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Autore: Adeia Di Elferas    04/02/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Bianca era sveglia da almeno un'ora. Ascoltava assorta il respiro del ragazzo che dormiva accanto a lei e, intanto, tentava di ricordare il più possibile quello che era successo quella notte, cercando di rimettere in ordine la piacevole confusione che le agitava ancora l'anima.

Dopo la sua iniziale spavalderia, la Riario aveva avuto un momento di incertezza. Si era chiesta se stesse facendo la cosa giusta e se il rischio che stava correndo fosse commisurato a ciò che avrebbe ottenuto. Mentre si perdeva in questi pensieri, il soldato le aveva preso le mani con le sue e le aveva baciate.

Si era fatto serio e poi le aveva sussurrato: “Queste non sono mani da signora...”

La ragazza, abbassando lo sguardo, aveva intravisto le screpolature che si era guadagnata aiutando le cuoche, e anche un taglietto che si era fatta giusto quella mattina, mentre tagliava le verdure.

“Mi sono tagliata in cucina...” aveva detto, a mo' di scusa, cercando di ritrarre le mani.

Il giovane le aveva tenute più saldamente e aveva commentato: “Questo è uno dei motivi per cui mi piaci così tanto...” e, con una risata, era riuscito a stemperare in un colpo tutta la tensione del momento.

Da quel punto in poi, per Bianca era stato tutto semplice. Aveva sentito volentieri il suo peso addosso, l'odore della sua pelle, la sua presenza ingombrante e il suo respiro sul collo. L'ansia e la paura di farsi male erano sparite in fretta, man mano che prendeva confidenza con quello che stava succedendo, acquistando una nuova sicurezza.

Aveva seguito il corso degli eventi, senza temere di sentirsi sporca o volgare per quello che stava facendo. Si era presa il suo tempo, senza fretta, assecondata da un ragazzo che pendeva dalle sue labbra e faceva tutto quello che lei gli chiedeva.

E poi, quando non avevano avuto più fiato da dare alla passione, si erano acquietati entrambi, stanchi e con il suore che ancora galoppava, e lei, nel giro di pochi minuti, si era assopita, cullata dalle braccia del suo amante.

La Riario fece un sospiro, continuando a fissare il giovane che riposava accanto a lei. A breve sarebbe sorto il sole. Non voleva che qualcuno lo trovasse lì. Avrebbe voluto svegliarlo, ma le piaceva guardare il suo corpo mentre era così rilassato e immerso in chissà quali sogni.

Aveva già pensato di chiedere alla sua amica, la stessa con cui aveva passato ore a guardare di nascosto i soldati che facevano il bagno, di pensare lei a riordinarle il letto, per evitare chiacchiere.

Con un sospiro lento, mentre nella sua mente riaffiorava un'immagine vivida di se stessa che si aggrappava alla schiena del giovane che le stava vicino, Bianca si trovò a capire un po' meglio sua madre. Non approvava il suo comportamento spesso eccessivo, specie in certi momenti della sua vita, ma cominciava a comprendere di più le sue ragioni. In un certo senso, quella notte le era servita soprattutto per giudicare la Tigre in modo meno severo.

Con un mezzo sbadiglio, il ragazzo si svegliò da solo mentre la Riario ancora lo stava fissando.

Le sorrise, tranquillo, e allungò le braccia verso di lei, per stringerla a sé. La giovane non si negò, apprezzando ancora il calore del suo corpo, e, anzi, le sembrò ancora più gradevole, come se, tolte le paure che l'avevano attanagliata fino alla sera prima, quel gesto fosse il più naturale del mondo.

“Te l'avevo detto – sussurrò lui, con la voce arrochita dal sonno, stringendo un po' gli occhi – che alla fine avrei visto l'alba stando coricato su questo letto abbracciato a te.”

