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Autore: Adeia Di Elferas    28/01/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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“Non sta bene?” chiese Jacopo, avvicinandosi solerte alla moglie, che teneva tra le braccia la piccola Maria.

La bambina, che non aveva ancora cinque mesi, ricambiò lo sguardo del padre con un misto di timidezza e curiosità. A vederla così, sembrava stare bene, ma per il Salviati era strano, tornare a casa a quell'ora tarda e trovare Lucrezia stesa a letto con la piccola.

“Sì, sì, adesso sta bene...” fece piano la Medici, abbozzando un sorriso, ma non andando oltre nella spiegazione.

Sapeva che quel giorno, alla Signoria, si dovevano discutere tante cose, in particolare se accettare o meno le richieste sempre più insistenti che arrivavano dal campo francese stanziato in Romagna. Il figlio del papa aveva ordinato a Firenze di fargli avere polvere da sparo in quantità ingenti e molte munizioni.

Quando Jacopo le aveva riportato per filo e per segno ciò che il Valentino richiedeva, la donna aveva capito subito che la città non sarebbe stata in grado di fornire un simile sostegno, a meno di non lasciare completamente sguarnite le proprie difese. Di contro, però, Lorenzo premeva come non mai per dare man forte ai soldati di Luigi XII, nella speranza che spazzassero via una volta per tutte la cognata e, dunque, la decisione che si sarebbe presa in merito a quegli approvvigionamenti, per la città aveva più una valenza in politica interna, che estera.

“Dimmi la verità.” disse piano il Salviati, sedendosi sul letto e allungando una mano verso l'ultimogenita, sfiorandole appena la fronte: “Non stava bene?”

Lucrezia non voleva dirgli che aveva preso con sé Maria solo per distrarsi, per non pensare continuamente a cosa stesse succedendo tra i membri del consiglio cittadino e, soprattutto, al fatto che lei, in quanto donna, non avrebbe mai e poi mai potuto essere presente di persona in momenti come quello.

“Niente, veramente.” ribadì lei: “Si è svegliata piagnucolando e così ho pensato che avesse fatto un brutto sogno, ma ora sta bene...”

L'uomo sembrò convincersi, e così la Medici non ebbe più bisogno di cercare nuove scuse. Mentre Jacopo iniziava a spogliarsi e a cercare gli abiti da camera, Lucrezia si arrischiò a fare una mezzo sospiro, sperando che fosse lui a parlarle delle decisioni della Signoria, senza dovergli chiedere esplicitamente notizie.

Proprio mentre la moglie stava per perdere ogni speranza, il Salviati si schiarì la voce e, andando a spegnere un paio di candele, disse: “Si è deciso di non mandare nulla, in Romagna.”

La sorpresa fu così grande, per la donna, che fece un breve scatto sul posto, abbastanza repentino da far spaventare un po' Maria, che protestò con una smorfia.

Jacopo capì, a quel punto, che era stata l'ansia a tenere sveglia la moglie, e non i capricci della piccola. Così, smettendo di cambiarsi, tornò sul letto e le spiegò il dibattimento di quel giorno.

La Medici ascoltò in silenzio, mentre l'uomo le raccontava dalla strenua opposizione fatta da Lorenzo, e di come, per la prima volta, anche alcuni dei suoi partigiani avessero espresso apertamente la loro perplessità, riguardo a quello che stava succedendo in Romagna. Alla fine si era deciso di non mandare nulla al Valentino solo per una mera questione matematica, dato che, come previsto da Lucrezia, le pretese del figlio del papa andavano ben oltre le possibilità concrete della Repubblica, ma comunque il Popolano era rimasto il grande sconfitto della giornata.

“Certo...” concluse il Salviati, mentre il sorriso che gli si era acceso sul volto di rimando a quello della moglie iniziava a spegnersi: “Ora bisognerà vedere come reagirà il papa. Se questo per Firenze non sarà un suicidio, sarà comunque un duro colpo...”

