Il suo
sguardo… i suoi occhi… il sangue…
Mi svegliai, ancora una volta
terrorizzata dal mio
incubo, urlando con tutto il fiato che avevo in gola.
Sentii qualcosa sfiorarmi il
braccio. Fui pervasa dal
terrore. Immediatamente mi ritrassi sul cuscino, spaventata, urlando
ancora.
Sentivo il cuore battere forsennato nel petto e il respiro ansante.
La finestra si aprì, e
dei deboli raggi di sole
illuminarono la stanza.
Edward comparve dinanzi a me,
un’espressione
preoccupata e tormentata sul viso. «Bella amore, sono
io».
Sentii le mie labbra tremolare. Era
Edward. Era solo
lui, nessun altro mi aveva toccata.
Mentre il cuore calmava la sua
corsa, sentii i miei
occhi inumidirsi di lacrime. Il terrore lasciava pian piano il posto al
senso
di colpa. Non volevo che lui soffrisse per quelle mie reazioni, a causa
mia.
«S-scusami»
balbettai «io…io non mi ero resa conto
che… m-mi dispiace…» le parole
s’incrinarono a causa dei singhiozzi.
«Non ti preoccupare, lo
so che non è colpa tua» mi
rassicurò dolcemente, offrendomi le sue braccia aperte.
Titubante lo osservai, le lacrime
che scendevano dai
miei occhi mi offuscavano la vista. Lui non si mosse. Mi sollevai dal
letto,
gettando le coperte di lato e posando il capo sul suo petto per librare
altri
singhiozzi. Ne avevo bisogno, avevo bisogno di lui, del suo affetto, e
di
togliermi di dosso quella sensazione di calore che mi pervadeva.
«Che succede?»
chiese Rosalie entrando in camera e
richiudendosi la porta dietro.
«È colpa
mia» sussurrai mesta, asciugandomi le lacrime
con il polso, prima che Edward potesse dire qualcosa. Parlare per me
era un
problema. Era come se… non ci fossi più abituata,
per questo cercavo di farlo
il minimo indispensabile. «Edward si è avvicinato
a me e io mi sono ritratta»
continuai, abbassando lo sguardo. «Era buio, non
l’avevo visto. Avevo paura».
Lui mi strinse più
forte. Avevo una strana e
spiacevole sensazione di torpore in tutto il corpo e sentivo le ferite
pulsare
sotto le bende degli avambracci. Non volevo più soffrire,
non volevo più questo
dolore.
«Tesoro» mi
chiamò dolcemente Rosalie «non ti devi
preoccupare di questo, in fondo non è successo nulla. Vedi?
Ora siete
abbracciati».
Risollevai lo sguardo su di lei.
Presi un bel respiro,
per non far scendere altre lacrime. Tuttavia il tono di voce
salì di alcune
ottave «Accadrà ancora. Non andrà
più via».
Mi sorrise dolcemente.
«Non è così. Ti aiuterò
io».
«E anch’io. Te
l’ho promesso» mi disse Edward,
ricordandomi le mie parole del giorno precedente.
Abbassai lo sguardo. Me
l’aveva promesso e io ne avevo
bisogno, ma non era così facile permettere agli altri di
aiutarmi. Significava
renderli partecipi di tante cose che avrei voluto tenere nascoste.
«Vieni, siediti
qui» mi disse Rosalie indicandomi il
bordo del letto e porgendomi una mano.
La afferrai, titubante, e a
malincuore mi staccai da
Edward, mettendomi seduta sul materasso.
«Tu Edward, siediti qui,
accanto» continuò lei,
parlando con il fratello.
Anche lui fece come diceva,
sedendosi accanto a me,
mentre Rosalie rimase in piedi davanti a noi. Mi sentivo frastornata.
Forse
perché non ero abituata a stare in quella posizione.
«Ora chiudi gli
occhi». Aspettò che io, esitante,
abbassassi le palpebre.
Dopo alcuni istanti mi sentii
toccare una mano e
ancora una volta mi ritrassi spaventata, riaprendo gli occhi. Edward
aveva una
mano a mezz’aria. Ero stata colta di sorpresa e quella era
stata una reazione
istintiva. In fondo sapevo che non poteva essere altri che lui.
«Scusa»
mormorai afflitta e frustrata, tentando di calmare il respiro.
«Non ti
preoccupare» disse lui con un sorriso
rassicurante.
