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Autore: Dira_    03/08/2009    16 recensioni
La guerra è ormai finita, Harry è un auror e sta per avere il suo secondo bambino.
Degli strani sogni e la misteriosa comparsa di un neonato decisamente particolare turbano la sua pace, tornando a scuotere la famiglia Potter sedici anni dopo, quando Tom, il bambino-che-è-stato-salvato, scoprirà che Hogwarts non solo nasconde misteri, venduti come leggende, ma anche il suo oscuro passato...
La nuova generazione dovrà affrontare misteri, intrighi, nuove amicizie e infine, l'amore.
“Essere amati ci protegge. È una cosa che ci resta dentro, nella pelle.”
Può davvero l’amore cambiare le carte che il destino ha messo in tavola?
[Next Generation]
Genere: Azione, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Severus Potter, James Sirius Potter, Nuovo personaggio, Rose Weasley, Scorpius Malfoy
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Doppelgaenger's Saga' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Doppelgaenger.







Harry si trovava di nuovo a King’s Cross. Ma non la King’s Cross babbana, né tantomeno quella magica.
Quella del suo sogno.
Harry Potter, il bambino-che-è-sopravvissuto, attualmente meglio conosciuto il ridondante titolo di Salvatore Del Mondo Magico, camminava per la stazione deserta, immersa in un’atmosfera brumosa e irreale.

Non c’era dubbio che si trattasse di un sogno. Un sogno inspiegabilmente simile a quello che aveva vissuto quando, durante la battaglia finale, era stato colpito da Voldemort, e creduto morto.
Non sapeva perché si trovasse lì, ma si trattava di un sogno, di questo era certo.
Dannatamente vivido, poiché non aveva nulla di incoerente. Quella era una stazione deserta, priva di treni, e lui era lì, da solo.
Poi l’aveva sentito. Un lamento, come quello di un animaletto ferito. Aveva percepito distintamente sudore gelido scorrergli lungo la schiena.
Era lo stesso suono di quella cosa che aveva incontrato poco prima di vedere Silente.
E poi l’aveva vista, di nuovo, sotto una panchina. Un neonato piccolissimo, rosso, come scorticato, che piangeva. Si era avvicinato, come quella volta di otto anni prima, e come quella volta non aveva osato toccarla.
“Cosa vuoi da me?” si era trovato a sussurrare al corpicino gemente.

Era ancora vivo, quindi, sebbene in quella specie di limbo, di non-luogo. Non vivo in senso tecnico del termine, certo. Quella cosa era una parte della sua anima straziata, che rantolava e gemeva, ma solo una parte. Non si poteva considerare Voldemort.
Aveva sentito di nuovo quel lungo brivido freddo. Aveva mosso qualche passo, incerto. Aveva finito per chinarsi di fronte al neonato.
“Perché mi hai chiamato qui? Sei stato tu, vero?”
La prima volta il colloquio con Silente era stato tutto nella sua testa. Ma stavolta quel sogno non gli apparteneva. Il luogo sembrava lo stesso, eppure non lo era.
Harry era sicuro che era stata quella cosa a chiamarlo.

Aveva teso la mano, e anche stavolta, non era riuscito a toccarlo.
Si era svegliato prima.


Otto anni dopo la sconfitta di Voldemort…
19 Dicembre 2006

“Harry… Harry!”
L’uomo aveva aperto gli occhi, lentamente. Sopra di lui, la moglie. Attorno a lui, la loro stanza alla Tana. Era mattino, e la moglie non gli era mai sembrata così radiosa, e il mondo così vivido. Le aveva sorriso, a lei e al suo ventre rotondo, perfetto. L’aveva baciata.

“Ginny… Ginny Weasley.” Aveva mormorato contro le sue labbra.
“E’ il mio nome.” Aveva convenuto ironica la donna. “Parlavi nel sonno, lo sai? Continuavi a chiedermi cosa volessi da te. Una bella prova d’amore coniugale!”

Harry aveva battuto le palpebre un paio di volte, ed era tornato prepotentemente il ricordo di quello strano sogno.
“No, non stavo chiamando te…”
Ginny aveva curvato le labbra in un sorriso malizioso.

“Fantastico, e quindi chi? Devo preoccuparmi?”
“Ma no, figurati… oh, Gin…” aveva riso, dandole un buffetto. “Non in quel senso, sai.” Poi si era fatto serio. Si era seduto sul letto, incrociando le gambe. “Ti ricordi quando ti ho raccontato del mio… diciamo sogno, quando credevo che Voldemort mi avesse ucciso? Di quando incontrai Silente, in quello strano limbo?”
Ginny aveva annuito, alzandosi e posandosi sulle spalle un cardigan pesante. Era un dicembre particolarmente freddo, quello, e la neve si era già posata pesantemente sui terreni attorno alla casa, proteggendola in un ovattato e bianco silenzio.
“Certo…” aveva atteso che continuasse.
“Beh, ho sognato di nuovo quel posto.” Si era passato una mano trai capelli, sfiorando leggermente la cicatrice, ormai poco più che un lieve segno sulla pelle.

“E Silente?”
“No, stavolta Silente non c’era. Ma c’era… quella cosa. Quella creatura.”
“Il neonato?” aveva corrugato le sopracciglia. “Quello che credevi fosse…”
“L’anima morente di Voldemort, già.” Aveva convenuto con una smorfia. Aveva guardato la donna, serio. Sentiva una sensazione spiacevole addosso, come se un serpente gli fosse strisciato lungo la schiena.

