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Autore: Adeia Di Elferas    24/12/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Quindi siamo sicuri?” aveva chiesto Cesare Borja, nel momento stesso in cui aveva incontrato Achille Tiberti: “La città ha votato per la resa?”

“Sì, hanno votato per la resa.” aveva assicurato il cesenate.

Il figlio del papa non aveva voluto sapere altro. Quello che gli premeva era prendere formalmente la città, tutto il resto era secondario, quel 24 novembre. Non gli importava nulla di un certo Corradini, Governatore di Imola, che era stato incarcerato pochi giorni prima, suscitando l'ira del popolo. Non gli importava nemmeno che la rocca fosse ancora in mano di Dionigi Naldi.

Il primo colpo da dare era farsi eleggere in modo ufficiale nuovo signore della città e far sì che si sapesse ovunque.

Così, dopo aver mandato i suoi a informarsi circa le modalità di investitura vigenti a Imola, e aver scoperto che gli sarebbe bastato farsi consegnare pubblicamente le chiavi e correre la piazza.

Il Borja aveva accettato volentieri la prima parte del cerimoniale, pensando, anzi, che sarebbe stato molto bello, vedersi porgere le chiavi di una città che era diventata sua senza che lui dovesse muovere un dito. Sulla seconda parte, invece, aveva avuto qualche cosa da ridire.

“Piove ancora a dirotto...” si stava lamentando, mentre finivano di vestirlo per la cerimonia: “E fa già buio. È troppo rischioso. Potrebbe azzopparsi il cavallo o qualcuno potrebbe approfittarne per farmi del male.”

Vitellozzo Vitelli, che aspettava, assieme a Tiberti, che il Valentino fosse pronto per dare inizio a quel siparietto che sarebbe servito a legittimare il Borja, dopo quell'esternazione – l'ultima di una lunga serie – sbottò: “Se non la piantate di lamentarvi, giuro che vado a correre quella piazza al posto vostro!”

Cesare finse di non averlo sentito, e, mentre gli sistemavano l'ultimo pezzo di armatura da parata, chiese, accigliandosi: “E i cannoni di Naldi? Sono ancora tutti puntati su di noi?”

“Sì.” annuì Achille, che, in effetti, si era chiesto come mai ancora non fosse partito nemmeno un colpo.

“Mi raccomando, che sappia il più tardi possibile che la popolazione ha scelto noi.” fece il Duca di Valentinois, dimostrando ai presenti di avere più acume di tutti loro messi assieme.

Finita la lunga vestizione del nuovo padrone di Imola, tutti quanti si spostarono sul palchetto coperto che era stato allestito in brevissimo tempo dai soldati di Tiberti. Cesare sembrava un re, sia per l'eleganza, sia per il cipiglio con cui prese le chiavi.

Gli imolesi, orfani da tempo di una figura potente a cui far riferimento, dato che la Tigre, negli ultimi anni, si era sempre ben guardata dall'andare a soggiornare a Imola, anche solo per qualche settimana, erano rapiti dall'immagine di quel ventiquattrenne alto e slanciato, vestito di seta e coperto da un'armatura dorata e così finemente decorata da farlo sembrare una statua.

Erano le quattro del pomeriggio e sembrava già notte. La pioggia batteva senza tregua, ma malgrado ciò nessuno sembrava intenzionato ad andarsene finché il Valentino non si fosse messo in sella, correndo la piazza e dimostrando a tutti di avere in pugno la città.

“Io non cavalco, con questo tempo.” borbottò il figlio del papa, quando gli venne suggerito dai suoi ufficiali di procedere con quella parte importantissima della cerimonia: “Non voglio spezzarmi l'osso del collo per una questione del genere.”

Quando il pubblico intuì che la parte più succosa dello spettacolo non ci sarebbe mai stata, però, Tiberti cercò di convincere il Borja: “Voi non conoscete la gente di qua... Basta poco per perdere il loro favore... Se non farete quel che si deve, loro...”

“Proclamo una notte di festa!” gridò a quel punto Cesare, che non aveva alcuna intenzione di farsi dire da quella cornacchia dal naso adunco di Achille che cosa dovesse o non dovesse fare: “Si ceni al mio nome e si beva! Offrirò vino e cibo per tutti!”

