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Autore: Elizabeth_Keats    03/08/2009    2 recensioni
"Mi presento: il mio nome è Edward Anthony Masen, ho 17 anni e vivo a Chicago. O, per meglio dire, vivevo, visto che dalle ultime settimane a questa parte mi sembra più consono usare il passato. Tanto per iniziare a farci l’abitudine, a quest’idea. Ormai per me il tempo non significa più nulla: è troppo breve il tempo che mi rimane e troppo lungo quello che mi sarebbe spettato." Breve ff sugli ultimi giorni di Edward da umano, la sua malattia e la vita ritrovata dopo la trasformazione in vampiro grazie a Carlisle. Recensite!
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Carlisle Cullen, Edward Cullen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 10°

Return to the origins

 

«Sicuro di volerci andare?».

«Sì, sicurissimo. Te l’ho già detto».

Il silenzio ricadde pesante nell’abitacolo dell’auto e l’unico rumore era il sonnolento ronzio del motore e lo sfrecciare delle altre macchine accanto alla nostra. Dopo l’ennesima svolta della caotica statale a quattro corsie che stavamo percorrendo, ecco finalmente stagliarsi sull’orizzonte il profilo di Chicago. I numerosi grattacieli, che facevano a gara per raggiungere il cielo tinto di porpora del tramonto, assomigliavano agli alberi scuri di navi con vele invisibili. Non me la ricordavo così la città, anche se dall’ultima volta che c’ero stato era ovvio che fossero cambiate parecchie cose. Ora la Chicago del ventunesimo secolo mi salutava con le sue luci colorate e i moderni edifici di vetro e acciaio.

«Anche perché dopo quasi un secolo di latitanza è ormai ora che il colpevole ritorni sulla scena del delitto, no?».

Bella mi gettò un breve sorriso scuotendo la testa, per poi tornare a fissare la strada davanti a sé ed ingranare la quarta. Anch’io sorrisi, tirando un breve sospiro e tornando a guardare fuori dal finestrino. E improvvisamente, guardando quella città che un tempo era stata la mia casa ma che ora mi appariva così strana, un cumulo di ricordi mi sommerse quasi con furore. Non l’avevo mai detto a Bella, ma dopo quasi cento anni ero contento di scoprire che quello che avevo sempre classificato come un sogno in realtà non fosse tale. Inevitabilmente il mio sguardo tornò a lei, alla sua fluente cascata di capelli color cioccolato, il volto a forma di cuore e la carnagione diafana. I raggi del tramonto si riflettevano nelle iridi color ocra e per un attimo ricordai il loro colore scuro e vellutato di quando era ancora umana, così simile a quello degli occhi della ragazza del sogno. Ma che stavo a dire? Bella era la ragazza del sogno, che dopo un secolo di vagabondaggio avevo finalmente ritrovato nell’uggiosa cittadina di Froks. Non è da tutti i giorni che una dolce ed innocente umana s’innamori di un vampiro e, soprattutto, di un vampiro tormentato come me. Ma, nonostante tutti i pericoli e le difficoltà, i dolori e le ansie attraverso cui eravamo dovuti passare, la nostra storia d’amore non poteva che avere un lieto fine. Ora che anche lei era un vampiro, avrei avuto tutta l’eternità per godermi tutta quella felicità prevista da un sogno e già assaggiata dagli altri componenti della mia famiglia. Il tutto sarebbe stato assolutamente perfetto se non per un piccolo dettaglio. Come si dice, il passato prima o poi torna a bussare alla porta, no? Ed era proprio per quel motivo che ero tornato a Chicago con la mia compagna: per regolare i conti con il mio passato.

«Mi starai vicina, vero?» sussurrai con lo sguardo basso e quasi in imbarazzo.

La risatina squillante di Bella mi giunse alle orecchie.

«Ma certo! Cosa credi che sia venuta a fare? Io ti starò sempre vicina, Edward».

Mi resi conto dell’insensatezza della mia domanda. «Grazie per avermi accompagnato. Ti amo».

Una ciocca di capelli scuri le ricadde davanti al volto e, se fosse stata ancora umana, l’avrei sicuramente vista arrossire.

«Ti amo anch’io» mormorò.

 