Il sole stava davvero sorgendo e Bianca si sentì cogliere da un improvviso panico. Nell'arco di poche ore avrebbe dovuto lasciare quella rocca, che per lei era stata una vera casa, e avrebbe dovuto dire addio per sempre a sua madre. Sarebbe stato difficile, non solo lasciarsi tutto alle spalle, ma anche il viaggio e l'arrivo a Firenze...

“Va tutto bene?” chiese il soldato, avvertendo la tensione nelle membra della giovane.

“Lo sai che me ne devo andare...” disse lei, deglutendo e affondando per un momento il volto nel collo di lui: “E ora devi andartene anche tu. Non voglio che qualcuno ti trovi qui.”

“Ci dobbiamo dire addio?” chiese lui, con un filo di voce.

“Resterai a combattere al fianco di mia madre fino alla fine?” domandò di rimando la Riario: “La proteggerai come meglio potrai?”

“Combatterò per lei e per la libertà della mia terra – confermò lui – l'ho giurato e non mi tiro indietro dai giuramenti.”

“Allora giurami ancora due cose.” rilanciò la Riario, restando contro il suo petto e sfiorandogli le labbra con le dita: “Che non andrai mai a letto con lei e che non parlerai mai a nessuno di stanotte.”

Il ragazzo parve pensarci sopra un momento e poi, annuendo, decretò: “Lo giuro.”

Soddisfatta per avergli strappato quella promessa, Bianca soffiò: “Adesso dobbiamo alzarci, ormai è l'alba e io ho ancora molte cose da fare...”

Il tono pragmatico con cui la giovane aveva parlato, ricordò al soldato il modo sbrigativo di parlare della Contessa e, in quel momento, mentre la ragazza si alzava dal letto, nuda e bellissima, per cercare i propri abiti, madre e figlia gli parvero molto più simili di quanto non gli fossero sembrate prima di allora.

 

Caterina era seduta contro la testiera del letto e guardava Monsignani mentre si rivestiva. Aveva molte domande che le giravano per la mente e che avrebbe voluto sottoporre al frate. Solo che, se n'era resa conto in modo distinto solo quella mattina, il tipo di rapporto che si stava instaurando tra loro le rendeva difficile trattarlo come un consulente spirituale.

E così, mentre il venticinquenne armeggiava con la corda che gli stringeva il saio alla vita, la donna si limitava a fissarlo, tenendo i propri dubbi per sé.

Nel modo in cui il giovane si controllava di quando in quando nello specchietto che la Tigre teneva sulla scrivania, la Contessa poteva scorgere in lui qualcosa che, a prima vista, non si poteva notare.

Vangelista non era vanitoso, di quello era abbastanza certa, ma prestava comunque molta attenzione al suo aspetto, facendo sì che fosse sempre consono a quello di un religioso pio e, seppur votato alla povertà, molto ordinato.

Così, intanto che il giovane si sistemava con cura i capelli, rimasti arruffati dopo la notte confusa che la Sforza gli aveva fatto passare, a Caterina tornarono in mente le parole che lui stesso le aveva detto qualche ora prima.

In un momento di tregua si erano messi a discutere su Catullo e Monsignani l'aveva sorpresa sostenendo di ritenere 'arida modo pumice expolitum' il verso più interessante di tutta l'opera del poeta latino. La Leonessa non si era attesa di sentirlo discorrere tanto prontamente su quell'autore, data l'alterna fama di cui godeva presso i letterati, ma apprezzò il suo nuovo modo di esporne la poetica.

Arida modo pumice expolitum... Quelle parole – le aveva detto Monsignani, stringendosela al petto, lo sguardo che si perdeva verso le fiamme del camino – non riguardano solo le poesie. È il modo in cui dovremmo essere per avvicinarci davvero a Dio. Levigati...”

Lì per lì la Contessa non aveva dato troppo peso a quella costatazione, trovando più interessante analizzare altri punti delle opere di Catullo, ma quella mattina, osservando paziente i gesti tranquilli e precisi con cui il suo amante si rivestiva e rimetteva in ordine, capì che Vangelista credeva davvero in quello che aveva detto.