“Il papa non ha ancora capito che razza di diavolo scatenato ha evocato, chiamando in Italia il re di Francia.” commentò a denti stretti Lucrezia, ignorando Maria, i cui occhi pacifici passavano senza sosta tra la madre e il padre, con apprensione per i toni tesi che animavano le loro voci: “Quando se ne accorgerà, non avrà più tempo per correre dietro a Firenze. Avrà già il suo da fare a non farsi mangiare da Luigi, altro che fare la voce grossa con noi...”

Il marito la fissò per un lungo istante. Avrebbe voluto smontare la sua sicurezza e dirle che, a parar suo, Alessandro VI era una volpe dai denti molto più affilati del re di Francia. Tuttavia, non avendo alcuna intenzione di farla arrabbiare, si limitò ad annuire.

“Spero che tu abbia ragione.” soffiò: “Perché se fosse così, allora anche il destino di Lorenzo sarebbe segnato.”

“E potremmo riportare l'ordine e la giustizia nella nostra bella Firenze.” concluse la Medici, dando un bacio veloce sulla fronte di Maria, che, ignara del significato profondo delle parole della madre, si esibì in un breve gorgheggio di apprezzamento.

 

Caterina era irrequieta. Non riusciva a stare ferma e appena qualcuno le rivolgeva la parola, finiva per abbaiare qualche risposta secca e si allontanava, evitando di portare avanti il discorso.

Ciò che quel giorno la rendeva nervosa era la presa di coscienza della propria momentanea codardia. Quella mattina, infatti, una volta messi a punti gli ultimi dettagli, si era decisa per far partire dalla rocca, entro sera, Sforzino e Bernardino. Doveva dar loro qualche ora per prepararsi, ma, invece di essere lei stessa ad andare dai figli a riferire quanto deciso, aveva preferito mandare avanti Bianca.

La ragazza, per un breve istante, l'aveva guardata con insistenza, sia per farle capire che non sarebbe stato compito suo, sia per chiederle tacitamente quando, invece, sarebbe arrivato il suo turno di andarsene. La Tigre non aveva voluto rispondere apertamente né alla velata critica, né alla legittima richiesta, e così la Riario aveva solo potuto chinare il capo e dire che avrebbe fatto quel che le era stato chiesto.

Solo che, mentre si avvicinava il tardo pomeriggio e, con esso, il momento della partenza di Sforzino e Bernardino, la Sforza iniziava a essere insofferente a tutto. Fu proprio quando suo fratello Alessandro, ignorando il suo cattivo umore, l'avvicinò per ridiscutere nuovamente dell'opportunità di cercare un punto di contatto quanto meno con Yves d'Alégre, secondo lui il più moderato tra i francesi al seguito del Borja, che la Leonessa si decise ad andare dai suoi figli, per scambiare con loro qualche parola in solitudine, prima di separarsi per sempre da loro.

“Ne parleremo in un altro momento.” congedò il fratello, senza dargli nemmeno il tempo di finire la frase che stava dicendo.

Lo Sforza non si oppose, vendendo in quell'interruzione solo la ferma volontà di non scendere a patti con il nemico per alcun motivo, e lasciò la sorella libera di andare.

La Contessa cercò i figli nella loro stanza, ma vi trovò solo le balie con Giovannino. Chiese loro dove potessero essere il piccolo Feo e Sforzino e seppero darle indicazioni solo su quest'ultimo.

Da qualche giorno, Caterina aveva congedato i precettori dei figli, per far sì che meno gente si accorgesse poi della loro assenza. Sforzino pareva aver sofferto moltissimo di quella decisione, a detta di chi lo conosceva meglio di lei, e passava ugualmente buona parte delle sue giornate a studiare in solitudine, cercando di colmare il vuoto lasciato dagli insegnanti.

E infatti, come indicato dalle balie, la donna trovò il dodicenne chino su un grosso volume di teologia, nella sala delle letture. Quando il Riario si accorse di lei, smise a malincuore di leggere e sollevò lo sguardo in sua direzione.

“Perdonatemi – disse piano – so che dovrei prepararmi ad andarmene, ma...”