Arrivammo al centro della città proprio all’orario di punta, la sera quando dopo il lavoro la gente tornava a casa o i ragazzi s’affollavano per le strade in attesa di imbucarsi in qualche locale alla moda. Così che Chicago mi riaccolse non solo con la sua modernità ma anche con la sua gente. Ragazzi e ragazze che ridevano a scherzavano in gruppo davanti a qualche bar, famiglie che uscivano dai grandi supermercati cariche di un’abbondante spesa, negozi nei quali s’attardavano gli ultimi clienti prima dell’ora di chiusura, alcune donne anziane tranquillamente sedute a chiacchierare su una panchina magari in compagnia di qualche tenero cagnolino e distinti signori e signore in doppio petto che uscivano di corsa dagli uffici dei grattacieli con un’aria ancora tutta indaffarata. E i rumori: i clacson, le urla, il chiacchiericcio confuso, il tubare di qualche piccione sul cornicione di un vecchio palazzo subito interrotto dall’abbaiare di un cane, il rombo delle macchine e lo sfilare degli autobus, il ronzio sotterraneo della metropolitana… Erano decisamente cambiate parecchie cose, mi dissi mentre ci fermavamo davanti al semaforo rosso di un incrocio. Nulla di ciò che vedevo mi apparteneva: sarebbe stato come mettere un antico Romano nella Roma moderna. Però il mio cuore mi diceva che in mezzo a tutta quella novità qualcosa di vecchio come me era rimasto. Ed era proprio quello che stavo cercando. Non sapevo con esattezza perché dopo tanti anni, dopo che mi ero creato una nuova vita altrove e dopo che avevo perso del tutto i legami con quel luogo, avessi deciso di ritornarvi. Be’, forse… forse perché dopo essermi finalmente riappacificato con la mia identità, per completare del tutto e al meglio questo processo avevo sentito il bisogno di ritornare là dove tutto era iniziato. Dovevo dimostrare di non stare più fuggendo dal mio passato e forse una volta che avessi accettato anche quella fetta della mia vita avrei potuto finalmente mettere i miei tormenti a tacere. E poi c’era una cosa che desideravo fare da tempo.

Fortunatamente trovammo un comodo parcheggio nelle vicinanze. Bella scese rapida dalla macchina, tutta eccitata da quella nuova “avventura”. Per me invece… be’, ci volle un po’ più di tempo. Mi sembrava ancora incredibile di ritrovarmi lì e di sicuro negli anni passati non avevo mai immaginato che prima o poi vi sarei ritornato. Presi un profondo respiro cercando di calmarmi, mentre le gambe iniziavano a tremarmi, tradendo l’emozione. Mi sforzai di darmi un tono, giusto per non preoccupare Bella, e quasi con gesti meccanici presi una singola rosa rossa appoggiata delicatamente sui sedili posteriori della Volvo. L’esaminai con cura e con un certo sollievo notai che era ancora fresca e il suo profumo delicato e soave era pressoché intatto. A quel punto non c’erano più ragioni per indugiare. Raggiunsi Bella, che con uno sguardo affettuoso e compassionevole che mi ricordò immediatamente Carlisle mi strinse delicatamente la mano, e insieme c’incamminammo sul marciapiede. Mentre camminavamo vicini io non potevo fare a meno di guardarmi attorno come un bambino curioso. Tutti quei ricordi ammonticchiati e disordinati che non avevo mai voluto prendermi al briga di rivedere, stavano pian piano ritornando al loro posto a ogni singolo respiro.

«Da che parte è?». La domanda di Bella mi ricosse da quella contemplazione.

Non risposi subito, ma mi limitai a guardarmi attorno con sguardo perso. Lessi il nome della via, ma non mi diceva niente. Poi guardai in fondo alla strada e scorsi qualcosa che mi fece sobbalzare: un’alta cancellata di ferro dalla quale spuntavano le fronde verdi di alcuni platani. Quel parco… Ero più che sicuro che se avessi avuto ancora un cuore vivo, questo si sarebbe messo a battere all’impazzata. E come un sogno ad occhi aperti rivedevo le tenebre inghiottire due figure pallide e sottili come ombre che si aggiravano davanti all’entrata. La prima che saltava senza alcuna difficoltà oltre il cancello e la seconda che la guardava allibita e in difficoltà.

«Edward? Tutto bene…?».

La stretta di Bella si fece più forte sulla mia mano, mentre lei alzava su di me uno sguardo preoccupato. Il fremito che poco prima mi aveva colto impreparato, ricomparve, estendendosi a tutto il resto del corpo fino alle mani.

«Edward! Ecco, lo sapevo, avremmo fatto bene a non venire. Io…». Il tono di Bella sembrava allarmato.

Senza dire una parola, le posi due dita sulle labbra per zittirla e con uno sguardo eloquente le assicurai che avevo la situazione sotto controllo. Il suo sguardo interrogativo incontrò il mio ancora perso nel vuoto, ma non le lasciai il tempo di proferire una singola parola. Le tessere del puzzle stavano pian piano tornando al loro posto.

«Da questa parte» sussurrai e senza tanti complimenti la trascinai lungo la strada.

Percorremmo a passo spedito, ma non troppo veloce per non dare nell’occhio, i vialetti del parco, a quell’ora ancora affollati di gente. Se non altro, notai con sollievo, almeno quel parco non era cambiato affatto dall’ultima volta che c’ero venuto. Girai per un po’ in lungo e in largo, cercando di orientarmi. Anche se quel parco era pressoché identico a come l’avevo conosciuto, c’era una bella differenza a girarlo alla luce del giorno e con la mente lucida. Dopo che avemmo ripercorso lo stesso vialetto per la terza volta, scorsi da lontano due grossi cespugli di biancospino in fiore, che assomigliavano a un paio di giganteschi pupazzi di neve, e una panchina che faceva timidamente capolino. Mi si formò un nodo alla gola nel rivedere quella famosa scena di tanto tempo prima, l’ora della rivelazione, ed accelerai il passo. Bella continuava a seguirmi in silenzio, anche se la sua espressione era sempre più perplessa.

«Si può sapere cosa diavolo stiamo cercando?» sbottò alla fine incorniciando le braccia sul petto.

