III ~ Crepuscolo
Che ci sia la
luna
Sul sentiero notturno
Di chi porta i fiori.
Takarai Kikaku
Nel
quarto ritorno.
I
due esper giunsero in città pochi istanti dopo aver lasciato
il negozio.
Il
mare li accolse infilandosi nel loro respiro e risvegliando tutti i
ricordi che
si legavano al luogo, ed entrambi volsero immediatamente
l’attenzione a esso,
quindi alle mura che li sovrastavano e osservavano tutto in silenzio.
Era
ancora presto per incontrare i segreti custoditi là, lo
compresero: prima era
necessario riprendere il contatto con il posto e
tra le proprie anime.
Le
onde cantavano a poca distanza: se avessero voluto purificarsi,
avrebbero dovuto
farlo tra braccia rese fredde dall’autunno ma abbastanza
amorevoli da accettare
anche i peccati.
E
loro ne avevano compiuti tanti.
«Ben
ritornati a noi», mormorò Shimazaki mentre si
lasciava scompigliare i capelli
dalla carezza del vento; e Minegishi abbassò lo sguardo,
pensoso.
Una
parte di sé pensava di essere nel posto sbagliato
perché, irritato ancora con l’amico,
non era nell’animo adatto per affrontare la città;
l’altra, invece, credeva
fermamente che per recuperare un rapporto solamente quel luogo avrebbe
potuto
aiutare. Per vedere quale delle due avrebbe avuto ragione, doveva
solamente
mettere alla prova entrambe e attendere: non se ne sarebbe andato da
lì senza
una risposta, di certo.
«Scendiamo
in spiaggia?»
Toshiki
rialzò lo sguardo e lo fissò su Ryo con
un’espressione indecifrabile nel volto;
eppure riconobbe di non essere così tanto sorpreso da quella
richiesta che
rimandava ad anni lontanissimi, così calma e delicata da
sembrare la più
accorta delle preghiere.
Il
moro amava il mare con tutto sé stesso, era una delle cose
che il tempo non era
mai riuscito a placare o cambiare: di conseguenza, non poté
negarglielo.
«Dovremmo riposare, però. È
già sera inoltrata e domani entreremo di nuovo nelle
mura…»
«E
tu credi di poter dormire stanotte?»
«Avevi
un piano diverso?»
«No,
intendo: siamo qui dopo anni, come abbiamo sempre
desiderato… non penso che
riusciremo a riposare bene, visto quanti ricordi abbiamo.»
Toshiki
annuì e respirò con forza.
«Già… concordo.» Fece una
pausa, cercando di
trattenere le parole; non ci riuscì. «Temevo ti
fossi dimenticato di questo
posto.»
«Te
l’ho detto che ci penso sempre.»
«Forse
non abbastanza a ciò che ci siamo detti.»
Shimazaki
non replicò più, mentre lui percepì un
sentore amaro nella bocca e la
sensazione di essere stato così insensibile da doversi
vergognare.
Fantastico,
complimenti davvero. Non è così che risolverai la
situazione tra voi. «Forza,
andiamo», mormorò dopo un attimo
d’immobilità, «una passeggiata lungo la
riva
ci farà bene.»
Il
mare parlò nuovamente, raggiungerlo fu così
facile e rapido che quasi non ci
credettero quando la schiuma delle onde li sfiorò;
l’acqua si rivelò essere più
calda di quanto ipotizzato ed entrambi furono svelti a togliersi le
scarpe per
incontrare il basso fondale. Tutto, in quel posto, sembrava essersi
fermato a
quando erano solo dei pulcini con strane abilità e ogni cosa
era più semplice.
«Una
calma simile dovremmo viverla sempre», sussurrò
Shimazaki a un certo punto,
rilassandosi maggiormente.
Minegishi
fece lo stesso e alzò il capo. «E non siamo
comunque soli, contando chi ci
guarda dal cielo.»
«La
luna o le stelle?»
«Le
stelle. Sono un’infinità e così nitide,
lontane dalle luci artificiali… anche
questo è uno spettacolo che meriterebbe di essere visto di
più.»
Le
tenebre sembrarono vibrare quando Ryo sorrise, la scintilla di un
ricordo a
illuminargli il viso. «Ti ricordi cosa facevamo da bambini?
Ci sedevamo in un
posto solo nostro, che fosse un parco o su una terrazza, e io ti
chiedevo di farmi
vedere la notte… tu mi prendevi la mano e mi disegnavi le
costellazioni sul
palmo.»
