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Autore: roro    03/08/2009    18 recensioni
«Vorrei poterti aiutare».
«Nessuno può aiutarmi, Kagome», sussurrò lui in risposta, allungando una mano verso il bento.
«Ma…».
InuYasha le sorrise. «Continua a prepararmi da mangiare e tutto andrà bene, d’accordo?».
Kagome avrebbe voluto spiegarglielo, che la vita degli umani è breve – che avrebbe dovuto separarsi da lui, che il tempo insieme sarebbe finito presto –, ma preferì voltarsi e annuire piano. Parlare era impossibile: la voce le tremava troppo, per sostenere un discorso.

[Una semplice - e forse un po' sciocca, chissà - raccolta, principalmente basata su Missing Moment post-finale e piccoli slice of life AU]
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Inuyasha, Kagome, Un po' tutti
Note: Missing Moments, OOC, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Lake *\* Massalve! *O*
Allora, dunque, sì. Ho aggiornato la raccolta. Con un giorno di ritardo, perché questa Shot andava postata ieri, ma l'ho aggiornata.
Scusate se non mi dilungo, ma devo uscire. >.> Solo che... Ci tenevo a postare. Perché ieri era il compleanno di Kade, e io - un po' perché stavo attendendo Emiko, un po' perché effettivamente 'sta Shot mi fa schifus - non ho postato.
Ma poi Emiko ha postato XD, e mi sono sentita in dovere di ricambiare, anche se quest'elaborato è penoso. Dovevo postare, perché il compleanno della nostra regina del regno dell'Anaconda va osannato. U_U"
E dunque, eccomi qui, a presentarvi il mio ennesimo sclero: perdono per i non-presenti ringraziamenti, ma devo uscire.
Baci, spero vi piaccia. >.>" */*

Lake
Inutile fingere sofferenza, quando il proprio cuore non è capace di provarla.








Personaggi: Kagura, Rin, Sesshomaru
Avvertimenti e Note: AU, What if?, Romantico (?), Triste, Malinconico (!)
In pratica: Angst [Almeno spero. U_U"]
Note dell'autore: NON MORITE!
Perché hai scritto in Comic Sans MS? Perché mi è uscito questo cavolo di stile XD.







Kagura fremeva, osservando la figura del marito distanziarla.

“Dove state andando?”, domandò, perplessa – involontario quesito, interrogativo inutile.

Lui si limitò a voltarsi e – non – guardarla con i suoi occhi d’ambra. Non una parola fuoriuscì dalle sue labbra scarlatte, non una mutazione nel suo sguardo. Sesshomaru si limitò ad osservarla come se lei non fosse lì, a volgere le sue iridi su quella figura ma non realmente osservarla.

Kagura incassò il colpo, un sorriso sghembo che le piegava le labbra. Era sempre così, sempre. In fin dei conti, quel gran demone non le rivolgeva mai molta attenzione.

La loro era solo una finzione.

“Dove state andando?”, chiese di nuovo: tremava di rabbia, di risentimento, di paura. Sentiva l’indifferenza del suo signore, il suo disinteresse. Sapeva di non essere che una moglie formale, e ciò le faceva male. Ma era assurdo star male, no?

Lui non le aveva mai giurato amore, mai realmente.

Condividevano il giaciglio, le notti, il castello. Condividevano una mera illusione e nulla più.

Sesshomaru non la amava, non l’aveva mai amata e mai l’avrebbe amata: eppure, il suo – come dire? – orgoglio le impediva di lasciarlo andare.

La sua follia non le consentiva di lasciarsi abbandonare.

“Dove state andando?”, ripeté.

La voce era forse più dura, forse più indisposta.

Sesshomaru inarcò un sopracciglio, come sorpreso da quell’impercettibile astio. “Sul lago”, proferì infine.

“… Perché?”.

Era una domanda. Solo una domanda. Poteva risponderle.

Kagura continuò ad osservarlo, speranzosa, le iridi scarlatte che risplendevano fiocamente alla luce di una candela. Era notte fonda, avrebbero dovuto dormire, il giorno dopo il fratello di Sesshomaru sarebbe venuto a trovarli, non potevano sfigurare, era assurdo, Sesshomaru non poteva essere serio, non poteva voler partire, non doveva voler partire.