«Un cancello… con dei cipressi… O qualcosa che ci somigli» risposi ancora sovrappensiero.

Lei sbuffò ancora e seguì i miei passi, anche se ora stavo andando quasi di corsa. Ero eccitato, preso da una frenesia inarrestabile, un dolore quasi fisico, come un cane che ha fiutato la sua preda ma non riesce ancora a scorgerla. Il tutto mi procurava una terribile frustrazione.

«Dev’essere qui… Sì, qui, ne sono certo…» borbottai più a me stesso che alla mia compagna. «Magari…».

Mi fermai di botto e lasciai la frase a metà, mentre tutto il fiato che avevo nei polmoni mi abbandonava in un colpo. Il piccolo cancello attraverso il quale ero passato quella notte non esisteva più, infatti era stato sostituito da un imponente arco di granito pieno di targhe commemorative dall’aria solenne; ma riconobbi ugualmente da una parte i due cipressi. Allora erano rinsecchiti e morenti, ma adesso, invece, parevano rinvigoriti nonché accresciuti: sfioravano quasi la cima dell’arco, abbracciandolo da una parte con le fronde verde cupo. Dovevo essermi come pietrificato, perché quando sentii la mano di Bella posarsi sulla mia spalla sobbalzai.

«Qui» annunciai con fermezza. «Sono sicuro che sia qui».

Lasciai vagare lo sguardo oltre la soglia dell’arco, evitando di incrociare l’espressione probabilmente afflitta di Bella: il poco coraggio che ero riuscito a racimolare bastava a stento e non potevo permettermi di farmi vincere maggiormente dall’emozione. Intanto la mano di lei aveva preso ad accarezzarmi la schiena, quasi come per incoraggiarmi.

«Allora vai» sentii sussurrarmi all’orecchio. «Lei ti aspetta».

Mi voltai di scatto verso di lei, allarmato dalle sue parole.

«Tu non vieni?» chiesi con un tono sgomento. «Bella, ma… Ma mi avevi promesso…».

Bella scosse la testa ed abbassò gli occhi. «Sì, ti avevo promesso che ti sarei stata vicina. Ma devi andare da lei da solo, io sarei di troppo. Avrete sicuramente un sacco di cose da dirvi e… ce la devi fare da solo. Io ti aspetterò qui».

Rimasi senza parole per un minuto buono, mentre tra quella matassa disordinata di ricordi venivano a galla le parole di Carlisle: “Vai da solo. È meglio che ti aspetti qui”. Un altro abbandono, un altro taglio così drastico…

«Io… non credo di riuscirci. È passato così tanto tempo…».

Bella mi prese il mento con forza e mi costrinse a guardarla dritto negli occhi. «Ce la farai, lo so».

E detto ciò mi sfiorò le labbra con un baciò sfuggente e mi circondò le spalle con le braccia, per poi spingermi delicatamente verso la mia frontiera. Rimase lì immobile, mentre io mi avviavo con passo traballante ed insicuro. Ma alla fine mi decisi a raccogliere tutte le mie forze e, con la rosa rossa talmente stretta tra le mani che per poco le spine non mi avrebbero trafitto la pelle, raddrizzai le spalle e accelerai.

Non ci misi molto a trovarla, come l’altra volta del resto: i miei piedi sapevano benissimo dove condurmi. Seconda fila terza da destra… Tutt’attorno a me potevo scorgere monumenti e lapidi commemorative adorne con fiori e ghirlande che ricordavano tutte le vittime della spaventosa epidemia di spagnola che aveva colpito la città all’inizio del Novecento. E facevano sembrare quella cosa ancora più lontana nel tempo, tanto che mi sembrò incredibile che io, che avevo vissuto direttamente quello sterminio, non solo fossi ancora lì ma non fossi cambiato di una virgola. Come le tombe, del resto. Attorno il cimitero era stato reso monumentale e solenne, un vero gioiello, ma quelle tombe rimanevano le stesse povere, spoglie e fredde lastre di pietra che avevo visto nel 1918. Tutte uguali e allineate, quasi spettrali alla debole luce del crepuscolo, senza neanche un fiore: ma d’altronde chi era rimasto che vi potesse portare dei fiori? Solo io. Con la coda dell’occhio scorsi sulla sinistra una piccola cappella chiara dall’aria triste e spoglia e per un nanosecondo mi sembrò di scorgere accucciata sugli scalini dell’entrata una sagoma scura, con le mani incrociate e gli occhi chiusi raccolta in preghiera. Peccato che Carlisle non fosse lì ancora una volta a sostenermi, pensai. Ma alla fine, dopo numerosi tentennamenti, arrivai alla meta.

«E così rieccoci qua. Proprio come ai vecchi tempi, pare». Mi guardai attorno: non c’era nessuno.

Quindi tornai a rivolgermi alla piccola tomba davanti a me: non me la ricordavo così piccola, mi venne da pensare istintivamente. Gli ultimi raggi del sole giungevano obliqui, disegnando piccole ombre allungate davanti a ogni lapide. E quelle poche lettere che tanto tempo prima mi avevano così tanto spaventato e sconvolto erano ancora lì, anonime e disadorne.