Sensazione orribile, davvero.
“Era come quella volta. Gemeva, e sembrava… mi chiedesse aiuto. Ma io non potevo darglielo. Cioè, volevo… ma non ci riuscivo, mi ripugnava troppo.”
“Silente ti disse che non poteva essere aiutato…”
“E se invece avesse mentito?” aveva mormorato, senza neanche rifletterci. Ginny l’aveva guardato perplessa, prima di scuotere la testa.

“Harry, lui è morto. Non è altro che concime per vermi, perdonami l’espressione. È stato solo un sogno, non rompertici troppo la testa…” aveva aggiunto affettuosamente, passandogli le braccia attorno al collo. Il ventre rotondo si era frapposto tra loro due, e Harry aveva sorriso, accarezzandolo.
“… sì, hai ragione. E’ solo che è stato un sogno così strano. Ero cosciente, come quella volta. E stavo davvero per toccarlo, stavolta… credo. Poi mi hai svegliato e…”
Harry Potter.” Aveva scandito il suo nome, seria. “I sogni sono soltanto sogni. La differenza tra quella volta e questa è che tu eri stato appena colpito da una maledizione senza perdono. Stavolta stavi dormivi della grossa. Noti qualche differenza amor mio?”
Harry aveva convenuto che sì, c’era in effetti una differenza.

Ginny gli aveva allora picchiettato l’indice sul naso: più piccola di lui di due anni, a volte sembrava quasi sua madre. Con i suoi ventisei anni e innumerevoli esperienze alle spalle … Harry a volte si sentiva comunque un bambino, di fronte alla giovane moglie.
Ed era una sensazione bellissima.
“Stiamo per avere un bambino, Mister Potter. Forse inconsciamente ti senti spaventato, ed hai sognato quell’orribile neonato…”
“Oh, andiamo Gin! Abbiamo già Jamie. Il terrore da neo-padre è cosa passata!”
Quasi, aveva pensato, quasi…
Ma non era il caso di farlo sapere alla moglie. Giusto?

Ginny l’aveva guardato a lungo. In silenzio. Alla fine, come tutte le volte, era capitolato sotto l’ironica fermezza di quegli occhi nocciola.
“Okay, forse sono un po’ preoccupato… voglio dire. Se fossero gemelli?”
“Non è un’eventualità.” Aveva pronosticato decisa. E Harry scommetteva che non sarebbe stata smentita. Non le capitava quasi mai.

“E’ stato solo un brutto sogno, Harry. Fatti una doccia, mangia un po’ delle uova strapazzate della mamma e va al lavoro. Qualcuno dovrà pur guadagnarsi da vivere, in questa famiglia.” Aveva concluso arruffandogli i capelli e alzandosi dal letto.
Al momento Ginny era disoccupata. Aveva lasciato le Holyhead Harpies quando era rimasta incinta di Jamie, e attualmente si occupava del piccolo a tempo pieno. All’inizio aveva trovato difficile rinunciare alla scopa e al Quidditch ma alla fine, complice la vivacità di Jamie e le pressioni di Molly, si era ufficialmente ritirata dai campi da gioco. Non riusciva a stare lontana dal figlio, e con il secondo in arrivo, la possibilità che tornasse a giocare, era ancora più remota.

Harry sapeva che per la moglie quella era stata una dura rinuncia. Amava giocare, e aveva talento. Ma più di tutto, come amava ripetergli quando provava a muovere qualche obiezione, amava la famiglia.
La loro famiglia.
Harry aveva sorriso, andando in bagno e infilandosi sotto il benefico getto caldo della doccia.
Se fosse stato maschio avevano già in mente il nome.


****


Una ventina di minuti dopo era seduto alla tavola Weasley. Molly gli aveva già riempito tre volte il piatto, e Arthur, dalla sua posizione di capofamiglia, stava tentando di coinvolgerlo in un’appassionante discussione sul funzionamento di una cosa chiamata intrenat.
Harry dubitava seriamente che Arthur avesse una vaga concezione del concetto di internet, ma lo stava ascoltando volenterosamente.
“Papà io non credo si dica demodè. Quello è un aggettivo.” Aveva obbiettato Ginny, bevendo un sorso di succo di zucca.
“E’ modem.” Aveva convenuto infatti Hermione, concentrata sulla lettura della Gazzetta del Profeta: erano tutti lì per le vacanze di Natale, Ron e la moglie erano venuti il giorno prima. Si attendevano George con la fidanzata, Bill e famiglia. Teddy sarebbe venuto per la Vigilia, con la nonna. Charlie, come al solito, era disperso nelle lande desolate della Romania.
“Oh… questo intrenet comunque è incredibilmente complicato. Anche a livello concettuale.” Stava per lanciarsi in una nuova arringa, quando un Crack! Aveva annunciato l’arrivo di un Ron particolarmente agitato.

