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Autore: KittyPryde    10/05/2005    9 recensioni
I gelsi del giardino si piegavano su loro stessi in curve eleganti e nodosità calcolate, con imponenza millenaria alzando i rami ad un cielo né caldo né freddo...
era il mio compleanno, di nuovo
[Neji/Hinata]
Genere: Romantico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hinata Hyuuga, Neji Hyuuga
Note: Alternate Universe (AU) | Avvertimenti: nessuno
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La calma piatta di villa Hyuga si respirava attraverso le foglie degli alberi da cortile, mosse dal vento in maniera impercettibile all’occhio umano; ondeggiavano con movimenti millimetrici e perfetti, dondolando pacifiche, quasi come se fossero state anch’esse educate alla precisione che, sulle assi di legno del dojo, era diventata principio fondamentale di ogni gesto, attacco o difesa. I gelsi del giardino si piegavano su loro stessi in curve eleganti e nodosità calcolate, con imponenza millenaria alzando i rami ad un cielo né caldo né freddo.
Il disegno si mostrava perfetto, una stampa d’autore, una fotografia filtrata nei toni monocromatici del seppia.

Mio padre, il rispettato e stimato capofamiglia del clan Hyuga, accoglieva gli ospiti con un misto di superbia e riluttanza, perfettamente mascherate dall’espressione trasparente degli occhi bianchi..
Indossava un kimono color carta da zucchero, una tinta spenta che gli appassiva lentamente addosso, e non mostrava mai le mani; abbassava la testa sacrificandosi in inchini appena accennati per dare il benvenuto a chi varcava la soglia della nostra casa.
Io ero poco lontana da lui, ma sempre un passo indietro come mi chiedeva l’etichetta; era in quei momenti che non mi sentivo una bambina normale.
Era il mio compleanno, di nuovo, accoglievo gli ospiti con gli stessi inchini di mio padre, ma più profondi e sinceri; ammiravo quelle persone che si vedevano costrette ad intervenire a una cerimonia così freddamente formale per omaggiare colei che non sarebbe mai stata una degna erede; apprezzavo la loro devozione a quelle stesse convenzionalità che a me provocavano un disgusto profondo, ma sopito e respinto.

Negli occhi di mio padre io sapevo leggere tutto quello che a nessun altro era dato sapere, non per qualche spiccata sensibilità nell’uso delle mie capacità innate, ma piuttosto a causa di quel legame che, nonostante tutto, ancora ci univa.
Negli occhi di mio padre io sapevo leggere ogni piega di disprezzo nei miei confronti, ogni sensibile movimento delle palpebre, ogni incrinatura della luminosità erano, per me, l’evidente manifestazione di quanto quella banale parata delle celebrità di Konoha fosse, per mio padre, poco più che uno spreco di tempo.
Io ero sempre stata la figlia inutile, piegavo la schiena chiudendo gli occhi e rivolgendo ai miei ospiti un sorriso che non era solo di circostanza; mascheravo, con lo sguardo insondabile degli occhi bianchi quanto fosse grande il mio desiderio di scappare.
Venivo ricambiata con ossequi sterili, gentilezze di facciata da parte di parenti che stentavo a riconoscere; raccoglievo ogni saluto con rassegnazione, attenta a mascherare ogni mio disagio.