«Vedi Bella»
cominciò Rose «quando tu sai che è
Edward
a toccarti non hai problemi. Quando invece non lo puoi vedere
è il tuo istinto
che comanda e prende il sopravvento su di te».
Sospirai. Sì, aveva
ragione. Ogni contatto era per me
motivo di ricordo della mia prigionia, e faceva troppo male. Tutti quei
giorni
passati a tentare di mantenere sempre un minimo di lucidità
e a scattare ad
ogni minimo contatto esterno mi avevano fuorviata.
«Richiudi gli
occhi» ordinò.
«I…io…»
balbettai. Non volevo rifarlo. Non aveva
senso, sarebbe accaduto ancora e Edward ne avrebbe sofferto. Non volevo
provare
nuovamente paura e soprattutto non volevo ferirlo.
«Fidati di me»
mi disse decisa.
Lessi solo determinazione nei suoi
occhi, ma non bastò
per convincermi. Mi voltai verso Edward, che mi sorrise. Decisi di
darmi, di
darci, un’altra possibilità. Con un sospiro
richiusi lentamente gli occhi.
«Edward, prendile la
mano».
Inevitabilmente sussultai al suo
tocco, e se non
avesse trattenuto la mia mano con la sua l’avrei
già ritirata. Mi sentivo
vulnerabile e indifesa. Avevo paura e non volevo continuare. Il respiro
si
stava facendo sempre più corto e presto mi sarei ritrovata
senza fiato. Feci
per aprire gli occhi, ma Rosalie non me lo permise.
«Respira Bella, piano,
prendi un bel respiro» mi
ordinò con determinazione.
Aprii e chiusi la bocca, ma senza
lasciar passare
alcun fiato. Stavo impazzando. Feci per ritirare ancora la mano, ma
Edward mi
strinse più forte.
«Coraggio amore, ce la
puoi fare, respira, così» mi
disse ad un orecchio, imitando il respiro profondo che avrei dovuto
seguire.
Dovevo farmi aiutare, dovevo farlo.
Mi lasciai
completamente guidare da lui, seguendo il suo ritmo e lasciando man
mano
rilassare i muscoli contratti.
«Bene» disse
infine Rosalie «Ora mi devi dire cosa
senti».
Non capii quello che intendesse
dire. Mi sembrava
scontato e stupido. Un po’ perplessa cominciai a parlare.
«Sento… una mano. Che
mi tocca…».
«Sbagliato»
rispose lei, facendomi sussultare. «Non è una mano. Non devi tenere conto di
quello che la rende simile, ma di quello che la rende differente. Devi
considerare le differenze, Bella».
Tentai di pensarci, ma non trovai
nulla. Gemetti,
frustrata. Volevo solo riaprire gli occhi, non ce la facevo a
continuare così.
Il senso d’oppressione e turbamento stava nuovamente
prendendo la meglio su di
me.
«Coraggio
Bella» incalzò lei.
Dissi la prima e stupida cosa che
mi venne in mente.
Volevo solo che la smettesse e presto, prima che le lacrime
cominciassero a strabordare
dai miei occhi. «È…
fredda…?!» dissi incerta e scocciata.
«Giusto, per cominciare
può andare bene, continua».
Mi sorpresi di quella risposta. Il
senso di
abbattimento stava per impossessarsi completamente di me. Tentai di
concentrarmi, ma non riuscivo a scorgere altre differenze. Le mie gambe
si
muovevano tamburellando nervose sul pavimento. «Rose io, non
so…» sbottai,
armeggiata e sull’orlo del pianto, tentando ancora una volta
di ritirare la
mano.
«Pensaci bene»
m’interruppe, intransigente e perentoria.
«Ti prego»
gemetti.
«No».
Proprio quando stavo per scoppiare
in lacrime mi
ricordai che accanto a me in quel momento c’era Edward e che
probabilmente
stava soffrendo per le mie parole. Sospirai frettolosamente fra i
denti.
Fredda, mano fredda.
Smisi di tentare di concentrarmi,
perdendomi
completamente nelle sensazioni che mi stava regalando e nella
percezione del
suo tocco. Le differenze. Dovevo pensare alle differenze. Questo mi
doveva
obbligatoriamente portare al ricordo di un altro paio di mani.
Respirai ancora, piano, tentando di
calmarmi e
riportando la mente al presente.
Le mani di Edward.
«È
delicato» biascicai arrossendo, e umettandomi le
labbra «Il tocco… è delicato»
ispirai ancora, lasciandomi andare maggiormente.