“Harry, devi venire subito in ufficio.” Aveva borbottato, salutando con un cenno della testa i presenti. Il giovane uomo aveva annuito, alzandosi in piedi. Se si era addirittura smaterializzato per arrivare fino alla Tana il più velocemente possibile la faccenda doveva essere seria.
Ron era entrato l’anno prima, alla divisione auror, con gioia sua e dell’amico. Prima di tentare l’esame di ammissione aveva infatti aiutato George con ‘i tiri vispi Weasley’ per un po’. Era stata un’esperienza positiva per entrambi i fratelli, sebbene il minore non avesse la stoffa del negoziante. Infatti, per delicatezza nei confronti di George, Ron non aveva mai accennato alle sue vere aspirazioni. Era stato il fratello infine a licenziarlo, con tono brusco e amichevole, una mattina di cinque anni prima, con queste parole.
“Non ho intenzione di vedere libri di preparazione al test per auror spuntare tra le scatole di merendine marinare per tutta la vita né di continuare a sopportare il tuo occhio languido quando vedi Harry con la sua bella divisa. Sei licenziato, fratellino. Va’ a fare quello per cui sei tagliato.”
Ron era passato al primo colpo, stupendo soprattutto se stesso.
“Qual è il problema Ron?” Aveva chiesto quando si era infilato il mantello e messo la bacchetta in tasca. Erano andati all’ingresso, lasciando gli altri finire in pace la propria colazione.
“Forse è meglio se…”
“Sì, giusto.”
Poco dopo erano al secondo piano del Ministero della Magia, diretti verso il quartier generale. Harry gli aveva fatto cenno di parlare.
“Ti ricordi il caso Coleridge?”
Harry si era leggermente incupito: aveva annuito, senza rallentare il passo. Era un caso su cui stavano lavorando da anni: Artemius Coleridge era un ex-mangiamorte, attualmente fuggitivo. Era un vero asso nel fabbricare la pozione polisucco, che gli permetteva di passare inosservato sotto il naso degli auror. Estremamente frustrante.

Avevano sprecato uomini, tempo e risorse per cercare di sbatterlo dentro, ma era sempre riuscito a fuggire all’ultimo soffio. Le piste erano morte da mesi. Sparito, irrintracciabile. Si sospettava fosse scappato all’estero, riparando forse in Germania.
“C’è qualche nuova pista?”
“Un nostro informatore l’ha visto a Notturn Alley, da Magie Sinister.”
Harry aveva inarcato le sopracciglia. Un errore così grossolano da parte di Coleridge non se l’aspettava. Farsi vedere con il suo vero aspetto in un posto continuamente pattugliato da auror in incognito…

Una stronzata.
Ron gli aveva lanciato un’occhiata. “Sì, so cosa pensi. Sembra assurdo anche a me… ma Paulson dice che il tipo è affidabile, dico, l’informatore. Se non altro per quanto lo paga. E sai che Paulson non ama essere preso per il culo.”
Harry aveva fatto un distratto cenno con la testa.
“Andiamo in ufficio, dai. Sono già in ritardo, eh?”
Ron aveva fatto un mezzo sorriso.

“Sei scusato, amico. In fondo a Gin è scaduto il tempo, no?”
“Abbiamo già la valigia pronta, sotto il letto. Direzione San Mungo.”

Ron aveva riso, dandogli una pacca sulla spalla. “Speriamo non siano gemelli.”
Harry aveva fatto una smorfia. “Gin è sicura che non lo saranno. Ma non so, non abbiamo voluto sapere nulla e…”

“Beh, spero solo non tocchi a me ed Herm.” Aveva borbottato il rosso.
Harry aveva riso. “Per Merlino, speriamo proprio di no!”
Erano arrivati di fronte alla porta che recitava in lettere scarlatte ‘Ufficio Auror’. Ron aveva sorriso tra sé e sé, facendo sorridere di riflesso Harry.

Sapeva che l’amico non credeva ancora del tutto al suo successo. Spesso lo trovava seduto alla sua scrivania, a guardarsi attorno con aria luminosa e un po’ spaesata: era sempre stato così Ron. Ci metteva un po’ a carburare il concetto che poteva essere in gamba quanto e più degli altri. Ma gliela si poteva passare. Dopotutto erano solo sei mesi che era diventato ufficialmente un auror operativo.
Erano stati accolti dalla propria squadra, composta da lui, Ron, Richard Paulson, Liam Flannery e Artemisia Stump, che ventava con un certo imbarazzo una lontana parentela con uno dei primi ministri della Magia. Era una ragazza con una timidezza inversamente proporzionale alla sua corporatura minuta, anche se in caso di scontro non esitava a gettarsi in prima linea. Un leone travestito da agnellino.
Flannery, un corpulento irlandese con i capelli mori tagliati a spazzola, si era avvicinato.
“Ehi, capo.” L’aveva apostrofato trascinando l’ultima sillaba. Veniva da Galway ed era da poco entrato nella squadra, come Ron. Non si stavano particolarmente simpatici. Flannery era tutto quello che Ronald non era mai stato. Soprattutto, estremamente sicuro di sé.

“Aggiornatemi.” Nonostante avesse solo ventisei anni, nessuno questionava mai la sua autorità. Era del tutto accettata e digerita, come la certezza che Voldemort non avrebbe potuto far più male a nessuno.
Dopotutto ci sono certi aspetti positivi, nell’essere il salvatore del mondo magico.
Artemisia si era schiarita la voce. Aveva i capelli colorati di rosa, e a volte a Harry ricordava un po’ Tonks. Fortunatamente, pensava spesso con nostalgia, non era così goffa.
“Coleridge è stato avvistato ieri sera, verso le nove, mentre si materializzava davanti al negozio di Magie Sinister, a Notturn Alley.”
“Quindi non ci è entrato?”
Flannery aveva inarcato le sopracciglia. “No, capo. Chi te l’ha detto?”
Aveva visto con la coda dell’occhio Ron arrossire alle sue spalle. Aveva scrollato appena la testa. “Nessuno, avevo solo supposto si fosse materializzato nei pressi per entrarci. Va’ avanti Art.”