«E
ridevi così tanto che ero costretto a fermarmi dopo nemmeno
un minuto. Temevo
che prima o poi saresti morto.» Toshiki accennò un
sorriso a sua volta, sincero
e leggermente malinconico. «Mi pregavi di continuare e io ti
promettevo che ti
avrei abbandonato al primo urlo… eri così felice
quando ti parlavo del cielo o
ti leggevo qualcosa, così sereno. Trasformavi una notte come
tante in qualcosa
di nuovo, e ogni volta io mi chiedevo come riuscivi a farlo…
erano bei momenti.»
Perché eravamo completamente noi stessi.
Nessuna
risposta spezzò la ninnananna che accompagnava le stelle nel
loro vorticare:
per il resto della notte entrambi non si scambiarono che qualche altra
parola,
attendendo l’alba sulla riva e nel dormiveglia.
Ryo
aveva ragione: non avrebbero potuto riposare con l’anima e la
mente che chiedevano
altro, né davanti alla città che sapeva tutto di
loro.
Quella
era la svolta: o avrebbero compreso come affrontare il silenzio, o
questo avrebbe
congelato ciò che li teneva uniti e le mura sarebbero
rimaste il sogno di un
passato ormai perduto, insieme a tutto ciò che erano.
Al
mattino, non affrontarono subito la cinta di pietra: prima si bagnarono
nuovamente tra le onde, quindi la varcarono per visitare brevemente la
città e
si persero nelle vie sempre più piene di fiori e ancora
fiancheggiate da
bianche costruzioni, protette da un incantesimo che non permetteva al
Tempo di
raggiungerle; e si strinsero l’uno all’altro mentre
riconoscevano i fantasmi dei
bimbi che erano stati prendere vita e inseguirsi a vicenda nei giochi,
tagliando
loro la strada mentre venivano rincorsi da quel vento spensierato che
non li
toccava più.
Rimasero
lì per tutto il tempo che sentirono come concesso; quindi,
il sole sorse alto
sulle mura e le ombre mutarono, rivelando il momento di partire.
«Andiamo»,
sussurrò allora Toshiki, «il nostro tesoro ci sta
attendendo.»
Ryo
annuì e gli mise una mano sulla spalla. «E noi non
siamo così scortesi da farlo
aspettare troppo.»
Passò
un breve istante, quindi umide tenebre, freddo e anni di storia
impattarono contro
la pelle e li fecero indietreggiare un attimo, per poi permettere loro
d’adattarsi.
La pietra antica diede il benvenuto ai suoi due visitatori preferiti e
non negò
nessuno dei brividi che entrambi provarono.
«Siamo
contenti anche noi di vedervi, non temete.»
Minegishi
accennò un sorriso a quella battuta, quindi rivolse
un’occhiata all’enorme
borsa che Ryo portava. «Non ti preoccupare, lo sapranno
presto», gli disse
mentre se la faceva consegnare. Ne trasse giacche pesanti e la
più grande delle
torce che c’erano, accendendola subito.
La
luce rivelò che l’ambiente in cui si erano
conosciuti era davvero enorme e non
la semplice impressione di un bambino, e girò su
sé stesso per vedere bene
l’altezza delle volte e i massicci pilastri che sostenevano
la struttura.
Mentre
la guardava, ricordò che Ryo aveva detto che in una certa
direzione non
avrebbero potuto proseguire perché una parete impediva il
passaggio; probabilmente
al di là di essa non c’era alcuno spazio libero,
quindi, forse, quell’ambiente
era stato ricavato apposta per chi poi l’avrebbe occupato.
Che
tipo di tesoro doveva essere custodito in un simile spazio?
«Pronti?»
Toshiki
attese un attimo prima di rispondere, osservando i percorsi che si
estendevano
da una parte e dall’altra; quindi annuì, provando
sulla pelle una scossa
d’eccitazione. «Pronti. Stammi vicino, la torcia
non riesce a illuminare tutto.»
«Questo
si chiama sfruttamento.»
Minegishi
spalancò gli occhi, sorpreso, e prima che potesse replicare
Shimazaki scoppiò a
ridere e lo afferrò per un braccio, trascinandolo con
sé. «Nessun problema, non
me la prendo solo se fai andare avanti me. Voglio essere io il primo a
scoprire
ciò che ci attende!»
«E
se poi non c’è alcun tesoro e rimani
deluso?»
«Allora
sarò costretto a darti battaglia, probabilmente in acqua.
È da parecchio che
non provo ad affogarti.»
«Non
imparerai mai a combattere lealmente.»
«La
dovresti pagare comunque, visto che tutto questo è partito
da te.»
«Oh,
ricordami, chi mi ha raccontato della leggenda? In questa storia siamo
geni o
stupidi in due.»
«Touché.»