La donna era quasi sul punto di dire qualcosa circa ciò su cui stava ragionando, quando qualcuno bussò alla porta.

Il frate, già rivestito di tutto punto, le fece segno di non preoccuparsi, e di mettersi addosso qualcosa e, con aria serafica, pensò lui ad aprire un po' la porta per vedere chi fosse.

Bernardino da Cremona rimase un po' spiazzato, nel trovarsi davanti Monsignani, ma quando, alle spalle del religioso, fece subito capolino la Tigre, con addosso una vestaglia da camera, il castellano si ricompose in fretta e, accantonando tutto il resto, disse: “Mia signora, è appena arrivata una staffetta da Imola con questa.” e le porse una missiva.

La donna afferrò subito la lettera e chiese: “Aspetta una risposta immediata?”

Il cremonese scosse il capo: “No, no, dice che non ha ordine di ritornare immediatamente a Imola, a meno che non siate voi a mandarlo.”

Soppesando quella frase, la Sforza ordinò: “Nel frattempo dategli da mangiare e da bere, e un letto, se volesse riposare. Immagino che arrivi dall'inferno... Quando si sarà ripreso, lo incontrerò. Intanto leggerò quanto mi è stato scritto.”

Il castellano chinò il capo, in segno di ubbidienza, e poi, dopo un breve sguardo a Vangelista, si congedò.

La porta non era ancora stata chiusa, che già Caterina si era messa seduta sul letto e aveva aperto la missiva. Era firmata da Naldi, il che le permetteva di credere che, per quanto le cose stessero andando male, almeno Dionigi fosse ancora viva e, magari, come lui anche altri.

Lesse in fretta, scorrendo ogni riga con il fiato che si faceva sempre più corto. Arrivata alla fine, seppe che quello che aveva preventivato stava accadendo e che la rocca di Imola sarebbe caduta, che lei lo volesse o meno. L'unica cosa che poteva fare, a quel punto, era tener fede ai patti: così come aveva preannunciato a Gian Piero, non avendo modo di soccorrerli concretamente, non avrebbe risposto in alcun modo a quell'appello, e così, al terzo giorno di tregua, Naldi si sarebbe potuto sentire libero di arrendersi.

La strana pace che le aveva portato quel pensiero – era come seguire una strada già tracciata e, perciò, meno complicata del previsto – lasciò quasi subito il posto a una profonda e sconfinata rabbia.

Lanciando di lato la lettera, la Tigre cominciò a bestemmiare con tutti gli improperi che aveva imparato fin da bambina, vivendo in mezzo ai soldati. Stringeva i pugni con tanta forza, che per poco non si fece male da sola, e, quando si alzò, non resistette alla tentazione di dare un colpo alla cornice del camino, ottenendone solo un dolore sorso alla mano.

“Non serve a nulla dar voce alla tua collera in questo modo.” cercò di calmarla il frate, che la fissava attonito, non avendola mai vista scatenarsi a quel modo dal vivo.

Aveva sentito parlare spesso dei suoi scatti improvvisi d'ira, sapeva che era una donna capace addirittura di uccidere, in uno slancio di rabbia... Ma vederla da così breve distanza mentre si dibatteva in una gabbia invisibile, come una belva strappata alla foresta, era tutta un'altra cosa.

“Non servirà, ma non riesco a evitarlo.” ribatté lei, quando riuscì finalmente a calmare la voce e a smettere di misurare a lunghi passi la stanza.

Tenendosi la mano che aveva colpito il bordo del camino, la Leonessa si morse il labbro, cercando di tranquillizzarsi. Sentiva una tal agitazione nel petto, che l'unica cosa a cui poteva pensare era a come avrebbe fatto a pezzi il Borja, quando le fosse capitato a tiro.

