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Autore: Persej Combe    12/01/2020    3 recensioni
Un giorno, tanto tempo fa, ho incontrato un bambino. Non lo dimenticherò mai. È stato il giorno più emozionante di tutta la mia vita. Nessuno potrà mai avere la stessa esperienza che ho avuto con lui. Ciò che abbiamo visto, è precluso soltanto a noi.
...In realtà, non ricordo neanche il suo nome. Non ricordo nemmeno se ci siamo presentati, a dire il vero. Però non smetterò mai di cercarlo. Un giorno so che le nostre mani si uniranno di nuovo, come quella volta. Perché noi siamo destinati a risplendere insieme per l’eternità.

[Perfectworldshipping]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Elisio, Professor Platan, Serena
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Eterna ricerca'
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26 . Ciò per cui io voglio lottare


 

   La pioggia aveva cominciato a scendere copiosa già dal tardo pomeriggio, tuttavia con il passare delle ore si era fatta sempre più forte. Non c’era rumore per strada, se non lo scroscio a tratti quasi violento delle gocce che si riversavano sull’asfalto e contro le finestre dei palazzi. Di tanto in tanto una macchina passava, innalzando colonne d’acqua che si andavano a rifrangere sui marciapiedi. Una sirena echeggiò nell’aria, con uno stridio vago e incerto, poi tornarono il silenzio e la quiete.
   All’improvviso si udirono delle grida. Una lite. Strattoni, percosse, imprecazioni.
   Un portone si aprì. Una ragazza venne sbattuta in strada. Il suo corpo ricadde sul terreno bagnato. Si schizzò in una pozza d’acqua.
   Il portone si richiuse.
   Un gemito. Un pianto. Un lungo pianto.
   Poi, una mano. Due occhi chiari, un volto gentile.
   La ragazza strinse quelle dita. Così, senza lasciarle, si allontanò.
 
 
   «Eh, che palle!».
   Un branco di studenti piuttosto sfaticati si era ammassato sul pianerottolo della scala antincendio esterna all’aula. Sina si era fatta spazio sgomitando e battendo furiosamente i tacchi, addentrandosi in quel nuvolone grigio e puzzolente di sigarette.
   «Se per una buona volta vi degnaste d’ascoltarmi, potrei anche fare a meno di venire sempre qui a rompervele, le palle! Non ci potete sostare, sulle scale, e se proprio avete bisogno di fumare potete farlo benissimo giù in cortile! E adesso tornate dentro, il Professore sta per rientrare», esclamò, i pugni stretti sui fianchi.
   Uno alla volta le passarono accanto, confabulando infastiditi tra di loro mentre riprendevano posto in classe. Sina sopportò ogni commento, ma poi qualcuno disse: «Il Professore è un vero amore, su questo non c’è dubbio, però bisogna ammettere che gli assistenti se li sceglie con il culo», e a quel punto si sentì mortificata. Si morse violentemente le labbra e abbassò la testa, nascondendo gli occhi dietro la frangia violacea.
   Dexio era passato in aula per lasciare alcune cose sulla cattedra per conto del Professore. Vide gli studenti che rientravano e la compagna che con il braccio sollevato li stava intimando di affrettarsi; si accorse anche dell’espressione che minacciava di scoppiarle presto in viso. Si avvicinò per darle manforte.
   «È più di un mese che frequentate questo corso sempre in questa stessa classe, possibile che ancora non abbiate capito che da questa parte non si può uscire? In che altro modo dobbiamo dirvelo?» commentò.
   «Ah, eccone un altro...».
   «Vi ricordo che agli esami ci saremo anche io e lei a valutarvi, perciò fossi in voi non mi parrebbe molto saggio mostrare questo atteggiamento».
   «Sarebbe una minaccia?».
   In quel momento Platan fece il suo ingresso, una cartella sottobraccio e la borsa sulla spalla. Lanciò uno sguardo al gruppo. Poi li invitò a rimettersi composti. Quando ebbe finito di sistemare il materiale per riprendere la lezione, prima di sedersi disse: «Vorrei fosse chiaro che qualunque mancanza di rispetto verso i miei assistenti, la considero prima di tutto una mancanza di rispetto nei miei confronti. Se non ci sono domande, adesso, vorrei ricominciare da dove ci eravamo interrotti. Vi ringrazio».
   Dexio e Sina guardarono sorpresi il loro Professore: Platan sorrideva dolcemente. La ragazza si voltò da parte, mentre l’altro si apprestò a raggiungerla sulle scale. Prese congedo con un inchino, dopodiché uscì richiudendosi alle spalle la porta dell’uscita di sicurezza. Allora Sina non si contenne più, si lasciò cadere su uno dei gradini e acquattata lì così proruppe a piangere.
   «Sina...» mormorò il giovane. Si accucciò al suo fianco e le cinse delicatamente le spalle.
   «Lui è un vero amore, e a noi ci ha scelti con il culo, perché pur essendo i suoi assistenti non vogliamo aiutarlo», singhiozzò, spingendosi contro l’abbraccio dell’altro.
   «In realtà, io non ho ancora deciso se tirarmi indietro, Sina, e questo tu lo sai».
   «Ma io invece sì!» tuonò, la voce rotta e sgraziata «Non riesco ad accettare che per tutto questo tempo, lui... Insomma, ci ha tradito, Dexio, non te ne rendi conto?».
   «Credi forse che non ci pensi? Neanch’io riesco a perdonarlo per averci nascosto una cosa simile e per non aver reagito prima, ma sono pur certo che ci debba essere stata una ragione ad averlo spinto ad agire così».
   «Non so, io... Sono ancora tanto confusa. Quella notte non ci ho dormito. Non ci ho dormito nemmeno la notte dopo. E quella dopo ancora».
   Dexio sospirò. Le accarezzò con amorevolezza i capelli e con un fazzoletto incominciò ad asciugarle le lacrime sul viso. Aspettò che Sina si calmasse, poi l’aiutò a rialzarsi. Dalla finestra videro Platan intento a spiegare la lezione, con quella sua gestualità ampia e accogliente che entrambi ammiravano tanto. Incrociarono d’improvviso il suo sguardo e arrossirono – che nonostante tutto, nonostante il loro imperdonabile rifiuto, egli era rimasto così buono e premuroso nei confronti di entrambi.
   «Ascolta, Sina», chiamò ad un tratto Dexio, «Ti va di andare a fare due passi? Anche perché non sarebbe proprio giusto rimanere qui. Ti porto al Café Soleil e prendiamo qualcosa per rilassarci. Che ne dici?».
 