Un
refolo di corrente fredda distolse l’attenzione dalla piccola
discussione per
concentrarla nuovamente sulla loro strada; e impugnando la torcia,
Minegishi strinse
leggermente la spalla dell’amico per farlo avanzare.
«È
come l’ultima volta», disse quest’ultimo
dopo aver ascoltato un attimo cosa lo circondava
e aveva innanzi, «c’è solamente
silenzio. Ora che riesco a percepire i movimenti
nel raggio di metri e metri, non sento nulla.»
«Stiamo
comunque all’erta: non credo che i guardiani possano
essersene andati, sono
legati a questo posto. Inoltre, è scontato dire che ci
riconosceranno e
cercheranno di regolare i conti.»
Alla
luce della torcia non era solamente la strada a prendere forma, ma
anche il
loro passato: a quello che avevano vissuto nel buio si poteva dare un
nome,
ogni pietra leggermente sconnessa aveva una storia e si mostrava a
occhi
attenti, l’avventura poteva essere descritta con chiarezza a
mano a mano che si
snodava in curve e sorprese.
«C’è
qualcosa davanti a noi: ci sta sbarrando il cammino e non si
muove.»
Ecco,
appunto.
L’esper cieco non aveva finito di parlare che Minegishi
aveva già puntato il fascio di luce davanti a sé
e con la mano libera aveva chiamato
i rinforzi, pronto a tutto. Si ritrovò deluso: innanzi a
loro non c’era niente
da temere, bensì strane pietre contorte disposte in modo
disordinato per tutto
il percorso, quasi fossero cadute dall’alto e lì
rimaste.
I
due si avvicinarono a esse per capire di cosa si trattasse,
così la torcia
prese a illuminare quelli che parevano i frammenti di tante statue
spezzate: corpi
privi di arti, zampe d’animale, orecchie e, alla fine,
qualcosa di simile al
muso di un leone. A quel punto e ripensando sia alle parole di
Shimazaki sul silenzio
udito prima, sia al fatto che era stato proprio lui a definire i
guardiani come
statue, nella mente di Toshiki si formò
un’idea; però dovette attendere ancora
qualche attimo per confermarla.
«Che
cosa sono? Toshiki…?»
Chinandosi
al suolo, l’esper delle piante prese in mano i brandelli di
stoffa rossa che occupavano
tutta la strada e se li fece passare tra le dita.
«… Credo di aver trovato le
tue scarpe, Ryo.»
La
confusione tinse il volto del moro, e l’altro si
sbrigò a spiegare. «Quelle che
avevamo lasciato come punto di riferimento, la prima volta che entrammo
qui…
non le avevi più recuperate?»
«No…
non sono mai tornato a riprenderle.»
Minegishi
annuì e fissò nuovamente i resti scarlatti e le
statue, per poi provare a
comprendere che cosa fosse accaduto.
Dopo
che la disperazione aveva risvegliato appieno i poteri di Ryo e questi
era
riuscito a teletrasportare entrambi via da lì, i guardiani
dovevano averli
cercati per tutte le mura, giungendo anche al punto da dove erano
entrati; avevano
trovato le scarpe e, dato che queste avevano lo stesso odore di una
delle loro
prede, si erano avventate contro di esse…
Ma
poi perché finire in pezzi, ammesso che quei simulacri di
belve feroci fossero
stati veramente i fedeli custodi del luogo?
Perché
hanno fallito.
Alzandosi
lentamente, l’esper si avvicinò a Shimazaki e lo
prese per un braccio,
conducendolo poi nelle zone dove la strada era sgombra.
«Che
cosa stai facendo?»
«Evito
che tu calpesti ciò che resta dei guardiani. Anche se li hai
battuti, meritano
comunque rispetto.»
Ryo
mostrò le orbite vuote in un’espressione di
sorpresa, la voce tremò quando
chiese: «… Come sarebbe a dire che li ho
battuti?»
«Hanno
fallito nel loro compito: non sono riusciti a catturare due estranei
troppo
curiosi, come il principe aveva ordinato, e hanno pagato al posto
nostro. Questi
frammenti sono ciò che rimane dei nostri nemici.»
«Siamo
noi gli unici responsabili di questo silenzio,
allora…»
«Proprio
così.»
Il
moro si blocco, non replicò subito. «…
Ho portato distruzione anche qui. Anche da
piccolo, non creavo altro che caos.»
Toshiki
era andato qualche passo più avanti, ma si fermò
e voltò a quell’affermazione. Il
tono con cui l’aveva pronunciata gli fece inaspettatamente
male e per un attimo
non seppe come replicare; quindi ritornò vicino al compagno.
«Non hai colpa di
questo fatto, e lo sai: non potevamo sospettare che sarebbe andata
così.»
Shimazaki
non smise di fissare il vuoto davanti a sé.