Sollevando gli occhi verdi verso Vangelista, la donna chiese, con un soffio roco, carico di risentimento, come se il frate avesse qualche colpo, in tutta quella faccenda: “Se il Dio che tanto esalti è così buono e giusto, perché permette che quel diavolo di Rodrigo Borja guidi la sua Chiesa e sia il suo portavoce nel mondo?”

Monsignani fece un sospiro, sollevando le spalle: “Il papa viene scelto dagli uomini, non da Dio.”

Quella risposta, abbastanza franca da placare almeno in parte la collera della Contessa, risuonò nella camera per qualche secondo, lo scoppiettare del fuoco come unica eco.

“Parli troppo liberamente, per essere un frate.” rimbeccò la Sforza, non trattenendo un mezzo sorriso: “Sei sicuro di esserlo davvero? Ci sono tante cose di te che mi insinuano un dubbio...”

Approfittando di quello spiraglio di cielo sereno che intravide nello sguardo dell'amante, Vangelista fece un passo avanti e, stringendola lentamente a sé, confermò: “I voti li ho presi.” poi ricambiò il sorriso divertito della donna e precisò: “Che poi non li rispetti, è tutta un'altra storia...”

Caterina avrebbe voluto tanto potersi dimenticare di tutto e passare il resto della mattina a scherzare con Monsignani, sfidandolo a dimostrarle di nuovo anche tra le lenzuola che sotto alla tunica da frate c'era solo un uomo, ma sapeva di non averne il tempo.

“Devo vedere il mio Consiglio di Guerra.” disse, sciogliendo l'abbraccio che la legava al frate: “E poi devo...”

Non concluse la frase ad alta voce, perché non voleva far sapere a Vangelista che a breve avrebbe fatto lasciare la rocca anche a Bianca e Giovannino. Per il momento il suo piano stava funzionando alla perfezione. In città, nessuno sembrava avere il sentore che la Tigre stesse mandando via i suoi figli e, anche a Ravaldino, si poteva dire che la loro assenza stava passando sotto silenzio, complice anche il carosello di gente che ormai abitava tra quelle mura.

“Io, allora, mi dedicherò a fare il frate...” sospirò Monsignani, recuperando la stola da confessione che aveva lasciato sull'inginocchiatoio la sera prima: “Non immagini quanti soldati si vogliano confessare, da quando hanno visto te fingere di farlo, quella sera...”

“Almeno hanno qualcosa con cui distrarsi.” commentò sbrigativa la Tigre, infilandosi gli abiti da uomo che ormai indossava quotidianamente: “E celebrate matrimoni, Messe e tutto quello che vi chiederanno. Sono cose che danno sicurezza alla truppa. Far credere loro che Dio sia dalla nostra ci tornerà utile...”

Vangelista non disse cosa pensava di quell'ultimo inciso, ma le diede comunque ragione e, una volta che fu pronta, l'accompagnò fuori dalla stanza, dividendosi da lei solo a metà corridoio, già pieno di vita, malgrado l'ora quasi antelucana, con la promessa di rivedersi appena possibile.

 

“Potresti rimettere in ordine tu la mia stanza, oggi? E cambiare le lenzuola, anche.” fece Bianca, quando finalmente incontrò la sua amica che, dalle cucine, stava raggiungendo gli alloggi della servitù.

La ragazza corrugò la fronte e ribatté, senza pensarci: “Ma lo farà Argentina, no? Come sempre...”

“Per favore.” insistette allora la Riario, posandole una mano sul braccio.

A quel punto l'amica intuì qualcosa. Fermandosi, si guardò con circospezione attorno, attese che un paio di soldati passasse loro accanto e poi, trattenendo il fiato per un secondo, fissò l'altra.

“Sei stata con un uomo?” le chiese, non trovando altro motivo logico per quella strana richiesta.

Bianca arrossì e poi, abbassando gli occhi blu scuro, rispose: “Sì.”