Il rispettato signor Hiashi Hyuga cercava di non incontrare mai il mio sguardo, in quel pomeriggio color azzurro sporco, come in ogni altro pomeriggio della mia vita; anche quando mi parlava, lo faceva sempre voltandomi le spalle e cercandomi, di tanto in tanto, solo con la coda dell’occhio. Aveva deciso di abbandonare ogni diritto e ogni dovere su di me molto tempo prima; anche se formalmente restava mio padre, non si preoccupava più nemmeno di quanto la sua poca considerazione nei miei confronti potesse nuocere all’immagine del clan.
Inconsciamente, l’onorabile signor Hiashi Hyuga aveva paura di capire, grazie a quegli sguardi che sapevano andare oltre la barriera fastidiosa e inespressiva degli occhi, tutto ciò che provavo e che io stessa non arrivavo a comprendere; non aveva paura di scoprire che lo odiavo, bensì di avere la conferma che, nonostante tutto, continuavo a volergli bene.
L’unica cosa che chiunque poteva leggere nei miei occhi, era che sapevo ancora amare la mia famiglia, e questo mio attaccamento morboso, questo mio affetto mai abbastanza dimostrato, mi facevano soffrire più di ogni altra cosa dato che, per le persone che amavo, la mia esistenza rappresentava, più che altro, un peso.
Ero considerata inutile a causa delle mie inclinazioni pacifiste, della mia insicurezza, della scarsa potenza negli attacchi, nella precisione imperfetta, nella carenza difensiva e del difettoso utilizzo del byakugan; Ero considerata un’illusa nei maldestri tentativi di trovare la forza necessaria per crescere.
Come erede dovevo dare tutto per meritare un titolo che mi sarebbe spettato per discendenza, ma non per valore; come figlia ero protagonista dei continui tentativi di guadagnare l’affetto e il rispetto di un padre che aveva espresso tempo prima il suo giudizio definitivo e inappellabile.
L’unica, clamorosa, realtà era che mi sentivo tremendamente sola, stretta in quel kimono color mattone con il fermaglio che scivolava sui miei capelli troppo lisci e che dovevo continuamente sistemare mostrando una vezzosità che non mi apparteneva.
L’unica cosa che desideravo era non deludere mio padre, almeno nelle piccole cose in cui ero certa di poter riuscire.

“Hinata” come era solito fare, padron Hiashi Hyuga mi chiamò senza voltarsi, guardando oltre il cancello con quella sua usuale e immota espressione tesa
“si padre” risposi, tenendo le braccia lungo i fianchi per costringermi a non giocare nervosamente con le dita
“entra e fai accomodare i nostri ospiti” ordinò, con calma apparente dietro alla quale io potevo chiaramente sentire l’inflessione perentoria che caratterizzava gran parte delle sue parole nei miei confronti; inavvertitamente abbassai il capo con un accenno di riverenza che parve quasi violenta, polemica; pensai, scorgendo il suo sguardo rigoroso che mi seguiva mentre entravo in casa, che qualsiasi cosa avessi mai fatto per migliorarmi, non sarebbe stata abbastanza.

Il pranzo fu servito senza troppe bardature o eccessivi convenevoli; al tavolo le persone parlavano a voce bassa con i vicini e solo raramente qualcuno alzava il tono in una risata o in un’esclamazione più colorita; tutti cercavano di mantenere il decoro che conviene all’ospite di una casata celebre e antica come la nostra.
Presto, come ad ogni pranzo di quel tipo, qualcuno si sarebbe lasciato prendere la mano dall’ottima qualità del cibo e delle bevande, e il passo da un dignitoso comportamento ad una miserevole ubriachezza sarebbe stato breve e, come facilmente prevedibile, già alla seconda portata qualcuno rideva a intervalli irregolari cercando di mantenere un contegno ormai perduto, qualcun altro giocava con palline di riso e, chi non era ancora ubriaco, continuava a dare fondo alle riserve delle nostre cantine.
Mio padre parlava senza animo con uno o con un altro invitato, senza eccedere nei sorrisi convenienti, barricandosi dietro al silenzio degli ascoltatori, smettendo di mangiare ogni volta che qualcuno gli rivolgeva la parola; era un calcolatore, non era un uomo freddo, ma era solito soppesare il valore degli altri dal loro sguardo e dai segreti che riusciva a scovarvi.
Seduta a quel tavolo di estranei avevo lo stesso desiderio di fuggire che qualche ora prima riuscivo a celare, ma mi mancava la voglia di nascondermi; così abbassai gli occhi sulle bacchette che tenevo strette tra le dita e mi imposi di resistere ancora; era tutto quello che potevo fare in quel momento, tutto quello che dovevo a mio padre. Sospirai, con l’ineccepibile trasparenza e semplicità che anni di allenamenti mi avevano insegnato, potevo fare ciò che desideravo soltanto pensandolo, soltanto concentrandomi in un punto preciso che mi permettesse di tenere la testa alta, l’unico motivo per cui mi trovavo lì era mostrare in maniera esemplare una superiorità che non possedevo, una sicurezza che non mi caratterizzava, ma che potevo tranquillamente fingere.