 

ELIZABETH MASEN   

                ? – 2-8-1918

 

Avevano perfino dimenticato di mettere la data di nascita della mamma… Ma d’altronde in quel periodo i morti erano così tanti e frequenti che era già tanto che le avessero dato una sepoltura almeno decorosa. E dopotutto a chi importava chi era, cosa aveva fatto, chi aveva amato? Era soltanto un’altra delle vittime dell’influenza. L’ennesima. La mia rosa, che appoggiai con gesti calcolati alla superficie liscia della lapide, era un piccolo punto color sangue, quasi abbagliante, in mezzo a quell’abisso fatto di sfumature di grigi smorti. Strinsi i pugni fino a farmi affondare le unghie nelle palme delle mani; avrei voluto strappare quella lapide così anonima, buttare all’aria quella terra dura e senza un filo d’erba e costruire al loro posto un mausoleo bellissimo. Ma tutta questa rabbia per quella noncuranza e pressapochismo svanì all’istante quando, sforzandomi di ricordare, scoprii che nemmeno io ricordavo più la data di nascita di mia madre. Ne fui disgustato. Ero dunque giunto a quel punto? Avevo represso la mia prima vita fino ad iniziare a dimenticarla? Le unghie affondarono ancora di più nella carne. E per la seconda volta in cento anni provai l’impulso di piangere ma, per la seconda volta, non ci riuscii: le lacrime s’attardavano sempre lì sotto le palpebre, ma era come se una barriera invisibile impedisse loro di scorrere sul mio volto. Per l’ennesima volta nei fui frustrato.

«Scusa» mormorai alla tomba. «Io… mi dispiace».

Alzai gli occhi al cielo, con un groppo alla gola che frenava i singhiozzi e le lacrime che mi appannavano la vista ma si rifiutavano ancora di scendere. Il cielo verso ovest si era fatto roseo, segno che ormai il sole era tramontato quasi del tutto e dalla parte opposta, dove già avanzavano le tenebre della notte, erano spuntate le prime timide stelle, la cui debole luce bianca riluceva contro quelle sfumature infuocate di arancioni. Socchiusi gli occhi fino a non vedere altro che uno strano miscuglio di colori caldi.

«Mi dispiace di essere stato via così tanto tempo» continuai a bassa voce. «Mi dispiace di non essere tornato prima. Mi dispiace di essere stato così vile. Mi dispiace di aver cercato di dimenticare. Ma… vedi… no, non posso affatto essere scusato per questo… però, credo di non aver avuto il coraggio di affrontare tutto quello che mi è capitato. È accaduto tutto così velocemente… Be’, almeno adesso sai che Carlisle ha mantenuto la promessa che ti aveva fatto: è un amico fedele e si è sempre preso cura di me, proprio come avresti fatto tu».

Feci una breve pausa e le miei parole furono interrotte da quel piccolo singulto che finalmente aveva avuto il coraggio di risalire la gola.

«Io… sono ancora qui. E vorrei che anche tu lo fossi. Io, te e il papà. Mi mancate tanto. In tutti questi anni mi ero convinto di non sentire la mancanza di quello che c’era stato prima. Prima della trasformazione e tutto il resto. Ma mi sbagliavo. Come mi sono sbagliato riguardo a molte cose, d’altronde. Ma anche se è passato ormai quasi un secolo e mi sono dovuto ricredere su molte cose… be’, puoi vedermi anche te: sono rimasto sempre il tuo bambino, il ragazzo di diciassette anni che hai amato. Però credo di essere cambiato almeno un po’: abbiamo viaggiato tanto, sai, io e Carlisle; e non solo noi due. Adesso abbiamo una grande famiglia: ci sono Esme, Rosalie, Emmett, Alice, Jasper… e Bella. È proprio lei che mi ha accompagnato qui e, anche se tu rimarrai per sempre unica nel tuo genere, credo di aver finalmente trovato qualcuno che mi ama come mi hai amato tu. Non saprei davvero come fare senza Bella: è la luce che aspettavo di vedere da un secolo».

Quasi senza accorgermene, come se la mia volontà fosse staccata dal mio corpo, mi ritrovai seduto per terra, sulla terra dura del tumulo. Era strano stare lì a parlare con una lastra di pietra e mi sembrava ancora più strano che sotto ai miei piedi ci fossero le ossa della prima donna della mia vita. Però non mi importava di essere in un cimitero a parlare con il vuoto; per me era come essere a casa e, anche se lei non mi poteva rispondere, ero certo che mia madre stesse ascoltando le mie parole malferme e sussurrate. E magari stava pure sorridendo e piangendo di gioia nel vedere da lassù, dove brillavano le stelle e bruciava la luce del sole, che suo figlio era finalmente ritornato da lei. Improvvisamente mi avvolse un soporifero senso di pace, anche se sentivo che mancava qualcosa; ebbi nostalgia del suo abbraccio caldo, della musica della sua voce, del profumo dei suoi capelli. Ma non potevo riavere tutte queste cose, perché un secolo ci separava: potevo ritrovarle solo nei miei ricordi, che dovevo salvaguardare con estrema cura.

«Ti prometto che non ti dimenticherò mai. Ti prometto che tornerò sempre, sempre qui. Lo giuro».