La Tigre non aprì bocca, curiosa di sentire dalla voce del figlio ciò che lo tormentava. La spiegazione non si fece attendere.

“So che non potrò leggere questi libri, quando lascerò questa rocca...” deglutì, accarezzando malinconico la pagina su cui avrebbe passato le ore ad analizzare una frase dopo l'altra, se solo avesse potuto: “So che non rivedrò mai più nessuno di questi volumi e...”

“Se fosse possibile – intervenne la Leonessa, cauta, evitando di dirsi un po' delusa nel sapere che egli rimpiangeva più la prossima perdita di quei tomi, piuttosto che quella della madre – te li lascerei portare tutti a Firenze. Ma sai che dovrete viaggiare leggeri, e in incognito.”

Il ragazzino annuì, il volto rubicondo che si imporporava un po', facendo capire quanto si vergognasse di quello che lui stesso riteneva un moto di egoismo: “Dico solo che mi mancheranno molto.” ribadì.

“Con i gioielli che Argenti ha cucito nei tuoi abiti – gli fece presente la donna, sempre restando a distanza, quasi sulla porta, come se avvicinarsi le fosse proibito da qualche legge non scritta – una volta che sarai al sicuro, potrai comprarti altri libri. Continuerai a studiare e sono certa che un giorno la tua cultura ti darà di che mangiare tutti i giorni.”

Il Riario annuì, ma non sembrò troppo persuaso dalle sue parole. Con un sospiro pesante, lasciò il libro aperto, posandolo accanto a sé sul divanetto e poi si alzò, andandole incontro incerto.

La donna capì quello che il figlio aveva intenzione di fare e così, incoraggiante, aprì appena le braccia e tentò di sorridere.

Mentre Sforzino arrivava finalmente a rompere gli indugi e abbracciarla, la Contessa gli sussurrò, ferma: “Ti ho chiamato Francesco Sforza, come il tuo bisnonno, uno dei più grandi condottieri che siano esistiti. So che tu non ami le armi, ma ricordati che una mente acuta può essere più letale di una spada affilata. Farai onore al nome che porti.”

Il ragazzino ascoltò attentamente quelle parole e poi, con lo stesso tocco di freddezza che aveva mosso i suoi gesti fino a quel momento, sciolse l'abbraccio e fece un passo indietro: “Cercherò di non deludervi.” promise.

“Avrei voluto conoscerti di più.” si lasciò sfuggire la Leonessa, rendendosi conto, mentre scrutava lo sguardo vigile, ma tutto sommato sereno, di Sforzino, di aver sempre sottovalutato e messo da parte quel figlio, molto più di tutti gli altri.

Era stato l'ultimo nato dalla sua sciagurata unione con Girolamo. Non l'aveva voluto, all'inizio, aveva addirittura pensato di non farlo nemmeno nascere. Aveva cavalcato fino a Milano e ritorno, incurante della sua salute, e, quando l'aveva dato alla luce, a parte scegliere per lui un nome che le era gradito, se n'era completamente disinteressata. Non gli aveva mai fatto mancare nulla, né l'istruzione, né tanto meno il cibo e, forse perché quelle erano state le uniche attenzioni ricevute, Sforzino si era sempre dimostrato ingordo di entrambe.

“C'è poco da sapere su di me.” si schermì il dodicenne: “Vorrei solo vivere tranquillo e morire anziano.”

Non erano due sogni semplici da realizzare, ma la madre volle instillargli un po' di speranza: “Io sono certa che ce la farai. Beati i miti, perché erediteranno la Terra.”

Il Riario, felicemente sorpreso di sentire la madre citare le Scritture, le dedicò il primo vero sorriso dall'inizio di quell'incontro e, le guanciotte tonde rosse come il fuoco, ribatté: “Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati.”

La Sforza comprese l'intento consolatorio del figlio, che voleva darle coraggio, farle capire che per quell'ingiusta guerra mossale dal papa avrebbe trovato una ricompensa, al momento giusto.