Fu lo sguardo fisso di Neji a distruggere anche quella mia debole convinzione; sedeva sull’altro lato del tavolo, abbastanza lontano perché non fosse costretto a rivolgermi la parola, ma abbastanza vicino perché potesse guardarmi, in tutta la mia eccezionale inadeguatezza; abbastanza vicino perché, anche senza l’aiuto del byakugan, potessi vedere nei suoi occhi il rancore logorante che nutriva nei miei confronti; nei suoi occhi bianchi, ancor più che in quelli di mio padre, trovavo la conferma ultima della mia solitudine.
Istintivamente abbassai lo sguardo, con uno scatto brusco che risvegliò le attenzioni sopite di mio padre; padron Hiashi Hyuga girò la testa nella mia direzione, una rotazione minima, priva di sforzo.
Gli bastò guardarmi per una brevissima frazione di tempo che gli bastò a comprendere l’origine del mio imbarazzo e domandarsi, un’ennesima volta, come avesse potuto generare una figlia così poco degna della sua stima e del suo cognome; certi pensieri velenosi non riuscivano nemmeno più a impressionarmi, si ripercuotevano con un dolore bruciante alla bocca dello stomaco e lì morivano dopo pochi secondi; mi ero fatta una ragione di ogni forma di disprezzo con la quale mio padre cercava di violentare la mia mente, avevo anche smesso di ragionare e maltrattarmi per ore in seguito ad ogni sua dura affermazione che era la fotocopia della precedente; la mia inettitudine era un dato saldo e comprovato, ogni mio sforzo per meritare il titolo che la discendenza mi aveva attribuito era superfluo e mio padre era incontentabile.

Fu il desiderio di non deluderlo ulteriormente a farmi rialzare la testa e, senza sgomento, vidi che Neji non aveva spostato gli occhi da me nemmeno per un istante, composto nella sua immobilità osservava ogni mio cedimento, e non mi lasciava vedere nulla di se…
Fu il desiderio incoerente di misurarmi con lui che mi fece sostenere lo sguardo, senza dare dimostrazione a nessuno, con discrezione, spostandomi di tanto in tanto per rispondere con educazione ad uno dei convitati, ma tornando sempre a fissare lo specchio dei miei stessi occhi, senza superbia, con rispetto.
Mio padre aveva ripreso i suoi discorsi noncuranti, con le stesse parole sommesse, le stesse rughe agli angoli della bocca, le stesse espressioni ordinate delle sopracciglia, senza mostrare mai le mani; il piccolo episodio, del quale soltanto lui si era potuto accorgere, era stato una parentesi di delusione tra una conversazione monotona e l’altra… non potevo fare a meno di pensarlo, di continuare a sentirmi insufficiente, difettosa.
E Neji non poteva fare a meno di guardare ogni mio pensiero senza leggerlo nella mia mente, ma direttamente attraverso i miei occhi, che potevano trapassare ogni menzogna, ogni maschera con facilità, ma erano e restavano meno dotati, meno allenati dei suoi…
Mi sforzai di non cedere, cercai nascondere la concentrazione, l’alterazione del viso data dall’uso del byakugan, ogni forma espressiva, ogni filamento di tessuto; mi sforzai di rilassare i muscoli facciali cercando di far fluire il chakra attraverso canali minori, invisibili, silenziosi… vedevo il sangue e ne distinguevo il colore, lo scorrere ora più lento, ora più veloce, i battiti regolari del cuore… settantadue, settantaquattro, poi di nuovo settantadue al minuto, una frequenza che cresceva assieme all’aumentare della concentrazione, si regolarizzava ad ogni sospiro profondo e impercettibile all’occhio umano. I polmoni si gonfiavano con lentezza, aspiravano ossigeno, rigettavano anidride carbonica; penetravo ogni millimetrico movimento dei muscoli, e dietro a loro il pulsare delle vene; sfibravo ogni filamento nervoso, epidermide, cellule, cromosomi… all’interno di ogni organismo vivente e non, all’interno di qualsiasi cosa avesse forma, origine, colore fino ad arrivare alla fonte…
il flusso del chakra di Neji, sistematico, ordinato, impeccabile e senza sbavature, dal cervello agli occhi, dagli occhi al cervello, e di nuovo il cuore, settantadue battiti settantaquattro, settantotto…

