno fuori con i soldati, aveva aiutato a organizzare la suddivisione degli uomini tra la cittadella e la rocca ed era arrivata a sera sfinita.

Aveva chiesto a Bianca di raggiungerla e l'aveva messa a parte delle ultime notizie arrivate da Imola. La ragazza aveva ascoltato tutto con grande apprensione, facendo di quando in quando qualche domanda, e, alla fine, l'unico sentimento che l'aveva pervasa era stato un profondo sconforto.

Aveva capito che i suoi giorni a Ravaldino, probabilmente, si contavano sulla punta delle dita e ciò che la Tigre iniziò a fare, finito il ragguaglio sulle condizioni di Imola, gliene diede conferma.

In principio quelli elencati dalla madre, in ordine apparentemente sparso, erano consigli di genere perlopiù pratico, di quelli che, in fondo, aveva sempre cercato di dare alla figlia. Poi, però, aveva cominciato a parlare in modo più deciso della partenza e di cosa le avrebbe lasciato.

A un certo punto, le disse, alzandosi e prendendo un volume che aveva accuratamente riposto nella libreria: “Ho copiato le ricette che potrebbero servirmi, delle altre, ormai, non me ne farei più nulla...”

Giovannino guardava rapito la madre che porgeva il ricettario a Bianca. Non appena la donna si era risieduta sul divanetto imbottito, il piccolo le si era aggrappato al collo di nuovo al collo, e sembrava intenzionato a lasciarla mai, nemmeno in quel momento, mentre la donna si protendeva per dare alla figlia il volumetto.

“I vostri experimenta...” fece piano la Riario, prendendo il libro manoscritto che le veniva porto, ma una vaga titubanza: “Io... Non so se posso...”

“Custodiscili, imparali bene, il più che puoi, se ne avrai modo, prova a farli tutti quanti finché non ti riescono bene. E poi dai questo libro a tuo fratello.” la zittì la Contessa.

Non ci fu bisogno di specificare a quale fratello si riferisse. Anche se Giovannino non fosse stato presente, Bianca avrebbe capito che era lui.

“Probabilmente – riprese la Tigre, guardando di traverso il piccolo Medici che teneva ancora in braccio – questo ricettario sarà l'unica cosa che gli resterà di me. Non si ricorderà nemmeno il mio volto, né la mia voce... Voglio che possa almeno leggere quello che ho scritto in questa raccolta.”

La ragazza annuì, aprendo un momento il volume e sfogliandolo. Sua madre le aveva già permesso di leggerlo, una volta, e alcune delle pozioni presenti le sapeva già preparare. Tuttavia pensare che da quel momento quel concentrato di conoscenza e scienza era nelle sue mani e che stava a lei tramandarlo integro a Giovannino la metteva in ansia.

Appena prima di richiudere quelle pagine che la Leonessa aveva passato anni a vergare, correggere e arricchire, a Bianca passò sotto agli occhi la ricetta di uno degli intrugli afrodisiaci messi a punto dalla Tigre. Facendo finta di nulla, si trovò a pensare a tutte le parti molto esplicite compilate da sua madre e si chiese quanto avrebbe dovuto attendere, prima di consegnare quel libro nelle mani del fratello.

“Siete... Siete sicura..?” chiese, balbettando un po', mostrando un'incertezza imbarazzata che fece intuire alla Sforza su cosa stesse ragionando.

“Glielo consegnerai quando saprà come va il mondo – le corse incontro, trovando che fosse, in ogni caso, la scelta più sensata – ma glielo consegnerai così com'è. Dovrà sapere chi ero. Non chi avrei dovuto essere, ma chi ero.”

La Riario non trovò nulla da ridire. In fondo, sua madre aveva ragione. Giovannino meritava di conoscerla, e, siccome non avrebbe potuto farlo nel modo più auspicabile, almeno avrebbe potuto farsi un'idea di che cosa era stata la Leonessa di Romagna.

“E poi vi darò i miei gioielli. Li dividerò tra tutti voi... Ve li nasconderete addosso e li userete solo se necessario, altrimenti li conserverete per quando avrete bisogno di soldi.” continuò la Contessa, tirando su col naso, forse sfuggendo un momento di commozione, mentre il figlio le posava una manina dalle dita tozze sul viso.

“Ma madre, con quello che vi sono costati..!” fece Bianca, prima di ragionare.

“Appunto.” ribatté subito Caterina: “Con quello che sono costati, in tutti i sensi, preferisco che servano a voi, piuttosto che vederli andare a ingrossare i tesori del Vaticano. Giovanni ha voluto ricomprarmeli tutti, esponendosi molto, economicamente parlando, e anche a costo di rendersi ridicolo, se io per caso non li avessi accettati. Sono sicura che sarebbe felicissimo di sapere che serviranno a voi.”

“Avete ragione.” annuì allora la Riario: “Messer Medici era un uomo buono e generoso e ci considerava tutti come suoi figli. Avrebbe voluto quello che dite voi.”

Il lungo momento di silenzio che seguì venne rotto solo da Giovannino che, improvvisando qualche disarticolata sillaba, sembrava voler chiedere alla madre e alla sorella come mai fossero entrambe così tristi.