Malgrado ciò, però, l'unica cosa che riempì il cuore della Contessa in quel momento fu solo un profondo senso di vuoto: “Appena puoi, quando farà buio – gli disse, con lo sguardo triste – indossa gli abiti che ti ho fatto preparare, esci dalla rocca assieme a frate Monsignani e fatti portare fino in Duomo. Aspetta lì per un po', fingi di pregare, e poi lascia la chiesa e vai a casa Numai. Lì ti diranno dove stare e come comportarti. Tra qualche giorno, quando sarà il momento, tu e i tuoi fratelli partirete per Firenze.”

Sforzino prese nota mentale di tutte le indicazioni, e poi, incerto, chiese: “Possiamo fidarci del frate che mi avete detto?”

“Sì.” disse in fretta la donna: “E, comunque, non gli ho detto dove stai andando. Gli ho solo chiesto di accompagnarti al Duomo.”

Il ragazzino annuì e poi, non riuscendo più a sostenere lo sguardo della madre, come se si fosse reso conto solo in quel momento che si stavano dicendo addio per sempre, imbarazzato balbettò, indicando il tomo ancora aperto sul divanetto: “Allora... Allora, ecco, dato che ne ho il tempo... Se posso, vorrei... Vorrei finire di rileggere questa parte...”

Caterina capì l'antifona e, un piede già verso la porta, lo salutò, un po' burbera: “Ricordati di me, quando sarai grande.” e, lasciandoselo alle spalle, si allontanò a passo svelto dalla sala delle letture, asciugandosi una lacrima furtiva con il dorso della mano.

Ora doveva andare a cercare Bernardino e parlare anche con lui. Se non l'avesse fatto, se ne sarebbe pentita. Per quanto male potesse farle, un addio, si trattava comunque di qualcosa che andava affrontato.

Non aveva idea di trovare il figlio avuto dal secondo marito, così, sperando in bene, bloccò il castellano, di passaggio in corridoio, e gli chiese se l'avesse visto da qualche parte.

“Certo che so dov'è...” borbottò il cremonese, facendo una sguardo torvo: “Poco fa si è azzuffato con un paio di reclute, due di quelle molto giovani, perché... Ah, non so, non ho capito nemmeno io che è successo. Comunque adesso l'ho mandato all'armeria a pulire le corazze, per fargli capire che non deve attaccar briga con i soldati.”

La Tigre dubitava che Bernardino si fosse piagato così facilmente all'ordine del castellano, tuttavia, diede per buona la sua indicazione e, ringraziandolo con un cenno del capo, andò alle scale, sperando di trovare il figlio ancora nella sala della armi.

 

Il ventinovenne Bartolomeo Tromboncino stava suonando senza tregua da quasi due ore. La Marchesa di Mantova lo fissava assorta, quasi senza muoversi, fin dalla prima nota.

Aveva bisogno di pensare e, non riuscendo a farlo nel suo studiolo, per colpa delle tante pretese che chiunque sembrava avere nei suoi confronti quel giorno, aveva preferito mettersi ad ascoltare il musicista, prendendo la sua esibizione come scusa per non dover prestare l'orecchio a nessun altro.

Mentre il fiato potente di Tromboncino dava vita alle sue melodie, Isabella si trovò per un attimo a distrarsi, pensando a come fosse incredibile immaginare quell'uomo intento a uccidere la moglie. Le stesse dita che accarezzavano lo strumento che teneva stretto tra le mani, solo a luglio avevano tolto la vita a una donna.

Francesco, quando aveva saputo di quel fattaccio – solo l'ultimo di una lunga serie di drammi collegati al carattere collerico di Bartolomeo – aveva suggerito di mandarlo via. Era stata l'Este a impedirglielo, incapace di privarsi di un simile artista solo perché aveva ammazzato la moglie fedifraga.

“L'unico suo errore – aveva detto al Marchese, per chiudere una volta per tutte la questione – è stato non uccidere anche l'amante di lei. Avrebbe fatto vera giustizia, in quel caso. Ha dato tutta la colpa a lei, quando invece in quel letto erano in due... Ma, in fondo, tutti possono fare un errore di giudizio.”