«È dura, liscia» sussurrai, prendendola
con entrambe le mani e sfiorandone il
palmo. La toccai ancora, in tutti i punti. «Le
dita… sono lunghe… da pianista»
sorrisi debolmente.
«Brava, stai andando
benissimo» mi esortò contenta
Rosalie.
Serrai gli occhi e ricacciai
giù tutta la mia paura
insieme ad un conato di vomito. Continuai, guidata
dall’istinto di liberarmi
del dolore che sentivo dentro. «È forte e modella
la mia pelle… ma non mi fa
male. E-elegante. È la mano di Edward. Di mio
marito».
«Brava Bella»
sussurrò Rose con approvazione.
Aprii piano piano gli occhi,
lasciando che le macchie
rosse che vedevo per averli serrati con tale intensità
danzassero davanti al
mio campo visivo.
«Va tutto bene»
bisbigliò Edward, e non capii subito
se fosse un’affermazione o una domanda.
Rose riprese a parlare con
più calma. «È un piccolo
inizio, lo so. So anche che ti sembra di non aver conquistato nulla, ma
in
questo momento ogni cosa farà la differenza».
Tremai, alzai lo sguardo su di lei
e annuii, ripetendomi
mentalmente le sue parole e provando a farmi forza. «Grazie
Rose».
«Figurati»
disse lei, sorridendomi e chinandosi per
accarezzarmi una guancia.
Inaspettatamente fui colta da un
improvviso attacco di
nausea e mi allontanai. «Scusa» mormorai, con una
mano alla bocca e una alla
pancia.
«Ti senti
male?» chiese Edward accarezzandomi i
capelli.
Appoggiai la fronte sulla sua
spalla fredda. «Solo… un
po’ di nausea».
«Stenditi un
po’» mi propose, prendendomi poi in
braccio e sollevandosi in piedi. Rosalie sistemò le coperte
e Edward mi
appoggiò delicatamente sul materasso. Mi rannicchiai su un
lato in posizione
fetale.
Edward mi sfregava la schiena,
tentando di darmi
sollievo, mentre Rose mi accarezzava una guancia. «Vuoi che
ti porti in bagno?»
mi chiese gentilmente dopo un po’.
Scossi il capo sul cuscino,
prendendo un respiro. «No…
è già passato» mormorai atona.
Edward mi sorrise, tentando di
rassicurarmi. «Ti sei
agitata un po’. Non ti stancare, riprendi fiato e
riposati».
«Possiamo darle i
calmanti» disse Rosalie indicando
delle fiale di vetro su comodino.
«Sì, avrebbe
dovuto prenderli appena sveglia» ripose
Edward.
«Dovremmo chiamare
Carlisle».
Sentii la bocca ardere, senza
saliva, e il fiato
bloccarsi in gola, mentre stringevo forte la mano di Edward. Non
volevo. Non
volevo ancora pensare di aver bisogno di un medico per guarire dalla
mia
follia.
«Rosalie» la
richiamò bonariamente Edward, notando la
mia reazione «va bene così, per ora. Se
starà di nuovo male lo chiameremo. Ci vorrà
qualche giorno di terapia continuativa prima che si possano apprezzare
gli effetti».
Rosalie annuì.
Aprì il flaconcino che era sul mio
comodino e fece cadere sulla mano una compressa che mi porse insieme a
un
bicchiere d’acqua. La mandai giù in un sorso e
glielo riposi.
Esitai,
poi mi
strinsi al braccio di Edward, lasciandomi cullare dalla pace e dal
torpore
artificiale dei farmaci.
«Tesoro, vuoi mangiare
qualcosa?» mi chiese Rosalie.
Quella domanda mi sorprese. Non
pensavo al cibo da
molto, molto tempo.
«È quasi
mezzogiorno» continuò lei, aspettando che le
rispondessi in qualche modo.
Mi stupii di aver dormito per
così tanto tempo, ma non
dissi nulla. Non avere il controllo del tempo mi disorientava molto. Mi
girai
supina e Edward mi sistemò i cuscini dietro la schiena. Il
precedente attacco
di nausea unito all’effetto degli psicofarmaci mi aveva
lasciata spossata.
Edward mi prese le mani fra le sue
e mi fissò
intensamente, probabilmente in attesa di una mia risposta.