Era assurdo.

“Perché?”.

Lui non le diede risposta, voltandosi – il kimono bianco che aveva indosso frusciò appena, le sue labbra formarono nuovamente una linea sottile.

“Perché?”, sussurrò nuovamente Kagura, portandosi le mani sul grembo. “Perché?”.

Ma Sesshomaru era troppo distante.

Gemendo di rabbia, si lasciò cadere al suolo.

Lui era sempre troppo distante, dopotutto.

 

*

 

“Vi ho portato il vostro pranzo, nobile Sesshomaru”.

I ningen non gli interessavano. Affatto.

Odiava i suoi schiavi umani, odiava catturarli e renderli servi: il loro odore – puzza sgradevole che gli riempiva la narici – lo disgustava, costringendolo a storcere il naso innanzi ai loro volti abbronzati, color dell’ambra.

Quindi non ringraziò la ragazzina che gli porgeva il pranzo, né le sorrise. Si limitò ad attendere che lei sparisse.

Cosa che, peraltro, non avvenne.

“Signor Sesshomaru?”, sussurrò lei, inclinando il capo di lato. “Posso porle una domanda?”.

Non attese risposta, ricominciando a parlare con tranquillità.

“Beh, so di non essere nella posizione di domandare, ma… Ecco. Volevo chiederle se gradisce il pranzo”. Arrossì. “Il punto è che ogni giorno, quando vengo a riprendere le vostre ciotole, le ritrovo perfettamente piene, e ciò mi sconcerta: se quanto prepariamo non è di vostro gradimento, ci sforzeremo di trovare qualcosa di più succulento”. Abbassò gli occhi, osservandosi i piedi.

E Sesshomaru – non era curiosità, si disse, la stava guardando perché non aveva niente di meglio da fare – prese a fissarla: era bella. Per gli standard umani, almeno.

Non poteva essere paragonata all’eterea bellezza di Kagura, ma non era neppure brutta: bella. Con capelli lunghi e neri, e due iridi color della terra bagnata dalle piogge d’autunno. La pelle era come quella degli altri abitanti, abbronzata per il troppo lavoro nei campi, eppure riluceva in modo particolare, e i lineamenti erano fini, perfetti – per gli uomini.

Un ghigno sfiorò le labbra di Sesshomaru, ma non si permise di risponderle.

“Scusi la sfacciataggine, davvero”, riprese a parlare lei. Aveva alzato appena gli occhi, arrossendo nuovamente. “Solo che… Che… Insomma! Signor Sesshomaru, non può digiunare in eterno, fa male alla salute!”.

Il demone si sentì bruscamente afferrare la mano, e una debole pressione cercò di trascinarlo: inarcò un sopracciglio, ma non le concesse di smuoverlo. La mano della ragazzina gli aveva arpionato il polso, i suoi occhi scuri lo guardavano spauriti. “Come ti chiami?”, si sorprese a domandare.

Le suo gote presero una colorazione ancor più rosata, ma le labbra le si piegarono in un sorriso – divertita, compiaciuta. Quella piccola creatura continuava a fremere, trattenendosi dal saltellare.

Se non fosse stato il nobile Sesshomaru, signore di più terre di quante si possa immaginare, l’avrebbe trovata tenera.

Ma lui non era un umano, e quella ragazzina gongolante non gli dava che noia.

“Mi chiamo Rin”, sussurrò infine, guardandolo. Indossava un kimono grigio, scolorito, di sicuro vecchio, quasi maleodorante. Pian piano, Sesshomaru sentì le dita della ragazza allentare la presa, sino a lasciarlo andare del tutto. Lei però continuava a ridere, felice. “Davvero, signore. Se il nostro cibo la disgusta, cacceremo quanto la soddisfa e cucineremo come la aggrada. Ma me lo dica”. Inclinò il capo di lato.

“Non mangio cibo umano”.

“Come?”.

Sesshomaru inarcò un sopracciglio, infastidito, e si voltò, trascinandosi lentamente verso il centro della stanza: era fuggito per rilassarsi. Aveva abbandonato Kagura per rilassarsi, recuperare le energie perse nell’ultimo scontro contro Naraku – Naraku, quel dannato hanyou che continuava ad attaccare il suo regno! – e, magari, incrementare il proprio potere.