La serva, istintivamente, iniziò a sorridere, ma poi, quando si ricordò dei discorsi che lei e la Riario avevano fatto spesso, negli ultimi giorni, venne colta da una profonda tristezza: “Allora stai per partire?”

La figlia della Tigre deglutì e poi, con il cuore che tornava a battere veloce, ammise: “Sì.”

Mentre l'amica la stringeva a sé con forza, lasciandosi scappare qualche lacrima, la Riario cercò di calmarla, chiedendole di non fare così, per non attirare l'attenzione, ma la serva era troppo scossa, per darle retta.

Ci mise quasi due minuti, prima di tornare padrona di sé e, quando ci riuscì, si asciugò il naso con la manica dell'abito e poi chiese: “Quando te ne andrai?”

“Oggi, prima di sera.” rispose Bianca, restando il più vaga possibile.

“Non mi puoi dire dove andrai, vero?” chiese l'amica.

“No. Ho giurato a mia madre che non lo dirò.” confermò la Riario.

La serva sembrò ragionarci sopra qualche istante e poi, cercando in ogni modo di non sembrare troppo addolorata per il prossimo addio all'amica con cui aveva condiviso alcuni dei momenti migliori della sua vita da quando era alla rocca, le sussurrò, con un sorriso un po' stentato: “Chi è l'uomo che hai portato in camera?”

Bianca sollevò un sopracciglio e rispose: “Lo sai, con chi.”

L'amica, che era in effetti abbastanza al corrente delle questioni sentimentali dell'amica, annuì e si disse d'accordo con la scelta, chiedendo poi: “Posso sapere com'è andata?”

La Riario l'assecondò, senza dirle nulla di troppo, limitandosi a rispondere alle domande più generiche, al solo fine di evitarne di più specifiche, e poi, quando la serva parve sazia di dettagli, le chiese: “Allora farai quello che ti ho chiesto?”

Le campane stavano suonando le sette del mattino e così la serva accettò: “Ci penso io. Tanto, di questi tempi, Argentina non rifà la tua camera mai prima di mezzogiorno. Sarà solo felice, sapendo che ci ho già pensato io.”

La figlia della Contessa la ringraziò e poi, abbracciandola un momento, le promise: “Più tardi tornerò a salutarti. Non dire a nessuno che sto per partire.”

 

Al Consiglio di Guerra era presente anche la staffetta arrivata da Imola. Caterina, prima, aveva voluto scambiare con il soldato un paio di parole in privato, ma poi aveva trovato giusto che anche i suoi più stretti collaboratori sentissero che cosa il figlio del papa stesse facendo a nord.

“Landriani è ancora vivo?” era stata la prima domanda che la Sforza aveva fatto al portavoce di Naldi.

Il giovane aveva annuito e aveva aggiunto: “Non è nemmeno ferito, mia signora.”

Tanto era bastato alla Tigre per sentirsi ancora più sicura che lasciare a Dionigi la possibilità di una resa onorevole fosse la scelta giusta. Gian Piero era sempre stato un uomo giusto, nei suoi confronti, e aveva accolto sua madre con gentilezza e rispetto, quando Galeazzo Maria l'aveva costretto a sposarla. La Leonessa si sentiva in debito con lui anche per gli anni in cui era stato al suo servizio e per la lealtà che sia lui, sia il figlio Piero le avevano sempre dimostrato.

Cercare di garantirgli un modo per salvarsi da quell'ecatombe, arrivati a quel punto, le sembrava il minimo.

Quando la staffetta aveva riferito al Consiglio di Guerra di come i francesi erano riusciti a diroccare parte delle mura della rocca, tra i presenti si era sparso un certo nervosismo. Sapere che la capitolazione rischiava di arrivare per il tradimento di un comune cittadino stava destabilizzando molti dei Capitani, e anche Luffo Numai si era fatto scuro in volto, come se quel precedente aprisse le porte a uno scenario molto più apocalittico.