«Eppure, ci ha rimesso comunque qualcuno.»
«E
in cambio di quel qualcuno hai salvato entrambi.»
Questa
volta l’esper cieco abbassò il capo verso
Minegishi, che prese un grande
respiro e continuò. «La scelta di cercare questo
tesoro non ha portato a esiti
completamente felici, finora… ma tutto ciò non
è stato fatto volontariamente; e
due persone non sono morte.» Anche se, a giudicare
da quello che avremmo
fatto anni dopo, forse ce lo saremmo meritato. «Credi
che valga poco?»
Silenzio.
Di nuovo, Minegishi sentì una spina penetrare nel cuore e
decise di prendere
tra le proprie mani la situazione, con calma e riconoscendo tutto
ciò che
avevano sbagliato. «Ascolta… se non te la senti di
proseguire, ci possiamo fermare.
Rispetteremo il volere dei custodi e lasceremo in pace qualsiasi cosa
custodissero;
e d’altra parte tu volevi fare così fin
dall’inizio, mentre io ho scelto di affrontarli.
La colpa della loro disfatta è tutta mia.»
In
quel momento, Ryo uscì dal silenzio e sorrise debolmente.
«No, non credo. In
questa storia siamo geni o stupidi in due, hai detto prima; e
anch’io ho fatto
la mia parte.»
«Ryo…»
«Ne
accettiamo le conseguenze insieme. Salutiamo le mura per
l’ultima volta e
ritorniamo al mare: il tesoro merita di riposare insieme ai suoi
protettori… noi
non lo meritiamo.»
«Sì…
è la cosa migliore che possiamo fare.»
Si
voltarono entrambi; ma prima che potessero teletrasportarsi, una
violenta
scossa di terremoto turbò il suolo.
Nessuno
dei due fu capace di reagire in fretta, così che entrambi
persero l’equilibrio
e caddero; il mondo iniziò a vorticare e provarono la
sensazione di rotolare via
via più velocemente in un buio fitto che non lasciava spazio
neppure ai
pensieri, e mentre le capacità di orientarsi e il senso del
tempo si
annullavano credettero di essere destinati a precipitare nelle tenebre
per
sempre — e almeno, tale sembrava dover essere la loro sorte
fino a quando
Minegishi non riuscì a trasmettere un ordine e decine di
piante sbucarono per afferrarli
e ancorarli saldamente a terra.
Entrambi
rimasero nella parziale incoscienza per altri lunghi istanti, quindi
Shimazaki fu
il primo a riaversi e a prendersi la testa fra le mani. «Che
male, credevo di
essere sul punto di rompermela… Toshiki, tu stai
bene?»
Questi
mugugnò una risposta, tutto il corpo che doleva per le botte
ricevute; sentiva inoltre
l’odore del ferro nel naso, segno che stava sanguinando, e la
stessa umidità a
livello del gomito destro. Forse, però, il peggio si fermava
lì e tutto sommato
era andata anche bene.
Le
piante lo liberarono e fecero lo stesso con Ryo, così che
poterono mettersi a
sedere e riprendere il contatto con la realtà.
«Non
credo che tu sappia cosa sia successo, quindi evito di
chiederlo», esclamò l’esper
cieco, «so solo che siamo molto avanti rispetto al punto in
cui eravamo prima.»
Barcollando
leggermente, Toshiki si alzò e scoprì di poter
stare in equilibrio; provò a
riaccendere la torcia che non aveva mai mollato e riuscì
nell’intento, così
poté raggiungere l’amico. Anche lui sanguinava da
un colpo sulla fronte, ma in
misura ridotta e non preoccupante: potevano davvero considerarsi dei
miracolati.
Un
rapido sguardo intorno non gli permise di riconoscere
alcunché che potesse servire,
e questo lo agitò leggermente. «Ryo, riesci a
teletrasportarci fuori da qui?»
Il
moro scosse la testa. «Ci posso provare, ma non riesco a
orientarmi… non vedo
nemmeno nulla. Ho paura che mi sia successo
qualcosa…»
«Hai
preso un colpo alla testa, per questo non riesci a utilizzare i poteri.
Stenditi
un attimo, io provo a guardarmi in giro.»
«Vuoi
procedere senza sapere dove andare?»
«Vedo
se riesco a capire qualcosa, va bene? Non mi allontanerò di
molto, credimi. Rimani
tranquillo, ce ne andiamo presto.»
Minegishi
fece per muoversi, tuttavia si ritrovò il fiato
dell’amico a pochi passi; le
piante lo aiutarono a reggerne il peso quando questi rischiò
di schiantarsi al
suolo di faccia, e a stento lui represse una sonora sgridata.