Aveva lasciato una moglie e castello per mero desiderio di pace.

Quella ragazzina era solo un disturbo.

“Non mangio cibo umano”, sussurrò, guardandola appena. “La vostra cucina non mi aggrada in quanto non necessito del vostro stesso nutrimento”.

Le spalancò appena gli occhi, aprendo la bocca come per parlare. Poi parve ripensarci, perché sorrise e mosse un passo indietro, inchinandosi. “Prima o poi”, esordì, sollevando appena gli occhi. “Prima o poi riuscirò a trovare del cibo adatto a voi, nobile Sesshomaru”.

 

*

 

Si era innamorata di lui.

Gliel’aveva detto Jaken, un vecchio demone dall’aspetto malnutrito che viveva in quel luogo da tanti – troppi – anni, e che aveva cresciuto quella ragazzina.

Gli aveva detto che lei lo aveva rivelato ad un’altra cameriera, e che lui l’aveva ascoltata, e che lei era una sciocca mocciosa che credeva di avere qualche possibilità – in realtà non lo credeva, ma Jaken questo non glielo disse – con un demone, e che avrebbe dovuto scacciarla, perché era una sciocca.

Sesshomaru non concordava.

“Conducila qui”, sussurrò all’improvviso, durante una notte troppo buia. “Conducila qui”, ripeté.

Il demone sbarrò gli occhi, mentre la lucida pelle verde risplendeva, illuminata da una luna troppo piena. “State scherzando, non è vero, mio signore?”, domandò Jaken, perplesso.

Sesshomaru aggrottò un sopracciglio, osservandolo. “Ho l’aria di uno che scherza, Jaken?”.

“No, non l’avete”.

“Allora conducila qui”.

 

*

 

E la condusse ancora, e ancora.

Sesshomaru imparò che quella donna amava essere baciata, e lei imparò che lui non era capace di provare affetto – si sentì abbracciare mille e più volte da quelle braccia muscolose, mille e più volte sfiorò quel petto pallido e perfetto. Strinse spesso i suoi capelli d’argento tra le dita, carezzò le orecchie appuntite, le gote, le labbra.

Troppe volte desiderò arrischiarsi ad entrare nella sua camera anche di giorno, innamorata di quel corpo perfetto e di quell’uomo severo e schivo. Troppe volte si trovò costretta a nascondersi dalla vista delle altre serve, troppe volte si scoprì a osservare il suo signore da lontano e agognare quanto non poteva ottenere.

Se Kagura era la moglie formale, lei era solo una serva.

I loro dialoghi si ridussero a deboli monosillabi, a gemiti – di Rin, solo a lei era concesso lanciare quei suoni così umilianti – soffocati. A occhiate che sembravano attraversare l’una il corpo dell’altro, ad azioni vergognose, a turni rubati alle altre cameriere, a carezze che non venivano mai ricambiate.

Lui non poteva amarla.

Lo sapeva, eppure continuava a piangere – e lui conosceva quelle lacrime, perché l’odore salato che emanavano lo costringeva a storcere il naso e a scacciarla.

Eppure, lei si lasciò condurre ancora.

 

*

 

“Partire?”.

No. Doveva essere una menzogna, il nobile Sesshomaru doveva essere impazzito, perché no, non poteva essere possibile, per nulla, non poteva essere possibile.

Continuò a scuotere il capo, guardandolo, le mani premute contro le orecchie – rinnegava la verità, preferiva una menzogna.

“Perché devi partire?”, urlò, ricadendo al suolo. Aveva gli occhi umidi, e lo guardava, supplichevole: quantomeno, l’aveva portata nel bosco. Nessuno avrebbe sentito le sue sciocche urla.

“Kagura è incinta”.

Sentì lo sguardo di Rin divenire progressivamente più spento. “Aspetti un figlio”, mormorò – e non era una domanda, affatto. “Un figlio”, ripeté, come per imprimersi bene in mente quella parola. “Tua moglie aspetta un figlio e tu devi tornare da lei. Beh, sì”. Sorrise – non era felice – e si alzò. “Ovviamente, non puoi restare qui. Non… Non puoi far nascere quel bambino senza un padre”.