“… sì. Dunque, si è materializzato, poi si è diretto verso un pub nelle vicinanze…”
Aveva girato un foglio del piccolo taccuino di cuoio su cui si appuntava ogni cosa. Flannery aveva ironizzato una volta ci scrivesse anche quante volte andava in bagno.
“… il Black Goose. Lì il nostro informatore l’ha perso.”

“Perso?”
La ragazza aveva annuito, con un lieve sospiro, guardando verso Paulson, il più anziano della squadra: aveva una quarantina d’anni e non era di molte parole, e beh, a dire il vero, non sembrava aver simpatia per nessuno, nessuno appartenente alla razza umana perlomeno. Aveva una volta confidato a Harry di avere una muta di quindici cani da caccia che amava come figli. Era scapolo e non aveva famiglia.

“Il vecchio Jog ha provato ad entrare dietro Coleridge ma è stato fermato da uno che voleva i suoi soldi… ed ha perso un po’ di tempo per non farsi spaccare le ossa o beccarsi uno stupeficium. Quando è finalmente riuscito ad entrare, Coleridge se n’era già andato. Forse l’aveva notato ed era filato dal retro.”
Harry si era passato una mano trai capelli. “Bene… C’è altro?” ad una risposta negativa, aveva sospirato. “Allora non ci resta che andare a Notturn Alley e fare un po’ di domande. Ron tu verrai con me.” L’uomo aveva annuito.

Congedati dagli altri, e usciti dall’ufficio, l’amico aveva borbottato qualcosa trai denti.
“… Ron, è tutto a posto. Anche io avrei pensato che fosse entrato a Magie Sinister.”
“Già, ma non ci è entrato. Ed hai visto Flannery? Te l’ha subito fatto notare, accidenti!”
“Lui lo sapeva, tu no. Sei venuto subito a chiamarmi… Avrà saputo il resto mentre tu eri con me alla Tana, no?” aveva spiegato pazientemente al corrucciato amico. Ron aveva mugugnato qualcosa, poi aveva scrollato le grosse spalle.

“Sì, forse hai ragione.”
“Non forse, è così. Non rompertici troppo la testa. Sei un bravo auror. Sei un auror.” Gli aveva stretto una spalla, e finalmente Ron aveva sorriso. “Forza, andiamo a far cantare qualche uccellino.”

“… Come?” l’aveva guardato confuso. Harry aveva sbuffatto divertito: undici anni passati trai babbani, più svariate estati, non erano facili da lasciare alle spalle.
A volte sentiva la nostalgia di Privet Drive e le sue ordinate villette a schiera, per quanto gli sembrasse assurdo.
“Niente, è solo un vecchio modo di dire.”
Era quello il suo mondo ormai.

****

Un uomo era volato fuori da un vicolo, atterrando con un tonfo sordo di fronte a un negozio che esponeva una nutrita collezione di mani umane, rattrappite in svariate e raccapriccianti. forme.
L’uomo, Jogson, aveva provato a rialzarsi e ad afferrare la bacchetta sotto la giacca stazzonata.
Expelliarmus!”
La bacchetta era volata lontano, con un’imprecazione da parte del suo proprietario.
“Te l’avevo detto che non avrebbe collaborato…” Aveva sbuffato Ron, uscendo dal vicolo, e raccogliendo la bacchetta, mettendola al sicuro dentro al mantello.

“Quella è la mia bacchetta bastardo!”
“Ah sì? A me sembra di averla raccolta per terra, invece…” aveva replicato Ron con un sorrisetto. Harry guardava l’uomo seriamente, invece: non gli piaceva usare la forza, specie con supposti, leali, informatori. Ma quel tipo gli era sembrato un po’ troppo guardingo e ansioso di parlare con Paulson invece che con loro.
Jogson nascondeva evidentemente qualcosa. E con la sua propensione al firewhiskey, il buon uomo di Leeds non l’aveva notato.

Ad Harry Potter non piaceva usare la forza, no, ma non era neppure un santo. E lì si stava parlando di un mangiamorte in fuga da otto anni, che si era macchiato di omicidi efferati durante l’ascesa di Voldemort, e che stava, peraltro, continuando ad uccidere, seminando cadaveri durante la sua fuga.
“Jogson, non ci piace perdere tempo. Dov’è Coleridge?”
“Come ve lo devo dire, in serpentese?! Non lo so, dannazione! L’ho perso, perché quel bastardo di Nutt mi ha fermato prima che potessi andargli dietro!”
Harry si era guardato attorno: nessuno dei passanti sembrava stare notando la scena, né sembrava darle importanza. Gli auror in quel quartiere non erano ben visti, ma venivano generalmente temuti. Dopotutto erano la polizia del mondo magico.

Si era chinato sull’uomo, che puzzava di alcohol scadente.
“Non ti credo, Jog. Non c’è nessun valido motivo per cui un uomo sveglio come Coleridge si faccia vedere con il suo vero aspetto qui, a Londra. Puzza tanto di depistaggio…”
“Già.” Aveva convenuto Ron torvo,incrociando le braccia al petto. “Quanto ti ha pagato quel figlio di cagna, per dirci questa stronzate?”
L’uomo aveva inspirato, distogliendo per un attimo gli occhi da quelli verdi di Harry.

Era bastato.
Quanto?” aveva chiesto con tono fermo. “Se confessi potrai avere una pena minore. Forse riusciremo persino a evitarti Azkaban.”