 
   Il ragazzo dal volto gentile l’aveva portata via con sé. Non aveva esitato un istante ad offrirle rifugio. L’aveva accolta nella sua casa senza battere ciglio, le aveva dato di cui cambiarsi, e adesso l’aveva fatta accomodare su questa poltrona, porgendole una tazza di tè caldo fra le dita.
   Lei stava accovacciata tra i cuscini, le gambe incrociate, le braccia nascoste in quelle maniche fin troppo lunghe di quella maglia fin troppo larga per un fisico minuto e asciutto come il suo. I suoi piedi, nudi, sparivano oltre gli orli del pantalone di bella stoffa. Tutti gli abiti che egli le aveva ceduto erano di ottima fattura, e anche quell’appartamento, seppure in disordine, esalava un che di raffinato. Non riusciva a nascondere d’esserne lievemente in soggezione. Osservò le tele appese alle pareti: dipinti di paesaggi, ritratti. Poi abbassò lo sguardo sulle pile di libri ammassate sul pavimento.
   «Mi sono appena trasferito», spiegò il ragazzo dal volto gentile, rivolgendole gli occhi chiari «Sto ancora cercando di trovare il giusto spazio per le mie cose».
   «Capisco», mormorò lei di rimando, arrossendo nel sentirsi guardata da lui. Si ritrasse leggermente contro la spalliera della poltrona e nel farlo le giunse all’olfatto il profumo di quei vestiti che indossava e che appartenevano a quell’altra persona. Un profumo di gigli.
   Il giovane intuì di averla messa in imbarazzo. Distolse la vista, e tuttavia non poté fare a meno di sedersi lì davanti a lei, nel tentativo di mostrarle la propria vicinanza, il proprio supporto.
   «Posso... Posso chiedere il tuo nome?».
   Ella si drizzò di scatto. Nella foga rischiò di rovesciare il liquido fuori dalla tazza. Controllò prudentemente di non aver fatto cadere nulla, poi, portandosi una mano ad accarezzarsi i capelli, rispose: «Akebia. Mi chiamo Akebia».
   Quel volto gentile s’illuminò di un sorriso.
   «E tu?» domandò lei a propria volta.
   Con gesto conciliante delle dita, egli le porse ancora una volta il palmo aperto.
   «Puoi chiamarmi Elisio», disse, carezzandole protettivo il dorso della mano che ella gli concesse.
 
 
   «Ricordi la prima volta in cui ci siamo incontrati?».
   Sina sollevò la testa e lo scrutò.
   «Sì. Sembrava uno scherzo del destino», rispose, spingendo Dexio da parte.
   «Magari lo era davvero. E magari lo è anche questa volta».
   «Di’, ti va di giocare?».
   Si era fermata in mezzo al marciapiede, il viso contratto in una smorfia che sapeva ben poco di riso. Il compagno le si accostò tornando indietro sui propri passi. Sospirò.
   «Hai ragione. Però non saprei in che altra maniera prenderla», confessò «E poi, meglio piangere dal ridere che dal dolore. Non credi?».
   «Preferirei non piangere affatto», tagliò corto lei.
   Ripresero a camminare uno vicino all’altra. Stavano rientrando in Laboratorio dopo aver preso un caffè insieme. Sina aveva chiesto che nella sua tazza versassero un goccio di latte, ancora ne sentiva il sapore dolciastro in bocca, così fu quasi violento percepire quel gusto amaro riversarsi dalle labbra di lui nel momento in cui Dexio si chinò a baciarla, prima di lasciarla andare, di separarsi nelle reciproche mansioni. Tutti e due esitarono un po’ l’uno nelle braccia dell’altra, con le guance arrossate, gli sguardi fuggevoli. Erano ancora le prime volte.
   «Più tardi ho casa libera, vieni?» chiese timidamente Sina. Poi aggiunse: «A studiare, dico! Ci vieni a studiare? Ho casa libera».
 
 
   Un ragazzo studioso, Elisio. Akebia aveva deciso di accettare la sua proposta di rimanere con lui fino a quando non sarebbe riuscita a trovare una nuova sistemazione per sé. Alla fine aveva detto sì per disperazione, e se soltanto avesse potuto sarebbe stata ben felice di rifiutare, anche semplicemente per evitarsi poi quel senso di colpa e il costante timore, il rancore, che l’avevano assalita i giorni seguenti. Perché nonostante tutto ancora aveva a cuore sé stessa, quel poco che le era rimasto e che aveva il bisogno vitale di tenersi stretto, e in un primo momento non era riuscita a capacitarsi di quanto incoscientemente si fosse convinta nell’accogliere quella soluzione da parte di questo, seppure tanto bello e gentile, estraneo. E quasi non aveva nemmeno creduto a come costui a propria volta non si fosse posto il ben che minimo problema ad ospitare lei, totale sconosciuta, di cui sapeva a malapena il nome e qualche vicenda, piuttosto scarna di dettagli.
   «Tutto quello che so è che hai bisogno d’aiuto, e tanto mi basta. Non ti negherò la mia mano», le aveva detto quella stessa sera «Puoi rimanere tutto il tempo che desideri: lo spazio è grande, non ho ancora finito di sistemare, ma posso lasciarti una stanza, in qualche modo recupereremo le tue cose e poi...».
   «Posso recuperarle benissimo da sola, le mie cose!» quella replica le era scoppiata dalla bocca con forza, perché troppo grande era stata a quel punto la vergogna da sopportare, il riconoscere di non essere in grado allo stato attuale di poter provvedere da sola a sé stessa e di doversi necessariamente affidare a qualcun altro – per giunta, un altro uomo.
   Elisio, sentendosi in colpa, era rimasto in silenzio. Tuttavia le sue parole erano state sincere, così dopo, con voce umile e mortificata, aveva ribadito ancora il suo sostegno. Akebia, allora, aveva accettato.
   Un ragazzo studioso, Elisio, si diceva. Se non era occupato a riordinare casa, sapeva sempre come tenersi impegnato: leggeva molta storia e filosofia, oppure suonava il pianoforte, poi alla sera, quando rientrava dal lavoro – si stava iniziando a riassestare i locali dei futuri Laboratori nell’appartamento che aveva lasciato ed egli seguiva con attenzione ogni manovra fra un turno e l’altro alla caffetteria – si piazzava nello studio e restava in piedi fino a tarda ora, dedicandosi alle sue macchine, ai suoi congegni.
   «Io e il mio collega Xante stiamo progettando un nuovo sistema di comunicazione», le aveva spiegato una volta in cui si era fermata lì ad osservare la massa di cavi e cavetti intrecciati sul ripiano della scrivania. Akebia lo ascoltava con attenzione, senza interromperlo, studiando assorta tutti quegli assemblaggi e scheletri di metallo che senza sosta si avvicendavano uno dopo l’altro fra le dita di lui. Ad un tratto Elisio le chiese di passargli quel cacciavite laggiù. Akebia glielo porse. Si riaccovacciò sulla sedia, rimanendogli accanto.
   Mentre si accingeva a infilare l’attrezzo nella fessura della vite, egli esitando domandò: «Era il tuo fidanzato?».
   Akebia a quelle parole restò come stordita. Le dita delle mani cominciarono d’improvviso a tremare, si affrettò a nasconderle nelle maniche, e ritrasse silenziosamente il busto, portando le braccia sottili al petto. Elisio continuava ad avvitare la vite, concentrato, attendendo pazientemente le sue parole – il roteare incessante e penetrante dell’oggetto gettò Akebia in una spirale ossessionata di pensieri.
   «Sì», disse. Poi nient’altro, perché altro non c’era.
   Elisio si arrestò. Riprese a lavorare con lentezza, la mano stringeva più insicura l’impugnatura dell’attrezzo.
   «E tu... Tu sei fidanzato?» chiese lei, nel tentativo di riportare una qualche normalità, seppur illusoria, alla conversazione, passando oltre a ciò che non si poteva dire.
   Egli ne fu sorpreso. Le parve di vederlo arrossire, sebbene il suo sguardo non avesse perduto il solito serioso cipiglio; poi accennò un sorriso.
   «Ho avuto una fidanzatina, ai tempi del mio viaggio con Magikarp», rispose rassicurante, come se avesse intuito lo stato d’animo nascosto dietro quella domanda che gli aveva posto. «Al momento, però, non ho nessuna relazione. Credo di non averne neppure il tempo! Qualche mese fa, mi è capitato di baciare un ragazzo».
   «Un ragazzo…» ripeté lei con un sussurro.
   «Sì,» riprese, sorridendo di nuovo, «ma in realtà non ricambiavo i suoi sentimenti. Nonostante questo, l’ho trovato molto intenso. Vedi, era un bacio d’addio».
   «Un bacio d’addio? E come?» continuò a premere su quel tasto, aggrappandovisi come fosse l’unica via di fuga.
   «Ecco...» cominciò Elisio, che non era tanto uso a parlare di certe cose. Probabilmente ne avrebbe volentieri fatto a meno, tuttavia, se quel racconto fosse bastato a rasserenarla, non si sarebbe certo tirato indietro: «Ecco, eravamo alla stazione, sulla banchina, lui stava per salire sul treno. Sapevamo entrambi che dopo quel giorno non ci saremo rivisti mai più. Questo pensiero deve averlo colto vividamente prima della partenza, così ha lasciato cadere i bagagli, è corso indietro da me, mi ha preso il viso nelle mani e mi ha baciato sulle labbra. Temo di essermi fatto coinvolgere, e allora...».
   «Perché ti sei lasciato andare?».
   Elisio si ridestò dal ricordo malinconico di quel bacio e si voltò verso di lei. Vide i suoi grandi occhi arancioni riempirsi di lacrime; subito la ragazza si affrettò a coprirli, a nasconderli nelle mani che di nuovo avevano ripreso a tremare.
   «Perché hai ceduto a quel bacio se non lo desideravi nemmeno? Perché hai lasciato che ti toccasse in quel modo, perché non hai fatto niente per fermarlo? Perché...» mormorava tra i singhiozzi, la testa china e sconsolata.
   Egli la guardava raggomitolarsi su sé stessa e farsi sempre più piccola. Gli attrezzi scivolarono via dalle sue dita, si ritrovò a chiamare Akebia sorprendendosi di udire la propria voce altrettanto spezzata. Perché quei rimproveri, quelle domande che non potevano avere risposta, Elisio sapeva non essere rivolte a lui, ma a lei stessa.
   «Mio dio, Akebia, che cosa ti ha fatto... Tu non hai colpe, tu...» eppure, per quanto mosse dal più vivo rammarico, dallo sconcerto più dilaniante, Elisio percepiva quelle parole come vaghe e inutili. Per la prima volta percepì la pochezza che, al di là dello sfarzo e della nobiltà che da sempre in un modo o nell’altro erano stati suo scudo ed orgoglio, permeava la sua intera persona dinnanzi all’insormontabile fragilità di un’umanità violata d’inguaribile dolore.
   Con le dita tentò di raggiungerla, di afferrarla, perché non voleva perderla, e tuttavia si sentiva tanto invano in ogni gesto, che non riuscì a far altro che starla a scrutare fissamente, mentre precipitava in quest’inoppugnabile voragine dentro di sé che era assieme repulsione e sofferenza.
   Poi Akebia sollevò lo sguardo, vi accolse dentro gli occhi turbati e smarriti di Elisio. Egli annegò nella turpe consapevolezza che esso tradiva, e ne venne di colpo spaventato e affascinato al tempo stesso: perché l’animo di Akebia, seppur devastato, alla sua vista brillava ancora di un’ardente fierezza. Le sue iridi accese erano soli di fuoco rovente, le cui fiamme divampavano dal dolore come germogli rigogliosi che crescano dalla bruna terra, in attesa di lasciar scoprire il loro fiore. Presto Akebia avrebbe squarciato le pareti del proprio bozzolo.
 