Non si era più sollevato il discorso di quel crimine e così a Tromboncino era stato permesso di continuare la sua vita agiata a corte, sotto gli occhi ammirati e a tratti amorevoli della sua signora.

Pensosa, Isabella si sfiorò il ventre in cui stava crescendo una nuova vita. Sperava che quella volta nascesse un maschio, in modo da dare a Mantova l'erede di cui tanto aveva bisogno. Mai come in quel momento c'era stato bisogno di una speranza per il Marchesato.

Ciò che tormentava l'Este quel pomeriggio era il pensiero costante delle voci che aveva sentito. Si diceva che il Moro, leccatosi le ferite a Innsbruck, si stesse risvegliando e stesse radunando uomini per provare a riprendere Milano. Di contro, però, la donna aveva notizie abbastanza certe che volevano sua cugina, Isabella d'Aragona, pronta a scappare dal Ducato.

La situazione era così incerta, che alla Marchesa sembrava impossibile decidere da che parte stare, e, per fortuna, anche suo marito Francesco aveva la stessa sensazione e, quindi, per prudenza, non si stava sbilanciando in nessun senso.

Certo, sarebbe venuto il tempo di mediare, e, probabilmente, il loro interlocutore sarebbe stato il figlio del papa, sulla carta vincitore annunciato. Però l'Este preferiva rimanere cauta, non urtare nessuno e, finché le era possibile, trincerarsi dietro la sua maschera da mecenate disinteressata, raccogliendo artisti e pensatori da ognuna delle corti che sarebbero cadute in pezzi tra le mani del Borja.

Primi fra tutti, sperava di accaparrarsi il maestro Leonardo da Vinci e il matematico Pacioli, un frate così capace coi numeri e le formule che Isabella non poteva sopportare di non conoscere e mettere alla prova. Entrambi, aveva saputo, desideravano lasciare Milano. Lei aveva prontamente tentato di intercettare il loro bisogno di un nuovo finanziatore e stava aspettando le loro risposte.

Francesco non era stato troppo contento, quando gliene aveva fatto cenno. Per lui, ogni letterato o scienziato in più a corte era solo un'inutile bocca da sfamare.

Bartolomeo si stava dilungando in un virtuosismo che la Marchesa trovò quasi stucchevole, tuttavia, dato che proprio in quel momento il Gonzaga si era affacciato per vedere chi stesse suonando e chi, eventualmente, stesse facendo da pubblico, la donna si finse letteralmente rapita da quella dimostrazione di bravura, arrivando perfino ad applaudire.

L'artista, che fino a quel momento non aveva avuto dalla sua signora nessun cenno concreto di apprezzamento, fece un sorriso un po' sorpreso, e, interrompendo la musica, si esibì in un mezzo inchino.

“L'Italia è percorsa da guerre – sbottò il Marchese, dedicando un'occhiataccia al Tromboncino – e qui si continua a fare come se fossimo a una festa...”

“Vuoi un Marchesato forte e degno di ammirazione?” chiese, retorica, Isabella, senza guardarlo: “E allora lascia che i musici suonino, i poeti compongano e i pittori dipingano. A combattere ci pensino i soldati.”

Francesco fece una smorfia e poi, facendo cenno al suonatore di andarsene, si rivolse alla moglie con tono contrariato: “Ti sembra bello, passare del tempo da sola con... Con quello?”

“Prima piaceva anche a te.” gli ricordò la moglie: “E comunque non abbiamo fatto nulla di sconveniente. Lui suonava la sua tromba e io ascoltavo. Mezzo palazzo l'avrà sentito, quindi puoi chiedere conferma a chi ti pare...”

La Marchesa fece per alzarsi e, per trattenerla, il marito l'afferrò per il braccio: “E quei due che devono arrivare da Milano? Alla fine ti hanno degnata di una risposta o...”

“Lasciami.” ordinò lei, con una perentorietà che convinse l'uomo a mollare all'istante la presa.

