Allora, dunque, sì. Ho aggiornato la raccolta. Con un giorno di ritardo, perché questa Shot andava postata ieri, ma l'ho aggiornata.
Scusate se non mi dilungo, ma devo uscire. >.> Solo che... Ci tenevo a postare. Perché ieri era il compleanno di Kade, e io - un po' perché stavo attendendo Emiko, un po' perché effettivamente 'sta Shot mi fa schifus - non ho postato.
Ma poi Emiko ha postato XD, e mi sono sentita in dovere di ricambiare, anche se quest'elaborato è penoso. Dovevo postare, perché il compleanno della nostra regina del regno dell'Anaconda va osannato. U_U"
E dunque, eccomi qui, a presentarvi il mio ennesimo sclero: perdono per i non-presenti ringraziamenti, ma devo uscire.
Baci, spero vi piaccia. >.>" */*
Avvertimenti e Note: AU, What if?, Romantico (?), Triste, Malinconico (!)
In pratica: Angst [Almeno spero. U_U"]
Note dell'autore: NON MORITE!
Perché hai scritto in Comic Sans MS? Perché mi è uscito questo cavolo di stile XD.
Kagura
fremeva, osservando la figura del marito distanziarla.
“Dove state
andando?”, domandò,
perplessa – involontario quesito,
interrogativo inutile.
Lui si limitò a voltarsi
e – non –
guardarla con i suoi occhi
d’ambra. Non una parola fuoriuscì dalle sue labbra
scarlatte, non una mutazione
nel suo sguardo. Sesshomaru si limitò ad osservarla come se
lei non fosse lì, a
volgere le sue iridi su quella figura ma non realmente osservarla.
Kagura incassò il colpo,
un sorriso
sghembo che le piegava le labbra. Era sempre così, sempre.
In fin dei conti,
quel gran demone non le rivolgeva mai molta attenzione.
La
loro era solo una finzione.
“Dove state
andando?”, chiese di nuovo:
tremava di rabbia, di risentimento, di paura. Sentiva
l’indifferenza del suo
signore, il suo disinteresse. Sapeva di non essere che una moglie
formale, e ciò le faceva male.
Ma era assurdo
star male, no?
Lui non le aveva mai giurato amore,
mai realmente.
Condividevano il giaciglio, le
notti, il
castello. Condividevano una mera illusione e nulla più.
Sesshomaru non la amava, non
l’aveva mai
amata e mai l’avrebbe amata: eppure, il suo – come
dire? – orgoglio le impediva
di lasciarlo andare.
La
sua follia non le consentiva di lasciarsi abbandonare.
“Dove state
andando?”, ripeté.
La voce era forse più
dura, forse più
indisposta.
Sesshomaru inarcò un
sopracciglio, come
sorpreso da quell’impercettibile astio. “Sul
lago”, proferì infine.
“…
Perché?”.
Era una domanda. Solo una domanda.
Poteva risponderle.
Kagura continuò ad
osservarlo,
speranzosa, le iridi scarlatte che risplendevano fiocamente alla luce
di una
candela. Era notte fonda, avrebbero dovuto dormire, il giorno dopo il
fratello
di Sesshomaru sarebbe venuto a trovarli, non potevano sfigurare, era
assurdo,
Sesshomaru non poteva essere serio, non poteva voler partire, non doveva voler partire.
Era
assurdo.
“Perché?”.
Lui non le diede risposta,
voltandosi –
il kimono bianco che aveva indosso frusciò appena, le sue
labbra formarono
nuovamente una linea sottile.
“Perché?”,
sussurrò nuovamente Kagura,
portandosi le mani sul grembo. “Perché?”.
Ma
Sesshomaru era troppo distante.
Gemendo di rabbia, si
lasciò cadere al
suolo.
Lui
era sempre troppo distante, dopotutto.
*
“Vi
ho portato il vostro pranzo, nobile Sesshomaru”.
I ningen non gli interessavano.
Affatto.
Odiava i suoi schiavi umani, odiava
catturarli e renderli servi: il loro odore – puzza sgradevole
che gli riempiva
la narici – lo disgustava, costringendolo a storcere il naso
innanzi ai loro
volti abbronzati, color dell’ambra.