La sconforto che aveva preso tutti stava per travolgere anche la Tigre, benché lei avesse avuto più tempo degli altri per ragionarci sopra e razionalizzare meglio il tutto. Mai come in quel momento, avrebbe voluto che al Consiglio fosse presente anche Galeazzo. Era stata lei, però, a non volere che il figlio accorresse, come avrebbe invece fatto di solito, nella Sala della Guerra.

Voleva che i suoi cominciassero a non trovare strana la sua assenza, in modo che si accorgessero della sua partenza con un po' di ritardo, riducendo i rischi di una fuga di notizie. Sia lei che Numai, infatti, concordavano sul fatto che fosse necessario non far notare troppo l'assenza dei ragazzi, perché se il Borja avesse avuto il sospetto che i figli della Leonessa fossero ancora a Ravaldino, non avrebbe impiegato energie a cercarli altrove, lasciando così loro il tempo di mettersi in salvo a Firenze.

C'era Giovanni da Casale, però, e forse la Tigre avrebbe potuto cercare in lui un appoggio, almeno emotivo. Di fatto, però, non aveva ancora avuto il coraggio di guardarlo, se non distrattamente, quando era arrivato, mentre si salutavano. Era vero che tra loro i patti erano sempre stati chiari e che, come lei non gli richiedeva

“Quello che va fatto lo sappiamo, direi...” fece a quel punto la Contessa, massaggiandosi la fronte e guardando distrattamente la mappa d'Italia stesa sul tavolo dinnanzi a sé: “Forlì non si è ancora espressa in modo chiaro sulla propria posizione... Ho atteso, ho lasciato che si discutesse ogni mio ordine in Consigli aperti al popolo... Ma ora non c'è più tempo per le chiacchiere.”

Il silenzio che seguì alle sue parole fu così perfetto che si riusciva a sentire il ticchettio della pioggia contro il vetro della finestra, benché nella sala ci fossero quasi trenta uomini.

“Alessandro...” la Sforza chiamò a sé il fratello, che le si avvicinò all'istante: “Domani incontrerai il Capo dei Magistrati Tornielli e gli chiederai formalmente di portarti, entro sera, la risposta definitiva della città. Devono dire se intendono difendersi e quindi essere difesi da me, o arrendersi al figlio del papa, e, in quel caso, io mi disinteresserò completamente a loro.”

Lo Sforza deglutì, chiedendosi come mai la sorella avesse scelto proprio lui per quel compito, ma non si tirò indietro: “Lo farò.”

“Bene.” soffiò Caterina e poi aggiunse, andando a rispondere alla domanda che Alessandro non aveva avuto il coraggio di porle apertamente: “Non sarò io a incontrare Tornielli perché non voglio che la mia presenza influenzi la decisione. Non voglio che Forlì accetti di combattere solo per la paura che nutre nei miei confronti. Se i forlivesi imbracceranno le armi e si schiereranno con l'esercito, che è composto da loro fratelli, lo dovranno fare solo perché sono convinti. Altrimenti anche noi faremo la fine degli imolesi...”

Tra qualche perplessità e qualche incertezza, i membri del Consiglio di Guerra alla fine approvarono quella decisione e, dopo aver sentito dalla viva voce della staffetta mandata da Naldi ancora qualche dettaglio circa i metodi con cui l'esercito francese attaccava e si difendeva, si decise di concludere la riunione.

“Caterina, posso parlarti un momento?” Pirovano si era avvicinato alla Contessa nel momento stesso in cui i primi Consiglieri avevano raggiunto la porta.

La donna, temendo che il comandante del Paradiso volesse dirle ancora qualcosa riguardo Vangelista Monsignani, cercò di scansarlo: “Scusa, ma devo vedere mia figlia...”

“Ascoltami solo un momento...” protestò lui, accorato.

“Davvero, non...” tentò di smarcarsi lei.

“Se Imola è perduta – la incalzò lui, parlando a voce bassa, per non farsi sentire da altri – tra poco il Valentino sarà qui e io dovrò chiudermi alla Cittadella e tu in questa rocca e...”

