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Autore: Esthel_    03/08/2009    0 recensioni
[Saga] ''...ma è come se una voce gli dicesse, che c’era qualcos’altro che doveva ancora cercare, che doveva ancora esperimentare, qualcosa che lo avrebbe identificato, qualcosa in cui si sarebbe completamente fuso con esso. Doveva cercare il suo strumento, e lo avrebbe trovato...''
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Lemon
‘‘ Il tempo, durante il quale le condizioni peggiorano, passa.
Ora, l’incontro; se potessi esprimere un desiderio a Dio
Un’occhiata di te, di te, ma…’’

Lemon – Alicenine

 

Si era sempre chiesto, come le sue mani potessero essere così lunghe e affusolate, come potessero essere così aggraziate, come quelle di una ragazza, o come potessero muoversi così agili e sicure.  Sua madre, gli ripeteva continuamente che possedere quelle caratteristiche, significava avere una grande fortuna.  Takashi si era sempre domandato il perché,  qualche mai grande fortuna avrebbe raccolto con quelle sue mani, e sua madre, si  era sempre limitata a sorridergli, manifestando una ragnatela di rughe agli angoli dei sui occhi neri, avvicinandosi e sussurrargli amorevolmente all’orecchio:  ‘’ Takashi, un girono, non molto lontano, un grande futuro ti porterà lontano ‘’ . Notava come sua madre, sfumasse l’ultima frase con una leggera nota di malinconia, quasi impercettibile,  perché questo grande futuro che lei parlava, significava anche portarlo via da se.

Quelle mani ora, venivano debolmente illuminate della fioca luce che filtrava attraverso una finestra semichiusa, posandosi delicate sui tasti candidi di un pianoforte, a far risuonare nella piccola casa di paese, un motivetto facile e malinconico. La melodia venne arrestata, le mani erano ferme sulla superficie dei tasti bianchi, gli occhi erano persi in un punto indefinito: capiva, incominciava a capire dentro di si, le parole di sua madre, incominciava a provare la voglia di aggrapparsi a un sogno, incominciava a capire cosa si celasse dentro di se: incominciava a credere. Era come se fosse stato scosso, come se fosse stato indotto ad aprire gli occhi,  a risvegliassi dalla sua vita monotona e spenta, e guardare oltre.  Come la dolce voce di su madre continuasse a risuonare nella sua mente, ora ve ne una altra che proveniva dal suo cuore e non faceva altro che pronunciare una sola parola: Musica.  
La musica era sempre stata il suo punto di riferimento, la sua fonte vitale, la sua ancora di salvezza. Era impossibile, ne minimamente impensabile separarsi da essa. Suo padre, fin da bambino gli aveva insegnato a suonare il piano, ma ancora oggi, sa di non essere bravo, di dover applicarsi molto di più per diventare un perfetto pianista, ma è come se una voce, gli dicesse che c’era qualcos’altro che doveva ancora cercare, che doveva ancora esperimentare, qualcosa che lo avrebbe identificato, qualcosa in cui si sarebbe completamente fuso con esso. Doveva cercare il suo strumento, e lo avrebbe trovato.
Sakamoto Takashi, osservava le foglie del vecchio salice appassire e cadere, riponendo i suoi pensieri nella tranquillità di quel momento.     

 

 

Tree

Candide e  fredde lenzuola intrecciavano un altrettanto candido e minuto corpo, che si godeva gli ultimi istanti di pace,  prima di affrontare un ennesima giornata, prima di riaprire quegli occhi castani al mondo, prima che il sole al suo risveglio, lo avrebbe abbagliato.  Era un sabato mattina come tanti, e come ogni mattina il profumo della colazione già pronta, giungeva come un dolce richiamo alle sue narici che lo indussero ad alzarsi con un sorriso sulle labbra. Takashi si alzò, si stiracchiò davanti alla finestra dove l’aria mattutina e pulita lo fecero rabbrividire e risvegliare la mente, dove il vecchio salice era sempre lì, grande e maestoso, come a dargli il buongiorno.