Quell'esclamazione, così improvvisa e inattesa, ebbe l'effetto di un'esplosione. Come se il loro nuovo signore avesse appena promesso di abolire la fame e la sete per sempre, gli imolesi cominciarono ad applaudire, gridare, inneggiare al Santo Padre, ai francesi e, più di tutti, al Valentino.

“Visto? Sono pezzenti.” fece secco il Borja a Tiberti, cominciando a scendere dal palco: “Sono pronti a morire per la mano che dà loro un pezzo di pane ammuffito, purché quel pane sia gratuito.”

“Spero davvero che sia così.” chinò il capo Achille, cominciando a pregare che Dionigi Naldi, insospettito dalle luci di una città in festa, non decidesse di iniziare a bombardare proprio quella notte.

 

Caterina guardava in silenzio Dianora e le sue due figlie, che le si stringevano, ascoltare sgomente ciò che Bernardino da Cremona stava riferendo loro.

Era stata la Tigre a ordinare al castellano di mettere a parte anche loro di quanto stesse accadendo a Imola. In fondo, si era detta, erano la moglie e le figlie di un uomo che, per il momento, si stava comportando in modo leale e onorevole. Non avrebbe avuto senso, tenerle all'oscuro.

Anche se ormai era sera tarda, la rocca pullulava ancora di vita. Da quando erano arrivati i soldati del Quartiere Militare, Ravaldino non sembrava più la stessa. Anche in quel momento, mentre la Sforza osservava la scena tra Dianora e il castellano, tutt'attorno a loro c'era un brulicare di uomini in armatura, di donne che cercavano la loro nuova sistemazione, e di servi – ormai veramente pochi, per il fabbisogno della rocca – che si affaccendavano per aiutare tutti a orientarsi e trovare il proprio posto.

Pur avendo un'alta opinione dei propri armigeri, la Leonessa aveva dato ordine a sua figlia Bianca di stare attenta e di non mescolarsi più del dovuto alla truppa. Giocare ai dadi con la manciata di uomini che vivevano prima a Ravaldino, era un conto, andare a infilarsi in mezzo a decine di soldati che avevano vissuto fino al giorno prima in un Quartiere loro dedicato era un altro.

Aveva chiesto anche agli altri suoi figli di prestare più attenzione del solito, e aveva pregato Ottaviano, nei limiti del possibile, di restare a Ravaldino e di non combinare disastri.

Quando vide la moglie di Naldi annuire un paio di volte a Bernardino da Cremona, capì che il loro dialogo era finito e così si avvicinò: “Devo parlare con il castellano.” disse, senza guardare la donna che, presa dall'ansia e dall'incertezza di non sapere che ne sarebbe stato del marito, si era messa a piangere sommessamente.

Mentre Dianora e le bambine si allontanavano, Caterina si rivolse al cremonese: “Avete visto mio figlio Galeazzo?”

“Non vorrei sbagliarmi, ma credo sia andato alla cittadella.” rispose l'uomo, corrugando la fronte.

“E perché lo avete lasciato andare là?” chiese la Tigre, dandosi intanto un'occhiata in giro, come se ciò bastasse a tenere sotto controllo gli oltre mille uomini arrivati alla rocca.

“I vostri figli non hanno divieti...” fece il Bernardino da Cremona, sulla difensiva.

“Va bene, non importa.” sbuffò la donna, che avrebbe voluto dire che così come era vero che i suoi figli avevano totale libertà di movimento, così lei aveva espresso più volte al castellano il desiderio di essere informata il più possibile sui loro spostamenti, specie in quei giorni di confusione.

“E mio figlio Bernardino?” chiese allora la Sforza, facendo un breve riassunto e rendendosi conto di non aver visto sue tracce fin dal mattino.

“Ah, lui so dov'è.” il tono del cremonese non le piacque per niente, ma quando l'uomo proseguì ne capì la ragione: “Poco fa ha mandato a gambe all'aria la cuoca, nelle cucine, facendole rovesciare tutta la zuppa che doveva essere servita stasera. La cuoca è venuta a protestare con me e così io ho cercato vostra figlia che adesso è nelle cucine con lui per convincerlo a scusarsi!”