“Sempre che la città non decida di difendersi.” fece presente lei.

“Non lo farà, lo sai bene quanto me.” la smontò immediatamente Giovanni.

La Sforza si raggelò, davanti alla sicurezza con cui il suo amante aveva parlato. Guardandolo in modo diverso, inclinò leggermente la testa di lato.

“Vuoi passare del tempo con me, prima di dividerci?” gli chiese, interpretando bene il suo sentire.

“Sì.” rispose il milanese, deglutendo, mentre il Capitano Rossetti passava loro accanto salutandoli con un cenno del capo.

La Contessa fece qualche calcolo a mente e poi sospirò: “Anche io voglio passare del tempo con te... Ma per oggi non...”

“Vediamoci stanotte.” propose Pirovano: “Tanto alla Cittadella non sono di turno, e nessuno si accorgerà che...”

“Ti faccio sapere più tardi.” tagliò corto la donna, sentendo le campane scandire l'ora con una spietata precisione: “Devo andare da mia figlia.”

 

Bianca era già pronta. Aveva dato il suo ultimo saluto alla sua amica, era stata per un po' nelle cucine, ma senza dire a nessuno che se ne stava per andare, e poi era tornata in stanza.

Il letto era già stato rifatto e non le restava altro, se non il ricordo, a memoria della notte che aveva trascorso con il suo bel soldato. Riscuotendosi, aveva infilato con cura la sua pozione, le pezze di stoffa e il ricettario della madre in una piccola borsa, che avrebbe tenuto nascosta sotto al mantello. Per i documenti di Giovannino, aveva fatto come le era stato suggerito dalla Tigre, e li aveva sistemati attentamente tra le pagine del volume manoscritto, sperando di non doversene separare per cause di forza maggiore.

Infine, già vestita di tutto punto, era andata nella stanza del fratellino. Sentiva gli abiti molto più pesanti del solito e, tastando un po' tra le cuciture, si era resa conto che la madre aveva lasciato a lei i gioielli più ingombranti e costosi.

Il piccolo Medici sembrava aver subodorato qualcosa e, fin da quando la sorella era arrivata, mandando via la bambinaia si era fatto agitato e guardingo.

Quando la Tigre arrivò, la Riario la stava già aspettando da almeno mezz'ora. Era certa che, come promesso, sarebbe arrivata a dirle addio.

Sotto gli occhietti attenti di Giovannino, Caterina e Bianca si abbracciarono senza dirsi nulla.

Solo quando il bambino balbettò quella che sembrava una richiesta di spiegazioni, la Tigre si allontanò un po' dalla ragazza e, con la gola stretta, disse: “Sei forte, Bianca. Sei mia figlia. E qualunque cosa dovesse capitare, so che non ne uscirai spezzata, ma solo più forte.”

La Riario teneva le iridi blu puntate contro quelle verde ramato della madre, senza reagire. Avrebbe voluto dirle che non era così, che non era forte come la credeva, che non era coriacea come lei. Le avrebbe voluto dire che, se fino a quel momento aveva sempre accettato ciò che il fato le aveva riservato era perché sapeva di avere per madre una Tigre pronta a difenderla, qualsiasi cosa fosse accaduta.

E invece, quando parlò, disse: “Mi hai resa libera. Non smetterò mai di ringraziarti per avermi tenuta al sicuro e avermi permesso di fare le mie scelte, quando era possibile.”

La Contessa apprezzò il fatto che sua figlia avesse continuato a darle del tu, come lei stessa le aveva chiesto di fare. Le accarezzò lentamente il viso e poi, guardando verso Giovannino, sentì di nuovo l'angoscia crescerle nel petto.

Con un filo di voce, sussurrò: “Adesso voglio dire addio anche a tuo fratello.”

