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Autore: Adeia Di Elferas    29/12/2019    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Non mi sembra che la vostra idea abbia avuto un grande successo...” fece Cesare Borja, guardando di traverso Achille Tiberti, giocherellando con la lettera che gli era appena arrivata da parte di Annibale Bentivoglio.

Dopo la serata di festa che era stata concessa agli imolesi, dalla rocca si erano sentiti alcuni colpi di cannone e la popolazione si era immediatamente ritirata nei pochi punti della città che non fossero sotto tiro. In più gli Anziani, gli stessi che avevano convinto gli altri a rimettersi alla clemenza e alla protezione dei francesi, avevano cominciato a fare una processione continua al padiglione del figlio del papa, per chiedere che facesse qualcosa.

L'uomo, stanco del viaggio e già stufo di quella città preda della pioggia, aveva declinato tutto a Tiberti, perché il cesenate aveva tenuto molto a dire che lui conosceva Naldi e sapeva come farlo cedere.

Così, mentre i soldati del Borja aspettavano ai limitari della città per prenderne possesso in modo definitivo, il Duca aveva solo aspettato che Achille tornasse con buone notizie. Gli aveva permesso di disporre delle armi e degli uomini come meglio credeva, ma solo a patto di vedere dei risultati tangibili.

“Ma se non mi lasciate aprire il fuoco...” provò a lamentarsi Tiberti.

“Se il vostro piano fosse stato efficace – lo zittì il Valentino, lasciando lo sgabello da campo e avvicinandoglisi – sarebbe bastato disporre le batterie come avete fatto per farlo smettere. Invece continua a bombardare con cadenza regolare i punti sensibili della città. Volete che io sia il signore di un'accozzaglia di macerie?”

Per la prima volta da che lo conosceva, Achille si trovò ad avere davvero paura del Borja. I suoi occhi scuri lo tenevano imbrigliato come una nebbia nera e il suo viso, così particolare e inconfondibile, quella mattina sembrava esser stato ridisegnato dal diavolo in persona.

“No, ma se non mi lasciate fare fuoco...” provò di nuovo il cesenate, la voce che si rompeva prima di riuscire a finire la frase.

“Non spreco munizioni e polvere da sparo per una cosa inutile.” tagliò corto Cesare, allontanandosi di scatto e rivolgendosi all'attendente che aspettava impettito vicino all'uscita della tenda: “Fate venire qui una trombetta. E cercatemi anche Vitellozzo Vitelli. Devo parlargli...”

Siccome Tiberti indugiava sul posto, indeciso se attendere a sua volta ordini o meno, il Duca, tornando al suo sgabello e alla missiva che gli era stata mandata dal figlio di Giovanni Bentivoglio, gli dedicò un'occhiata quasi divertita e poi, con un gesto di sufficienza, gli indicò l'uscita.

Il cesenate, preso alla sprovvista da quei modi, sollevò le sopracciglia, quasi a dire che non aveva capito.

“Levatevi dai piedi.” parafrasò allora il figlio del papa, sorridendo mellifluo.

Mentre faceva quel che gli era stato detto, Achille si trovò a pensare che quel ventiquattrenne, descritto da tutti sempre e solo come un incapace ben vestito e pieno di arroganza, aveva solo portato una maschera e che, prima o poi, tutti quanti si sarebbero pentiti di avergli messo in mano un esercito intero.

 

Il Consiglio di Guerra che Caterina aveva convocato stava durando molto più del previsto. Le notizie arrivate da Imola, che volevano Giannotto traditore, la rocca ancora saldamente nelle mani di Naldi e la popolazione a favore dei francesi, avevano tenuto impegnati a lungo gli uomini della Tigre.

La Sala della Guerra era quasi troppo piccola per tutta la gente che la donna aveva voluto alla sua presenza, ma nessuno osava lamentarsi né per il caldo insopportabile che si era creato, né per lo scarso spazio a disposizione di ciascuno.

I fratelli della Contessa le stavano affianco e, eccezion fatta per Alessandro, che sembrava quello più scettico, l'appoggiavano a ogni esternazione. Anche Paolo e Scipione Riario facevano quadrato attorno a lei e alla Leonessa quella sensazione faceva abbastanza piacere.