Caterina si morse il labbro. Che il suo penultimo figlio fosse una peste, ormai le era chiaro, tuttavia non si capacitava di come riuscisse sempre a combinare disastri anche dopo essere stato messo in guardia da lei. A volte, come quel giorno, si trovava a pensare che, forse, l'unico che sarebbe stato capace di farsi ubbidire da Bernardino sarebbe stato Giacomo.

'Ma se Giacomo non fosse morto – soggiungeva puntualmente nella sua testa – probabilmente Bernardino non sarebbe diventato così.'.

Liquidando un po' bruscamente il castellano con un cenno del capo, la donna lo lasciò al suo destino e si diresse verso le cucine. Voleva vedere innanzi tutto la reale entità del danno fatto da suo figlio e poi controllare come Bianca avesse gestito la cosa. Era vero che, nei suoi progetti, Bernardino non sarebbe rimasto con la sorella, ma non si poteva mai sapere: era meglio sincerarsi del fatto che la ragazza sapesse riprenderlo senza farlo esplodere ancora di più.

Mentre attraversava i corridoi e scendeva le scale della sua rocca, la donna quasi stentava a riconoscerla. Anche Luffo Numai l'aveva messa in guardia sull'idea di ammassare così le truppe, ma Caterina sapeva che era l'unica cosa giusta da fare. Con Imola che si stava arrendendo e che sarebbe caduta del tutto nel momento in cui fosse venuta meno la resistenza di Naldi, era verosimile credere che anche i cittadini di Forlì avrebbero voluto la resa. A quel punto, l'esercito doveva essere già ben incasellato e pronto a difendere la cittadella e Ravaldino.

Era quasi alle cucine e stava pensando tra sé a quanto avrebbe voluto poter prendere il suo cavallo e andare nei boschi, fermandosi a dormire alla Casina e tornare solo il mattino dopo. Peccato che non poteva. La Casina non esisteva più e anche i boschi, ormai, erano solo un insieme di alberi tagliati e sterpaglie bruciate.

Arrivata alla porta, sentì un tranquillo silenzio che poco si sposava con l'idea che si era fatta. Si era aspettata di trovare ancora la cuoca preda della rabbia, Bernardino in fase di rivolta e Bianca intenta a calmare le acque.

Incuriosita da quella che invece sembrava una pace pressoché perfetta, la Tigre si affacciò appena, cercando di non essere vista.

In cucina c'erano più persone di quante credesse. A parte la cuoca, che con due aiutanti stava badando al pentolone sul fuoco, c'erano tre sguattere e quattro donne che stavano cercando di capire come fosse organizzato il lavoro. Dovevano essere mogli o parenti di alcuni dei soldati appena arrivati, perché molte di loro avevano espresso il desiderio di rendersi utili e la Sforza ovviamente non si era opposta.

Al tavolo, poi, proprio con Bernardino, c'era Bianca. I due stavano parlando sottovoce e il bambino sembrava pendere dalle labbra della sorella, che, un po' china su di lui, pareva intenta a spiegargli qualcosa.

La Leonessa fece del suo meglio per indovinare di cosa stessero parlando, ma riuscì a cogliere solo una domanda uscita dalle labbra del figlio: “E mia zia Lucrezia è ancora viva?”

La Sforza sentì un crampo allo stomaco, specie nel vedere come la figlia cercasse di rispondere al fratello, e il modo in cui lui la fissava in cerca di un velo di speranza.

Lucrezia Feo non aveva mai degnato della minima attenzione il nipote, ma il fatto che Bernardino chiedesse sue notizie denunciava come il piccolo fosse desideroso di riavere un contatto con la famiglia del padre. Aveva visto prima la freddezza di Tommaso, poi il disinteresse della zia...

L'unico suo parente da parte di padre che si fosse mai interessato un po' a lui era stato Cesare. E anche se ormai non era più castellano, continuava a cercarlo e dargli il suo appoggio, anche se meno assiduamente.

La risposta data da Bianca doveva essere stata abbastanza vaga. In effetti di Lucrezia Feo e del marito, Simone Ridolfi, non si avevano notizie certe da giorni. Caterina non intendeva contattarli e, salvo avere qualche informazione per caso, sarebbe stato difficile rintracciarli. L'unica cosa di cui la Leonessa era abbastanza sicura era che i due non fossero entrati in città come invece era stato ordinato agli abitanti del contado. Se fossero rimasti sui terreni della Feo o se fossero scappati chissà dove, però, non si sapeva.