Mi fermai, ritirai il byakugan con uno scatto veloce mentre mi si appannava la vista. Neji, al di là della sua espressione ipnotica, al di là della sua immobilità, mi fissava senza muovere un muscolo. Il battito alterato del suo cuore non si fermava con lo spezzarsi della concentrazione, il mio aumentava senza che io gli imponessi alcuno sforzo; continuammo a guardarci, immersi nel mormorio sommesso degli ospiti di mio padre, ma estraniati da ogni rumore, da ogni coinvolgimento che non fosse emotivo.
Fu l’istinto atavico del nostro potere innato a farmi cercare di nuovo gli occhi di Neji, il flusso frammentario e anomalo del suo chakra, dal cuore ai polmoni, il petto infiammato dal fluire vorticante, la schiena, il collo e su fino al cervello per raggiungere l’ebbrezza della ragione e piombare di nuovo al cuore.. per tornare agli occhi, tornare al cervello, una corrente ora ininterrotta, ora violenta…
Il byakugan ci mostrava ciò di cui non eravamo consapevoli; lo sguardo invadente degli occhi bianchi che esploravano ogni angolo, ogni arto, ogni osso, ogni tessuto e oltre… alla ricerca irriverente di quel desiderio che si sprigionava dal ventre e saliva attraverso il sistema circolatorio del chakra, a scatti, liberato e represso, senza la spinta coordinata e attenta data dalla concentrazione, ma con la discontinuità dell’istinto.
Sentivo la pressione del byakugan di Neji, lo stesso byakugan che mi apparteneva per discendenza, lo stesso byakugan del quale conoscevo funzioni e disfunzioni, articolazione e comportamento… ne percepivo i movimenti, le ricerche, l’oppressione psicologica che, quella volta, non era angosciante.
Dal collo alle spalle, attraverso i condotti più sottili, attraverso le vene, addosso alle vene, il sangue che si muoveva più veloce, i battiti del cuore che aumentavano… settantotto, settantanove, ottanta…
Ritirai di nuovo il byakugan, intimorita, spaventata dal movimento dei suoi occhi su di me, dal flusso singhiozzante del suo chakra, dalla sua ostilità repressa nel desiderio, dalla tensione che avvertivo con ogni parte di me, dal movimento intermittente del mio stesso chakra e dal rossore impulsivo delle mie guance.

Mio padre, estraniandosi dai tediosi discorsi ai quali fino a poco prima partecipava assieme ai suoi commensali, teneva gli occhi fissi sui suoi eredi che si stavano scambiando gli stessi sguardi, con l’utilizzo del byakugan ai minimi termini, con il solo desiderio di abbattere la sottile barriera dell’indifferenza. Lo sguardo esperto e perforante del signor Hiashi Hiyuga, poteva vedere ogni minima alterazione del chakra nei nostri corpi, ogni flusso, ogni cambiamento, dal cuore ai polmoni, dal cervello agli occhi, al collo, alle spalle…
Non disse una parola, ma in quel momento tutti furono in grado di vedere il disappunto disegnato sul suo volto inespressivo ed ebbero la saggia idea di accomiatarsi, percependo la tensione che si era creata sebbene non ne comprendessero il motivo.
Restammo soli, io Neji e lui, la mia vita perfettamente riassunta in quella sala dei ricevimenti disordinata e deserta; mio padre continuò a fissarci in silenzio, quasi come se avesse voluto farci misurare il peso della nostra colpa, farci sentire peccatori; noi non osavamo parlare.
Neji sosteneva lo sguardo di mio padre con fierezza mentre io avevo perso ogni residuo di forza o desiderio di ribellione…
“Hinata…” Hiashi Hyuga mosse appena le labbra per parlare in un sibilo d’aria calda “vai nella tua stanza” alzai la testa, mossi le mani nella sua direzione nel tentativo di protestare quell’ultimo ordine ma lui mi precedette “non azzardarti a replicare” mi alzai con rassegnazione, riluttante al pensiero di lasciare Neji da solo… riluttante al solo pensiero di lasciare Neji.
Le ultime parole di mio padre mi inseguirono mentre salivo i gradini della scala di legno uno ad uno, come un patibolo
“che non si ripeta mai più”


*** un ringraziamento speciale a Levy aka Sundy e alle sbornie del sabato sera, grazie alle quali
   
 
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