“Quando dovrò andarmene?” chiese la giovane, accarezzando soprappensiero la copertina del ricettario.

La Contessa, puntando le iridi verdi sulle mani eleganti e candide della figlia, rispose: “Io di preciso ancora non lo so.”

“Pensate che potrò saperlo almeno il giorno prima?” la domanda di Bianca era stata posta con tanta innocenza che la Tigre non pensò nemmeno per un attimo che fosse un sintomo di insofferenza per quell'incertezza che pendeva su di loro come una spada di Damocle.

Proprio per questo, quando parlò, lo fece con un tono calmo e quasi dispiaciuto: “Lo spero.”

La Riario stava pensando al giovane soldato con cui si incontrava la sera. Voleva avere il tempo di dirgli addio con calma, voleva avere il modo di capire cosa stava perdendo allontanandosi da lui, e voleva avere la capacità di gestire quel distacco. Non sapeva dire ancora se quel ragazzo significasse qualcosa di preciso, per lei. Per il momento era solo un simbolo di autonomia ed emancipazione.

“Sei forte, Bianca – stava dicendo, intanto, la Sforza, accarezzando la nuca di Giovannino che, un po' più tranquillo, si stava quasi addormentando addosso a lei – sei mia figlia. So che qualunque cosa dovesse capitarti, tu non ne uscirai spezzata, ma solo più forte.”

La ragazza avrebbe voluto dirle che forse non era così, che forse si sbagliava, ma non ne ebbe il coraggio.

L'unica esternazione che le venne spontanea in quel momento fu: “Voi mi avete dato la libertà e non vi ringrazierò mai a sufficienza per questo. Mi avete protetta sempre, anche quando poteva non sembrare così. Basti vedere cosa avete fatto per tenermi lontana da Astorre Manfredi. Mi avete dato davvero la libertà. La libertà di vivere, di fare i miei errori, di imparare, di scegliere, di...” avrebbe voluto essere molto più precisa nel suo elenco, ma preferì concludere con un semplice: “Mi avete reso libera sia facendomi da scudo, sia permettendomi di vedere il vostro stesso esempio.”

Presa un po' alla sprovvista da quella sperticata dimostrazione di gratitudine, la Tigre si sentì in dovere di riprendere l'ultimo punto: “Io spesso non sono stata un esempio. Anche il modo in cui mi comporto con gli uomini... Io non...”

La Riario vedeva la madre in difficoltà, stringere le labbra e poi guardarsi in giro, quasi in cerca di una appiglio per articolare meglio il suo discorso. Avrebbe voluto tranquillizzarla, spiegarsi meglio e farle sapere che non aveva intenzione di imitarla in modo pedissequo, che sapeva che la sua condotta a tratti molto confusa non era da prendere come esempio in senso stretto, ma la Contessa riuscì a ritrovare la parola prima di lei.

“Per me ogni uomo è una rivincita.” il tono usato dalla Sforza aveva un che di organizzato e militaresco che Bianca lesse come un tentativo di portare il discorso su un piano in cui la donna si trovava più forte e meno preda della confusione: “Anche quando ero con Giacomo o Giovanni... Era sempre un modo per dirmi da sola che aveva superato Girolamo, che... Che non ero più costretta, che andavo a letto con un uomo solo perché lo volevo e non perché dovevo. Perché mi piace e basta.”

Siccome la figlia non diceva nulla, ma teneva gli occhi blu abbassati e le mani ancora strette attorno al ricettario, Caterina ebbe il dubbio di averla ferita, parlando ancora una volta in quel modo di suo padre. Ma in che altro modo poteva parlarne?

“Del Barone e di messer Medici, però, eravate anche innamorata. Non li usavate solo per...” la giovane sentì la voce morirle in gola.

In quell'inciso riuscito a metà si poteva sentire il disperato bisogno che aveva di trovare una rassicurazione. Era come se stesse chiedendo a sua madre conferma del fatto che in un mondo come quello in cui vivevano, lo spazio per i sentimenti c'era.

“Lo sai che li amavo.” ribatté senza indugio la Tigre.

La Riario parve sufficientemente rincuorata da quell'affermazione e così, ritenendo che per quella sera potessero anche chiudere il discorso, disse piano: “Poi dovete ancora parlare con Galeazzo... Ve l'ho detto... Lui è convinto di poter restare qui con voi a combattere.”

“Gli parlerò.” annuì la Sforza, sistemandosi meglio Giovannino in spalla, mentre si alzava imitando la figlia.

“Fatelo prima che potete, non aspettate l'ultimo minuto.” le consigliò la ragazza, stringendo al petto il ricettario: “Ha bisogno dei suoi tempi per convincersi.”

La donna sospirò e poi, tenendo il piccolo Medici con un braccio e posando la mano libera sulla spalla della figlia, si avviò con lei all'uscio, dicendo: “Mi piace, la donna che stai diventando. Sei intelligente e te la caverai. Comunque vada, so che te la caverai.”

 

 
 
   
 
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