Giunto in cucina, la sua famiglia era già pronta ad attenderlo con una invitante colazione alla giapponese. << Buon girono, famiglia! >> esclamò, raggiante e si sedette a una delle sedie del tavolo, vicino a suo padre.
<< Buongiorno, Takashi! >> risposero di rimando i suoi, e prese ad afferrare il primo boccone del suo onigiri.
 Guardava di sottecchi suo padre mentre consumava silenziosamente la sua colazione, notava come avesse stampato in volto un perenne sorriso da ebete, come consumasse con gusto e frettolosamente la sua zuppa di ramen. Sua padre era il veterinario di paese, amava gli animali e aveva trasmesso questa sua grande passione anche al proprio figlio. E lui, fin da piccolo,  credeva che gli unici suoi amici sarebbero stati gli animali, oltre alla musica.
<< Cosa ti rende di così buon umore stamattina, papà? >> canzonò, sorridendogli amichevolmente. L’uomo non ripose, si limitò a sorridere sotto i baffi, e prese parola sua madre, che era proprio davanti a loro: << Hai presente il gatto dei vicini, Nakamura? Era malato, rischiava di morire.  E’ stato sottoposto ad una operazione che  grazie a dio è andata bene, ed ora è salvo! >>.  Takashi assunse un aria perplessa a ricordare la faccia buffa del vecchio e grasso gatto grigio della vecchia vicina bisbetica, ma era felice che stese bene, ora. << Ne sono felice, papà. Ottimo lavoro! >> il giovane moro osservava suo padre, regalandogli un sorriso sincero. Lui scoppiò in una fragorosa risata e alzò un braccio che andò a posare sulle esile spalle del figlio, a scuoterlo. << Grazie ragazzo mio!  Ne sono felice anch’io >> continuarono a ridere allegramente come padre figlio, quando l’uomo di casa afferrò le proprie cose e scappò al lavoro dopo aver salutato la propria moglie e il proprio figlio. << A stasera! >> esclamò, prima di andar via in fretta e furia. I restanti membri della famiglia, consumarono in tranquillità ciò che rimaneva della colazione, accompagnati dal canticchio delle rondini che quella mattina cantavano più del solito.
<< Mi aiuteresti a sparecchiare, Takashi-chan? >> gli chiese sua madre, alzandosi da tavola.  Il ragazzo la imitò e senza pensarci due volte, annui, sorridendo,  << Certo >>.
Sua madre aveva notato il mondo ingenuo in cui aveva sorriso,  aveva notato come quella mattina era entrato in cucina raggiante come il sole, e gli lanciò un occhiata incuriosita. << Come mai sembriamo tutti di così buon umore, stamattina? >> canzonò, ridacchiando.
Chi non conosceva bene Takashi, avrebbe senz’altro detto che era un tipo al quanto strano, solitario e perennemente imbronciato. Mentre, chi lo conosceva bene - e in questo caso le persone erano poche -, avrebbe senz’altro detto che Takashi era dotato di un grande carisma e di un gran cuore, da capacità canore e da pianista, che lui diceva di non avere, e sapeva davvero essere goffo quando si imbarazzava.
<< Non ne ho idea >> fece spallucce, reggendo per mano le ciotole vuote, avendo ancora stampato quel sorriso ingenuo sulle labbra, << Sarà per via dei tuoi onigiri così buoni, mamma >> ridacchiò, sfoggiando un sorrisetto sghembo. Sua madre scosse la testa, sorridendo. << Ah, Takashi… >> sospirò, e si allontanò.
Stava quasi per finire di sparecchiare, quando il tintinnio  di un campanello e un corpo caldo strusciarsi sulle sue gambe, lo sorpresero ed incrociò lo sguardo di due enormi  e tristi occhi castani che lo chiamavano. Era Yoshiro, un vecchio cane meticcio dal pelo marroncino, trovato da suo padre un paio di mesi prima, nei pressi della campagna, bastonato e picchiato a sangue da qualche depravato. Avevano cercato disperatamente un nuovo padrone per lui, ma nessuno sembrava essere interessato a due enormi occhi castani che avevano ormai perso la loro vivacità, la loro luce. Così, l’avevano preso con se e Takashi l’aveva trovato un nome, mentre Yoshiro, aveva trovato un ottimo padrone.
<< Cosa c’è? Hai fame eh, Yoshiro? >> gli accarezzò il collo e poi le orecchie, e la sua coda prese a muoversi freneticamente. Takashi afferrò la ciotola e i cereali dal ripostiglio, gliela posò per terra e lo stette a guardare mentre consumava affamato la sua colazione. Gli voleva davvero bene.
Takashi aveva lasciato la cucina, Yoshiro lo aveva seguito da fedele compagno e avevano raggiunto camera sua, dove si era seduto sul davanzale della finestra, dove brezze di vento fresche e pulite, li scompigliavano i capelli castani. E si persero entrambi a contemplare il paesaggio, ad osservare le foglie del grande salice cadere per terra, silenziosamente.
Vivevano nella periferia di un piccolo paese di Osaka; se si affacciava poteva scorgere subito dopo il salice, le altre piccole abitazioni dei vicini, contornati da alcuni steccati in legno, mentre, più a valle, si ergeva il campanile della piccola chiesa di paese e ancora più giù, il centro urbano: la piazzetta, i pochi e necessari negozi, e le restanti abitazioni. Nella vita tranquilla e serena di paese, si trovava bene. Non crede di aver mai desiderato quella caotica e frenetica di città.
Voltò lo sguardo alla sua sinistra, dove a circa un paio di metri di distanza, quasi in parallelo con l’albero di salice, vi era un grande albero di limoni, dove al sicuro della grande ombra che proiettava sulla verdeggiante erba, riposava tranquillamente una ragazza. Aguzzò la vista per poter scorgere meglio i particolari del suo volto, ma era troppo lontana per poterlo fare. Era strano, come non l’avesse mai notata prima. Credeva che fosse l’unico che sonnecchiava sotto gli alberi o scriveva canzoni.
Takashi si distaccò dalla finestra, Yoshiro lo seguì ancora, le sue mani andarono a posarsi nuovamente sui tasti bianchi del piano, e una nuova melodia prese ad echeggiare limpida e melodica.     