Sapeva che le sue decisioni rischiavano di suonare impopolari, ma non era il momento di cercare una conciliazione tra la diplomazia e le necessità della Stato. Doveva parlare in modo chiaro e far capire a tutti che non c'erano alternative oltre la resa o il combattere fino all'ultimo.

“Da Faenza non sappiamo ancora nulla?” chiese il Capitano Rossetti, le braccia incrociate sul petto.

“Non sappiamo nemmeno se il Borja l'attaccherà davvero – ammise la Sforza, che ne aveva parlato poco prima anche con l'Oliva e Numai – anche se c'è stata una scaramuccia tra i loro e Tiberti, non sappiamo in che termini i francesi intendano tener fede alla loro alleanza con Venezia.”

Molti tra gli armigeri presenti, Giovanni da Casale se ne accorse senza fatica, non avevano capito a fondo il suo discorso. Assieme a strateghi e uomini politici, la Tigre aveva radunato attorno a sé molti soldati sveltissimi con la spada, ma non altrettanto con la logica.

Così, a loro beneficio, convinto che più un concetto veniva compreso, più era facile seguire le direttive di chi comandava, tradusse, a mo' di commento: “Venezia e Faenza sono alleate e Venezia è in accordi con il re di Francia, quindi teoricamente Astorre Manfredi potrebbe anche non essere un suo obiettivo. Tuttavia...”

Il milanese non concluse il pensiero, perché la sua amante lo stava fissando e l'espressione che le si era dipinta in volto non gli piaceva.

“Tuttavia – riprese lei, appoggiando una mano al tavolo delle mappe e riprendendo il discorso a modo suo – i Bentivoglio non hanno permesso al figlio del papa di passare dalla città Bologna con l'esercito, né gli hanno fornito uomini. La madre di Manfredi è una figlia di Giovanni Bentivoglio e ritengo difficile, a questo punto, capire come si muoverà il Duca di Valentinois.”

Galeazzo, a breve distanza dalla madre, ascoltava annuendo leggermente, dimostrando come, per lui, a differenza di molti altri presenti, quel ragionamento paresse comprensibile e, anzi, del tutto corretto.

Caterina, rinvigorita nel vedere il figlio approvare e condividere le sue perplessità, ricominciò a parlare e così, tra una questione e l'altra, si giunse a sciogliere quel Consiglio, iniziato appena sorto il sole, nel primo pomeriggio.

Mentre tutti cominciavano ad andarsene, molti dei quali carichi di ordini da portare a termine in poco tempo, la Sforza vide avvicinarsi Pirovano. Lei stava ancora parlottando con Numai e aveva accanto Galeazzo, perciò in un primo momento non gli diede peso. Tuttavia, quando capì che il suo amante voleva dirle qualcosa, si scusò con Luffo, promettendogli di continuare in un secondo momento il discorso che avevano iniziato, e chiese al figlio di aspettarla fuori.

“Che vuoi?”chiese la donna, un po' indisponente.

“Credi che potremo stare un po' da soli, oggi?” Giovanni non voleva dar troppo a vedere la propria irrequietudine, ma di fatto il modo in cui i suoi occhi saettavano di continuo verso la Contessa non lasciavano dubbi sul suo stato d'animo.

C'era una cosa che aveva cominciato a tormentarlo, oltre alla gelosia che non sapeva come dominare, se non richiudendosi in se stesso e riversando la propria collera sui soldati che comandava, abbaiando loro ordini e imponendo turni di servizio che a volte rasentavano l'insopportabile. Si trattava del pensiero, costante e corrodente della fine che si avvicinava.

Si era offerto a Caterina praticamente senza indugio, aveva deciso di combattere per lei fino alla morte e di non tradirla mai. Però, inconsciamente, l'aveva fatto pensando che sarebbero stati l'uno accanto all'altra fino all'ultimo respiro. Però ora lui era il comandante del Paradiso e lei di Ravaldino. Non erano destinati a morire assieme. E nemmeno, questo soprattutto lo destabilizzava, a passare gli ultimi giorni di vita l'uno con l'altra. Sarebbero stati divisi, una volta arrivati i francesi, e probabilmente non si sarebbero visti più.

Non voleva retrocedere né infrangere il suo giuramento, ma sperava che, prima che il nemico si presentasse alle loro porte, la sua amante gli concedesse ancora qualche momento degno di essere ricordato una volta che fosse giunta la solitudine degli ultimi momenti.