Visto che la situazione, bene o male, sembrava sotto il controllo di Bianca, la Sforza decise di andarsene in buon ordine, permettendo ai due fratelli di restare ancora un po' a parlarsi e, finalmente, conoscersi un po' meglio.

Avrebbe voluto andare a cercare Galeazzo e affrontarlo con calma. Ciò che sua figlia le aveva detto, ovvero che lui avrebbe potuto fare qualche storia, all'idea di andarsene, perché si era messo in testa di restare al suo fianco per combattere con lei, iniziava a preoccuparla, ma temeva anche il confronto diretto.

Con un sospiro, mentre tornava al piano terra, decise di lasciare al suo quintogenito un po' di tempo. Era già abbastanza tardi, e non le piaceva pensarlo fuori dalla rocca, ma volle dargli fiducia e si disse che se per una certa ora non fosse ancora rientrato, allora sarebbe andata a cercarlo.

Decisa ad attendere, quindi, si diresse verso la sua camera. Aveva abbandonato del tutto la sua tana, perché anche quella era stata riassegnata, nella nuova politica di dare un alloggio a tutti i soldati di stanza lì. La Contessa aveva spostato tutti suoi effetti personali in quella che era la sua camera ufficiale e aveva cercato di digerire bene quell'ulteriore privazione di cui si stava facendo carico.

Anche i suoi figli si erano visti raggruppare in un paio di stanze in tutto. Bernardino e Galeazzo stavano con Sforzino e Giovannino, mentre i due più grandi, Bianca e Ottaviano, avevano mantenuto un alloggio separato. La Tigre si era detta che Bianca, unica femmina e ormai diciottenne, meritava uno spazio personale per fare quel che preferiva e mantenere una sua giusta intimità. Discorso diverso aveva fatto per Ottaviano: lui doveva starsene da solo per evitare tafferugli coi fratelli.

Il corridoio era tranquillo. Era come se tutta la confusione fosse concentrata al piano di sotto e in cortile. Caterina camminava lentamente, entrando e uscendo dai coni malfermi di luce creati dalle torce a muro.

Era così convinta di essere sola che, quando intravide un movimento vicino a una delle alcove scavate nel muro, quasi si spaventò. Rallentò e finalmente capì di chi si trattava. Era Baccino da Cremona e non si era minimamente accorto di lei. Si stava guardando riflesso nel vetro un po' appannato della finestra. Difficile dire cosa potesse scorgere in quella penombra, ma il ragazzo sembrava molto concentrato.

Si sistemava i capelli e poi si guardava con la coda dell'occhio, come per vedere come stesse di profilo. Caterina lo tenne d'occhio, mentre gli si avvicinava, con passo tanto felpato da non farsi scoprire.

Doveva ammettere che era davvero un bel giovane. Aveva un fisico forgiato da un addestramento militare che doveva essere cominciato quando era poco più che un bambino, e il suo viso era interessante. Certo, non aveva la freschezza prorompente e la spietata bellezza che aveva avuto il suo Giacomo più o meno alla stessa età, né l'eleganza innata di Manfredi, ma in un modo infido e subdolo glieli ricordava entrambi, portandola a sentirsi irrimediabilmente attratta da lui.

Non fosse stato che era certa di infilarsi in un ginepraio senza uscita, gli avrebbe chiesto quella sera stessa di andare nella sua camera.

Siccome il giovane, quando lei fu a breve distanza, si stava ancora sistemando i capelli e le lattughine della camicia un po' ingrigita, la Tigre non resistette e, usando un tono di voce abbastanza alto da farlo spaventare, esclamò: “Uror amore mei, flammas moveque feroque!”

Baccino, dopo aver fatto quasi un salto su se stesso ed essersi messo in posizione di difesa, nell'accorgersi che era stata la Contessa a parlare, tentò invano di dissimulare il proprio spavento con un colpo di tosse, e poi balbettò: “Mia... Mia signora... Non vi avevo vista...”