Feci vagare lo sguardo lontano,
sospirando. Non avevo
appetito, e, stranamente, la prospettiva di farmi infilzare ancora con
degli
aghi non mi pareva così orribile, ma sapevo che era
necessario ricominciare a
mangiare. Edward era così fiducioso che lo facessi.
«Va bene» biascicai infine,
disinteressata.
Mi sorrise, facendo trapelare la
sua felicità per
quella piccola concessione.
«Torno subito»
mi disse Rose, scomparendo.
Mi persi per un attimo ad osservare
il volto dell’uomo
che avevo sposato. Stavo facendo tutto per lui. La mia vita era legata
a un
filo. E quel filo dipendeva dal mio amore per lui e dalla sua
felicità.
«Ecco qui»
disse Rose posando il vassoio.
Edward si sedette su un lato del
letto, sorridendomi.
«Guarda» disse girando con cucchiaio una poltiglia
arancione «Deve essere
buona».
La osservai vacua. In fondo dovevo
solo ingoiare
quella cosa. Quanto poteva essere difficile? Sospirai afflitta; poi mi
rabbuiai, abbassando lo sguardo. Mi sentivo terribilmente in colpa.
Sentii una mano sotto il mento.
«Bella?» mi chiamò Edward,
guardandomi intensamente negli occhi. «Cosa
succede?».
Sfuggii nuovamente ai suoi occhi
indagatori, non
volevo che mi guardasse così. Non volevo che mi osservasse.
Mi mordicchiai un
labbro. «Ci è rimasta molto male?»
chiesi infine, a voce così bassa e tremante
che se non ci fossero stati due vampiri davanti a me non mi avrebbero
neppure
sentita.
«Ma no Bella…
Esme non ce l’avrebbe mai con te» mi
rispose subito Rosalie capendo di cosa stessi parlando.
Edward mi prese il volto fra le
mani, cancellando con
i pollici le lacrime silenziose che avevano cominciato a scendere.
Mi portai una mano tremante alle
labbra, gli occhi
persi nel vuoto dei ricordi. «Io…
Io…» balbettai «non volevo
farlo». Mi lasciai
completamente andare, sfogandomi nelle lacrime. Risollevai lo sguardo
su quello
di Edward e deglutii a vuoto. «Mi voleva far mangiare per
forza. Jacob»
spiegai, tirando inutilmente su con il naso, visto che ormai il pianto
si era
fatto più accesso «aveva messo qualcosa nel
cibo… e io non lo volevo mangiare.
Lui diceva che era solo per far abbassare la febbre, ma…
io… mi forzava…
tentavo di non mangiare, ma lui…».
«Amore», mi
richiamò Edward, gli occhi ampi di rabbia
e tensione, accarezzandomi una guancia «non mi
perdonerò mai per tutto il male
che ti ha fatto. Per tutto quello che hai dovuto sopportare. Deve
essere stato
orribile».
Presi la mano con cui mi stava
accarezzando la guancia
e volsi la testa, baciandogli il palmo e lasciando calmare i
singhiozzi. «Ti
prego, dì ad Esme che mi dispiace tantissimo, ti
prego» mormorai afflitta.
«Ma non è
necessario, lei già lo sa».
«Ti prego»
incalzai, stringendo maggiormente la presa
sulla sua mano.
«Lo faccio io
Bella» mi disse Rosalie «Se tu vuoi le
spiegherò le ragioni del tuo comportamento e vedrai che lei
capirà. Starete
entrambe sicuramente meglio».
Valutai cautamente quello che mi
stava dicendo. No,
non volevo che altre persone venissero a sapere dei mostri che
torturavano la
mia mente. Ma sì, volevo che Esme
fosse felice.
Volevo rimediare al mio errore. «Sì»
sussurrai, calmando definitivamente i
singhiozzi e lasciando che Edward mi asciugasse le ultime lacrime.
«Solo a lei»
aggiunsi debolmente.
«Va bene, solo a
lei» disse Rosalie contenta uscendo
dalla stanza.
Edward mi sorrise e io ricambiai il
suo sguardo con
l’intensità che mi potevo permettere.
«Ora mangia qualcosa» fece porgendomi una
cucchiaiata del passato di verdure. Ci soffiò sopra per
farla raffreddare e
l’accompagnò alla mia bocca con l’altra
mano.