«Ti
avevo detto di rimanere sdraiato e tranquillo», disse invece
mentre si passava
un braccio dell’esper intorno alle spalle e in qualche modo
riusciva a sostenerlo
almeno perché non cadesse.
«E
invece io non ti faccio andare da solo e in queste
condizioni.»
«Parla
quello che invece si regge bene sulle gambe, eh. Nemmeno da ubriaco sei
così
instabile.»
«Ti
mancano anche quei momenti, di’ la
verità.»
«…
Quella botta è stata davvero forte, mi sta
preoccupando.»
«Ma
se tu—»
«Fermo.»
Ryo
si voltò senza nascondere la propria sorpresa, immobilizzato
dal tono con il
quale l’amico aveva parlato.
«C’è qualcuno? Maledizione, proprio
quando non
sento nulla…»
«Non
c’è nulla e nessuno da sentire.»
Leggermente contrariato, Minegishi guardò che
cosa la torcia stava illuminando a pochissima distanza da
sé: una volta e sette
scalini che conducevano a una camera posta più in basso
rispetto al piano di
calpestio, e il pavimento di questa — o meglio, la distesa
d’acqua che lo
ricopriva: il mare sembrava essersi aperto una via dentro le mura e
aver deciso
di confluire in quel vano, creando una sorta di piscina.
La
solita fortuna,
pensò mentre scendeva gli scalini e si
guardava intorno.
«Allora
perché mi hai fermato?»
«Per
evitarti una caduta e un bagno fenomenale, e—» In
quello stesso istante la voce
si bloccò e gli occhi si spalancarono davanti alle ultime
immagini di quella
che, Toshiki ne era certo, non era stata una semplice illusione: mentre
faceva
scorrere la luce sul pelo dell’acqua, una scarica dorata si
era fatta largo
fino a scomparire quando li aveva quasi raggiunti, come
un fantastico, rapido serpente che improvvisamente
avesse fiutato un pericolo sulla propria strada e fosse preventivamente
fuggito.
Quest’immagine, sorta in parte dalle fantasie della sua
infanzia, gli diede i
brividi e lo spinse a far vagare intorno la torcia, nel tentativo di
rintracciarla e inseguirla; ma non portò a nulla, men che
meno al suo
obiettivo.
«Bagno
fenomenale?»
«Sì,
sembra che il mare intero si sia riversato qui… e tu non
fare quel sorriso, non
ti vorrai buttare!»
Dividendo
l’attenzione tra quello che aveva appena visto e frenare
l’idea folle che aveva
percorso la mente del moro, l’esper si sporse in avanti.
Illuminò nuovamente l’acqua
guardando ovunque, e dopo pochi attimi il guizzo misterioso riapparve.
«Là!»
Le
piante scattarono, ma non sfiorarono nulla: eppure la presenza non era
più
molto distante da lui né quelle erano state
lente… quale pesce o altra creatura
poteva essere tanto veloce? Inoltre, era una sua impressione o
qualunque cosa
fosse si fermava sempre prima di un certo punto, come se ci fosse una
qualche
barriera a trattenerlo e non si potesse spostare liberamente?
«Ryo,
riesci a sentire qualcosa ora?»
«No.»
«E
va bene. Credi di poter stare seduto qui per qualche minuto? Per
favore.»
«Sì…
ci provo.»
«Mi
basta.»
Libero
dal corpo dell’amico, Minegishi scese l’ultimo
scalino ben deciso a risolvere
il mistero e accettando anche di bagnarsi fino al midollo per questo.
Per fortuna,
quando entrò in acqua scoprì che il suo livello
arrivava a malapena ai fianchi.
«Hey,
ma tu sei lì a sguazzare!»
«Sì,
ma non essere idiota come me, intesi? Stai immobile.»
Puntò la torcia dritta ai
suoi piedi, ma niente accadde; invece, quando il fascio si sparse
intorno, l’arcano
iniziò a svelarsi.
«Ma
cosa…»
Per
la seconda volta, la voce si spense: per qualche istante ci fu il
silenzio
assoluto, quindi, appena la consapevolezza ricompose tutti i pezzi e
infine
rivelò l’incastro perfetto, il giovane
scoppiò in una risata.
Shimazaki
sorrise spontaneamente nell’udirla, in quanto era raro
sentire Minegishi ridere
così forte; poi attese, senza nascondere la sua impazienza,
che il compagno
rivelasse ciò che lui non poteva vedere. «Quindi?
Che cosa sta succedendo?», chiese
quando sentì l’altro calmarsi lentamente.
«Sta
succedendo… che abbiamo trovato il nostro tesoro.»