“Lo so.” rise Caterina, senza riuscire a trattenersi.

Era una merce così rara, la risata, in quei giorni, che fu enormemente grata al cremonese, per averle concesso quello sprazzo di allegria inatteso.

Lo sapeva che un soldato come Baccino, di umili origini, non poteva certo conoscere il latino, figurarsi Ovidio e il mito di Narciso. Dopo Giovanni Medici, non aveva mai più trovato nessun uomo capace di tenerle testa, dal punto di vista culturale. Forse solo Francesco Fortunati, ma si trattava comunque di un prete.

“Mi... Mi dicevate, prima..?” fece lui, accigliandosi, rendendosi conto di non aver colto le prime parole della Sforza.

“Uror amore mei – ripeté divertita la donna, parlando molto lentamente, gli occhi verdi ancora accesi – flammas moveque feroque.”

Baccino sembrava in difficoltà. Come la Leonessa si era attesa, pareva non voler ammettere di non aver capito nemmeno una sillaba.

Da spavaldo arrogante quale spesso si dimostrava essere, però, non solo non ammise la propria ignoranza, ma, anzi, volle far credere di aver colto appieno il senso di quella massima: “Avete proprio ragione.” fece, non senza una breve incertezza e un sorriso stentato.

Per quanto inconsapevole, quell'ammissione fece ridere di nuovo la Sforza che, allungando d'istinto una mano verso di lui, gli diede una piccola pacca sulla spalla: “Meglio che non dici altro, o mi farai morire..!”

Il modo colloquiale, per quanto scherzoso – anzi, forse proprio canzonatorio – in cui la Contessa gli si stava rivolgendo piaceva a Baccino. Anche il fatto che gli avesse dato del tu e che avesse instaurato tra loro un contatto fisico, anche se fugace e cameratesco, aveva instillato in lui una speranza molto precisa.

Caterina, invece, nel vederlo rimanere a bocca aperta e occhi confusi, si decise una volta per tutte a non provare a chiedergli nulla, per quella notte. Non era perché l'avesse delusa, con la sua mancata conoscenza dei poeti latini, tutt'altro. Quello scambio di battute le aveva riportato alla mente una scena che risaliva ormai a un'altra vita.

Si era ricordata del suo Giacomo, di come cercasse di dissimulare la propria vergogna nel sentirsi inadeguato a lei, il modo in cui storpiava il latino cercando di farla ridere, piuttosto che lasciarla ragionare sulle differenze incolmabili che avrebbero potuto finire a dividerli.

Vedendo come la sua signora si stesse allontanando senza dire altro, Baccino tentò di fermarla, provando con la strada dell'umiltà, una via a lui molto indigesta: “Potreste spiegarmi cosa mi avete detto?”

'Ardo di amore per me stesso – tradusse nella sua mente la Tigre, trovando sorprendentemente quelle parole quasi crudeli – suscito e subisco la fiamma'.

“No, lascia stare soldato...” disse, trovando che fosse meglio non rivelargli ciò che gli era stato detto: “Pensa ai tuoi affari e a combattere bene, che presto ce ne sarà bisogno.”

A quel punto, il cremonese non ebbe più il coraggio di ribattere e la guardò mentre si allontanava e spariva oltre la porta della propria stanza, sensuale come l'unica delle donne e fiera come una statua di marmo.

 

“Ma che stanno facendo?” Dionigi Naldi era incredulo, tendendo l'orecchio e stringendo gli occhi contro il buio della notte che veniva rischiarato da quella che sembrava una festa che coinvolgesse tutta la città, andando a trasformare Imola in un brulicare di di luci e ombre.

Il castellano non sentiva nemmeno la pioggia infradiciarlo, per quanto era teso. Gian Piero Landriani, al suo fianco, non diceva nulla, ma si sentiva del suo stesso stato d'animo.

“Se stanno festeggiando – fece Naldi, deglutendo a fatica – significa che hanno votato e ha vinto la fazione che voleva arrendersi. Altrimenti invece di banchettare per le strade e nelle locande, starebbero scappando e invocando la morte!”

“Cosa facciamo, allora?” chiese il Landriani, invitando l'altro a ritirarsi al coperto, per evitare, almeno, di prendersi una polmonite.