“Io...” Caterina sospirò, pensando tra sé a quello che si era imposta di fare quel giorno.

Imola era caduta e le voci sulla facile vittoria di Tiberti si stavano spargendo più rapide di quelle della coraggiosa resistenza di Naldi. Voleva farsi vedere in mezzo ai soldati, poi in mezzo alla città, sicura e forte, sperando che bastasse a rassicurare un po' i forlivesi. Presto, temeva, anche loro avrebbero voluto scegliere se arrendersi o restare al suo fianco...

Pirovano fraintese la titubanza della sua amante, volendo scorgere nella sua espressione corrucciata l'affannosa ricerca di una scusa per rifiutarlo. Grattandosi la fronte, alla ricerca di un modo adeguato per dire alla Tigre quel che pensava, l'uomo si voltò di scatto nel sentire qualcuno entrare nella Sala della Guerra.

“Mia signora...” Baccino rimase sulla porta, indeciso se azzardare o meno qualche passo in più.

La Sforza, che, nell'elenco mentale dei suoi impegni, stava ancora cercando di trovare un momento della giornata libero da dedicare al suo amante, distolse le iridi verdi dal profilo di Giovanni e guardò oltre la sua spalla, verso il cremonese: “Che c'è?” domandò, con uno sbuffo.

“Il maestro d'armi vorrebbe parlarvi con una certa urgenza...” fece Baccino: “Dice che abbiamo dei problemi con alcuni pezzi d'artiglieria...”

“Va bene, arrivo.” annuì la donna e poi, rivolgendosi a Pirovano, sussurrò: “Devo andare, ne parliamo dopo.”

L'uomo, che aveva seguito lo sguardo della Leonessa fino al cremonese e aveva capito, tornando a fissare lei, che non gli era esattamente indifferente, si lasciò trascinare dalle ombre del suo cuore e ribatté, secco: “Ho capito.”

“Che cosa?” chiese lei, non riuscendo a seguire il ragionamento.

“Ho capito, Tigre.” rispose lui, con un tono insinuante che le fece ribollire il sangue.

“Tu non hai capito proprio nulla...” disse, cercando di passare oltre.

“Hai trovato di meglio e io non ti interesso più come prima.” continuò imperterrito Pirovano, indicando con un cenno del capo Baccino, che, preso alla sprovvista, non sapeva se fosse il caso di andarsene o restare: “Forse dovrei cercare anche io qualcosa di più... Semplice.”

Il cremonese non avrebbe voluto essere tirato in mezzo a quello che sembrava più un litigio tra innamorati che non un dibattito tra un soldato e il suo comandante, e così cercava di farsi piccolo piccolo nel suo angolo, quasi sperasse di non essere più notato. Ebbe anche la tentazione di andarsene, ma preferì non muoversi.

La Contessa, facendo proprio come se Baccino non esistesse, afferrò il braccio del suo amante e lo guardò negli occhi, cercando di farsi capire bene una volta per tutte: “Non credere che non abbia più voglia di averti nel mio letto, perché non è così. Ma ho uno Stato in guerra da tenere il più possibile in equilibrio, e il tempo che posso dedicare a quello che voglio io è così poco da impedirmi di fare quello che desidero.”

“Come dici tu.” sbottò l'uomo, non sottraendosi, comunque al tocco deciso della mano di lei, poi, come ripensandoci, soggiunse, in un sussurro: “Se più tardi mi vorrai, mandami a cercare. Sempre che non sia troppo tardi, e abbia già un impegno, arriverò.”

La Tigre mollò la presa sul braccio del milanese e poi, come a volerlo congedare con più freddezza di quanto non esprimesse il suo sguardo, gli indicò con il capo la porta e gli disse: “Hai anche tu degli ordini da portare a termine, non perdere altro tempo qui.”

Mentre Giovanni se ne andava – non senza voltarsi un'ultima volta per controllare se tra la sua amante e Baccino ci fosse ancora una distanza di sicurezza adeguata – Caterina si massaggiò la fronte e chiese di nuovo al cremonese come mai fosse lì.

Il giovane rispose, abbastanza prontamente: “Il maestro d'armi vuole vedervi perché certi pezzi di artiglieria sembrano inceppati...”