 
   Dexio più tardi c’era andato a casa di Sina, e come stabilito si erano messi a studiare. Lui aveva portato quei manuali che da tempo immemore aveva lasciato abbandonati alla rinfusa sulla scrivania, lei aveva preso i suoi quaderni e gli evidenziatori e le penne dai mille colori, così per una buona mezz’ora, quasi tre quarti, avevano trovato di che tenersi occupati. Ma poi:
   «Facciamo una pausa?».
   «Sì».
   Sina era andata a sedersi sul letto. Aveva afferrato un libro dal ripiano del comodino, l’aveva sfogliato un po’. Ne aveva letto qualche passo a Dexio. Poi aveva tirato fuori un manga, di quelli che aveva finito in quei giorni, e ne aveva fatto vedere un paio di vignette all’altro, erano rimasti a commentare insieme i disegni, avevano riso. Erano stati sul punto di baciarsi un’altra volta, ma d’improvviso dalla finestra era esploso un lampo di luce, e al di là delle tende il cielo aveva preso a mutare di viola, di rosso e di blu.
   «Non trovi anche tu che sia affascinante?» chiese Dexio, aprendo i vetri e sporgendosi oltre la grata.
   «Non so bene di che cosa si tratti, ma ogni volta che appare non posso fare a meno di provare una forte emozione nel cuore. Eppure, ho avuto l’impressione che il Professore, piuttosto che affascinante la trovi inquietante».
   «Perché dici questo?».
   «Non l’hai notato? Di punto in bianco comincia a serrare le persiane o a distogliere gli occhi. Si porta una mano al petto, come a tastare la propria presenza – non so come esprimermi meglio. Insomma, diventa strano. Quasi pauroso».
   Si alzò una folata di vento particolarmente brusca. Sul balcone del palazzo dirimpetto, i vestiti lasciati ad asciugare sullo stendino si scuotevano pericolanti: un uomo e una donna uscirono a portar dentro il bucato, nel timore che qualcosa potesse volar via. Dexio consigliò che rientrassero anche loro. Si abbracciò con delicatezza a Sina e la riaccompagnò verso il letto. Mentre lei si accomodava sulle lenzuola, richiuse con cura le finestre. Le sorrise, intenerito dalla sua posa scomposta che dominava maldestramente tutto lo spazio del materasso, eppure poi si accorse dell’espressione turpe che le stava nascendo sul viso.
   «Pensi che ci stia nascondendo qualcos’altro?» chiese infatti la ragazza poco dopo.
   Egli la fissò interdetto. Sollevò lo sguardo al cielo, che ancora seguitava a cambiare colore.
   «Non ne ho idea. Ma da una parte, se così fosse, in effetti non mi sorprenderebbe affatto», disse. Poi andò a sdraiarsi al suo fianco, passò una mano fra i suoi capelli lucenti e la accolse silenziosamente nell’abbraccio in cui ella stava cercando riparo.
   «Ho paura, Dexio».
   «Anch’io. Ma stai pur certa, Sina, che se il Team Flare dovesse sferrare il suo colpo, io sarò sempre qui per proteggerti».
   «Anch’io voglio proteggerti. Però, mi sento talmente insignificante... In fin dei conti, essere Fantallenatori non vuol dire nulla, se non se ne ha davvero la stoffa».
   Dexio la strinse più teneramente fra le braccia, e nascose un sorriso in mezzo alle ciocche viola che gli solleticavano il mento. Avrebbe voluto premervi un bacio sopra, ma inaspettatamente ebbe come l’impressione che quel loro abbraccio, quelle loro dita che si cercavano per annodarsi insieme, insomma che il contatto spontaneo dei loro corpi fosse in quel momento ben più intenso di qualsiasi altra cosa. Si abbandonò alle sue mani sottili che gli carezzavano la schiena, chiuse gli occhi colto da una dolce sonnolenza.
   «Il giorno in cui ci siamo incontrati, sembrava uno scherzo del destino», sussurrò.
   «Magari lo era davvero... E magari lo è anche questa volta», mormorò lei di rimando.
   Il volto di Dexio si ridestò di sorpresa. Sina, tuttavia, continuava a piegarsi contro di lui senza volersi mostrare.
   «Non avevo ancora mai incontrato qualcuno come te», disse il giovane «So di essermi innamorato di altre ragazze, prima, eppure sento come che, in realtà, senza rendercene conto, noi abbiamo sempre avuto bisogno l’uno dell’altra. Perché nessuno, nell’essere così diverso da me, è stato allo stesso tempo così simile a ciò che io sono. Per questo, Sina, qualunque sarà la tua scelta, io la rispetterò. E stai pur certa che non ti abbandonerò».
 