E Rin lo sapeva bene, cosa significava crescere da sole.

Sua madre era morta troppo giovane, suo padre neppure l’aveva conosciuto.

Non poteva nascere solo.

“Tornerò”, mormorò all’improvviso Sesshomaru. Aveva ancora lo sguardo volto verso il lago, ed osservava l’acqua ondeggiare, placida e lenta. Non sapeva perché le aveva appena detto quella menzogna – ci sarebbero voluti anni, sarebbe tornato solo in futuro, attenderlo sarebbe stata follia.

“Tornerai?”. La voce di Rin era anche troppo acuta. Tremava, vagamente contenta. “Oh, beh. Io ti aspetterò”. Sorrise, scostandosi una ciocca di capelli dal volto. “Qui. Ti aspetterò qui. In fondo”. Socchiuse gli occhi, sforzandosi di alzarsi. “In fondo, il lago è una costante nella nostra vita: la casa dove ci siamo conosciuti è sul lago, dopotutto”.

Lui non rispose, lui non parlò. Le diede le spalle, le fece un cenno.

Rin era ancora immobile, inerme. Si lasciò cadere su di un sasso, stringendo la testa tra le dita e osservando la figura del demone svanire lentamente tra la fitta boscaglia.

“Ti amo”, sussurrò al vento, mentre un singhiozzo la piegava in lui e le lacrime ricominciavano a scorrere. “Ti amo”. Affondò le unghie nel palmo: il sangue prese a scorrere, scarlatto. Rin sobbalzò appena, riprendendo coscienza di sé. “Ti aspetterò”.

 

*

 

Rin l’aveva atteso, seduta sulla riva del lago, osservando a turno quel sole troppo caldo e quella luna troppo fredda.

Aveva atteso lo scorrere delle stagione, il cambiare del tempo, il gelo, l’arsura. Aveva atteso Sesshomaru con ansia e amore, le gambe immerse nell’acqua, gli occhi umidi per il pianto.

L’aveva atteso per un tempo a suo dire immemore, senza mai allontanarsi.

Ma lui non era tornato.

 

*

 

Era una mattina cupa, quella.

Uno di quei giorni freddi e troppo lunghi, noiosi, irritanti.

Sesshomaru non desiderava tornare sul lago. O, forse, non desiderava rivedere quel mucchio di servitori negligenti, e quella terra maleodorante e sterile.

Eppure, Kagura, in un ultimo barlume di lucidità, l’aveva implorato di tornarvi – realizza i tuoi sogni, aveva sussurrato, contorcendosi per il dolore. Un demone troppo forte l’aveva attaccata, e le possibilità di guarigione erano troppo infime. Sesshomaru aveva atteso la morte della donna con aria impassibile, mentre lei stringeva con forza al petto il loro primogenito, dedicandogli tutte le attenzioni possibili e immaginabili.

Ma l’ultima preghiera era stata per lui: l’aveva implorato di tornare sul lago, e realizzare i suoi sogni. Gli aveva chiesto di ritrovare la donna con quell’odore così dolce – i tuoi abiti profumavano di ningen, aveva sussurrato – e di realizzare i suoi sogni.

Poi aveva ghignato, serrando i pugni, e aveva biascicato qualche parola incoerente, mentre il volto si deformava in un’espressione di puro dolore e le urla divenivano progressivamente più forti.

Così, Sesshomaru era tornato sul lago. Non per sua volontà: il suo primogenito l’aveva implorato. Il suo primogenito aveva pianto.

Tornare sul lago era stato doveroso, incontrare quell’essere abietto che lo fissava provocatore era stato un errore.

“Il lago”, sussurrò il vecchio con un sorriso sdentato.

Sesshomaru lo riconobbe dopo un istante – era Sasuke, il piccolo Sasuke, il figlio di un suo soldato, vecchio e sporco come solo un contadino può essere. Aveva gli occhi socchiusi, e sedeva malamente su di un sasso accanto ad all’enorme distesa d’acqua.

Sereno, allegro.

Eppure, non v’era gioia nel suo sguardo tranquillo.

Dolore e rabbia si mescolavano a pace e felicità, tristezza e nervosismo ad amore e brio.