“Lo sembrano perché hanno preso la pioggia.” tagliò corto la Sforza: “Vado a vedere, ma di sicuro è quello. Gli avevo detto di ritirarli dal mastio. Tolte le parature, sono rimasti esposti all'acqua!”

Baccino allargò appena le braccia, quasi a volerle far presente che lui era solo un misero portavoce.

Quel modo un po' infantile di sollevarsi da ogni responsabilità fece infuriare ancora di più la Contessa che, spostando da parte il soldato, andò verso la porta borbottando tra sé: “C'è una guerra, ho bisogno come non mai di avere degli uomini al mio fianco e invece mi trovo circondata da bambini..!”

 

Contrariamente a quanto deciso da Cesare Borja, Tiberti aveva provato a far partire qualche colpo di cannone contro le mura della rocca di Imola. Aveva approfittato di un momento di requie da parte dell'artiglieria nemica – dettata probabilmente dal non voler sprecare subito tutte le munizioni – e si era illuso di poter far breccia sul lato occidentale.

Naldi non si era impensierito più di tanto, nel vedere quella mossa del nemico. Anche se pioveva meno, confidava nella pioggia come intralcio per le loro cannonate e, in più, sapeva che quella scelta dal cesenate era casualmente la parte di mura più spessa e solida dell'intera rocca.

Infatti, dopo poco, un po' perché il Valentino era venuto a sapere della mosse del suo ufficiale, sentendosene offeso, e un po' perché il muro comunque era stato a malapena scalfito, i colpi di cannone cessarono.

Dionigi fu tentato di comandare una risposta al fuoco, ma quando vide avvicinarsi una trombetta in veste ufficiale, accompagnata da quello che gli sembrava proprio essere Vitellozzo Vitelli, preferì aspettare e sentire che cosa avessero da proporgli.

Il messaggero, schiaritosi la voce, fece precedere alle sue parole un piccolo soffio di tromba. Solo allora, dopo un cenno d'intesa con Vitelli, che cavalcava così vicino a lui che quasi potevano toccarsi, iniziò a riportare il messaggio del Duca di Valentinois.

“Cedete subito la rocca!” urlò l'uomo, tenendo una mano ancora sulla squilla e una stretta attorno alle redini, gli occhi strizzati contro le gocce di pioggia che gli rendevano difficile guardare verso il suo interlocutore: “Perché tanto la rocca cadrà ugualmente, e verrà presa a viva forza!”

Dionigi, sui camminamenti, guardava in basso. La sua attenzione, però, non era focalizzata solo sulle parole della trombetta, ma anche su Vitellozzo. Si conoscevano da anni, potevano quasi dirsi amici l'uno dell'altro. Anche se la vita li aveva portati su due fronti diversi, a Naldi sarebbe dispiaciuto essere la causa della sua morte.

“E se la rocca verrà presa a viva forza – riprese il portavoce del figlio del papa – per prima cosa la vostra guarnigione verrà fatta a pezzi e poi voi e i vostri verrete appesi per il collo!”

Il castellano della rocca di Imola aspettò qualche istante. Siccome il discorso sembrava chiuso a quel modo, si morse il labbro. Sapeva bene cosa gli sarebbe capitato, a quel punto, se si fosse arreso.

Erano vane eventuali promesse di perdono – che, per altro, non erano nemmeno state avanzate – e altrettanto ingannevoli parole di misericordia e magnanimità. Se avesse ceduto la rocca, avrebbe solo consegnato in modo definitivo Imola ai francesi, spianando loro la strada verso Forlì. Verso la città in cui ancora stavano sua moglie e le sue due figlie.

Sciogliendo a fatica il nodo che gli stringeva la gola, Dionigi prese fiato e rispose, sentendosi gli occhi di tutti i soldati schierati con lui sui camminamenti addosso: “Il dover essere impiccato come un traditore mi fa ribrezzo.”

Quell'incipit, che sembrava quasi preludere a una resa per salvarsi la vita, accese le speranze della trombetta e di Vitelli, il quale stava già quasi per gridare a Naldi di raggiungerlo e unirsi a lui sotto le insegne del re di Francia.

Tuttavia, quando Dionigi riprese, fu chiaro a tutti che la prima impressione era stata fallace: “Ma non mi dà alcun ribrezzo pensare di essere passato a fil di spada per la fedeltà costante e onorata alla mia Signora!”