 
   Una mattina Akebia si era risvegliata in preda all’angoscia, col corpo avvoltolato nelle coperte di un calore asfissiante, pregno di sudore. Il cuore aveva cominciato a martellarle nel petto senza trovare pace, ed ella respirava a fatica, le doleva il petto, ma non riusciva a trovare lo slancio per svincolarsi e alzarsi dal letto a prendere aria accanto alla finestra. Era rimasta immobile a percepire le sensazioni che l’ansia le suscitava, la schiena sottile tutta curvata in una linea scomposta e nervosa, seminuda, perché la maglia del pigiama doveva esserlesi incastrata tra le braccia piegate sul petto, che si allungavano con le dita a tastare le spalle, in una sorta di protettivo, solitario abbraccio. Non aveva più ripreso sonno, e quando Elisio più tardi si era affacciato a darle la buona giornata prima di uscire e andare a lavorare, aveva risposto appena con un lamento flebile, fingendo d’essere ancora addormentata.
   Egli però inaspettatamente si era avvicinato. Akebia aveva avvertito la sua presenza farsi sempre più tangibile dietro di sé; l’incedere dei suoi passi l’aveva d’improvviso gettata in un’irrefrenabile agitazione, e si era ricordata della schiena scoperta, della pelle spoglia, e nel momento in cui le dita di lui si erano abbassate a sfiorarle una caviglia, aveva spalancato gli occhi in un impeto di protesta. Ma di fronte non aveva altro che il muro e non avrebbe potuto in alcun modo sottrarsi all’altro. La vista cominciò a divenire sempre più sfocata per le lacrime silenziose che traboccavano oltre le sue lunghe ciglia, e la gola arse di un bruciore terribilmente amaro.
   Eppure, la mano di Elisio continuava a sfiorarla appena, senza imporsi. Afferrò un lembo della coperta e delicatamente lo tirò fino a coprirle i piedi infreddoliti. Poi si ritrasse. Akebia udì il ragazzo uscire dalla stanza e poco dopo richiudere la porta di casa. Si spinse di scatto a sedere sul materasso e rimase a scrutare i resti di quel gesto gentile. Allora, i suoi singhiozzi spauriti si tramutarono in un pianto di commozione.
   La sera in cui Elisio l’aveva ritrovata abbandonata per strada, Akebia si era lasciata cadere sull’asfalto bagnato fino a che le gocce di pioggia non si erano mescolate alle sue lacrime al punto da non poter più distinguere le une dalle altre. I suoi piedi deboli e scalzi stavano immersi in questa pozza d’acqua in cerca di un improbabile riparo. Poi era arrivato lui, l’aveva coperta sotto il proprio ombrello e l’aveva aiutata a rialzarsi.
   Akebia scese dal letto. Prese dalla sedia le calze che Elisio aveva recuperato per lei da qualche paio che aveva riposto in un cassetto e che ormai non gli andavano più e le indossò. Gironzolò un po’ per la stanza dondolando pigramente le braccia. Si chinò sulla scrivania a sfogliare distrattamente i libri che aveva raccolto da quelli che ancora bisognava mettere in ordine negli scaffali sparsi per casa e che Elisio le aveva ceduto volentieri. Si voltò a guardarsi dentro lo specchio appeso alla parete e si strofinò gli occhi arrossati, provò ad acconciarsi i capelli con le dita, tuttavia al momento non aveva voglia di vestirsi e sistemarsi per bene. Scostò le tende dalla finestra a far passare la luce del giorno, e scorgendosi un’altra volta nel riflesso del vetro, decise che sarebbe andata a sciacquarsi un poco il viso. Prima di uscire, restò qualche minuto appoggiata con la schiena contro uno stipite, carezzando pensosamente la porta dalle venature rosse fiammanti di quella camera che Elisio aveva ammobiliato con tanta cura soltanto per lei. Sentì che se si fosse soffermata oltre su quel pensiero si sarebbe commossa un’altra volta, così si allontanò scuotendo la testa.
    «Lo denunceremo», le aveva detto una notte in cui era scoppiata a piangere davanti ai suoi occhi. Aveva aggiunto anche altro, era stato per lungo tempo al suo fianco a rassicurarla, ma Akebia aveva fatto sempre più fatica a seguirlo, non aveva percepito altro che un mormorio continuo e sconnesso, flebile: le uniche parole che le erano rimaste impresse erano state queste.
   Vide sul tavolo dello studio i suoi arnesi abbandonati alla rinfusa. Allora decise che, per ricambiarlo di quell’affetto, l’avrebbe aiutato a sua volta.
 