Quindi non ringraziò la
ragazzina che
gli porgeva il pranzo, né le sorrise. Si limitò
ad attendere che lei sparisse.
Cosa
che, peraltro, non avvenne.
“Signor
Sesshomaru?”, sussurrò lei,
inclinando il capo di lato. “Posso porle una
domanda?”.
Non attese risposta, ricominciando
a
parlare con tranquillità.
“Beh, so di non essere
nella posizione
di domandare, ma… Ecco. Volevo chiederle se gradisce il
pranzo”. Arrossì. “Il
punto è che ogni giorno, quando vengo a riprendere le vostre
ciotole, le
ritrovo perfettamente piene, e ciò mi sconcerta: se quanto
prepariamo non è di
vostro gradimento, ci sforzeremo di trovare qualcosa di più
succulento”.
Abbassò gli occhi, osservandosi i piedi.
E Sesshomaru – non era
curiosità, si
disse, la stava guardando perché non aveva niente di meglio
da fare – prese a
fissarla: era bella. Per gli standard umani, almeno.
Non poteva essere paragonata
all’eterea
bellezza di Kagura, ma non era neppure brutta: bella. Con capelli
lunghi e
neri, e due iridi color della terra bagnata dalle piogge
d’autunno. La pelle
era come quella degli altri abitanti, abbronzata per il troppo lavoro
nei
campi, eppure riluceva in modo particolare, e i lineamenti erano fini,
perfetti
– per gli uomini.
Un ghigno sfiorò le
labbra di
Sesshomaru, ma non si permise di risponderle.
“Scusi la sfacciataggine,
davvero”,
riprese a parlare lei. Aveva alzato appena gli occhi, arrossendo
nuovamente. “Solo
che… Che… Insomma! Signor Sesshomaru, non
può digiunare in eterno, fa male alla
salute!”.
Il demone si sentì
bruscamente afferrare
la mano, e una debole pressione cercò di trascinarlo:
inarcò un sopracciglio,
ma non le concesse di smuoverlo. La mano della ragazzina gli aveva
arpionato il
polso, i suoi occhi scuri lo guardavano spauriti. “Come ti
chiami?”, si
sorprese a domandare.
Le suo gote presero una colorazione
ancor più rosata, ma le labbra le si piegarono in un sorriso
– divertita,
compiaciuta. Quella piccola creatura continuava a fremere,
trattenendosi dal
saltellare.
Se
non fosse stato il nobile Sesshomaru, signore di più terre
di quante si possa
immaginare, l’avrebbe trovata tenera.
Ma lui non era un umano, e quella
ragazzina gongolante non gli dava che noia.
“Mi chiamo
Rin”, sussurrò infine,
guardandolo. Indossava un kimono grigio, scolorito, di sicuro vecchio,
quasi
maleodorante. Pian piano, Sesshomaru sentì le dita della
ragazza allentare la
presa, sino a lasciarlo andare del tutto. Lei però
continuava a ridere, felice.
“Davvero, signore. Se il nostro cibo la disgusta, cacceremo
quanto la soddisfa
e cucineremo come la aggrada. Ma me lo dica”.
Inclinò il capo di lato.
“Non mangio cibo
umano”.
“Come?”.
Sesshomaru inarcò un
sopracciglio,
infastidito, e si voltò, trascinandosi lentamente verso il
centro della stanza:
era fuggito per rilassarsi. Aveva abbandonato Kagura per rilassarsi,
recuperare
le energie perse nell’ultimo scontro contro Naraku
– Naraku, quel dannato hanyou che
continuava ad attaccare il suo regno!
– e, magari, incrementare il proprio potere.
Aveva lasciato una moglie e
castello per
mero desiderio di pace.
Quella
ragazzina era solo un disturbo.
“Non mangio cibo
umano”, sussurrò,
guardandola appena. “La vostra cucina non mi aggrada in
quanto non necessito
del vostro stesso nutrimento”.
Le spalancò appena gli
occhi, aprendo la
bocca come per parlare. Poi parve ripensarci, perché sorrise
e mosse un passo
indietro, inchinandosi. “Prima o poi”,
esordì, sollevando appena gli occhi.