L’ultimo raggio di sole baluginò oltre gli alberi e il rosso cupo della rosa si accese per un attimo come una fiammata.

«Anch’io ti voglio bene, mamma».

 

L’orologio segnava ormai le dieci e mezza di sera quando ritornammo alla macchina. Il caldo torrido che ci aveva accompagnato in una di quelle prime giornate d’agosto a quell’ora si era finalmente attenuato e la fresca rugiada della sera mi accarezzava la pelle insieme alla brezza frizzante. Mi sentivo leggero e decisamente sollevato, felice nonostante il fondo di malinconia che quei luoghi avevano rievocato tra i miei ricordi. Ero certo che ormai nel mio cuore erano del tutto sparite quelle cupe zone oscure che avevo sempre cercato di evitare. Però, a guardare bene, mi accorsi che c’era ancora un piccolo neo. Stavo per aprire la portiera dell’auto quando mi bloccai: mi ero appena ricordato di una cosa piccola ma importante. Chissà se forse… no, era passato troppo tempo e di certo non l’avrei più ritrovato. Però…

«Bella» dissi attirando l’attenzione della mia compagna. «Non è che potremmo fermarci da una parte prima di tornare a casa?».

Lei mi guardò inarcando un sopracciglio. «Che cosa hai in mente?».

Io non risposi, bensì mi limitai a rivolgerle un sorriso sghembo dei miei, cercando di apparire il più convincente possibile.

«E va bene» s’arrese lei alla fine ed alzò gli occhi al cielo. «Sali in macchina».

«Oh, no, è qui vicino, possiamo benissimo arrivarci a piedi».

Il Northwestern Memorial Hospital era un’imponente struttura di vetro e acciaio, chiara e luminosa anche di notte perché rifletteva le luci dell’intera città. Di certo uno degli edifici più moderni e sofisticati di Chicago, nonostante tutto si poteva classificare come ospedale senza molte difficoltà. Il tipo di ospedale ben diverso da quello che avevo conosciuto io però, pensai. E se quel grande palazzo a dieci o più piani era il manifesto delle più avanzate tecnologie mediche, quello che vi stava dietro era, invece, la testimonianza di una terribile realtà passata. Aggirando il Northwestern Memorial Hospital si potevano scorgere le rovine di un palazzo ben più vecchio, quasi cadente e dai colori sbiaditi, che dava proprio sul parco dove eravamo appena stati. Di certo non ci entrava più nessuno da anni… E la polvere accumulata negli angoli delle numerose stanze vuote, il ticchettio delle zampette dei topi e i viluppi di ragnatele non facevano altro che avvalorare questa tesi. I letti e tutto il resto del mobilio erano spariti, se non si teneva conto di qualche tavolo ormai del tutto rosicchiato dai tarli e un paio di armadi pieni zeppi di vecchi incartamenti, di cui molti fogli giacevano ora sparpagliati e ingialliti sul pavimento. Non sembrava essere rimasto più alcun segno della frenesia, dell’ansia, dei pianti, delle urla e delle preghiere di cui un tempo erano stati testimoni quei muri.

«Questo è…?» disse Bella. Mi gettò una veloce occhiata e si chinò a raccogliere alcuni fogli stropicciati.

«Sì, il mio vecchio ospedale». Lo dissi con una naturalezza quasi sorprendente, come se stessi parlando della casa dove ero nato. Ma dopotutto era vero: era lì che avevo incontrato Carlisle, lì dove ero rinato.

«Oh». Il suo bisbiglio mezzo dispiaciuto e mezzo imbarazzato mi giunse da lontano. E io, invece, come prima, continuavo a guardarmi attorno come un bambino curioso, in cerca di qualcosa che stuzzicasse la mia memoria.

«Doveva essere un posto molto triste».

Una smorfia mi sorse alle labbra e risposi: «Non immagini quanto. Vedere ogni giorno gente morire di fianco a te… intere famiglie distrutte… e tu non potevi farci niente. Potevi solo stare a guardare».

Non mi ero quasi accorto del tono basso e quasi lamentevole che aveva acquisito la mia voce, mentre Bella mi cingeva da dietro e posava un leggero bacio vicino al mio orecchio sinistro. Il suo respiro regolare mi sfiorò la guancia, calmandomi come una tisana.

«Tanti giorni tutti uguali, passati aspettando qualcosa che nessuno sapeva bene cosa fosse. E la paura… e l’ansia… e la disperazione…».

Chiusi gli occhi e mi morsi violentemente il labbro inferiore, cercando di contenere quella valanga di emozioni. La stretta di Bella di fece più forte; sentivo il suo petto premuto contro la mia schiena, il suo mento delicatamente appoggiato contro l’incavo del mio collo. E intanto potevo sentire, come dal fondo di un tunnel, le eco dei pianti e delle preghiere sussurrate dai malati, il bianco ingrigito dei letti che rifletteva la luce di un sole pallido, una lunga corsia lungo la quale d’affaccendavano medici e infermiere. Scossi la testa nel tentativo di allontanare quelle sgradevoli diapositive.

«Ma tu hai conosciuto Carlisle. Sei passato attraverso tutto questo». Il sussurro di Bella mi ghermì come un’ancora di salvezza. «E ora sei qui».

«Sì, sono qui» ripetei meccanicamente.