Capendo l'antifona, la Riario si scusò un momento e uscì dalla stanza, per lasciarli soli. Anche se il Medici era piccolo, pensava, aveva diritto anche lui a un momento da solo con una madre che, da grande, probabilmente non avrebbe nemmeno ricordato.

Rimasta con l'ultimogenito, Caterina si morse il labbro, incerta. Voleva stringerselo al petto e baciargli la fronte coperta da riccioli così simili a quelli del Popolano. Però aveva anche paura di soffrire ancora di più, nel lasciarlo andare.

Siccome il piccolo tendeva le braccia verso di lei, porgendole, serio, il cavaliere di legno che un tempo era stato di Galeazzo, alla fine la madre cedette e lo raccolse da terra, abbracciandolo con forza. Annusò l'odore dolce della sua pelle, il suono leggero del suo respiro, e ascoltò la sua voce, mentre pigolava qualche parola sconnessa. Guardò a lungo i suoi occhi verdi, tanto scuri da sembrare due mucchietti di pece, dal taglio allungato, com'erano stati quelli di Giovanni.

Benché fosse certa di riuscire a concludere quell'incontro senza piangere, proprio quando meno se l'aspettava, la Leonessa sentì una stretta al petto e si trovò a singhiozzare.

Spaventato da quell'improvviso pianto, Giovannino le si strinse ancora di più, affondando il viso contro di lei.

Notando il cavaliere intagliato che il bambino ancora teneva in mano, la Sforza ritrovò un po' di autocontrollo, e, tirando su con il naso, fece, la voce incerta: “Questo devi lasciarlo a me. Avrai dei nuovi giocattoli, a Firenze. E, prima che tu te ne possa rendere conto, le spade di legno diventeranno spade di ferro, e i giochi di guerra diventeranno guerre vere. È successo anche a me.”

Il Medici non diceva più nulla, anche lui con gli occhi gonfi e lucidi di lacrime. Come se avesse capito alla perfezione le parole della madre, con un'espressione fiera, quasi di sfida, le porse di nuovo il cavaliere e attese finché la donna non lo prese in mano.

“Bianca!” Caterina chiamò la figlia alzando appena la voce e la ragazza entrò subito in stanza.

Probabilmente, si disse la Contessa, la giovane aveva origliato tutto quanto e, in effetti, la trovò con gli occhi velati.

“Non piangere, no.” le disse, riassumendo i suoi soliti modi, asciugandosi con la manica del camicione: “Non devono notare nulla di diverso in te.”

La Riario fece del suo meglio per ricacciare indietro la commozione, e, afferrando Giovannino, che le veniva passato dalla madre, sussurrò: “Gli parlerò di te. Saprà chi eri e non ti dimenticherà.”

Con un sorriso malinconico, la Tigre annuì, evitando di dire che dubitava che il figlio avrebbe mai potuto conservare realmente un suo ricordo, e poi, abbracciandoli entrambi, concluse: “Andrà tutto bene. E ricordati: quando sarete alle Murate, fai in modo che tutti lo credano una bambina. Finché suo zio sarà vivo o lui non sarà abbastanza grande da difendersi da solo, non sarà al sicuro.”

Bianca annuì e poi, con un sospiro, espresse la sua più segreta speranza: “Ci rivedremo, madre.”

“Mi fido di te.” fu l'addio che Caterina le dedicò: “So che farai le scelte giuste, sia per te, sia per tuo fratello. Adesso andate, a casa Numai vi aspettano.”

La ragazza annuì e, prima che il fratellino scoppiasse a piangere, nel vedere la Contessa fare altrettanto, andò alla porta e, salutando un'ultima volta con la mano, uscì in corridoio.

Rimasta sola, la Sforza si sedette un momento sul letto di uno dei figli, si prese la testa tra le mani e, realizzando in modo concreto che non avrebbe mai più rivisto né Bianca, né il suo figlio più piccolo, andò avanti a piangere in silenzio per quasi un'ora.

 
   
 
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