L’uomo era impallidito, serrando le labbra sottili e rovinate. Anche se Azkaban, sotto il ministero di Kingsley, non aveva più i dissennatori rimaneva comunque ciò che era.
Una prigione.
“Cosa? Non ho fatto niente!”
“Hai dato informazioni volutamente sbagliate ad un auror del ministero, amico… a casa mia si chiama depistaggio. E viene punito duramente.” aveva sbottato Ron, irritato. “Quindi ti conviene parlare, o ti portiamo direttamente a Heligoland per un soggiorno gratis. Ti piacerebbe una bella cella umida con vista sul mare del Nord?”
L’uomo aveva ringhiato frustrato.

“Mi ammazzerà!”
Harry l’aveva afferrato per un braccio, tirandolo su con uno strattone che l’aveva fatto lamentare. “No, non ci provare… non funzionano con me certi trucchetti.” L’aveva avvertito. “Chi? Chi ti ammazzerà?”

“Mi farà fuori, vi dico… vi prego, lasciatemi andare. Sono solo un povero vecchio. Ho combattuto dalla parte giusta, durante la seconda guerra magica, sapete? Sono solo un povero vecchio…”
“Finiscila.” L’aveva zittito Harry strattonandolo. “Quello che hai fatto in passato non giustifica aver coperto un mangiamorte latitante. Perché è quello che hai fatto, non è così?”
La faccia dell’uomo si era accartocciata. Era scoppiato in lacrime, sottili, che colavano lungo il viso trascurato.

“Mi ha costretto… mi ha costretto! Mi ha detto che mi avrebbe cruciato. Oh, voi sapete come sono quelle maledizioni… sono orribili, orribili! Vi prego, proteggetemi… tornerà a cercarmi, lo so, e mi ucciderà! Mi ucciderà!”
Si era gettato ai piedi di Harry, che l’aveva guardato diviso tra la pena e il disgusto.

“Forse è meglio portarlo in ufficio e fargli dare una calmata. Mi sa che stiamo dando un po’ troppo nell’occhio, Harry…” aveva mormorato Ron, avvicinandoglisi.
“Sì, hai ragione. Ti proteggeremo, Jogson… ma tu dovrai parlare.” Gli aveva intimato, prima di afferrarlo per un braccio. Si erano smaterializzati, lasciando la strada vuota, spazzata da una lunga folata di vento dicembrino.


Quando erano apparsi, accompagnati da Jogson, l’ufficio era occupato solo dal buon irlandese, che stava scrivendo il rapporto sull’interrogatorio di Paulson. Quest’ultimo, fortunatamente, era uscito a pranzo, e probabilmente anche Stump. Ad Harry non sarebbe piaciuto dover sottilineare l’errore del suo sottoposto più anziano.
“Ehi, ma questo non è Jogson?”
“Lui in persona. Fagli un the, per favore Liam.” Harry aveva aiutato l’uomo a sedersi sulla sedia dietro la sua scrivania. Sembrava essere invecchiato di dieci anni, e la cosa non aveva certo aiutato la sua già smunta figura.

È terrorizzato. Comprensibile. Un ex-mangiamorte è pur sempre un mangiamorte. Un suffisso non dequalifica un assassino.
Si era appoggiato al bordo del tavolo, posandoci le mani. “Allora… raccontaci tutto dall’inizio.”
L’uomo, con una tazza di the bollente tra le mani, aveva esitato. Ma poi, sotto lo sguardo torvo di Ron e Harry si era deciso a vuotare il sacco.
“Mi ha avvicinato due settimane fa. Ero fuori dal Black Goose a bermi un goccetto, quando mi si avvicina un bel ragazzo, biondo, pulito. Del genere che di solito non frequenta certi posti. Mi chiede se non sono un Jogson. Sì, gli dico io, in persona. Mi dice che ha conosciuto mio fratello, Ernie, e comincia a dirne un gran bene… dice che era molto amico di suo padre. Chiacchieriamo e mi offre un sacco di bicchierini. Un tipo simpatico, sembrava. Poi mi chiede di seguirlo nel retro, che vuole parlarmi di affari. Sapete, io scommetto su un po’ di cosette e… beh. Gli chiedo se vuole piazzare una scommessa e a quel punto mi punta la bacchetta alla gola. Dal nulla, ma io ero ubriaco, e senza bacchetta. Sapete, mi capita di lasciarla spesso al bancone quando alzo un po’ il gomito…” ammette con un sorriso sbilenco.
Ron aveva fatto una smorfia.
“Geniale Jogson… Notturn Alley è proprio il posto giusto dove scordarsela.”
“Ehy, io conosco i ragazzi del Goose, sono gente in gamba! Non mi torcerebbero un capello!”
“Dei veri maghi gentiluomini…”

“Ron, fallo continuare…”
“Beh, a quel punto mi dice che devo dire quel che ho detto al vecchio Paulson. Cioè che l’avevo visto materializzarsi vicino a Magie Sinister, e poi entrare al Goose.” Aveva obbedito, lanciando un’occhiata soddisfatta a Ron. “Io gli dico, amico, ma di chi parli? A chi dovrei dirlo? Lui mi dice che sa che sono un informatore per gli auror. Mi dice anche che mi ammazzerà… e lo ripete un sacco di volte. Un sacco e… ma che se lo farò, lui mi ricompenserà.”
“Monete?” aveva chiesto Harry, corrugando le sopracciglia. L’uomo aveva sorriso, sinistramente.