Era sorprendente come perdesse la cognizione del tempo mentre suonasse, mentre si perdeva in ogni piccola nota, mentre si sentiva fondersi con la musica stessa, mentre le sue mani sembravano essere smosse da una forza sconosciuta. Yoshiro, da fedele amico, rimase appollaiato vicino alle sue gambe, come se non si fosse mai mosso per tutto il tempo. Era ormai tardo pomeriggio e il sole stava per tramontare; la voce di sua madre che lo chiamava, lo fece risvegliare e ritornò sulla terra. Takashi raggiunse la cucina seguito dal Yoshiro e raggiunse sua madre intenta a preparare la cena.
<< Takashi-chan, potresti andare al chiosco di ramen appena dopo la piazzetta e prenderne 3 ciotole? >> domandò sua madre, e aggiunse: << Ah! Porta anche a spasso Yoshiro, visto che ci sei >>. Takashi annuì, mise il guinzaglio al cane, si infilò la giacca, e si imbatté nell’aria fredda della sera.

Le prime luci presero ad accendersi e ad illuminare il piccolo paese, il sole ormai era tramontato lasciando pallide scie dal rosso all’arancio. Le sue guancie presero ad arrossarsi per via dell’aria fresca e pungente della sera: l’inverno stava per arrivare, ormai. Mentre Yoshiro, sembrava trovarsi al proprio agio, libero di muoversi e sgranchirsi le ossa. La piazzetta era gremita da qualche coppietta, un paio di bambini che strillavano ai giochi e gruppi di vecchietti che confabulavano tra loro. Tutto tranquillo e sereno come al solito.
Superata, notava come le luci man mano diminuivano, come il silenzio tornasse a regnare tra di loro, come le due ville abbandonate che si trovavano alla sua sinistra, celassero una aspetto alquanto inquietante. Ma perché un chiosco ambulante di ramen dovrebbe trovarsi così lontano dalle abitazioni e in un posto così deprimente? Takashi scrollò le spalle, ritrovandosi proprio davanti al luminoso chiosco dove Yuni, il tizio del ramen, lo salutò raggiante. << Salve Takashi-kun! >> aprì le braccia al cielo, sventolando in aria un enorme forchetta, << Quante porzioni vuoi di ramen, questa sera? >> domandò, chiassosamente. << Salve a lei, signor Yuni-san. Tre porzioni vanno bene, grazie >> sorrise cordialmente, attendendo  le fumanti e calde porzioni da portare via di ramen che arrivarono dopo pochi minuti.
<< Torna preso, Takashi-kun! >> esclamò l’uomo, affacciandosi dal chiosco e sventolando ancora la forchetta gigante per aria.
Il giovane moro era sulla via di ritorno, pronto a ripercorre quel piccolo viale buio e deprimente prima di ritrovarsi nuovamente nella luce e armonia del paese. Ma il silenzio di quel momento, venne interrotto dal rumore di schiamazzi e passi pesanti avvicinarsi, dalla apparizione di un tizio basso e grassoccio, dagli occhi piccoli e i capelli neri, accompagnato dai 3 suoi scagnozzi. Era Higashi, il teppista del paese e la sua banda di scapestrati. Non erano suoi amici ma si sa, in paese si conoscono tutti.  
<< Oh, Oh! Ma guarda chi abbiamo qui, il pianista del paese e il suo cane bastonato! >> canzonò, e ridacchiarono di malo modo. Takashi storse le labbra in una smorfia e senza degnarli di uno sguardo, avanzò il primo passo a superarli.
<< Ah. Ah! Dove credi di andare, Takashi-chan? >> lo fermò l’altro, portando le mani ferme a mezz’aria verso di lui, il ragazzo si fermò, sbuffò e gli lanciò un occhiataccia. << Non voglio rogne, Higashi. Fammi passare >> scandì, e il grassaccio sfoggiò un ghigno malefico prima di riprendere parola: << Tu vuoi che ti lascia passare? Perfetto! Consegnaci il ramen e noi ti lasceremo basare >> impose l’latro, continuando a sogghignare sotto i baffi.