A
quelle parole il moro spalancò la bocca senza emettere un
suono, la richiuse e
la riaprì di nuovo nello stupore.
«Davvero?»
«Sì,
ed è sempre stato qui: era qui quando siamo venuti la prima
volta, e anche
quando abbiamo stretto la nostra promessa. Ora mi sta
guardando.»
«Cos’è,
qualcosa d’oro? … Aspetta, cosa vuol dire che ti
sta guardando?»
«Oro,
sì, e zaffiri e rubini. Il nostro principe non si
è affatto risparmiato sui
colori, ha usato solamente i migliori.»
Senza
più riuscire a trattenersi, Ryo si alzò ed
entrò in acqua a sua volta,
raggiungendo l’amico e stringendogli forte le spalle per
l’eccitazione. «Cos’è,
cos’è?»
«È
il soffitto sopra di noi. Ryo, se solo tu potessi vederlo…
è bellissimo.
Non
me ne sono accorto prima perché continuavo a guardare il
suolo e la torcia è
troppo debole per illuminare un grande spazio, ma quando la luce
sfiorava sia la
volta che l’acqua, questa lo rifletteva.
E
ti ricordi che cosa mi hai detto la prima volta che siamo stati
qui?»
«Ti
ho detto un sacco di cose allora: che mi avevi salvato, che avevi mille
braccia,
e anche che profumavi di fiori… ma non so come possano
rientrare nel discorso
di adesso.»
«La
leggenda: il principe straniero dalle mani ricoperte di
polvere dorata, che
rifiutava il contatto con la gente e preferiva rimanersene chiuso nelle
mura
con il suo tesoro… e noi siamo in una camera dipinta
d’oro e di mille altri
colori, sul percorso che i guardiani proteggevano.
Forse
si era ricavato tutto questo spazio perché aveva intenzione
di decorarlo tutto,
ma qualcosa deve averlo interrotto. Comunque sia, la leggenda
è allora…»
«…
Una storia vera.»
Minegishi
annuì, continuando a lasciar vagare lo sguardo sulla
meraviglia che avevano
sopra di loro: non un vero e proprio disegno, ma tanti vortici di
colori brillanti,
caldi e freddi che partivano da ogni angolo della volta e la riempivano
totalmente
fino a unirsi al centro, dove potevano dare vita a un cielo notturno
trapuntato
da milioni di astri e percorso da un’aurora boreale, oppure
alle profondità
marine con il grembo carico di fiori e perle.
Alle
pareti i toni andavano lentamente sfumando in un bianco latteo che
rimandava
all’infinità, la quale riniziava là
dove cominciava l’acqua e di nuovo si
tuffava nel tripudio dell’immaginazione e della bellezza.
Dentro
di sé, lui si rese conto di trovare quella scoperta
più importante di qualsiasi
gioiello perché era parte del mondo di chi l’aveva
creato e conservava tutto
ciò che la morte non aveva rapito con sé: visioni
della propria terra,
emozioni, il modo di concepire l’armonia e di esprimerla.
Il
vero tesoro allora non era la decorazione, ma l’anima da cui
era nato: e questo
non poteva avere paragoni.
«Credo
che qui qualcuno sia rimasto senza parole…»
Minegishi
non riuscì a rimanere impassibile al suono flautato della
voce di Shimazaki. «È
un peccato che non possa vederlo anche tu,
è…»
«Oh,
ma me lo puoi descrivere. Ti ascolto.» Senza attendere altro
o lamentarsi del freddo,
il moro si sedette nell’acqua e si mise in attesa con
l’espressione più
pacifica mai vista prima.
«Ma…
ora? Così?»
«Ovviamente.
O forse devi andare da qualche parte?»
Toshiki
alzò la testa e sospirò, riconoscendosi battuto e
non riuscendo a trattenere un
sorriso. La normalità è una strada
battuta: facile da percorrere, ma dove
non crescono fiori[1]. E tu
sai benissimo dove andare a
trovare i più belli. «Hai
ragione», mormorò prima di sedersi a sua volta,
«è
il nostro tesoro, quindi è giusto che entrambi lo
conosciamo.»
«Dimmi:
luna o stelle?»
«Entrambe,
e sempre al massimo della loro luce. La notte non sarebbe mai
più oscura se
fossero vere.»
«Possono
esserlo per noi, però.»
Un
altro sorriso. «… Riformulo quello che ho detto
poco fa: credo che quel colpo
in testa ti abbia fatto anche bene.»
E
la città, lui non la poté vedere ma lo fece, per
un attimo brillò di più
davanti ai nuovi guardiani dei suoi segreti.
C’è
una meta
Per il vento dell’inverno:
Il rumore del mare.[2]
Quando
lasciarono le mura era quasi giunta la sera.