“Puntiamo i cannoni e colpiamo.” decretò il castellano: “Prima di domattina sono pronto a scommettere che i francesi sposteranno in città il grosso del loro esercito. A quel punto gli imolesi capirebbero comunque in che guaio si sono cacciati.”

“Sì, ma se usiamo ora i cannoni...” la titubante di Gian Piero fece sollevare le sopracciglia di Dionigi.

Il castellano si aspettava che il milanese ribattesse dicendo qualcosa in difesa del popolo, sostenendo che colpire alla cieca avrebbe fatto solo una strage tra i loro, colpendo ben pochi tra i nemici.

E invece Landriani disse: “Sotto la pioggia, rischiamo di bagnare la polvere e far inceppare i cannoni...”

Rinfrancato da quella che gli pareva un'ammissione di solidarietà da parte dell'altro, Naldi sospirò e spiegò: “Tra le migliorie che sono stato incaricato di portare a termine, quando vi ho sostituito come castellano, c'erano dei ripari per le bocche da fuoco.” fece una pausa e poi concluse: “La Contessa aveva previsto che saremmo arrivati a dover colpire la città, e vista la stagione...”

Gian Piero parve favorevolmente colpito e poi, annuendo con forza, lo incitò: “Date l'ordine, allora... Che i francesi capiscano che avversari hanno davanti e gli imolesi capiscano che difensori hanno rinnegato.”

 

Era passata la mezzanotte e Caterina si era decisa a cercare Galeazzo. In camera non c'era, perciò ipotizzò che fosse ancora alla cittadella. Si fosse trattato di un altro tra i suoi figli, avrebbe cercato piuttosto nei bassifondi o nei bordelli, malgrado la giovane età, ma aveva capito che per il suo quintogenito, al momento, esistevano solo le armi e poco altro.

Uscita da Ravaldino con addosso un mantello spesso per proteggersi dal diluvio, la donna raggiunse il Paradiso in un soffio. Riconosciuta subito dalle guardie, entrò e chiese al primo soldato che le capitò a tiro se avesse visto suo figlio.

L'uomo annuì subito e le disse che l'avrebbe trovato sui camminamenti, assieme agli altri di ronda.

Evitando di dimostrare la propria sorpresa, la donna ringraziò e fece come le era stato detto. Ci mise quasi mezzo perimetro di mura, ma alla fine si imbatté nel ragazzino che stava cercando.

“Madre.” disse piano Galeazzo, nel trovarsela davanti.

La Contessa lo squadrò con attenzione. Non fosse stato per il fisico ancora acerbo e lo sguardo un po' impaurito, conciato a quel modo sarebbe davvero potuto passare per un armigero.

“Vieni con me.” gli disse piano, facendogli un cenno e convincendolo a seguirla.

Lasciarono i camminamenti e la Tigre cercò un angolo tranquillo. Anche la cittadella, così come la rocca, sembrava un formicaio quella notte. Quando trovò una rimessa per gli attrezzi dei manovali deserta prese una torcia dal muro, e si fece seguire dentro da Galeazzo.

Dopo aver appeso l'unica fonte di luce a un gancio della parete, la donna lo fissò: “Che ci fai qui?”

Il Riario le sembrava un pulcino arruffato, tutto bagnato e con un elmo troppo grande per la sua testa.

“Volevo rendermi utile.” rispose lui, abbassando lo sguardo.

“Prendendoti qualcosa per colpa del freddo?” lo rimbrottò lei, ricordandosi per un fugace istante di quando anche Galeazzo era stato ammalato, nel corso della stessa epidemia che le aveva portato via sua madre e Livio.

“Non sono più un bambino.” ribatté lui, abbastanza fermo, mentre si cavava l'elmo, appoggiandolo su una pigna di sacchi di sabbia: “E poi devo cominciare a fare qualcosa, perché quando arriveranno i francesi...”

“Tu andrai coi tuoi fratelli a Firenze, lo sai.” lo interruppe Caterina, quasi felice che fossero già arrivati al punto.

“Io resto con voi.” si oppose lui, sollevando il mento e guardandola negli occhi.

“No.” scosse il capo la Sforza.

“Io resto.” insistette il ragazzo.

“No.” ripeté, con un soffio, la donna.