 
   Quella sera di tanto tempo prima, Sina era rimasta per lunghi minuti coi piedi scalzi immersi a riva ad osservare la Torre Maestra che si ergeva imponente più in là oltre la spiaggia. Un banco di Luvdisc stava nuotando nelle acque attorno alle mura accarezzate dalle ultime luci del tramonto. Da lontano si poteva ammirare come le onde assumessero certe tonalità rosee al passaggio dei Pokémon: guardandole distrattamente, talvolta si avrebbe avuto l’impressione che tali sfumature radiose fossero state frutto della misteriosa energia che aleggiava all’interno della fortezza. Nell’ultimo periodo il clima si era fatto arido, complice il caldo clima estivo, e la spiaggia era secca, tant’è che se avesse voluto Sina si sarebbe potuta avvicinare alle mura di cinta senza l’ausilio di Pokémon che dovessero attraversare a nuoto il tratto che le separava dalla città. I marmi bianchi della facciata gotica risaltavano di un languore rovente, i portali strombati s’innalzavano solenni coi loro archivolti scolpiti a rilievo e le cuspidi triangolari finemente decorate.
   Sina era in compagnia della sua Smoochum. Avevano cenato insieme in un bistrot dopo un intenso pomeriggio di studio in biblioteca. Stava preparando un esame di Chimica Organica piuttosto pesante e che la spaventava molto – l’aveva rimandato già diverse volte, ma ora era arrivato il momento di affrontarlo. Ancora in preda allo sconforto, aveva deciso di andare a fare due passi insieme a Smoochum dopo mangiato per riprendere un po’ di respiro. Con il calare del sole, le strade di Yantaropoli cedevano il posto al vento fresco della sera, ed era piacevole girare tra i locali a bere qualcosa.
   Mentre era seduta a sorseggiare un bicchiere di Lemonsucco, Sina si fermava spesso a scrutare i gruppi di ragazze e ragazzi che camminavano lungo la via. Ogni tanto pensava che le sarebbe piaciuto poter approfondire un’amicizia con qualcuno e magari condividere il viaggio insieme a un altro Allenatore come lei. Ma gli studi, per come la vedeva in quel momento, avevano la priorità, perciò era raro che si dedicasse a coltivare una conoscenza più del minimo necessario. Era convinta che quando si sarebbe stabilizzata nel proprio ambiente avrebbe certamente trovato altre persone con i suoi stessi interessi e con le quali sarebbe andata d’accordo. Allora sarebbe riuscita a creare dei rapporti più saldi rispetto a quelli che le capitava di intessere occasionalmente con i viaggiatori che incontrava sul proprio cammino.
   Restò ancora qualche minuto ad osservare il sereno ondeggiare del Mare del Nord, ripassando mentalmente impegni e fatiche che avrebbe dovuto attendere l’indomani. Già sentiva salirle il magone al pensiero di dover riaprire quel libro enorme per rimettersi a sottolineare e sottolineare e sottolineare. Toccò a Smoochum distoglierla da quelle preoccupazioni. Con un verso le si accostò ad una gamba, e incominciò a tirare debolmente l’orlo della gonna – indossava ancora la divisa da Fantallenatrice, non aveva avuto nemmeno il tempo di cambiarsi – per attirare la sua attenzione. Sina abbassò lo sguardo su di lei e vide il suo visetto stanco, allungò una mano a carezzarle il buffo ciuffo biondo sulla testa.
   «Hai ancora caldo tu, eh? Sarà meglio andare a prendere un po’ d’acqua, hai le labbra tutte secche», disse affettuosa, chinandosi a raccoglierla in braccio.
   Facendo ritorno verso la città, Sina notò un fuoco acceso a ridosso di una duna. C’era un ragazzo, seduto accanto a una tenda, intento a leggere un voluminoso libro poggiato sulle ginocchia; doveva essersi accampato lì per la notte. Poi lo guardò meglio: scrutò il modo in cui i capelli sulla nuca sbucavano chiari e ben pettinati dall’alto colletto della giacca nera, gli occhi azzurri e assorti nella lettura, le forme pulite del viso. Pensò che era bello, ma poi lo riconobbe e arrossì. In quel momento, il giovane si accorse di lei e le rivolse un’occhiata distratta. La fissò in silenzio per un po’, finché anche lui non si ricordò, e allora le sue labbra si distesero in un sorriso amichevole. La salutò con un cenno della mano.
   Quella mattina era successo che Sina avesse incontrato un Veterano particolarmente agguerrito lungo il Percorso 12. Durante la lotta egli si era accanito con forza sui suoi Pokémon, senza che ella fosse riuscita a contrastarne la potenza degli attacchi. Quando l’aveva sconfitta, alla fine le aveva detto: «Se questo è il tuo livello, non diventerai mai una Fantallenatrice».
   Sina aveva risposto: «Non me ne frega niente di diventare una Fantallenatrice!». L’aveva mandato via stizzita e chinandosi a terra aveva raccolto le proprie Poké Ball. Subito dopo era apparso questo ragazzo, un altro Fantallenatore come lei. Aveva avvicinato la mano per aiutarla a rialzarsi e lei l’aveva presa.
   «Come ti chiami?» gli chiese, seduta davanti al falò.
   «Dexio», rispose. «E tu?».
   «Sina».
   Non riusciva a guardarlo troppo a lungo in viso, sebbene ella sentisse che egli la stava osservando e che probabilmente avrebbe dovuto ricambiare il suo sguardo. Ma tutt’a un tratto si era fatta terribilmente timida, e non soltanto perché ogni qualvolta provasse a sollevare un poco gli occhi il volto di Dexio pareva brillare sensualmente nella notte, accarezzato dalla calda luce del fuoco – aveva come l’impressione che nel momento in cui egli sbatteva le ciglia una pioggia di stelle scivolasse sulle sue guance e che tutt’attorno sbocciassero fiori colorati e profumatissimi. Per la prima volta cominciava infatti a farsi strada il pensiero di aver trovato finalmente il compagno di viaggio che aveva desiderato in segreto per così tanto tempo, ma non voleva lasciarsi andare troppo impulsivamente a quella sensazione.
   Smoochum, al contrario, era di tutt’altro parere: dopo aver bevuto dalla bottiglia di Acqua Fresca che il ragazzo le aveva offerto, gli si era avvicinata incuriosita, fissando le mani maschili con cui aveva svitato il tappo. Mentre era distratto a scrutare la sua Allenatrice, gliene aveva presa una tra le zampe e vi aveva posato un bacio sopra emettendo un sottilissimo chu. Soddisfatta di quel primo contatto, aveva continuato a baciarla ancora con un’adorabile minuziosità, per percepirne ogni venatura, ogni rotondità e sottigliezza della pelle. Il giovane se ne accorse a poco a poco, e divertito da tutte quelle attenzioni rigirò il palmo a darle campo libero. Sina si imbarazzò, se non altro perché era la stessa mano che aveva afferrato quella mattina quando Dexio si era fatto avanti per aiutarla.
   «È il suo modo di esaminare le cose nuove, non è vero?» chiese lui, ridacchiando per il solletico.
   «Sì, il problema è che lei tende ad essere troppo espansiva con gli sconosciuti. Smoochum, adesso basta!» la rimproverò, alzando il tono della voce sopra quel mare di chu che si succedevano incessantemente uno di seguito all’altro. Dexio provò a rassicurarla, poiché non ne era affatto infastidito, ma Sina era fin troppo agitata per potergli dare ascolto: prese la piccola in grembo e la strinse severamente tra le braccia senza darle via di fuga. Smoochum protestò, ma dovette presto arrendersi alla sua morsa nervosa.
   «Anche a te piacciono i Pokémon di tipo Psico?».
   «In realtà preferisco quelli di tipo Ghiaccio».
   «Che strano, eppure sembri un tipo decisamente fumantino».
   «Ehi! Ti pare il modo di rivolgerti a una ragazza, questo?»
   All’improvviso apparve un Abra, fluttuando in aria a metà strada tra i loro visi. Sina ebbe un sussulto di sorpresa, fece per proteggere sé stessa e Smoochum, ma poi si accorse che il Pokémon la stava semplicemente scrutando, cogli occhi piccoli colmi di sonno. Dexio allungò una mano ad accarezzarlo tra le orecchie volpine ed esso dischiuse la bocca in un profondo sbadiglio.
   «Bentornato», gli disse il ragazzo «Questa è Sina, è una nostra nuova amica. Dove sei stato di bello?»
   Abra continuava a levitare senza emettere verso. Dopo un po’ cominciò a dondolarsi di qua e di là, pigramente, finché dalla sua gola non rintronò un russare sommesso. Si era addormentato. Dexio afferrò la Poké Ball che teneva fissata alla cintura e vi richiamò dentro il Pokémon.
   «Dev’essersi stancato tanto», mormorò.
   Sina si accorse che anche Smoochum, per quanto si ribellasse sbattendo prontamente la cigliette lunghe per tenersi sveglia, cominciava a scivolare a poco a poco nel sonno. Con qualche carezza la convinse ad andare a coricarsi anche lei, poi mise da parte la sua Sfera nella tasca, sentendola vibrare mentre essa russava.
   «Sai, il mio Abra è un tipo riflessivo», spiegò Dexio «Nei momenti in cui è sveglio spesso vaga usando il Teletrasporto per rimuginare sui suoi pensieri. Per il resto del tempo, beh, è come se avesse occhi e orecchie foderati di prosciutto. Dorme e non si accorge minimamente di quello che gli succede attorno».
   «Occhi e orecchie foderati di prosciutto...» ripeté Sina «Che modo di dire buffo!».
   «Già! Me lo diceva spesso mia madre quando ero piccolo. È talmente assurdo che però calza, vero? Eppure, nonostante dorma, Abra è capace di attaccare ugualmente grazie ai suoi poteri psichici. Questo suo comportamento mi ha sempre affascinato».
   «So che si autoinduce l’ipnosi per poterli mantenere attivi attraverso il sonno».
   Dexio rimase particolarmente stupito di quella precisazione. Sorrise.
   «È un’osservazione molto puntuale», le disse «Complimenti».
   «Ah, no!» esclamò lei, arrossendo di colpo davanti a quelle labbra distese «Vedi, in realtà io queste cose le studio. Non è farina del mio sacco».
   «Sul serio?».
   «Sì. Il mio obiettivo non è la Lega Pokémon, ma sto raccogliendo lo stesso le Medaglie perché ne ho bisogno per il titolo che intendo ottenere».
   Dexio sembrò avere come un’intuizione. Raccolse da terra il libro che era stato intento a leggere fino a poco prima. Sina sussultò: era il manuale di Chimica Organica.
   «Se non t’importa nulla di diventare una Fantallenatrice, allora che cosa saresti?».
   Un turbine di vento violenta e improvvisa interruppe i loro discorsi. Le sabbie di Yantaropoli erano rischiarate tutte d’un tratto da un lampo accecante, al punto che Sina e Dexio dovettero coprirsi gli occhi divenuti troppo sensibili, abituati alla calma penombra della notte. Il fuoco si spense, i due ragazzi si alzarono allarmati da terra per capire cosa fosse successo. Quando la luce gradualmente si affievolì, si sporsero oltre il piccolo accampamento e rimasero stupefatti nel vedere le onde del mare crescere e agitarsi in grandi cavalloni. Pian piano anche questi si acquietarono, così non gli rimase altro che allungare lo sguardo altrove, a ricercare qualcosa che dovesse aver generato tutto questo. C’era un bagliore, in mezzo alla spiaggia, o forse due, ecco, due puntini luminosi e quasi indistinti si venivano incontro per poi allontanarsi, e balzavano da una parte e dall’altra, rapidissime. Dexio e Sina aguzzarono la vista a distinguere che cosa più esattamente ci fosse lì, di fronte alla Torre Maestra. I loro visi brillarono di una vivace sorpresa.
   «Ma quello è il Professor Platan!» esclamarono: e queste furono le prime parole che dissero all’unisono.
   «Oh, è davvero un bell’uomo!» aggiunse lei.
   Rimasero entrambi a studiare lo scontro tra il MegaGarchomp del Professore e il MegaLucario del suo sfidante, in un silenzio vivido e carico di passione, concentrati e nello stesso tempo tremando per l’emozione che quello spettacolo fortuito e speciale suscitava in loro.
   «La sua tattica mi sembra piuttosto monotona, però», osservò Dexio. Nella sua voce Sina distinse una certa delusione.
   «In effetti, a lungo andare diventa prevedibile», concordò la ragazza «Forse... Non ci ho mai pensato prima di adesso... E se la Megaevoluzione non fosse soltanto una questione di competizione? Se ci fosse dell’altro?».
   Sina aveva deciso di studiare Biologia Pokémon. Non c'era nessun retroscena strappalacrime dietro questa sua scelta: lo faceva semplicemente perché le piaceva. Le piaceva studiare, scoprire nuovi dettagli e orizzonti, oltrepassare il limite della propria conoscenza. Ma non c’era mai stato nessun Pokémon che da bambina l’avesse salvata da qualche incidente, né che le avesse cambiato la vita con la sua comparsa, che in qualche modo l’avesse spinta ad approcciarsi a quel campo. Vi aveva soltanto scovato una certa affinità, un modo di essere che le era congeniale, e così aveva fatto la scelta d’intraprendere gli studi. Quale miglior traguardo per una mente tanto assetata d’informazioni se non quello accanto al Professore della regione, la sua assistente? E magari un giorno sarebbe diventata Professoressa a sua volta. Eppure adesso vedeva qualche altra cosa, che mai aveva considerato prima di allora e che tuttavia doveva sempre aver avuto in qualche modo davanti agli occhi. Perché sebbene il Professore laggiù faticasse a prestarsi allo scontro, con quella strategia a dir poco acerba e raffazzonata, dalla maniera in cui Garchomp si muoveva sul campo di battaglia con una forza sorprendente, che non poteva però derivargli dalla pratica con il suo Allenatore. Quando Platan venne scaraventato a terra dall’attacco di Lucario e il suo Pokémon riprese a lottare con quell’ira disperata che gli scuoteva tutto il corpo, Sina finalmente parve cogliere un accenno di questo qualcosa d’altro che doveva unirli assieme – uomo e Pokémon, una cosa sola. Ed era in quel legame segreto che adesso voleva addentrarsi, in quell’incontro misterioso fatto di vita e di amore, di sofferenza.
   Mentre Garchomp raccoglieva su di sé il corpo di Platan, accasciato inerme e incosciente sulla spiaggia, i due ragazzi si guardarono, sconvolti entrambi dalla rivelazione a cui avevano appena assistito. A quel punto Sina e Dexio si erano scoperti rivali, e il loro incontro era davvero sembrato uno scherzo del destino.
 