Quell'esclamazione ebbe un effetto inebriante sui suoi uomini, che espressero subito il loro appoggio con grida e applausi, battendo in terra i piedi e le armi sugli scudi, come se stessero portando in trionfo un comandante già vincente.

Rinfrancato e reso coraggioso da quel sostegno, l'uomo aggiunse: “Perché io non mi sono preparato all'infamia di essere impiccato come un traditore, ma, invece, mi son preparato all'altra previsione e ho già preso i Sacramenti, in modo da morire non solo da buon soldato, ma ancora da buon cristiano!”

Vitellozzo, che ricordava come Naldi fosse incline a prendere decisioni irrevocabili, capì subito che quella sarebbe stata la sua ultima parola e che a nulla sarebbero servite le blandizie che il portavoce del Borja si stava preparando a mettere sul piatto.

“Andiamocene.” disse infatti subito alla trombetta: “Sia il Valentino, a questo punto, a decidere che fare.”

Dionigi guardò i due nemici tornare indietro. Avrebbe potuto ordinare ai suoi arcieri di colpirli, ma per disperata che fosse la situazione, ormai aveva deciso di andarsene con onore: non avrebbe fatto uccidere due messaggeri, men che meno con una freccia tra le scapole.

 

Caterina, mettendo da parte tutto quello che l'angustiava, quel pomeriggio aveva preso il suo cavallo, si era infilata una mezza armatura e, precettati i fratelli, Galeazzo e i due figli illegittimi del suo primo marito, aveva fatto il giro completo della città e delle mura.

Voleva farsi vedere presente, forte e sicura di sé. Tutti i forlivesi, trovandosi davanti quell'inatteso piccolo corteo, non mostravano fortunatamente né paura né insofferenza. Al contrario, molti si avvicinavano per ringraziarla dell'impegno che stava mettendo nello sfamarli e nel proteggerli, augurando a lei e ai suoi figli ogni bene.

La Sforza non si era lasciata incantare da tutte quelle belle parole. Anche se erano un balsamo, per lei, in quel momento, sapeva che avevano la stessa fragilità di un fiocco di neve. Al primo colpo di cannone francese, al primo mercenario avvistato per la via, al primo grido di battaglia, quelle stesse benedizioni e quegli accorati ringraziamenti si sarebbero tramutati in fretta in maledizioni e bestemmie.

Qualcuno, con reverenziale timore, aveva anche provato a chiedere notizie di Imola. La Tigre non aveva risposto con troppa chiarezza, ammettendo che la situazione non era ancora ben definita, ma che di una cosa era certa: Dionigi Naldi teneva la rocca e l'avrebbe tenuta fino allo stremo delle forse.

Per qualcuno quella conferma pareva bastare, mentre certi, dopo aver ascoltato, annuivano insicuri e poi, con un sorriso di prammatica, ringraziavano e si allontanavano, più cupi e preoccupati di quanto non fossero all'inizio.

Erano appena passati davanti alla barberia di Bernardi, quando Alessandro, che in quel momento cavalcava alla sinistra della sorella, le chiese, a voce bassa: “Sei proprio sicura di quello che stai facendo?”

Siccome la Sforza si era accigliata, confusa da quella domanda, il fratello prese fiato, cercando di trovare il modo giusto di farsi capire.

“I francesi sono più di cinque volte noi. Hanno una quantità di denaro immensa. Tutti hanno paura di loro. Forse... Forse siamo ancora in tempo a chiedere un termine di resa accettabile...” Alessandro era stato tormentato da quel pensiero fin dal mattino, da quando, durante il Consiglio di Guerra, aveva preso nota mentale della differenza abissale di fondi e possibilità dei due eserciti che stavano per scontrarsi.

La Tigre guardò un secondo Galeazzo, che stava salutando con la mano il Novacula, affacciatosi alla sua bottega per vedere cosa stessa accadendo in strada. Siccome il figlio sembrava sufficientemente distratto dalla mancata risposta del barbiere, si decise a ribattere, sperando di chiudere in fretta il discorso.

“Sei arrivato qui dicendo che volevi combattere al mio fianco fino alla morte. Cosa ti fa vacillare, adesso?” gli domandò: “Pensavo sapessi che accettare di combattere per me significava questo.”