“Io resto!” l'esclamazione era partita dalle labbra del Riario inattesa, senza che lui potesse frenarla, così come, irrefrenabile, si era sollevata la mano della Leonessa che, fulminea, era arrivata a colpirlo.

Tenendosi la guancia su cui era arrivato lo schiaffo, Galeazzo non riuscì nemmeno a parlare, perché la Contessa, già pentita del suo scatto, lo stava abbracciando.

“Chi resta con me qui morirà e io non voglio vederti morire.” fece Caterina, parlando in fretta, contro l'orecchio del figlio: “Ho già visto morire tuo fratello e non voglio veder morire più nessuno dei miei figli. Tu devi vivere.”

“E come potrei vivere sapendo di avervi lasciata qui?” la domanda era nata spezzata, roca, come se il quasi quattordicenne stesse facendo di tutto per non scoppiare a piangere.

“Tu dovrei badare ai tuoi fratelli per me.” tagliò corto la Sforza, staccandosi da lui e posandogli una mano sulla spalla: “Ti chiedo questo. Tu li dovrai difendere esattamente come se al tuo posto ci fossi io.”

Il ragazzino non sembrava del tutto convinto, ma la madre non aveva intenzione di dargli ancora corda.

“Andiamo alla rocca, adesso. Devi asciugarti.” lo rimproverò, indicandogli la porta: “Avanti.”

Mentre lasciavano la rimessa e attraversavano in fretta gli ambienti austeri della cittadella, la Contessa si sentì chiamare. Si voltò e quando vide Giovanni da Casale che li rincorreva, si fermò, facendo cenno anche al figlio di fare altrettanto.

“Mi hanno detto che eri qui...” fece Pirovano, arrivandole accanto: “Ma credevo mi stessero prendendo in giro...”

“E allora perché sei corso a cercarmi?” domandò lei, secca.

L'uomo lanciò un'occhiata a Galeazzo che, però, ancora rosso in viso, non stava ricambiando lo sguardo: “Perché mi manchi.” sussurrò, sperando quasi che il Riario non sentisse.

La Tigre fece una mezza smorfia. Avrebbe voluto dire al suo amante che non era il caso di comportarsi come un innamorato da poema epico, ma non aveva voglia di soffermarsi con lui.

“Caterina...” fece allora Giovanni, dato che la donna aveva ricominciato a camminare: “Senti, quelli che stai facendo arruolare... Sono perlopiù ragazzini...”

“Sono quello che resta.” ribatté lei, senza fermarsi, il figlio che la seguiva.

“Allora lascia restare anche lui. Se quei ragazzini sono pronti, lo è anche lui.” la provocò Pirovano, indicando Galeazzo.

Il ragazzino, sentendosi chiamare in causa, si tese come una corda d'arco, quasi speranzoso, ma le parole della Tigre spensero ogni sua ulteriore velleità: “Vai al diavolo, Giovanni.”

L'uomo incassò con una certa classe, e, capendo che per quella notte non avrebbe avuto nulla, buttò lì un semplice: “Domani faremo in tempo a incontrarci?”

Caterina sospirò. Le sarebbe piaciuto fermarsi alla cittadella e passare la notte con lui. Aveva voglia della compagnia di un uomo, ma...

“Arriveranno notizie da Imola, immagino, quindi, sì, ci vedremo sicuramente al Consiglio di Guerra che convocherò.” rispose.

Zittito a quel modo, il comandante del Paradiso sollevò una mano, in segno di resa e poi sussurrò, greve: “Passa una buona notte, con chiunque tu la voglia passare.”

La donna non raccolse la provocazione e, mettendo protettiva un braccio attorno al figlio, riprese a camminare più svelta.

“Imola è persa, ormai, vero?” chiese Galeazzo, che aveva deciso di fingere di non aver colto assolutamente nessuna delle battutine da amanti arrabbiati che aveva sentito.

“C'è ancora la rocca con Naldi...” tentennò la donna.

“Uccideranno anche lui.” commentò freddo il Riario.

“Probabilmente sì.” annuì la Sforza, non trovando, quella volta, nessuna parola di conforto per il figlio che sentiva di amare di più: “Probabilmente sì...”

 
 
   
 
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