“Prima o poi riuscirò a trovare del cibo adatto a
voi, nobile Sesshomaru”.
*
Si
era innamorata di lui.
Gliel’aveva detto Jaken,
un vecchio
demone dall’aspetto malnutrito che viveva in quel luogo da
tanti – troppi
– anni, e che aveva cresciuto
quella ragazzina.
Gli aveva detto che lei lo aveva
rivelato ad un’altra cameriera, e che lui l’aveva
ascoltata, e che lei era una
sciocca mocciosa che credeva di avere qualche possibilità
– in realtà non lo
credeva, ma Jaken questo non glielo disse – con un demone, e
che avrebbe dovuto
scacciarla, perché era una sciocca.
Sesshomaru non concordava.
“Conducila
qui”, sussurrò
all’improvviso, durante una notte troppo buia.
“Conducila qui”, ripeté.
Il demone sbarrò gli
occhi, mentre la
lucida pelle verde risplendeva, illuminata da una luna troppo piena.
“State
scherzando, non è vero, mio signore?”,
domandò Jaken, perplesso.
Sesshomaru aggrottò un
sopracciglio,
osservandolo. “Ho l’aria di uno che scherza,
Jaken?”.
“No, non
l’avete”.
“Allora conducila
qui”.
*
E la
condusse
ancora, e ancora.
Sesshomaru imparò che
quella donna amava
essere baciata, e lei imparò che lui non era capace di
provare affetto – si
sentì abbracciare mille e più volte da quelle
braccia muscolose, mille e più
volte sfiorò quel petto pallido e perfetto. Strinse spesso i
suoi capelli
d’argento tra le dita, carezzò le orecchie
appuntite, le gote, le labbra.
Troppe volte desiderò
arrischiarsi ad
entrare nella sua camera anche di giorno, innamorata di quel corpo
perfetto e
di quell’uomo severo e schivo. Troppe volte si
trovò costretta a nascondersi
dalla vista delle altre serve, troppe volte si scoprì a
osservare il suo
signore da lontano e agognare quanto non poteva ottenere.
Se
Kagura era la moglie formale, lei era solo una serva.
I loro dialoghi si ridussero a
deboli
monosillabi, a gemiti – di Rin,
solo
a lei era concesso lanciare quei suoni così umilianti
– soffocati. A occhiate
che sembravano attraversare l’una il corpo
dell’altro, ad azioni vergognose, a
turni rubati alle altre cameriere, a carezze che non venivano mai
ricambiate.
Lui
non poteva amarla.
Lo sapeva, eppure continuava a
piangere
– e lui conosceva quelle lacrime, perché
l’odore salato che emanavano lo
costringeva a storcere il naso e a scacciarla.
Eppure,
lei si lasciò condurre ancora.
*
“Partire?”.
No. Doveva essere
una menzogna, il nobile Sesshomaru doveva essere impazzito,
perché no, non poteva
essere possibile, per
nulla, non poteva essere possibile.
Continuò a scuotere il
capo,
guardandolo, le mani premute contro le orecchie – rinnegava
la verità,
preferiva una menzogna.
“Perché devi
partire?”, urlò, ricadendo
al suolo. Aveva gli occhi umidi, e lo guardava, supplichevole:
quantomeno,
l’aveva portata nel bosco. Nessuno avrebbe sentito le sue
sciocche urla.
“Kagura è
incinta”.
Sentì lo sguardo di Rin
divenire
progressivamente più spento. “Aspetti un
figlio”, mormorò – e non era una
domanda, affatto. “Un figlio”, ripeté,
come per imprimersi bene in mente quella
parola. “Tua moglie aspetta un figlio e tu devi tornare da
lei. Beh, sì”.
Sorrise – non era felice
– e si alzò.
“Ovviamente, non puoi restare qui. Non… Non puoi
far nascere quel bambino senza
un padre”.
E
Rin lo sapeva bene, cosa significava crescere da sole.
Sua madre era morta troppo giovane,
suo
padre neppure l’aveva conosciuto.
Non
poteva nascere solo.