 
   Elisio rincasò dopo il tramonto. Nel momento in cui la ritrovò seduta nello studio rimase particolarmente sorpreso.
   «Come stai?» le chiese, poggiando da parte la borsa da lavoro e togliendosi di dosso il cappotto.
   «Oggi mi sento molto meglio», rispose lei.
   «Mi fa piacere», disse Elisio «Che ne dici se vado a preparare la cena? Ho comprato un ottimo Borgogna, pensavo di...».
   Improvvisamente si accorse che la ragazza non stava semplicemente curiosando tra i suoi marchingegni come aveva creduto in un primo momento, ma vi stava di fatto mettendo mano, cambiando posto ai cavi e rinsaldando certi collegamenti qui e là. Allarmato e perplesso si avvicinò, la guardò con un’occhiata severa che tuttavia tradiva una forte curiosità.
   «Che cosa stai facendo, di grazia?» domandò seccamente.
   «Sto raffinando il tuo lavoro», replicò lei in tono gioviale. Le sue labbra si curvarono in un sorrisetto sagace: Akebia pareva piuttosto orgogliosa.
   «Come sarebbe a dire?» ribatté stizzito. Poi osservò con maggior attenzione la piastra metallica a cui ella si stava dedicando tanto diligentemente, e si rese conto di come i contatti risultassero più ordinati rispetto a come li aveva uniti lui in precedenza. Di certo in questo modo sarebbe stato più semplice apportare modifiche in corso d’opera. Gli occhi di Elisio brillarono di un rinnovato interesse.
   «Tu capisci di queste cose?» domandò, piegandosi sul tavolo con i gomiti, il mento posato pensierosamente sopra il dorso di una mano.
   «Beh, sì», disse Akebia, arrossendo un poco per la sua vicinanza. Quando l’imbarazzo divenne troppo pesante da sostenere, la giovane rimise a posto i vari attrezzi e si accinse a ripulire la scrivania da tutti gli scarti. Elisio però ad un certo punto la trattenne, e stringendola per le spalle in modo da riuscire a guardarla dritto negli occhi, fece la sua proposta: «Ascolta, Akebia. Ti andrebbe di lavorare per me?».
 