Francesco e Isabella si fissarono per qualche istante negli occhi. Tra loro non corsero parole, ma in quello sguardo penetrante erano racchiuse reciproche recriminazioni e accuse e, anche se molto velata, una richiesta di riappacificazione. Entrambi avrebbero voluto appianare le loro divergenze, ma nessuno dei due voleva fare il primo passo, né, tanto meno, avrebbe saputo come fare.

“Perché non passi qualche giorno a Marmirolo?” chiese l'Este, distogliendo per prima lo sguardo e passandosi, nervosamente, una mano sul ventre: “Perché mi sembra evidente che la nostra convivenza, al momento, ti irrita e basta.”

L'uomo schiuse le labbra, gli occhi asimmetrici che tentavano invano di intercettare di nuovo quelli della sua donna, e poi, scuotendo il capo, rispose: “No, voglio essere in città, nel caso succedesse qualcosa. Se ci fossero novità dal fronte, io...”

L'Este sbuffò e poi, scansandolo con aria di sufficienza, ribatté: “Come preferisci. Anche se mi sembra che ormai nessuno più si ricordi dell'eroe di Fornovo...”

“Potresti andarci tu, per un po', a Marmirolo.” rilanciò il Marchese, ormai furente: “Portandoti appresso un po' di questi scrocconi che chiami artisti!”

“E come potrei lasciare Mantova?” rise lei, aggressiva, andando verso la porta: “Nelle tue mani, questo palazzo diventerebbe come un casino di caccia e, al mio ritorno, non saprei come far andar via l'odore di stalla... Per tacere delle donnacce che ti porteresti in casa... Per levare il tanfo di quelle, dovrei far bruciare lavanda e paglia in ogni stanza...”

Il Gonzaga avrebbe voluto ribattere, difendendosi, ma la moglie si era già allontanata, lasciandolo da solo con il proprio rimuginare.

 

Bernardino era davvero nell'armeria, come il castellano aveva detto. Solo che, invece di essere intento a lucidare le armature, stava curiosando tra le cuspidi che andavano ancora montate sulle aste delle frecce. Era così assorto, nella controllata confusione del brulicare di soldati della sala della armi, che non si accorse della madre finché non se la trovò alle spalle.

“Vieni con me.” gli sussurrò Caterina, facendogli un cenno con il capo.

Il ragazzino, che quella mattina era rimasto atterrito, quando la sorella gli aveva detto che avrebbe dovuto lasciare per sempre Ravaldino prima della notte, guardò la madre trattenendo il fiato, temendo che fosse giunto il momento di dirle addio.

La Sforza comprese la sua paura e, nella speranza di attenuarla, aggiunse: “Non è ancora ora, ma non manca moltissimo. Prima, però, devo parlarti un secondo.”

Mansueto come non era mai stato, il Feo seguì la madre fuori dall'armeria, standole alle spalle, senza cercare di scappare, come invece faceva di solito.

Da quando alla rocca erano arrivati i nuovi soldati, era difficile trovare un angolo tranquillo. La Tigre pensò alla sua stanza, ma poi preferì un campo più neutro, dove il figlio non potesse avvertire il sentore dei suoi tanti amanti, né della sua condotta discutibile. Lo portò allo studiolo del castellano, in quel momento deserto.

Rimasti soli, con la porta chiusa, madre e figlio restarono in silenzio per un po'. Caterina non sapeva cosa dirgli di preciso. Avrebbe voluto fargli sapere che, quando abbassava lo sguardo a quel modo e allacciava le mani dietro la schiena, le ricordava come non mai il padre. Avrebbe voluto dirgli che era bello, che era intelligente, anche se riottoso allo studio, e che, malgrado tutto, era anche un bravo bambino.

Invece, quando finalmente riuscì a trovare la voce, chiese: “Hai ancora il pugnale che ti ho dato?”

Il piccolo Feo annuì e, a scopo dimostrativo, lo estrasse dal suo nascondiglio segreto con una velocità e una maestria che strapparono un sorriso soddisfatto alla Leonessa.

“Farai il bravo?” domandò poi la Contessa, tornando seria.