“Tornerò”,
mormorò all’improvviso
Sesshomaru. Aveva ancora lo sguardo volto verso il lago, ed osservava
l’acqua
ondeggiare, placida e lenta. Non sapeva perché le aveva
appena detto quella
menzogna – ci sarebbero voluti anni, sarebbe tornato solo in
futuro, attenderlo
sarebbe stata follia.
“Tornerai?”. La
voce di Rin era anche
troppo acuta. Tremava, vagamente contenta. “Oh, beh. Io ti
aspetterò”. Sorrise,
scostandosi una ciocca di capelli dal volto. “Qui. Ti
aspetterò qui. In fondo”.
Socchiuse gli occhi, sforzandosi di alzarsi. “In fondo, il
lago è una costante
nella nostra vita: la casa dove ci siamo conosciuti è sul
lago, dopotutto”.
Lui non rispose, lui non
parlò. Le diede
le spalle, le fece un cenno.
Rin era ancora immobile, inerme. Si
lasciò cadere su di un sasso, stringendo la testa tra le
dita e osservando la
figura del demone svanire lentamente tra la fitta boscaglia.
“Ti amo”,
sussurrò al vento, mentre un
singhiozzo la piegava in lui e le lacrime ricominciavano a scorrere.
“Ti amo”.
Affondò le unghie nel palmo: il sangue prese a scorrere,
scarlatto. Rin
sobbalzò appena, riprendendo coscienza di sé.
“Ti aspetterò”.
*
Rin
l’aveva atteso, seduta sulla riva del lago, osservando a
turno quel sole troppo
caldo e quella luna troppo fredda.
Aveva atteso lo scorrere delle
stagione,
il cambiare del tempo, il gelo, l’arsura. Aveva atteso
Sesshomaru con ansia e
amore, le gambe immerse nell’acqua, gli occhi umidi per il
pianto.
L’aveva atteso per un
tempo a suo dire
immemore, senza mai allontanarsi.
Ma
lui non era tornato.
*
Era
una mattina cupa, quella.
Uno di quei giorni freddi e troppo
lunghi, noiosi, irritanti.
Sesshomaru non desiderava tornare
sul
lago. O, forse, non desiderava rivedere quel mucchio di servitori
negligenti, e
quella terra maleodorante e sterile.
Eppure, Kagura, in un ultimo
barlume di
lucidità, l’aveva implorato di tornarvi
– realizza
i tuoi sogni, aveva sussurrato, contorcendosi per il dolore.
Un demone
troppo forte l’aveva attaccata, e le possibilità
di guarigione erano troppo
infime. Sesshomaru aveva atteso la morte della donna con aria
impassibile,
mentre lei stringeva con forza al petto il loro primogenito,
dedicandogli tutte
le attenzioni possibili e immaginabili.
Ma l’ultima preghiera era
stata per lui:
l’aveva implorato di tornare sul lago, e realizzare
i suoi sogni. Gli aveva chiesto di ritrovare la donna con
quell’odore così
dolce – i tuoi abiti profumavano di
ningen, aveva sussurrato – e di realizzare
i suoi sogni.
Poi aveva ghignato, serrando i
pugni, e
aveva biascicato qualche parola incoerente, mentre il volto si
deformava in
un’espressione di puro dolore e le urla divenivano
progressivamente più forti.
Così, Sesshomaru era
tornato sul lago.
Non per sua volontà: il suo primogenito l’aveva
implorato. Il suo primogenito aveva pianto.
Tornare sul lago era stato
doveroso,
incontrare quell’essere abietto che lo fissava provocatore
era stato un errore.
“Il lago”,
sussurrò il vecchio con un
sorriso sdentato.
Sesshomaru lo riconobbe dopo un
istante
– era Sasuke, il piccolo
Sasuke, il
figlio di un suo soldato, vecchio e sporco come solo un contadino
può essere.
Aveva gli occhi socchiusi, e sedeva malamente su di un sasso accanto ad
all’enorme
distesa d’acqua.
Sereno,
allegro.
Eppure, non v’era gioia
nel suo sguardo
tranquillo.
Dolore
e rabbia si mescolavano a pace e felicità, tristezza e
nervosismo ad amore e
brio.