“Oh, no, molto meglio. Io glielo giuro… e allora… allora… lui tira fuori la bacchetta e… pronuncia qualcosa, un incantesimo. Pensavo volesse ammazzarmi, ed ho cominciato ad urlare, ma… La mia gamba non funzionava più, dopo la guerra. Mi è rimbalzata addosso una maledizione senza perdono, già… e da allora non si muoveva. E adesso non zoppico più. Già. L’ha guarita! Quei cretini del San Mungo dicevano che non sarebbe più tornata come prima! L’ha guarita!”
Ron aveva guardato Harry perplesso.

Se al San Mungo non hanno potuto fare niente… che diavolo di incantesimo ha usato Coleridge?
“Sai dov’è adesso?”
Jogson aveva fatto un sorrisetto amaro. “E crediate che me l’abbia detto? No di sicuro, non siamo mica compagni di bevute. Ma il vecchio qua non è stupido…” si era picchiettato la fronte “… Ed adesso ha le gambe funzionanti. Sissignore. Così quando se n’è andato ho aspettato un po’, e poi l’ho seguito.”

“E dov’è andato?” aveva mormorato Harry, attento. L’altro fa un sogghignetto.
“Cos’ho in cambio?”
“Razza di bastardo, ringrazia che non ti spediamo in direttissima a Azkaban!” aveva sbottato il rosso furibondo. “Parla, punto e basta!”

“Niente Azkaban… se parlerai faremo in modo che nessuno sappia che hai dato informazioni fallate ad un auror sotto… consiglio, diciamo, di un mangiamorte…”
“E riavrò la mia bacchetta?”
“Lurido scarto di…”
“Riavrai la tua bacchetta.” Aveva confermato Harry, sebbene a malincuore.

L’uomo aveva valutato la proposta, o così sembrava, poi aveva fatto una smorfia, annuendo.
“È entrato in una vecchia casa disabitata, a pochi isolati dal Goose. Penso si stia rifugiando lì. Di posti fatiscenti a Notturn Alley ce ne sono un sacco, e nessuno ti viene a chiedere l’affito.” Si era cercato nelle tasche della vecchia giacca, poi aveva sbuffato. “Se mi date un pezzo di carta vi scrivo l’indirizzo.”


****

“Ci siete? Al mio segnale entriamo dentro. Non sappiamo dove esattamente si è rifiugiato, e se irrompiamo potrebbe avere il tempo di fuggire.”
Harry era acquattato assieme alla sua squadra dietro un vicolo che dava su una serie di tristi palazzi vittoriani, che avevano l’aria di stare per implodere su se stessi da un momento all’altro. Gli ricordavano Grimmauld Palace. In effetti, riuscivano persino ad essere una brutta copia di Grimmauld Palace: addossati gli uni agli altri ospitavano una masnada di disperati, di maghi e streghe falliti. Un tempo forse lo stesso Voldemort aveva abitato lì, quando ancora era Tom Riddle.

Sto pensando un po’ troppo a lui oggi. È per via del sogno. È sicuramente per via di quello.
Spesso sì, gli capitava di sognarlo. Come gli capitava di rivivere la battaglia finale, gli amici morti, i tanti e dolorosi funerali.
Ma erano sogni nebulosi, sfilacciati, da cui si svegliava con le lacrime agli occhi, cercando il caldo corpo della moglie. Non erano reali.
Quel sogno invece l’aveva lasciato lucido e con una brutta sensazione, che ancora non l’aveva del tutto abbandonato.
Anzi, forse si era acuita.
“Capo… tutto okay?” aveva sussurrato Flannery, che gli era spalla contro spalla. Harry si era riscosso.
“Sì… scusate. Stavo solo pensando a come entrare senza farci vedere dall’interno della casa. Non sarà facile.”
“Materializzandoci?”
“Non conosciamo l’interno della casa, Stump.”
La ragazza era arrossita. “Già, hai ragione…”
Ron aveva sorriso, tirando fuori quello che sembrava un accendino.

Harry aveva ridacchiato.
“Pensavo l’avessi perso…”
“Un regalo di Silente? Scordatelo… e poi questo piccolino c’è stato utile tante volte, non credi? Solo, non è una cosa che uso proprio tutti i giorni, ecco…”
“Che cavolo ci fai con un accendino Weasley? Ti pare il momento di fumare?” aveva borbottato Paulson, che era nato babbano.
Ron l’aveva guardato perplesso. “Non è un ACCENDino. Spegne le cose, non le accende!”
“Fagli vedere, Ron.” Aveva riso sotto i baffi Harry.

Il ragazzo aveva fatto scorrere il pollice lungo la pietra focaia, ed improvvisamente tutte le luci della stradina angusta erano state come ingiottite dal buio.
Paulson aveva trattenuto un’esclamazione.
“Deluminatore. Non accende, spegne.” Gli aveva spiegato soddisfatto Ron.
“Adesso andiamo, forza.” Li aveva richiamati all’ordine, prima che Flannery potesse fare ulteriori domande. Si erano mossi silenziosamente lungo il muro del palazzo, prima di avvicinarsi al vecchio portone, vetusto ma resistente.
Aveva estratto la bacchetta.
Alohomora.”

La porta si era aperta con un leggero cigolio, liberata dal pesante lucchetto che la teneva chiusa. Era spirata una lieve folata d’aria, dal sentore di chiuso e urina di topo. Flannery aveva fatto una smorfia disgustata.
“Niente commenti…” aveva sussurrato Harry, ammonitore.