Presi un profondo respiro e mi staccai dal suo abbraccio. Ero lì… per fare qualcosa. Con fare ora più determinato e un cipiglio risoluto, mi misi a frugare tra tutte quelle carte in disordine: ordini di medicinali, cartelle cliniche, elenco dei nuovi pazienti e di quelli deceduti. Ero sicuro che in quest’ultimo avrei trovato il mio nome e quello dei miei genitori, ma preferii non controllare. Comunque lì non c’era niente che potesse interessarmi, solo vecchie cartacce. Con l’aiuto di Bella scandagliai quasi tutto l’edificio, ma trovai solo polvere e calcinacci. Ma alla fine, quando ormai stavamo per gettare la spugna, giungemmo nell’ala est e una vecchia porta a due battenti fece scattare qualcosa nella mia mente. Si apriva su un’ampia e lunga sala del tutto vuota e in decadenza, anonima, ma appena la vidi il respiro mi si fece corto e un tremito s’impossessò delle mie mani, mentre correvo verso la penultima finestra.

Mi ci affacciai (ormai i vetri e le imposte erano spariti) e l’aria della sera mi portò alle narici l’odore dell’erba appena tagliata e della rugiada proveniente dal parco. Era lì. Una strana eccitazione s’impossessò delle mie membra, quasi fossi sotto l’effetto di qualche oppiaceo. Mi guardai attorno con occhi che dovevano apparire come spiritati e senza calcolare Bella. Ecco, lì, sì, proprio lì di fianco doveva esserci il mio letto! E il comodino! Si poteva ancora distinguere la sagoma più chiara sull’intonaco pieno di crepe. Dall’altra parte, a meno di un metro, doveva esserci, invece, il letto della mamma. Quindi anche il mio diario doveva essere lì… Ma non vedevo niente. Magari l’avevo messo in uno dei cassetti del comodino ed era andato al macero insieme a quello. Emisi un sospiro di sconforto e mi passai una mano sulla fronte. Ovvio, Edward, che ti aspettavi dopo cento anni, eh? Bella si era appartata in un angolo per non intralciare la mia ricerca e mi scrutava dalla penombra. Tornai ad appoggiarmi al davanzale, strizzando gli occhi contro il bagliore lunare, con molto sconforto e disillusione nel cuore. Che speranza vana, pensai prima di urtare qualcosa col gomito. Scattai indietro colto alla sprovvista e con il cuore in gola per la sorpresa. Lì, in un angolo del davanzale, stava quello che un tempo lo si sarebbe potuto chiamare libro. La copertina di pelle era strappata e come corrosa, le pagine ingiallite dal tempo ed avvizzite dalle ultime piogge. Di certo appena l’avessi toccato si sarebbe sbriciolato, pensai. Ma sfogliandolo scoprii che non era affatto un banale libro, bensì quel che cercavo: il mio vecchio diario. Che dopo un secolo era ancora lì ad aspettarmi. Un sorriso m’illuminò il viso: era come se avessi appena ritrovato una parte di me.

«Trovato?» mi domandò Bella da lontano.

Io ebbi a malapena il tempo di annuire distrattamente che già ero immerso nella lettura di quelle poche pagine coperte da una scrittura sottile e lineare, il cui inchiostro un po’ sbavato le faceva assomigliare ad un prezioso documento antico. Uno strano calore mi invase mentre il mio sguardo scorreva sulle parole, assaporandone il suono e il significato. E ogni lettera, ogni virgola, ogni spazio faceva fiorire nella mia mente immagini su immagini, ricordi su ricordi, emozioni su emozioni in un complesso caleidoscopio. I suoni e le parole udite mi rimbombavano nelle orecchie, fondendosi in un unico chiacchiericcio confuso e quasi fastidioso. Era come aprire una finestra su un altro mondo. Stavo rivivendo il tutto come in un lungo flashback mandato avanti veloce e ne rimasi quasi frastornato, come sorpreso da una ventata di aria gelida che aveva minacciato di spazzarmi via.

Mi chiedo come sta proseguendo la vita al di fuori di queste mura, perché di certo sta andando avanti.… Una volta che riuscirò a rivoltare l’animo di quell’uomo come un calzino sono sicuro che vi scoprirò qualcosa di molto più grandioso o terribile di quanto mi fossi mai aspettato o immaginato… Ma di certo non avrei mai pensato che un giorno mi sarei ritrovato dall’altra parte, a guardare da questa finestra… La mamma sta sempre più male… Ci dicono che dobbiamo accettare i dolori e gli ostacoli che la vita ci propone ogni giorno: ma a che scopo?... E finalmente attraverserò quel mare e saprò cosa c’è oltre l’orizzonte… Mi ha riconciliato con ciò che sono e mi ha rassicurato su ciò che sarò e per questo non riuscirò mai a ringraziarlo abbastanza…