Tremai. Tentai di ricordarmi che
ero con Edward, non
Jacob. Che ero al sicuro. Aprii le labbra e la mandai giù,
non senza qualche
difficoltà. Era meno disgustosa di quanto mi sarei
immaginata. Pensai che forse
sarebbe stato più facile se avessi preso il cucchiaio con le
mie mani, ma avevo
paura che cambiando qualunque cosa avrei potuto avere una reazione
incontrollata. Avrei potuto ferire ancora Edward. Aprii la bocca per
prendere
una seconda cucchiaiata, e scese giù più
facilmente.
Feci per sollevarmi leggermente, in
modo da sistemarmi
meglio sul letto, facendo leva sulle braccia, ma sentii delle fitte e
ricaddi
fra i cuscini. Guardai Edward disorientata e preoccupata.
Edward sospirò.
«Non è niente, ti sei fatta un po’
male». E poi aggiunse, evasivo, al mio sguardo insistente
«Qualche punto».
Distolsi lo sguardo. Presi qualche
respiro
superficiale per calmarmi. Mi volsi, e lasciai che mi imboccasse
ancora. Ingoiai
un altro boccone. Fu più difficile. Dopo un altro non potei
più continuare. «Basta,
ti prego» biascicai. Osservai il piatto. Non ne avevo
mangiato neppure metà.
«Va bene»
annuì, mal celando una certa preoccupazione.
Mise via il piatto. Poi aggiunse, forse per rassicurare più
sé stesso che me «È
normale che tu non abbia fame. Hai preso i calmati, non hai mangiato
per sei
giorni. Il tuo organismo si deve riadattare».
«Sei giorni?»
mi lasciai sfuggire dalle labbra per la
sorpresa.
Lui sorrise per la mia reazione,
poi sussultò, come se
si fosse improvvisamente ricordato qualcosa. «Aspetta un
attimo» mi disse con
un sorriso incoraggiante. Scomparve in un secondo e dopo pochi istanti
era di
nuovo di fronte a me, con una mano dietro la schiena.
«Indovina cos’ho qui?» mi
chiese con dolcezza.
Lo guardai. Dentro di me sentivo
una strana
sensazione. Mi sentivo rassicurata. Forse quasi… felice?
«Guarda» mi
disse avvicinandosi e mostrandomi un
barattolino di gelato e un cucchiaio.
Mi portai le mani alla bocca.
«F…fragola e limone?»
balbettai, facendo comparire sulle mie labbra l’antica ombra
di un sorriso.
«Sì
amore», mi disse contento ed emozionato
«tieni».
Volevo piangere, ma in quel momento
le lacrime di
gioia non erano contemplate. Avevo paura che avrebbero riaperto
voragini di
malinconia che volevo solo tenere sotterrate. Ne presi un paio di
cucchiai, e
sia io che Edward lo interpretammo come una vittoria.
«Grazie» commentai infine
atona per farlo smettere.
«Devi ringraziare
Alice».
«Alice…?»
chiesi debolmente, rabbrividendo al ricordo
del nostro ultimo incontro.
Lui sorrise.
«Sì, è stata una sua idea».
Aspettai che Edward riponesse il
gelato e mi feci
pulire le labbra con un tovagliolo, perdendomi in lontananza con lo
sguardo.
«Tesoro, Alice non ce
l’ha con te» mi disse Edward
intuendo i miei pensieri.
Sospirai, affranta e contrariata,
al ricordo del
risentimento che avevo scatenato in lei.
«Fidati di me, non
può nascondermi i pensieri molto a
lungo».
Mi voltai ad osservare Edward che,
con le sopracciglia
aggrottate mi parlava concitato.
«Lei soffre
perché ti vede sempre allo stesso modo,
che non migliori, che non vuoi migliorare. Non vede più il
tuo futuro in cui
eravate sorelle. Per questo soffre, e perché non ti
comprende. Perché sai com’è
Alice, lei è sempre quella che risolve la
situazione» disse, parlando
teneramente della sorella «lei è sempre quella che
reagisce, e non ti
comprende. Non capisce perché tu non vuoi reagire. Anche
adesso, è vero,
qualcosa sta cambiando ma… ha paura che non ritorni
più com’eri. Che non
ritorni più ad essere te stessa» concluse con
dolore.
Non dissi nulla, riconoscendo la
verità nelle sue
parole. Non ero più io. Mi sentivo un inutile guscio, vuoto,
abitato solo da un
barlume di speranza alimentato dall’amore per Edward.