Ormai
nemmeno un’ora rimaneva prima del buio completo, ed era un
fatto condiviso da
entrambi che andasse spesa vicino al mare — come la notte
precedente, eppure
con animo completamente diverso.
Il
loro viaggio nel buio aveva dato frutti che nessuno dei due si sarebbe
immaginato, e solamente una tappa mancava all’arrivo: la
più complessa, la più
personale e completamente loro.
«Sei
fortunato: anche se non ho potuto vedere il tesoro
nel senso comune del
termine, non mi ha comunque deluso. Per questa volta ti
risparmio.»
«Troppe
sorprese per oggi; continua così e finisco per
viziarmi.»
Shimazaki
sorrise, quindi si distese sulla sabbia. Anche quando Minegishi ebbe
fatto lo
stesso rimase in silenzio, riempiendosi di tutte le sensazioni che il
mondo gli
dava e liberando le parole solamente quando sentì che era il
momento giusto per
farlo. «Ti devo ringraziare sinceramente: una giornata simile
non la vivevo da
tantissimo tempo… anche se ciò che mi mancava
davvero era la compagnia di
qualcuno come te — togli pure quel qualcuno
e tieni il te. E sto
dicendo sul serio, per una volta.»
L’esper
delle piante inspirò a pieni polmoni. Era da qualche ora che
si sentiva turbato,
e non solamente dalla vista della camera decorata; no… si
scendeva molto più
nel profondo, questa volta.
Il
capolinea era ormai vicino, e lui era stanco di restare in silenzio. Un
giorno
era bastato per scoprire la verità su tante cose, e per lui
era sufficiente per
iniziare a riprendersi quanto gli spettava. «Qualcosa di
buono lo so fare anch’io,
allora.»
«Più
che qualcosa: tu…»
«Tu
sei un maledetto orgoglioso, ecco cosa dovresti dirmi. Ed è
vero, lo sono fino
al midollo.»
«Toshiki.»
Silenzio. «Toshiki, per tutti questi anni non siamo stati
altro che arroganza e
falsità, annebbiati dai nostri stessi poteri; niente
potrà cambiare questo
fatto. Però guardati ora: hai un lavoro, ti relazioni con la
gente, fai del tuo
meglio per crescere e migliorare… io, invece? Io ho saputo
solamente scappare e
lasciare tutti i problemi a te e agli altri, e non ho fatto nulla di
diverso da
allora.
Entrambi
abbiamo provato una grande paura: ma tu sei stato il più
intelligente tra i due
e hai reagito di conseguenza.»
Tacquero
entrambi, razionalizzando quanto si erano appena detti; poi Toshiki
riprese. «Siamo
cambiati tutti da quel momento — anche tu, a quanto ho potuto
vedere; ma la sera
in cui sei ricomparso, ero talmente arrabbiato da leggere in ogni tua
parola una
menzogna, e ho sbagliato: ho sbagliato ancora pensando di essere
l’unico a
parlare con giustizia. E se per metà è vero,
non…» Un sospiro. «Ti ho giudicato
senza nemmeno sapere cos’hai passato veramente in quei mesi,
ancora una volta
mi sono creduto migliore di un altro. Pensi davvero che possa essere un
atteggiamento da persona intelligente?»
«Eri
furioso, posso capire.»
«Davvero,
Ryo? … Mi perdoneresti, quindi?»
Il
moro si alzò sui gomiti e sollevò le palpebre;
per qualche istante le prime
stelle sembrarono riflettersi nel buio che portava dentro
sé. «Solamente se
prima lo fai con te stesso. E tu, Toshiki, perdoneresti me per tutto il
silenzio che ti ho fatto vivere? Hai detto che ritornare in questa
città non
sarebbe bastato per risolvere la situazione tra noi, e ti credo; ma con
il tempo
saresti in grado di rivedere in me un amico?»
«…
Tu non hai mai smesso di esserlo; certo, se tu non sparissi
più riprenderesti
punti, e se smettessi di considerarti solamente caos faresti meglio
anche a
me. Pure la città ci ha riconosciuti degni di conoscere
le sue ricchezze, qualcosa dovremo pur valere.»
Un
nuovo silenzio, una connessione nel vento che spirava da oltre quella
sponda, e
Toshiki si accorse di provare qualcosa nel petto: il vuoto suo compagno
stava
vacillando a mano a mano che si faceva più modesto per
incontrare e ritrovare l’altro,
e con lui anche sé stesso. L’incognita stava
formulando la sua risposta, e
inoltre, nella parte in cui si era sbagliato, Ryo aveva ragione: poteva
essere
ancora orgoglioso, ma non tanto da non saper chiedere scusa. Lo avrebbe
creduto
possibile nemmeno un anno fa?