Non riusciva ancora a capire perché Coleridge avesse deciso di tornare a Londra. Era un fuggitivo, braccato dalla comunità magica internazionale: perché tornare nel posto meno sicuro per lui al mondo?
Forse, come aveva suggerito Ron, poteva essersi stancato di fuggire in paesi stranieri. Poteva mancargli l’Inghilterra. Erano stati esposti un sacco di motivi, ma Harry non ne trovava valido neppure uno.
A meno che non sia tornato per qualcosa. O qualcuno.
Non sapeva se Coleridge aveva famiglia, ma per rischiare così tanto doveva avere un ottimo motivo.
E poi c’era un’altra domanda che tormentava Harry: perché far dire a Jogson che era a Notturn Alley? Non era un depistaggio quello. Era buttarsi tra le braccia del nemico.
Tutto questo non ha senso…
Avevano salito le scale, attenti a non fare il minimo rumore: Coleridge, se c’era, doveva essersi accorto dell’improvviso blackout, e temeva che fosse abbastanza intelligente da capire che non era stato casuale.
“Bacchette alla...”

AVADA KEVADRA!”
Prima che potesse terminare la frase un fascio di luce verde l’aveva quasi preso di striscio. Si era buttato contro il muro, fortunatamente seguito dagli altri.
“Certo che sono proprio monotoni…” aveva sibilato Flannery, con un sogghigno.
LUMOS!” aveva gridato Harry e il globo di luce per un attimo aveva illuminato il fuggitivo. Coleridge era un uomo di quarant’anni, atletico, dal sangue freddo, almeno a giudicare dalle foto del suo dossier al ministero.
Quello che aveva visto per una frazione di secondo, prima che scappasse lungo il corridoio del secondo piano, ne sembrava l’ombra. Si teneva una mano sotto il braccio, impedita. Reggeva infatti la bacchetta con la mano sinistra. Harry ricordava nitidamente non fosse mancino.
Questo spiega la pessima mira…
“Andare all’estero fa male…” aveva replicato Flannery seguendo a breve distanza Harry, che si era lanciato al suo inseguimento. “Cara buona vecchia Inghilterra!”
Harry aveva represso una risata, per non far indispettire Ron, che sembrava aver preso poco bene la retrocessione a guardaspalle della fila.

Imboccate le scale del terzo piano l’avevano di nuovo avuto davanti. Sembrava si muovesse lentamente, impacciato o impedito da qualcosa.
Stupeficium!” aveva gridato Harry, ma un protego da parte di Coleridge aveva vanificato il suo attacco.
“Perché non si smaterializza?!” era stata Stump, a chiederlo, ansimando per la corsa.

Già, perché? È stato lui a prenderci di sorpresa, non viceversa. Ci ha sentito arrivare, eppure non è scappato come ha sempre fatto.
Non appena l’uomo aveva voltato il corridoio, e il rumore sordo di una porta che si chiudeva rimbombava nell’edificio, Harry aveva capito.
“Sta cercando di portare via qualcosa!” aveva gridato alla sua squadra, prima di scattare verso la porta e aprirla con un calcio. Non molto magico, ma veloce ed efficace.

L’uomo era chinato su un cassetto, e stava tenendo tra le braccia una mole ingombrante, dando loro le spalle.
Stupefi-!
Non era riuscito a terminare neanche stavolta. L’uomo aveva estratto la bacchetta. L’aveva guardato negli occhi. Aveva occhi folli, da invasato.
Ardemonio!” aveva urlato e dalla bacchetta si erano sprigionate fiamme dense, nere, che avevano invaso la stanza lurida e ingombra di pergamene e libri.

“Maledizione!” aveva urlato. “Tutti fuori di qui!”
Conosceva quell’incantesimo. Tiger l’aveva evocato otto anni prima, nella Stanza delle Cose Nascoste, venendone coinvolto lui stesso. Ed era quello che stava accadendo all’ex-mangiamorte, tra le sue urla scomposte.
Per quanto ne sapeva, non c’era un incantesimo in grado di fermare quel rogo impazzito.
“Harry, vieni via!” aveva urlato Ron dalla porta. “Vieni via!”
Il giovane uomo si era guardato attorno. Tutti gli appunti, i libri di Coleridge, le prove, stavano venendo corrose dall’incantesimo. Aveva tossito, indietreggiando verso la porta.

Poi l’aveva sentito. Un vagito, singolo, forte. Seguito da altri. Il pianto di un bambino.
HARRY, VIENI VIA!” continuava ad urlare l’amico, pronto a scattare e portarlo via di peso, se fosse stato necessario.
C’è un bambino!” aveva replicato, cercando l’origine di quel pianto. L’aveva trovata proprio nel cassetto su cui era chinato l’uomo, ora accartocciato in un angolo, avvolto nelle fiamme.
C’era davvero un bambino, avvolto malamente in una coperta sudicia, che strillava a pieni polmoni. Un neonato. Senza esitare l’aveva preso in braccio, stringendoselo al petto.
Quello che fino a poco prima era stato Coleridge, e adesso era una massa contorta di carne bruciata, aveva ghignato ferocemente, nei suoi ultimi istanti di vita.
“Il Signore Oscuro risorgerà…” aveva sibilato.

HARRY!
L’aveva guardato un’ultima volta, prima di afferrare la mano dell’amico e smateriallizzarsi dal palazzo in fiamme.