Bernardino stavolta non rispose, nemmeno con un cenno del capo. La donna non insistette. Sapeva che avrebbe dovuto assicurarsi che lui avesse capito l'importanza di fare quello che gli avrebbero detto di fare, e sapeva anche che avrebbe dovuto sgridarlo per aver attaccato briga anche quel giorno con dei soldati della rocca. Ma non voleva fare nessuna delle due cose.

Gli fece segno di avvicinarsi e, mentre si inginocchiava, per trovarsi più o meno alla sua altezza, disse: “Tuo padre è stato il più grande amore della mia vita e avrei voluto essere capace di amare di più anche te.”

La scelta delle parole non era stata la migliore, da parte della Sforza e la donna se ne accorse solo quando il ragazzino si accigliò un po', mordendosi il labbro carnoso e guardando altrove.

“Non è quello che volevo dire...” tentò di riparare lei, incrinando l'angolo della bocca: “Non sono brava a esprimere quello che provo.”

“Non sono bravo nemmeno io.” fece eco il Feo.

“Ecco, vedi?” fece la madre, sfruttando quella piccola apertura del figlio: “Ci assomigliamo abbastanza da capirci.”

Colta da una vertigine improvvisa, all'idea che quelli erano gli ultimi momenti in cui lei e il figlio avuto da Giacomo potevano restare soli e confrontarsi, la Contessa si sbilanciò in avanti e lo strinse a sé con forza: “Ricordati sempre che sei stato amato e voluto, e che se non sono stata in grado di dimostrartelo, non significa che non fosse così.”

Bernardino stava zitto, ma dal modo in cui il suo respiro si era fatto irregolare e da come stringeva le stringeva le braccia attorno al collo, Caterina capì che quella dichiarazione aveva fatto centro.

“Indosserai gli abiti che ti ha preparato Argentina. Ti sembreranno pesanti, ma è solo perché tra le cuciture ho fatto nascondere dei gioielli. Usali solo quando sarà necessario.” prese a dire la Tigre, con una fretta che alimentava ancora di più la tensione provata dal ragazzino: “Verso sera uscirai dalla rocca, girerai un po', come fai di solito, e poi passerai davanti a casa Numai, quando sentirai battere le dieci di sera.” proseguì: “Qualcuno, dalla porta di servizio, ti farà un cenno e tu lo seguirai. Da allora farai quello che ti diranno e basta, intesi?”

Bernardino annuì, non accennando a lasciare la presa.

“Diventerai un uomo bellissimo e dalla mente svelta.” sentenziò la Leonessa, sciogliendo l'abbraccio, malgrado le resistenze del figlio: “Impara a controllare il sangue caldo che hai ereditato da me, e non dovrai preoccuparti di nulla.”

“Vi voglio bene.” quella dichiarazione era uscita dalle labbra del ragazzino come se stesse rivelando un segreto.

“Anche io te ne voglio. Te ne ho sempre voluto.” assicurò la madre e poi, scompigliandogli un po' i capelli, morbidi e mossi com'erano stati quelli di Giacomo, concluse: “Bada ai tuoi fratelli e non metterli in pericolo.”

Il Feo annuì e poi, capendo che la madre stava per chiudere il loro incontro, si sentì in dovere di confessare: “Lo spadone a due mani... Non ho fatto in tempo a imparare a usarlo come si deve.”

“Ne avrai, di tempo.” lo incoraggiò Caterina, sorridendogli: “Quando sarai a Firenze, potrai imparare a usare lo spadone e mille altre cose. Crescerai e troverai la tua strada.”

Bernardino annuì e, vedendo la porta che si stava già aprendo, fece un sospiro e sussurrò: “Non vi scorderò. E difenderò il vostro nome per sempre.”

La donna fu orgogliosa di sentirlo parlare a quel modo, ma uno stretto nodo alla gola le impedì di farglielo presente. Gli diede un lento bacio sulla fronte e poi, in silenzio, lo accompagnò nel corridoio gremito di gente.

Gli fece un cenno di saluto e il ragazzino, per sfuggire alla commozione, ricambiò e corse subito via, mescolandosi tra i soldati, sparendo una volta per tutte dalla vista della madre.

 
   
 
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