… Un’altra cosa che rimpiango è di non aver mai conosciuto il vero Amore…

Non seppi con precisione quanto tempo passai in contemplazione di quel prezioso manoscritto, poteva essere un’ora come soltanto cinque minuti. E mentre le mie mani frementi sfogliavano le pagine scritte come quelle in bianco per carpire ogni singolo dettaglio, assetato di un passato che avevo scordato per troppo tempo, un tremito mi aveva rapito il cuore, facendomi venire la pelle d’oca e il fiato corto. In particolare quell’ultima frase mi aveva colpito come il rintocco assordante di decine di campane. Quasi non riuscivo a credere di essere la stessa persona che tempo addietro aveva scritto quelle parole, che aveva riversato il suo cuore e quelli che credeva sarebbero stati i suoi ultimi pensieri in quel diario. Com’era diverso l’Edward Masen umano dall’Edward Cullen vampiro… Il primo così fragile e sensibile, apparentemente disilluso ma in fondo ancora il ragazzino ingenuo a cui piace sognare ad occhi aperti, che crede di conoscere i mali del mondo ma si sbaglia. Il secondo ben più duro e grezzo, levigato dagli anni, dai pensieri e dalle esperienze, ben più realista e attaccato all’oggettività della vita, disilluso sul serio, decisamente meno ingenuo e sognatore, ma forse anche più pessimista. Si poteva facilmente notare quanto l’apparente tono severo di quelle parole nascondesse, invece, ancora tutta la freschezza della giovane età, quella stessa freschezza che mancava alle pagine più recenti del mio nuovo diario. Però quella frase, quella speranza poteva costituire un punto d’incontro tra il prima e il dopo. Speranza che alla fine, anche se dopo parecchio tempo, si era finalmente concretizzata nella ragazza che avevo davanti: quelle parole non potevano che riferirsi a Bella. Pian piano, ancora tutto preso da quei pensieri, la raggiunsi con il diario aperto tra le mani.

«Ascolta» le dissi sedendomi accanto a lei sul pavimento polveroso e prendendole una mano. «”Non mi manca l’essere stato amato, bensì l’amare, il dare la propria vita per l’unica persona che la merita. Se potessi vivere per altri cento anni… ma che dico, anche per un giorno soltanto… Ho ricevuto, ma non sono riuscito a dare niente in cambio e per questo mi sento in colpa. Ma sono sicuro che se mai avessi incontrato una persona del genere, essa sarebbe stata la mia aria, la mia acqua, la mia luce e il battito stesso del mio cuore. Avrei attraversato mari e monti per lei, rischiato pericoli inimmaginabili. E questi ultimi pensieri li dedico a te, stella mai nata e mai incontrata. Sono certo che un giorno o l’altro il mondo conoscerà qualcuno come te, ma io purtroppo non sarò lì a stringerti la mano e a sussurrarti dolci parole all’orecchio. Ma non importa, perché almeno sarò sicuro che qualcun altro potrà godere della tua luce. Di certo la più bella e luminosa di questo universo.”  Che ne pensi?».

Lei rimase un attimo in silenzio, corrugando la fronte. «Sono delle belle parole…» disse alla fine.

«E…?».

«Le parole che non  credo tu saresti capace di dire».

«Come mai? Le ho scritte io».

«Sì, hai ragione». I suoi occhi brillarono come stelle. «Però le ha scritte l’Edward umano del 1918: c’è una bella differenza».

«Ah! Sembra che tu stia parlando di un’altra persona! L’Edward del 1918 è anche l’Edward che hai davanti, l’hai forse dimenticato? Ma dico, sono venuto fin qui per “riconciliarmi con il mio passato”, per così dire, e tu cosa mi vieni a dire? Sostieni forse la teoria separatista?».

Così dicendo riuscii a far spuntare un piccolo sorriso sul suo volto a forma di cuore, il cui calore si diffuse anche alle iridi color topazio. «No, Edward. Intendevo “ le parole che tu non saresti capace di dire in questo momento”. Tu non hai rimpianti, non devi sognare qualcosa che non hai e pensare a come sarebbe stato se ce l’avessi avuta. Io sono qui: lo vedi anche tu… Sempre ammesso che io possa vantarmi di essere… com’era?... ah, sì, “la stella più bella e luminosa dell’universo”». E rise ancora, questa volta come per schernirsi.

Senza pensarci l’abbracciai con slanciò e con una risata feci per morderle una guancia, prima che lei si discostasse dandomi un leggero schiaffo sulla guancia e continuando a ridere come una matta.

«Ma certo che si riferivano a te quelle parole. E a chi altri sennò?». Le posai un baciò sull’incavo del collo.

«Wow. Allora mi aspettavi con largo anticipo!».

Assunsi un’espressione più seria ed alzai su di lei uno sguardo pieno di significato, sussurrando la mia riposta a un centimetro dalle sue labbra. «Certo. Ti ho sempre aspettata, ho sempre saputo che prima o poi sarebbe arrivata qualcuna come te. È come se avessi vissuto un secolo intero in attesa di te… e ci sono pure varie testimonianze. Oddio, non posso prevedere il futuro come Alice, quindi magari non pensavo a te come persona in carne ed ossa, ma diciamo pure a un tuo prototipo».