Purtroppo il mio cervello
umano non poteva sopportare dei dolori così grandi
contemporaneamente. Lo
sapevo che anche parlando e ricominciando a vivere non sarei
più stata la
stessa. Ero irrimediabilmente cambiata. Sentii un turbine nella testa.
Mi
sentivo intrappolata. Probabilmente se il diazepam non avesse
già fatto effetto
a quel punto mi sarei ritrovata in piena crisi di panico. Feci vagare
il mio
sguardo nella stanza, in cerca di una via d’uscita a quel
senso d’oppressione
che mi sentivo addosso. «Posso andare un po’ alla
finestra? Vorrei prendere un
po’ d’aria».
Lo sguardo di Edward si
gelò e solo in quel momento mi
ricordai di quello che era successo. Chi era dei due ad avere un
disturbo da
stress post-traumatico?
Mi sentii ancora peggio. Deglutii.
Chiusi gli occhi e
mi dondolai avanti e indietro, come tentando di cullarmi.
«Non lo volevo fare
davvero, lo giuro. È stato solo un momento»
biascicai querula.
Lui chiuse e riaprì gli
occhi, molto lentamente. «Shh.
Va bene. Mi fido di te. Te l’ho detto» disse
sollevandosi con grazia e porgendomi una mano per aiutarmi ad alzarmi.
«Grazie»
sussurrai grata, prendendo la sua mano e
facendomi guidare per la stanza. Mi sentivo molto debole e stanca,
probabilmente per opera dei calmanti. E di certo non ero abituata a
camminare,
ma mi faceva sentire viva essere sulle mie gambe.
Ci sedemmo davanti alla vetrata
semi-aperta, uno di
fronte all’altra. L’aria fresca di Forks mi fece
subito sentire meglio. Guardai
in lontananza, fra i monti e fra le finestre e respirando a pieni
polmoni.
Ripensavo a tutto
l’affetto che ogni componente della
famiglia mi aveva riservato in quei giorni. Non lo meritavo. No
davvero.
Appoggiai la testa al vetro, guardandomi le mani.
Sulla mano destra c’era
inciso un segno verticale,
rosso sui bordi.
«Loro lo
sanno…?» chiesi, senza distogliere lo sguardo
dalle mie mani. «Lo sanno che sono stata io, ad
ucciderlo?».
«Sì
Bella» mi rispose deciso Edward.
Singhiozzai, stringendomi il petto
e sentendo i suoi
occhi puntati su di me. «Non mi guardare, ti prego»
mi strinsi più forte per
contrastare il dolore che mi dilaniava «non mi guardare,
lasciami qui, va’ via…
non sono degna di averti accanto a me…».
«Bella, amore»
mi chiamò serio «guardami».
Scossi la testa in segno di diniego.
«Bella» mi
richiamò deciso e perentorio.
Dovetti per forza voltarmi. Lo
osservai attraverso i
miei occhi annebbiati di lacrime. Era estremamente serio, aveva
un’espressione
decisa in volto.
«È per questo
che stai così male, perché lui è
morto?».
Singhiozzai, nascondendomi il volto
fra le mani. «Non
perché è morto» piansi
«Perché io ho ucciso una persona, ho ucciso un
uomo,
capisci?!» la voce era salita fino a che non ero arrivata
allo stremo del
pianto.
La sua voce invece era bassa, ma
intensa e abbattuta
«Io capisco che niente, mai, avrebbe dovuto macchiare la tua
anima pura, e
credimi se ti dico che avrei fatto qualsiasi cosa per evitarlo, ma lui
ti ha
fatto del male! Ti ha fatto del male Bella, e ne avrebbe fatto anche a
me! E a
tutti noi. Tu non hai nulla di sbagliato. Hai fatto la cosa
giusta».
Non lo ascoltai e sovrastai le sue
parole con i miei
singhiozzi.
Edward riprese con un altro tono di
voce. «È solo per
questo o c’è anche altro?». Fece una
pausa, durante la quale non risposi. «È
per quello che ti ha fatto, vero?» mi chiese gentilmente.
Rimasi in silenzio. Alzai lo
sguardo su di lui e
l’abbassai. Lo prese come un assenso.
Aspettai di calmarmi. Fu
più facile di quanto pensassi,
non so se per opera dei calmanti o per il vano sollievo delle lacrime.
Edward
non disse nulla, ma rimase a guardarmi in silenzio. Sentivo i suoi
occhi su di
me.