<< Scordatelo >> iniziò, scandendo perfettamente ogni sillaba, avanzando ancora un altro passo in avanti, << Non compro ramen per una feccia come te >> concluse, notando come l’altro si fece sfuggire una risatina irritata, come lo sguardo degli altri si aggravarono su di lui, diventando minacciosi. Higashi strattonò bruscamente Takashi per terra, senza dare a quest’ultimo la possibilità di accorgersene, che cadde urtando bruscamente la testa sul marciapiede, facendo rovesciare le ciotole di ramen per terra, mentre Yoshiro prese ad abbaiare contro gli assalitori e uno di questi, gli sferrò un calcio che lo fece atterrare quasi vicino al suo padrone.  Higashi era pronto a colpire nuovamente la sua preda, con ancora un ghigno malefico stampato sulle labbra e Takashi lo sapeva  benissimo, e sapeva anche che doveva alzarsi e reagire, ma la botta era stata così forte che appena tentò di farlo avvertì la testa girarli e la vista appannarli. Temette di dover rimanere a subire le torture del teppista fino a quando qualcuno non sarebbe venuto in suo soccorso, magari il tizio del ramen sentendo delle urla sarebbe venuto a controllare e avrebbe avuto una possibilità di scampo, o semplicemente sarebbe stato il loro divertimento per tutta la serata. Higashi stava proprio per sferrargli un pungo in faccia quando, come se fosse piovuta giù dal cielo, un ombra si scagliò contro il suo assalitore, che indietreggiò ed esclamò: << Oh, no…Ancora tu! >> fu l’unica cosa che riuscì ad udire dalle sue labbra prima di vederlo ricevere un calcio dritto dritto nello stomaco dal suo misterioso salvatore. Cercava di aguzzare la vista per poter scorgere i lineamenti del suo volto, ma era troppo buio per poterlo fare e la vista ancora gli era impedita, per non parlare che lo sconosciuto avesse per metà il viso completamente coperto dal cappuccio della felpa.
I tre scapestrati non osarono muovere un muscolo, solo il più coraggioso osò avvicinarsi al suo boss per soccorrerlo.
Lo sconosciuto invece, si voltò verso il nostro Takashi e il povero Yoshiro stesi per terra. << Avanti, alzati! >> gli urlò, afferrandolo per  un braccio e issarlo su con tutte le sue forze. Il ragazzo avvertì nuovamente la testa girarli bruscamente e prima che ricadesse nuovamente per terra, prese in braccio il povero Yoshiro e venne trascinato di corsa dal suo salvatore.
Corsero a perdifiato per tutta la piazzetta che ormai sembrava essersi svuotata, svoltarono qualche angolo senza nemmeno guardarsi alle spalle per un secondo. Takashi dovette ringraziare l’aria pungente della sera che man mano sentiva che lo stava risvegliando. Avvertiva anche, come il povero Yoshiro tremasse e si lamentasse tra le sue braccia, e una incontrollabile rabbia lo invase.
Si trovavano a pochi passi dalla chiesa, poteva già scorgere casa sua, quando lo sconosciuto lo trascinò nello stretto e buio vicolo vicino al campanile.  Takashi si accasciò sul muro, con il fiatone e il respiro pesante, anche lo sconosciuto sembrava avercelo e ora lo vide esporsi dal vicolo per accettarsi di non essere stati seguiti. Fortunatamente, non c’era nessuno.
<< Tu abiti vicino al vecchio salice, vero? Corri…va a casa >> ordinò, respirando a fatica. Takashi dapprima non rispose, ma gli si avvicinò, cercando di scorgere il suo viso, del resto, non sapeva nemmeno se fosse donna o uomo. << C-chi s-sei? >> sussurrò, recuperando man mano fiato.
<< Va a casa! >> insisté l’altro.
E Takashi, stringendo tra le braccia il suo unico fedele amico, corse verso casa senza voltarsi indietro.      
    

  
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