Il
tuo viaggio non è ancora finito, ma stai procedendo senza
fermarti.
E
da qui in poi non sarai più solo.
Da
parte sua, Shimazaki sorrise di nuovo. «Se è
così, a parer mio ritenerti
migliore non è superbia ma realtà… chi
veglia sugli altri ha sempre qualcosa in
più.»
«Veglia…
un attimo, a che cosa ti riferisci?»
«Siamo onesti:
dei Super 5
sei stato e sempre sarai il più intuitivo e sveglio, e per
quanto tutto il
mondo sappia che non ami il contatto fisico e tendi a non esprimere le
emozioni,
hai sempre tenuto a noi. Aspetta, quindi ti dovrei chiamare mamma?»
«Ti
prego, non dipingermi come il puro della situazione: quello
è Serizawa.»
Sorrisero
entrambi e dopo qualche istante finirono per ridere, chi più
apertamente chi
meno.
«Dovresti
ridere più spesso, te l’ho sempre detto.»
«E
tu fare meno l’idiota: ma nessuno dei due ascolta mai
l’altro.»
Shimazaki
alzò le spalle come qualcuno che si è ormai
rassegnato davanti all’evidenza,
quindi fece uno dei suoi soliti ghigni. «Tu non hai sentito
nulla di tutto ciò,
comunque; e so dove abiti, quindi stai pur sicuro che se apri bocca te
ne
pentirai. Nessuno deve sapere che anch’io un cuore come te,
dolce Toshi-chan.»
«Ti
avverto: non farmi pentire di averti ritrovato, o giuro che
sarò io a fuggire il
più possibile lontano.»
«È
un po’ difficile starmi distante, Minegishi Toshiki: la luna
non resiste tanto tempo
senza il suo sole. Oh, ho appena deciso come posso chiamarti!»
Minegishi
si prese la testa tra le mani e si rifiutò di commentare, ma
tutto il suo animo
rideva e la natura intorno a loro lo manifestava.
Erano
ancora all’inizio, ma potevano farcela. La speranza era dalla
loro parte, non li
avrebbe lasciati di nuovo; avevano vinto sul silenzio.
Il tempo mette
ognuno al proprio
posto: ogni regina sul suo trono, ogni pagliaccio nel proprio circo.
Per
alcune persone vale la pena anche la peggiore delle prigioni,
purché insieme; e
se sono qui perché ti merito, allora sì, che sia
tu il mio posto.
NOTE
[1] Citazione
di Van Gogh.
[2] Haiku
di Ikenishi Gunsui.
ANGOLO
DI MANTO
Mi
rendo conto solo ora che ho riempito la fic delle citazioni
più disparate; ma
anche questo ha il suo senso, dato che Minegishi è un bookworm
di prima
categoria.
Ora,
io spero davvero di aver dato a questi due personaggi per me
importantissimi
tutta la profondità che meritano e di averli resi
compatibili al canon,
considerando però anche le modifiche comportamentali dopo i
traumatici eventi
vissuti e al fatto che ho dato una relazione di lunga data, quindi
certi
discorsi solamente tra loro potrebbero accadere; e soprattutto di aver
mostrato
come – per Minegishi è palese perché lo
si vede nell’opera stessa, per
Shimazaki meno ma ci sono dei momenti che lo fanno pensare (per
esempio, ci
sono due occasioni in cui difende o mostra empatia per Serizawa)
– non siano
affatto dei mostri di cattiveria, anzi.
Non
ho dato nome alla città marina non perché non
sapessi come chiamarla, ma perché
ognuno se la possa immaginare come preferisca, senza che corrisponda
forzatamente a un luogo reale. Pensatela come un posto che condensi in
sé tutta
la magica, sirenica bellezza degli ambienti a contatto con mare od
oceano, e il
vostro nome verrà.
Da
ultimo, ma non meno importante: la storia è un omaggio a una
delle scoperte più
avvincenti del mondo dell’archeologia, ovvero le pitture
paleolitiche della
Grotta di Lascaux, rinvenute nel 1940.
Di
casi del genere ce ne sono tanti, ma siccome qualche giorno fa
è morto l’ultimo
dei giovani esploratori che le videro per primi, la parte nelle mura
è tutta dedicata
a lui e ai suoi compagni. In questo caso, però, a essere
davvero importante non
è la scoperta della camera decorata, ma la ripresa di una
relazione: letteralmente,
la trasposizione del detto “chi trova un amico trova un
tesoro”.
E
direi che questa coppia di bros – o qualcosa di
più? A voi la sentenza –
possano considerarsi davvero fortunati sia in un senso che
nell’altro.
Manto