Lei non disse niente ma si limitò a baciarmi con dolcezza, mentre io aspiravo a pieni polmoni il suo profumo vellutato. Alla fine si staccò da me di qualche centimetro per guardarmi dritto negli occhi e disse: «Il signor Edward Masen classe 1901 poteva scrivere quelle parole con una certa rassegnazione, mentre tu non hai ragione di rimpiangere un amore mai trovato. Però questo non vuol dire che siate due identità completamente distinte. Sei cambiato molto è vero, ma chi non cambierebbe in un secolo? Cambiamo tutti i giorni, tutti. Ma nonostante tutto posso rivedere in Edward Cullen molti aspetti di Edward Masen».

«Del tipo?» sussurrai mettendole a posto una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

«La stessa incredibile e disarmante sensibilità, l’amore tenace per le persone che ami, i pensieri sempre proiettati verso il futuro e magari intrappolati un po’ troppo nell’ansia che accada qualcosa di brutto. Sei lo stesso ragazzo che ha toccato il cuore di Carlisle, Edward, e ora il mio. Non hai niente con cui riconciliarti: hai già tutto qui dentro».

E così dicendo il suo palmo niveo sfiorò il mio petto sul lato sinistro, dove doveva esserci il cuore, che un tempo batteva sonoro ma ormai era stato zittito da forze superiori.

«Lo credi davvero?».

«Sì. Avevi paura che l’essere diventato un vampiro avesse cambiato non solo la tua natura ma la tua intera personalità. E avevi paura di tornare qui o di rivangare vecchi ricordi per renderti conto del terribile cambiamento che credevi fosse avvenuto. Ma ami ancora tua madre come un tempo, ti ritrovi in questi luoghi e riporvi le stesse emozioni di allora: non è mai cambiato niente e venendo qui l’hai potuto costatare di persona».

«Hai ragione» convenni alla fine. «Non Masen nè Cullen, non umano né vampiro. Sono semplicemente l’Edward che per tanto tempo ha aspettato la sua Bella».

La baciai di nuovo, ma questa volta con più trasporto, affondando le mani nei suoi capelli folti e assaporando a pieno lo zucchero delle sue labbra, magari sperando che il tempo si fermasse per rimanere in eterno così. Quanto avevo sognato, vagheggiato, desiderato quel momento.

«E alla fine sembra proprio che l’abbia trovata la sua Bella»

Non c’era nient’altro da aggiungere.

Eh, sì, con questo abbiamo proprio finito *sigh* Probabilmente avrete notato che quest'ultimo capitolo è più lungo degli altri, un po' perchè c'erano molte cose da dire e volevo che la cosa non avesse un ritmo troppo veloce per permettere a Edward di "riscoprirsi" (sperando di non risultare troppo noiosa), un po' perchè continuavo a dirmi che mancava qualcosa e un po' perchè almeno vi consolerete visto che con questo capitolo la storia finisce. Ho voluto che fosse Bella ad accompagnare Edward invece che Carlisle per due motivi: lei rappresenta il "dopo" là dove Carlisle era stato il "prima" (before) e poi, diciamocelo, come poteva mancare lei? Per il resto come sempre mi auguro che anche quest'ultima puntata sia stata di vostro gradimento e che non vi abbia fatto piangere troppo :) Inoltre se avete domande o considerazioni da fare eventualmente vi risponderò sulla mia altra ff su Twilight, ovvero Daddy Eddy (poi magari mi recensite pure quella ^^). E prima di salutarvi un'ultima cosa: anche se è l'ultimo capitolo non siete esonerati dal recensire!!!!!
Quindi ringrazio, oltre a tutti quelli che hanno seguito questo ff e l'hanno messa tra i loro preferiti:

Elfa sognatrice: grazie dello splendido ed originale paragone! Per me è anche molto importante sapere di non risultare troppo noiosa nelle mie numerose divagazioni. Grazie ancora!

Jadis96: eccomi alla fine con l'ultimo chap, perchè, come hai detto anche tu, prima o poi tutte le ff finiscono e prolungarla oltre al dovuto non mi sembrava affatto il caso. Dopotutto anche io devo finire di godermi le vacanze e dedicarmi ad altri progetti! XDXDXD Comunque sono felice di essere arrivata a questo punto. Grazie anche a te!

fields: a dir la verità all'inizio per la parte dei "cento anni di diari" avevo pensato a due chap, perchè credevo che in un solo chap non riuscissi a rinchiudere tutto quello che volevo metterci senza creare confusione: invece alla fine ci sono riuscita ed è meglio così. Anche perchè questa ff, anche per rispondere alla tua domanda, è basata sulla trasformazione di Edward e non tanto sulla sua vita prima di incontrare Bella e dopo averla incontrata. Quel chap mi serviva per coprire la notevole distanza di tempo dalla presa coscienza di essere un vampiro a quando lo accetterà del tutto e ritroverà se stesso (diciamo che ho voluto spiegare anche come mai Ed non parla mai della sua vita da umano in Twilight). Per il resto, be', Bella c'è e mi aspetto un'altra tua bella recensione! Grazie per il sostegno!

Nirva: sì, diciamo che Alice rompe un po' il clima serio e a volte un po' triste che sono stata costretta ad assumere in questa ff... Mi sarebbe davvero piaciuto vedere la faccia di Edward quando aveva scoperto l'intrusione. Grazie e goditi questo ultimo chap!

E per finire un grazie grandissimo a tutti voi, che avete permesso la nascita e lo sviluppo di questa ff! GRAZIE!

  
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