 
   «Vi prenderò entrambi».
   Nei mesi successivi, conseguentemente alla scoperta di essere rivali, Sina e Dexio non avevano fatto altro che scontrarsi e battibeccare, superarsi a vicenda man mano che i loro percorsi li avevano portati a rincontrarsi dopo strenui e sofferti allenamenti, sessioni di studio, esami, bocciature, secondi, terzi tentativi, e ancora Poké Ball sprecate e Revitalizzanti consumati. Di certo non si erano sottoposti a simili sacrifici per arrivare infine a questa conclusione – la vittoria, il posto tanto agognato doveva essere uno e uno solo.
   «Che cosa?!» fu infatti la reazione di entrambi, unisona, mentre seduti alla scrivania dello studio osservavano il Professore agitare con un sorrisetto serafico i risultati dei test davanti ai loro occhi.
   «Vi siete aggiudicati il posto a pari merito, e viste le vostre capacità sarebbe un vero peccato lasciarsi sfuggire anche uno solo di voi. Perciò vi prenderò entrambi», aveva ripetuto.
   Dexio gli avrebbe detto volentieri che non era esattamente così che funzionava una graduatoria, avrebbe confessato più tardi a Sina, ma il Professore era stato inamovibile su ogni fronte e alla fine aveva rinunciato. Così, di nuovo, le loro sorti si erano ribaltate, e da rivali che erano stati avevano infine dovuto accettarsi come colleghi e compagni. Per quanto diversi nel carattere, si erano trovati costretti a ricominciare da capo e a ricordare che cosa in quella notte davanti al falò li aveva uniti e fatti sentire uguali. Platan era stato un buon mediatore e a posteriori si sarebbe detto che ci avesse visto giusto, anche nel farli incontrare progressivamente l’uno con l’altra. Col tempo entrambi i ragazzi avevano deciso di venire a patti e di accogliersi reciprocamente colmandosi a vicenda nelle proprie mancanze. Quindi, la permanenza in Laboratorio si era fatta pian piano più serena, ricca di esperienze e progressi. A Sina era sembrato finalmente di avere trovato il suo posto e di stare iniziando a crescere davvero.
   Una mattina, portandosi appresso una serie di documenti che aveva stilato con cura a casa, si era affacciata alla porta della saletta ricreativa. Lì vide per la prima volta insieme il Professore con Elisio. Non sentì nulla delle loro parole, perché troppo forte era il volume del televisore in corridoio su cui stavano trasmettendo l’ultimo bollettino circa le condizioni meteorologiche avverse nella regione di Sinnoh. Però era rimasta a scrutarli da lontano, senza intromettersi, e li aveva visti rivolgersi l’uno all’altro con una delicatezza di cui non aveva mai ancora avuto esperienza, nei loro sguardi e nei loro gesti. Per quanto essi mantenessero una certa distanza amichevole e discreta, Sina aveva percepito la vicinanza che in realtà essa nascondeva, il modo in cui Elisio pareva consolare Platan di una qualche sofferenza. Aveva iniziato ad averli a cuore insieme e non c’era voluto molto affinché  la sua fantasia spiccasse il volo, tra una lettura e l’altra dei suoi manga preferiti.
   Qualche tempo dopo Dexio se la ritrovò durante la pausa pranzo tutta intenta a scribacchiare e a disegnare ghirigori sulla propria agenda. Tra le pagine del diario aveva avuto l’impressione di scorgere uno scarabocchio. Le chiese se potesse dare un’occhiata, ma nel mentre riconobbe che i due omini – abbracciati l’uno all’altro? – che stava delineando con così tanta cura altri non erano che un abbozzo sommario del Professore e di Elisio. Sina tentò di coprire la pagina meglio che poté, ma Dexio ormai troppo incuriosito continuò a sbirciare le due sagomette.
   Vide che si stavano baciando. Poi però guardò meglio, e si accorse che non si stavano soltanto baciando. Le disse che era una fujoshi pervertita e che con lei non ci voleva più parlare. Per vendicarsi, da quel momento Sina cominciò ad assillarlo sul perché invece la sua coppia dovesse essere canonica – Dexio non ebbe più pace.
 
 
   Per entrare, Elisio aveva dovuto abbassare la testa, e Akebia non aveva potuto fare a meno di provarne imbarazzo. Ma quando egli finalmente mosse i suoi primi passi in quell’appartamentino, ne fu talmente felice che ogni tipo di tensione l’abbandonò. Lasciò che si spogliasse, poi lo accompagnò raggiante in salotto e lo fece sedere sul divano. Dalla finestra si aveva una vista modesta di Luminopoli, ma i fiori sbocciati sul davanzale ben compensavano alla mancanza di un panorama migliore. Elisio rimase a osservarli, notando ancora qualche goccia di rugiada adagiata sui petali, tuttavia più di tutti quelli lo colpirono in particolare i ranuncoli gialli lasciati crescere nel vaso che campeggiava grazioso sul tavolo. Accanto all’ornamento, Akebia aveva posato il vassoio con le tazzine e la zuccheriera.
   «Quando saranno diventati abbastanza robusti, voglio travasarli sul balcone», disse la ragazza riferendosi ai fiori, mentre versava il caffè bollente «Tu lo zucchero non ce lo vuoi, ricordo bene?».
   «Ricordi bene. Sono certo che diventeranno meravigliosi, se li terrai alla luce».
   Parlarono dell’impiego nei Laboratori, dell’esperienza che Akebia vi stava facendo all’interno, della sistemazione nella sua nuova casa. Elisio non poté fare a meno che esserne entusiasta, si complimentò con lei, le chiese altre notizie. Man mano che i loro discorsi si spegnevano, però, si faceva sempre più taciturno e pensoso:
   «Sai... Ultimamente c’è un ragazzo, nella caffetteria...» cominciò a dire. Si fermò ad osservare un Vivillon che si era posato sui fiori alla finestra, sebbene Akebia avesse l’impressione che non lo stesse effettivamente guardando. Lei restò in silenzio ad aspettare che riprendesse a parlare, ma così non fu:
   «Lascia perdere», chiuse brevemente il discorso. «Dopotutto, non è importante».
 
 
   «Ma bene!» era la voce del Professore, «Confesso che mi aspettavo di vederti arrivare prima».
   «Santo cielo, Platan», questa, invece, era quella di Elisio, e Sina vi udì chiaramente una certa nota contrariata «Tu l’hai fatto apposta».
   «Chissà? Potrebbe anche darsi».
   Sina si sporse un poco a sbirciare oltre la porta e vide i due intenti a guardarsi intensamente l’un l’altro. Sul viso di Platan campeggiava un sorriso trionfante, come che avesse appena vinto una scommessa, mentre Elisio, diversamente da quanto avrebbe potuto supporre dal tono delle sue parole, pareva avere un’aria piuttosto divertita. Era così assurdo pensare che dietro quel bel quadretto si nascondesse un tale misfatto, la verità indicibile che attanagliava in segreto le sorti dell’intera Kalos. Ella restò a guardarli, a sentire i loro discorsi: erano i discorsi banali di una coppia. Ma come potevano far finta di nulla?, si chiese, anteporre quella facciata a ciò che realmente stava accadendo sotto gli occhi disattenti di tutti? Guardò Elisio allungare un braccio verso Platan, cedergli il cappotto che aveva dimenticato in macchina. Pareva tutto talmente fuori luogo e sbagliato, incomprensibile: però si accorse anche che il suo Professore era sereno, che in lui non vibrava l’angosciosa impellenza che gli aveva scoperto addosso l’altra notte.
   Ad un tratto Elisio uscì, Sina incrociò i suoi occhi e indietreggiò di un passo, si rese conto che stava avvenendo tutto esattamente come qualche tempo prima, quando li aveva visti assieme per la prima volta, e sempre come qualche tempo prima egli rimase a guardarla con un sorriso cordiale, salutandola con un gentilissimo Bonjour. Ella abbassò la testa, mormorò di rimando qualcosa tra le labbra, poi sentì i suoi passi allontanarsi e strinse al petto la pila di documenti che aveva portato con sé. Sospirò. Con un’espressione crucciata, provò ad affacciarsi oltre la porta, tentennando a lungo prima di annunciarsi al Professore – non vi riuscì nemmeno, e soltanto quando Platan sollevò lo sguardo dalle due tazzine poggiate sul tavolo e che si era fermato a scrutare in silenzio si riscosse dai propri pensieri.
   «Sina, ma chérie», la chiamò lui. La sua voce risuonava adesso calma e lenta: «Sei stata lì dietro ad ascoltarci tutto questo tempo?».
   Che cosa avrebbe dovuto rispondere? La ragazza si limitò appena ad accennargli ai fogli che teneva nelle dita. Platan le indicò con un gesto il ripiano alle sue spalle, allora ella si voltò e li lasciò lì. Mentre era girata, il Professore si era alzato, era tornato ai fornelli della cucinetta.
   «C’è ancora un po’ di caffè. Ti va un goccio?».
   «Sì».
   «Posso macchiartelo con del latte, se vuoi. So che le cose troppo amare non ti piacciono».
   Inevitabilmente, mentre afferrava un’altra tazzina dalla credenza, egli ripensò alle parole amare e dure che le aveva detto quella notte quando l’aveva portata via con sé in macchina. Ricordò il suo viso incorniciato nel riflesso dello specchietto retrovisore, e si domandò se, ora che gli stava dando le spalle, le sue labbra avessero di nuovo preso quella curva terribilmente dolorosa. Rigirando lo zucchero nel caffè, tornò a sistemarsi sul divano. Sopra il tavolino c’era ancora la sua tazza accanto a quella di Elisio: esse si sfioravano lungo un tratto del bordo, dove era colata una goccia bruna di cui condividevano insieme la macchia.
   «Sina, tempo fa mi hai chiesto che cosa intendesse Elisio con un mondo perfetto. Non ti sorprenderà scoprire che io allora già sapevo».
   «È per questo che non mi ha risposto».
   «Già. Ho cercato di sviare il discorso… Ma adesso non voglio più starmene in disparte».
   «Sarebbe anche ora, sa?».
   Platan rimase sorpreso da quella veemenza. Sebbene Sina fosse sempre stata un peperino, mai si era permessa di rivolgergli la parola in quel tono saccente.
   «Le chiedo scusa», disse la ragazza poco dopo. «È stato più forte di me».
   «No, non preoccuparti».
   «Mi dica, era questo, vero? Il mondo perfetto che intendeva Elisio. Un mondo in cui sarebbe riapparsa l’Arma Suprema».
   «Sì. Non so in che modo, ma farò tutto ciò che è in mio potere per fermarlo».
   «Professore», lo chiamò Sina: stava guardando oltre la porta, lì verso dove Elisio se ne era andato poco prima. Allora si avvicinò al Professore, si fermò di fronte a lui e lo guardò dritto negli occhi.
   «Dimmi, Sina».
   «Ci ho pensato molto in questi giorni», confessò, esitando «Quello che sto per dire mi fa paura. Non so se è la scelta giusta».
   «Non c’è nulla in questo mondo di cui tu debba avere paura, Sina, se puoi contare su te stessa».
   «Per questo, ho deciso di unirmi comunque a lei. Non sono sicura di essere abbastanza forte. Ma non voglio rinunciare ai miei legami. Non voglio perdere quel sentimento che ho provato la sera in cui l’ho vista combattere insieme a Garchomp davanti alla Torre Maestra. Lotterò con tutta me stessa per proteggere ciò che ci unisce. Tanto fra gli esseri umani che insieme ai Pokémon».
   Platan la osservò attentamente, ascoltando in silenzio le sue riflessioni, commuovendosi e pensando tra sé e sé quanto fosse coraggiosa.
   «Anch’io, Sina, proteggerò te e Dexio a costo della mia vita», le disse dolcemente, e la sua voce era calda come un abbraccio.
   «Ovviamente non significa che l’abbia perdonata!» si affrettò ad aggiungere lei stizzita, con le guance rosse per l’imbarazzo – in realtà era così grata e felice del suo affetto!
   Platan sorrise.
   «Grazie, chérie. Grazie di cuore».
 