****


La squadra guardava le rovine del palazzo bruciare, impotenti. Di lì a poco sarebbero arrivati i rinforzi, e sarebbe stato domato l’incendio che ne consumava le fondamenta. La povera gente di Notturn Alley era uscita in strada, spettatrice passiva di quel terrificante spettacolo.
“… È assurdo.” Aveva mormorato Stump. Sembrava la più scossa di tutti, ed aveva accettato con gratitudine la fiaschetta di whiskey irlandese, di fattura babbana, che Paulson le aveva porto: era comprensibile del resto. Quella era la sua prima missione, e aveva visto morire un uomo in modo atroce.
“Già, è proprio senza senso. Coleridge ha passato otto anni a scappare come una lepre, ed ha deciso di ammazzarsi in un modo del tutto idiota. Sarebbe potuto scappare. Avrebbe potuto farlo. Perché non l’ha fatto?” Flannery sembrava parlare per tutti. Ron si era seduto sul marciapiede, sospirando.

“Forse era stanco… una vita passata a fuggire. Che razza di vita è?”
“Ma ammazzarsi così… avrebbe potuto, chessò, buttarsi dalla finestra.”

“Voleva che tutto quello che c’era in quella stanza venisse con lui.” Harry teneva tra le braccia il bambino che piagnucolava. Sembrava illeso. Si soffermò a guardarlo meglio ora che erano al sicuro: non poteva avere che pochi giorni. Era innaturalmente piccolo, gracile, forse prematuro. Aveva la testolina coperta di una leggera lanugine nera e gli occhi aperti, di un denso color cobalto.
“Ma questo bambino…” aveva borbottato Paulson. “Da dove diavolo spunta?”

“Non ne ho idea… era in un cassetto… dentro un cassetto, a dire il vero.”
“Un bambino in un cassetto? Oh, povero piccolo…” Stump si era avvicinata, e aveva teso le mani, ma quando Harry aveva provato a passarglielo il bambino aveva protestato vivacemente con un urlo.
“Oh, ehi! Tienilo tu, amico. Di urla per stasera ne ho fatto il pieno.” Aveva borbottato Ron, grattandosi la folta capigliatura rossa. “Sarà suo figlio? Voglio dire… era figlio di quel bastardo?”
“E la madre?”
“Mah… forse un troll.”

Avevano riso. Non era una battuta particolarmente brillante per i soliti standardi di Ron, ma avevano tutti bisogno di sciogliere la tensione.
“Sarà ferito… dovremmo portarlo al San Mungo.” Aveva suggerito la parte materna di Stump. Harry aveva scosso la testa.
“Potrebbe essere una prova.”
“Harry, è un bambino!” Negli anni Ron aveva preso alcuni modo di fare della moglie, per una sorta di osmosi dei sentimenti. Quella era la tipica faccia che avrebbe fatto Hermione, indignata e densa di proteste sottointese. Per un attimo Harry pensò di farglielo notare, ma poi lasciò perdere.

“Lo so, Ron… ma Coleridge stava cercando di nasconderlo, quando siamo arrivati. Significa che era importante per lui. E che forse è il motivo per cui è tornato a Londra ed ha deciso di nascondersi qui. Diagon Alley con i suoi negozi sono dietro l’angolo. E un bambino ha bisogno di latte, ricambi, cure.”
“Però almeno controlliamo, se non ha qualche ferita…è stato tenuto in un cassetto, e chissà per quanto tempo!” aveva protestato con un’insolita decisione Art.

Harry aveva sospirato, ma capiva benissimo la reazione della ragazza. Aveva liberato il bambino dalla coperta, rivelando il corpicino magro e…
“Ma…”
“Non ha l’ombelico!” aveva sbottato Flannery incredulo.

In effetti, il pancino del bambino non presentava alcun segno, era liscio e…
“Miseriaccia.” Aveva borbottato Ron arruffandosi i capelli. “Beh, e adesso cosa…?”
… Facciamo?
Dovevano decidere, ed in fretta. Tra poco sarebbero arrivate altre squadre sul posto e ci sarebbero state richieste di spiegazioni, avrebbero dovuto stilare un rapporto, e visto la natura del ritrovamento del neonato probabilmente sarebbe stato esaminato: se non altro perché aveva una caratteristica ben più evidente di… una cicatrice, ad esempio, a forma di saetta.
Verrà portato via.
Del resto era questa la procedura.
Harry aveva guardato negli occhi i compagni. Aveva legato con quella squadra, con ciascuno di loro, in quegli anni di duro lavoro. Era entrato a diciassette anni, poco dopo la guerra, e non aveva mai smesso di lavorare. Più che un lavoro, quello per lui era una vocazione.
Essere un auror non era più facile che essere un poliziotto nel mondo babbano. La vita dura e i sacrifici erano molti. Le soddisfazioni, poche. E quella notte erano stati loro a scovare Coleridge. Ad assistere al suo assurdo suicidio. A trovare quel bambino.
Flannery aveva aperto bocca per dire qualcosa, ma l’aveva immediatamente richiusa: sembrava che l’imponente irlandese non sapesse bene cosa dire per la prima volta in ventun’anni di vita.
“Portiamo il marmocchio in ufficio.” Aveva borbottato Paulson, sbrigativo come sempre.
Stump si era schiarita la voce timidamente. “Sì… avrà fame.”
Harry aveva tra le braccia il bambino. Sentiva il suo corpicino, caldo, vivo, muoversi e respirare. Forse complice il fatto che di lì a pochi giorni sarebbe divenuto padre, un sentimento forte, impossibile da reprimere, gli era scoppiato nel petto.

Protezione. Quel bambino avrebbe potuto essere suo figlio, e doveva essere protetto. Dalla curiosità e da braccia estranee.
“Va bene. Andiamo.”

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