“Nel lago, signor Sesshomaru”, biascicò ancora. La pelle era raggrinzita, gli arti stanchi: non provò né pena né rispetto per quell’essere così debole, ma il desiderio di eliminarlo – eliminava tutti, lui, tutti e proprio tutti – scemò immediatamente.

Inutile sprecare tempo se la fine è già vicina.

Vide l’anziano piegarsi appena e sfilare dal kimono qualcosa – una lettera? –, poi sentì un’esplosione. Neppure si voltò, imperturbabile. “Cos’è?”.

“I demoni ci stanno attaccando, signor Sesshomaru”, rise l’umano. “Succede sempre, di recente. Oh, beh!”.

“Cosa c’è nel lago?”, lo interruppe d’istinto, la voce autoritaria come un tempo.

Il vecchio rise ancora. Forte, sempre più forte. “C’è lei nel lago. Lei! Non le fa piacere sapere che quella troia è nel lago, signore?”, quasi urlò, dimentico delle sue membra stanche. Quando finalmente spalancò le iridi nere, fu solo per terrore: il sangue già fluiva dalla ferita al petto, il demone era nuovamente immobile.

Fissò Sesshomaru per un attimo o poco più, prima di rovinare al suolo.

“C’è lei, nel lago”, riuscì a mormorare – la vita già lasciava quel simulacro, mentre ricominciava a ridere, scioccamente felice. “Dopotutto, aveva promesso di aspettarla”. Prese fiato, tossendo con forza. “Me lo ha scritto in questa lettera. Lei era la mia promessa sposa, ma ha atteso il suo ritorno. Lei era sua, ma doveva essere mia”.

Nuova tosse, nuovo corpo che si contorce, scosso dagli ultimi spasmi.

Non osservò la sua agonia, non l’attese: gli diede le spalle, un cenno della mano – scarlatta, sporca di quel sangue che ancora scorreva dalla ferita del vecchio – come ultimo saluto. Le iridi si posarono nuovamente sul lago, e si stupì ad inginocchiarsi accanto all’acqua fresca, dove l’erba era più rigogliosa e umida: il forte sole gli impediva di osservare con la dovuta perizia, ma un lampo – rosa, sembrava un abito rosa – lo scherniva.

Rin non era cambiata.

Le sue labbra erano ancora due petali di rosa, le sua pelle ancora manteneva una seppur vaga colorazione ambrata. Aveva gli occhi chiusi, e il naso ancora piccolo e perfetto – e ancora era perfetta, quell’agonia.

Notò i capelli guizzare qua e là, scossi dalla debole corrente, e il kimono ondeggiare appena, scoprendo il seno e le gambe lunghe.

Vide quella creatura orribilmente ferma – orribilmente immobile – e quell’espressione perennemente allegra.

La osservò, concedendosi solo un attimo di rabbia, solo un secondo.

Le parole del vecchio ancora risuonavano nell’aria: l’aveva atteso, sì. Aveva mantenuto la sua promessa, statica come una statua ma bella come la più bella tra le donne.

Soffocò il desiderio di raggiungerla – inutile depredare il lago di quel corpo ormai privo di vita –, non mosse un passo né altro.

Si alzò, lento e superbo, e riprese il suo cammino.

Inutile fingere sofferenza, quando il proprio cuore non è capace di provarla.

 

 

*\* *Coff* Beh, sì. Ecco.
E' una cosa a tre. >.> Cioè, diciamo a tre, perché Kagura lo ama e Rin lo ama, ma lui non ama realmente nessuna delle due. Si può interpretare così, o come preferite. >.>"
Ci tengo a ringraziare:
callistas
demetra85
Bellatrix_Indomita
HimeChan XD
pillo
mikamey
Samirina
Vale728
Onigiri
LilyProngs
ryanforever
araya
fmi89
Emiko92
Mary_loveloveManga
kaggychan95
Dance of death

^*^ Per la cronaca: mi sono ispirata alla stessa storia di Emiko-chan - leggete la sua fic! - pur non conoscendo la leggenda. XD
Insomma, avete visto quel che ne è uscito. >.>
Baci, baci e ancora baci, alla prossima. <3 */*

*Fugge*
   
 
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