 
   Sulla soglia dell’ingresso alla Centrale Elettrica, Akebia stava aspettando le ultime direttive di Elisio, stringendo trepidante la Poké Ball di Druddigon nelle mani. Finalmente dagli auricolari gli giunse la sua voce, il loro piano era ormai in via di attuazione.
   «Per te, Elisio», si disse, mentre il vento le scompigliava i capelli e la sicurezza e l’impazienza ribollivano nelle sue vene «Perché per me sei tutto ciò per cui io voglio lottare».




 


Sarò sincera, sono un po’ in difficoltà su come iniziare queste note dell’autrice stasera. Prima di tutto vorrei ringraziare tantissimo Barbra che si è offerta molto gentilmente quest’estate di farmi da beta per questo capitolo controllandomi le prime bozze: grazie di cuore, il tuo aiuto è stato fondamentale! [Nel caso in cui ci fosse qualche fan di Avatar da queste parti, vi consiglio di andare a leggere il suo crossover Avatar e Pokémon: La leggenda di Gong; magari non è la storia perfetta, ma offre un taglio decisamente interessante all'unione dei due universi!] ♥ In generale, poi, mi sento di ringraziare HolyBlackSpear e Afaneia per il loro supporto in questi mesi e infine Nick Wilde che di tanto in tanto passava a chiedermi aggiornamenti su questa storia: mostrandomi ancora il vostro interesse a distanza di più di un anno siete stati tutti molto affettuosi ♥
L’incipit di questo capitolo risale a un blocco dei disegni che comprai al campeggio in cui io e la mia famiglia andammo in vacanza l’estate della mia maturità. Ho sempre avuto in mente l’idea di affrontare anche le motivazioni delle Scienziate prima o poi: la storia di Akebia nasce semplicemente da quel dettaglio delle calze gialle che avevo sottolineato nel capitolo 17. Ci tenevo molto che fosse qualcosa di forte che suscitasse in Elisio l’urgenza di poter fare qualcosa lui stesso per migliorare la società.
Sina è un po’ il mio alter ego! Mi sono divertita a tratteggiarla come una fujoshi, anche solo per il fatto che è lei fin dall’inizio l’unica a shippare insieme Elisio e Platan. Spero che il rapporto fra lei e Dexio vi sia piaciuto: li rivedremo ancora nel prossimo capitolo.
Per quanto riguarda la revisione generale, ero partita con l’idea di fare una riscrittura, ma con l’andare avanti dei capitoli sono rimasta colpita nel notare i cambiamenti che ho compiuto di volta in volta, ed essendo questa in particolare la prima storia che ho pubblicato su Efp mi è piaciuto molto vedere di anno in anno questa mia crescita, perciò alla fine ho deciso di lasciare questa traccia e di non toccare troppo il testo se non per sistemare qualche frase che effettivamente suonava male o in cui erano presenti errori oppure ancora miei vecchi vizi imbarazzanti (non so quanti !!!!! ho dovuto accorciare). Ho deciso di lasciare anche le descrizioni più romantiche e melodrammatiche dei primi periodi, come baci e sguardi intensi, perché rileggendo le recensioni che mi erano state lasciate mi sono resa conto che nonostante a distanza di tempo mi sembrino un po’ cringe, tuttavia qualcuno ci si era affezionato e in ogni caso resta pur sempre ciò da cui sono partita per arrivare qui adesso. La revisione maggiore è stata per la trama e per la suddivisione dei capitoli a venire, cercando di riorganizzare meglio ciò che già avevo scritto. Mi sono resa conto di aver fatto un sacco confusione all’epoca con le scansioni temporali (nei miei schemi gli avvenimenti occupavano
anni – ma proprio della serie: un anno a capitolo – quando invece la storia nel complesso può benissimo avere un’estensione restringibile a dei mesi a partire dal capitolo 8 in poi) perciò ho attenuato ogni riferimento se non in casi importanti in cui era strettamente necessario. Tuttavia, devo dire che mi sono ritrovata davanti a una trama che aveva più senso di quel che mi aspettavo, nonostante alcune tempistiche sbagliate e certe rivelazioni sparse un po’ a caso. Sono tutte imprecisioni che riguardo con un po’ di affetto pensando alla me del terzo liceo che si è messa a scrivere questa storia per sfogarsi di tutte le brutture da cui si sentiva circondata. In fin dei conti questa storia per me è sempre stata una sorta di diario, paradossalmente.
Ragazzi, dopo questa lunghissima nota mando un abbraccio forte a tutti quanti sperando che il capitolo vi sia piaciuto! Come sempre grazie per essere passati, ci vediamo al prossimo aggiornamento!
Nel frattempo vi auguro uno strepitoso 2020: mettiamocela tutta anche quest’anno ♥
Persej

  
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