“Nel lago, signor
Sesshomaru”, biascicò
ancora. La pelle era raggrinzita, gli arti stanchi: non
provò né pena né
rispetto per quell’essere così debole, ma il
desiderio di eliminarlo –
eliminava tutti, lui, tutti e
proprio
tutti – scemò immediatamente.
Inutile
sprecare tempo se la fine è già vicina.
Vide l’anziano piegarsi
appena e sfilare
dal kimono qualcosa – una lettera? –, poi
sentì un’esplosione. Neppure si
voltò, imperturbabile.
“Cos’è?”.
“I demoni ci stanno
attaccando, signor
Sesshomaru”, rise l’umano. “Succede
sempre, di recente. Oh, beh!”.
“Cosa
c’è nel lago?”, lo interruppe
d’istinto, la voce autoritaria come un tempo.
Il vecchio rise ancora. Forte, sempre più forte. “C’è lei nel lago. Lei!
Non le fa piacere sapere che quella troia
è nel lago, signore?”, quasi urlò,
dimentico delle sue membra
stanche. Quando finalmente spalancò le iridi nere, fu solo
per terrore: il
sangue già fluiva dalla ferita al petto, il demone era
nuovamente immobile.
Fissò Sesshomaru per un
attimo o poco
più, prima di rovinare al suolo.
“C’è
lei, nel lago”, riuscì a mormorare
– la vita già lasciava quel simulacro,
mentre ricominciava a ridere, scioccamente felice.
“Dopotutto, aveva promesso
di aspettarla”. Prese fiato, tossendo con forza.
“Me lo ha scritto in questa
lettera. Lei era la mia promessa
sposa, ma ha atteso il suo ritorno. Lei
era sua, ma doveva essere mia”.
Nuova tosse, nuovo corpo che si
contorce, scosso dagli ultimi spasmi.
Non osservò la sua
agonia, non l’attese:
gli diede le spalle, un cenno della mano – scarlatta,
sporca di quel sangue che ancora scorreva dalla ferita del vecchio
– come
ultimo saluto. Le iridi si posarono nuovamente sul lago, e si
stupì ad inginocchiarsi
accanto all’acqua fresca, dove l’erba era
più rigogliosa e umida: il forte sole
gli impediva di osservare con la dovuta perizia, ma un lampo
– rosa, sembrava un abito
rosa – lo
scherniva.
Rin
non era cambiata.
Le sue labbra erano ancora due
petali di
rosa, le sua pelle ancora manteneva una seppur vaga colorazione
ambrata. Aveva
gli occhi chiusi, e il naso ancora piccolo e perfetto – e ancora era perfetta, quell’agonia.
Notò i capelli guizzare
qua e là, scossi
dalla debole corrente, e il kimono ondeggiare appena, scoprendo il seno
e le
gambe lunghe.
Vide quella creatura orribilmente
ferma
– orribilmente immobile
– e
quell’espressione perennemente allegra.
La osservò, concedendosi
solo un attimo
di rabbia, solo un secondo.
Le parole del vecchio ancora
risuonavano
nell’aria: l’aveva atteso, sì. Aveva
mantenuto la sua promessa, statica come
una statua ma bella come la più bella tra le donne.
Soffocò il desiderio di
raggiungerla – inutile depredare il
lago di quel corpo
ormai privo di vita –, non mosse un passo
né altro.
Si alzò, lento e
superbo, e riprese il
suo cammino.
Inutile
fingere sofferenza, quando il proprio cuore non è capace di
provarla.
E' una cosa a tre. >.> Cioè, diciamo a tre, perché Kagura lo ama e Rin lo ama, ma lui non ama realmente nessuna delle due. Si può interpretare così, o come preferite. >.>"
Ci tengo a ringraziare:
callistas
demetra85
Bellatrix_Indomita
HimeChan XD
pillo
mikamey
Samirina
Vale728
Onigiri
LilyProngs
ryanforever
araya
fmi89
Emiko92
Mary_loveloveManga
kaggychan95
Dance of death
^*^ Per la cronaca: mi sono ispirata alla stessa storia di Emiko-chan - leggete la sua fic! - pur non conoscendo la leggenda. XD
Insomma, avete visto quel che ne è uscito. >.>
Baci, baci e ancora baci, alla prossima. <3 */*
*Fugge*