Mi guardai nuovamente la cicatrice
che mi ero causata
tagliando la gola a Jacob. Tanta era stata la forza che avevo usato da
imprimermi un profondo taglio. Un pensiero orribile mi
attraversò la mente.
Mi voltai verso Edward,
sobbalzando. «E se non fosse
morto?» chiesi in un fiato, terrorizzata da questa ipotesi.
Esitò,
un’espressione afflitta sul viso, nel tempo che
decideva quale realtà mi sarebbe stata più
sopportabile. Poi si decise a dirmi la
verità. «No Bella, è morto. Ho
controllato io stesso». Mi prese le mani fra le
sue. Lo feci fare, non avevo abbastanza forza di volontà per
oppormi. «Se solo
potessi tornare indietro e fare io quello che hai dovuto fare tu,
credimi, lo
farei. Troverei il modo e lo farei… Ma non posso. Non
posso» mi disse
addolorato.
I singhiozzi emersero nuovamente in
me, con più forza.
Io lo avrei voluto. Sentivo un egoistico senso di sollievo nel sapere
che
doveva essere lui a ucciderlo.
Edward si spaventò
particolarmente per quella mia
reazione. «Amore» mi chiamò ansioso,
tendendomi le braccia.
Non esitai e mi lanciai sul suo
petto. «Se… se fosse
ancora necessario, s-so che lo rifarei. Lo ucciderei… u-un’altra
volta, m-ma… sono solo un’egoista…
p-perché preferirei che… fossi tu a
farlo…».
Edward mi strinse più
forte, tentando inutilmente di
calmare i miei potenti singhiozzi. «Sarebbe giusto
così» mi prese il viso fra
le mani, facendomi scontrare contro i suoi occhi. «Tu non
dovevi essere
coinvolta in questo mondo strano. Io sono
un vampiro Bella, io dovevo
ucciderlo, sarebbe stato giusto così! Vampiro contro
licantropo è normale. È
normale, anche se orribile per me, uccidere qualcuno. Sono creato
appositamente.
Ma tu, piccolo, dolce, puro amore mio, tu non dovevi avere questo peso
gravoso
sulla tua anim…».
Chiusi gli occhi sul suo petto,
lasciandomi cullare
per un po’. Poi mi sentii sollevare e mi ritrovai fra le
braccia di Edward. «Ho
sentito odio» la mia voce era roca per il pianto appena
cessato «tanto,
profondo odio, e un forte desiderio di vendetta». Posai la
testa nell’incavo
del suo collo.
«Era esattamente quello
che provavo anch’io» sussurrò
Edward.
In quell’istante provai
sollievo. Mi sentivo più
leggera. Non sentivo più alcun peso opprimente. Respirare
era tornato ad essere
qualcosa di istintivo e naturale, facile.
Non sapevo esattamente
perché, forse per essermi
sfogata e aver raccontato a Edward tutto quello che avevo provato,
forse perché
semplicemente ero fra le sue braccia.
Capii che mi poteva davvero
aiutare. Potevo davvero
sentirmi meglio.
Mi sollevai leggermente, in modo da
poter osservare il
suo volto. Aveva un’espressione triste. «Grazie di
aver rimpicciolito la paura»
mormorai.
Lui mi fece il sorriso sghembo che
tanto amavo,
aprendosi nella gioia di vedermi un po’ meno fragile.
«Mi sei
mancato» confessai, accarezzandogli una
guancia.
Lui chiuse gli occhi e
posò una mano sulla mia. Fu in
quel momento che notai le fedi.
«Mi è mancato
tanto mio marito» ammisi.
Sorrise, riaprendo gli occhi.
«Anche a me è mancata
mia moglie».
Mi avvicinai con il viso al suo,
inspirando forte il
suo odore dolce e delizioso. Chiusi gli occhi e misi fine allo spazio
che ancora
divideva le nostre labbra, baciandolo. Era quello di cui avevo bisogno.
Era
amore, e lavava via ogni mia ferita. Era amore, e curava la mia anima.
Era
amore, e mi permetteva di amare.
«Ti amo»
sussurrai, staccandomi da lui.
Gli occhi di Edward brillavano come
i miei, anche
senza la possibilità di versare quelle lacrime di gioia che
sicuramente
avrebbero voluto scendere. «Ti amo
anch’io».
«Edward» lo
richiamai, ricordandomi di quello che mi
aveva chiesto qualche giorno prima. «Anch’io mi
fido di te» dissi baciandolo
ancora.