“Sì, lo so, però...” Alessandro sembrava in difficoltà, come se fosse stato certo, fino a quel momento, di trovare una morbidezza maggiore nella sorella: “Insomma, un conto è voler essere ricordati morendo in un'impresa eroica, un conto è fare la fine del topo.”

La Contessa si prese un attimo, prima di dire quello che pensava. Non voleva scontrarsi con suo fratello. Malgrado tutto, per lei era importante avere lui e gli altri Sforza al proprio fianco. Le davano una spinta in più, in un certo senso legittimavano la sua azione.

Così, smorzato il veleno con cui aveva inizialmente pensato di condire la sue esternazione, la donna finì per dire solo: “Sei uguale a com'eri da bambino. Vuoi giocare a fare il grande soldato, con la spada in pugno e l'elmo sulla testa e poi, appena il gioco si fa difficile, vuoi arrenderti.”

Alessandro si morse l'interno della guancia. Anche lui, come Caterina, stava ripensando a quando, da piccoli, si fingevano grandi condottieri intenti a farsi la guerra l'uno contro l'altra. Ricordava benissimo l'atteggiamento che sua sorella aveva appena richiamato alla sua mente. Tutte le volte, invariabilmente, appena lei si dimostrava per lui imbattibile, lo Sforza si arrendeva, lasciandosi prendere prigioniero.

“Non sono più un bambino.” ribatté lui, deglutendo.

“Me lo auguro.” concluse la Leonessa, mentre salutava con la mano un paio di forlivesi che si erano inchinati al suo passaggio.

 

Il Valentino si stava infilando i guanti, il mantello da pioggia già sulle spalle: “Allora? Chi vi ha detto?” chiese, dando le spalle a Vitellozzo e alla trombetta.

Vitelli fece un passo avanti e riportò con estrema precisione le parole di Dionigi Naldi, stando attento, però, a non sottolineare troppo come i soldati della rocca avessero acclamato il loro castellano.

Il Borja strinse il morso. Si era aspettato una maggior cedevolezza, da un uomo che vedeva gli Inferi spalancarsi sotto ai propri piedi. Evidentemente quel Naldi di cui tutti gli parlavano era molto più stupido di quanto sembrasse.

“La fedeltà alla sua signora...” borbottò il Duca, facendosi passare il pugnale da Michelotto e assicurandoselo alla cinta: “Un discorso molto toccante...”

Vitellozzo non commentò, restando in attesa. Il padiglione era freddo, ma non giustificava una cappa da viaggio come quella del figlio del papa. Il condottiero proprio non capiva come mai Cesare si stesse vestendo come se stesse per mettersi sulla via.

“Miguel...” la voce del Valentino era strascicata, quasi annoiata, ben diversa da quella di un comandante che aveva appena visto sfumare un accordo su cui aveva detto di contare molto: “Ti farai accompagnare da quel... Cagnaccio o come lo chiamano... Lui conosce i posti e sa tutto di tutti.”

Miguel de Corella annuì ancora prima di capire quale fosse per intero l'ordine che gli si stava dando.

Cesare apprezzò l'abnegazione e concluse: “Cercate tutti i parenti di questo Naldi che vivono in zona, in città, nelle campagne, non mi interessa quanto lontano. Basta che domani entro il primo pomeriggio siano qui.”

Mentre Michelotto chinava appena il capo, il viso inespressivo e duro che faceva accapponare la pelle di Vitelli e della trombetta, il Duca di Valentinois sospirò e chiese se il suo cavallo fosse pronto.

“Dove state andando?” domandò, d'istinto, Vitellozzo.

“Non sono affari vostri.” sorrise con infido garbo il Borja.

Vitelli, che aveva accettato di mettersi al soldo dei francesi solo per poter un giorno vendicare la morte di suo fratello, cominciava a credere di aver commesso l'errore più grande della sua vita, mettendosi al servizio di un uomo come il Valentino.

“Quando tornerò, dovrete aver pensato a un modo per prendere quella rocca.” concluse, mentre raggiungeva l'uscita del suo padiglione, una mano sulla tasca del giubbone, dove aveva infilato la lettera di Annibale Bentivoglio: “Se Naldi non si piegherà nemmeno davanti alle lacrime dei suoi parenti, allora dovremo trovare un altro modo per metterlo in ginocchio.”

 
 
   
 
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