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Autore: keska    05/08/2009    34 recensioni
Tranquilli è a LIETO FINE!
«Perché… anche la pioggia, sai» singhiozzai «anche la pioggia tocca il mio corpo,
e scivola via, non lascia traccia… non… non lascia nessuna traccia. L’unico a lasciare una traccia sei stato tu Edward…
sono tua, sono solo tua e lo sono sempre stata…».

Fan fiction ANTI-JACOB!
E se Jacob, ricevuto l’invito di nozze non avesse avuto la stessa reazione? Se non fosse fuggito? Come si sarebbe comportato poi Edward?
Storia ambientata dopo Eclipse. Lupacchiotte, siete state avvisate, non uccidetemi poi…
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler! | Contesto: Eclipse, Breaking Dawn
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'CULLEN'S LOVE ' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Il suo sguardo… i suoi occhi… il sangue…

Il suo sguardo… i suoi occhi… il sangue…

Mi svegliai, ancora una volta terrorizzata dal mio incubo, urlando con tutto il fiato che avevo in gola.

Sentii qualcosa sfiorarmi il braccio. Fui pervasa dal terrore. Immediatamente mi ritrassi sul cuscino, spaventata, urlando ancora. Sentivo il cuore battere forsennato nel petto e il respiro ansante.

La finestra si aprì, e dei deboli raggi di sole illuminarono la stanza.

Edward comparve dinanzi a me, un’espressione preoccupata e tormentata sul viso. «Bella amore, sono io».

Sentii le mie labbra tremolare. Era Edward. Era solo lui, nessun altro mi aveva toccata.

Mentre il cuore calmava la sua corsa, sentii i miei occhi inumidirsi di lacrime. Il terrore lasciava pian piano il posto al senso di colpa. Non volevo che lui soffrisse per quelle mie reazioni, a causa mia.

«S-scusami» balbettai «io…io non mi ero resa conto che… m-mi dispiace…» le parole s’incrinarono a causa dei singhiozzi.

«Non ti preoccupare, lo so che non è colpa tua» mi rassicurò dolcemente, offrendomi le sue braccia aperte.

Titubante lo osservai, le lacrime che scendevano dai miei occhi mi offuscavano la vista. Lui non si mosse. Mi sollevai dal letto, gettando le coperte di lato e posando il capo sul suo petto per librare altri singhiozzi. Ne avevo bisogno, avevo bisogno di lui, del suo affetto, e di togliermi di dosso quella sensazione di calore che mi pervadeva.

«Che succede?» chiese Rosalie entrando in camera e richiudendosi la porta dietro.

«È colpa mia» sussurrai mesta, asciugandomi le lacrime con il polso, prima che Edward potesse dire qualcosa. Parlare per me era un problema. Era come se… non ci fossi più abituata, per questo cercavo di farlo il minimo indispensabile. «Edward si è avvicinato a me e io mi sono ritratta» continuai, abbassando lo sguardo. «Era buio, non l’avevo visto. Avevo paura».

Lui mi strinse più forte. Avevo una strana e spiacevole sensazione di torpore in tutto il corpo e sentivo le ferite pulsare sotto le bende degli avambracci. Non volevo più soffrire, non volevo più questo dolore.

«Tesoro» mi chiamò dolcemente Rosalie «non ti devi preoccupare di questo, in fondo non è successo nulla. Vedi? Ora siete abbracciati».

Risollevai lo sguardo su di lei. Presi un bel respiro, per non far scendere altre lacrime. Tuttavia il tono di voce salì di alcune ottave «Accadrà ancora. Non andrà più via».

Mi sorrise dolcemente. «Non è così. Ti aiuterò io».

«E anch’io. Te l’ho promesso» mi disse Edward, ricordandomi le mie parole del giorno precedente.

Abbassai lo sguardo. Me l’aveva promesso e io ne avevo bisogno, ma non era così facile permettere agli altri di aiutarmi. Significava renderli partecipi di tante cose che avrei voluto tenere nascoste.

«Vieni, siediti qui» mi disse Rosalie indicandomi il bordo del letto e porgendomi una mano.

La afferrai, titubante, e a malincuore mi staccai da Edward, mettendomi seduta sul materasso.

«Tu Edward, siediti qui, accanto» continuò lei, parlando con il fratello.

Anche lui fece come diceva, sedendosi accanto a me, mentre Rosalie rimase in piedi davanti a noi. Mi sentivo frastornata. Forse perché non ero abituata a stare in quella posizione.

«Ora chiudi gli occhi». Aspettò che io, esitante, abbassassi le palpebre.

Dopo alcuni istanti mi sentii toccare una mano e ancora una volta mi ritrassi spaventata, riaprendo gli occhi. Edward aveva una mano a mezz’aria. Ero stata colta di sorpresa e quella era stata una reazione istintiva. In fondo sapevo che non poteva essere altri che lui. «Scusa» mormorai afflitta e frustrata, tentando di calmare il respiro.

«Non ti preoccupare» disse lui con un sorriso rassicurante.

«Vedi Bella» cominciò Rose «quando tu sai che è Edward a toccarti non hai problemi. Quando invece non lo puoi vedere è il tuo istinto che comanda e prende il sopravvento su di te».

Sospirai. Sì, aveva ragione. Ogni contatto era per me motivo di ricordo della mia prigionia, e faceva troppo male. Tutti quei giorni passati a tentare di mantenere sempre un minimo di lucidità e a scattare ad ogni minimo contatto esterno mi avevano fuorviata.

«Richiudi gli occhi» ordinò.

«I…io…» balbettai. Non volevo rifarlo. Non aveva senso, sarebbe accaduto ancora e Edward ne avrebbe sofferto. Non volevo provare nuovamente paura e soprattutto non volevo ferirlo.

«Fidati di me» mi disse decisa.

Lessi solo determinazione nei suoi occhi, ma non bastò per convincermi. Mi voltai verso Edward, che mi sorrise. Decisi di darmi, di darci, un’altra possibilità. Con un sospiro richiusi lentamente gli occhi.

«Edward, prendile la mano».

Inevitabilmente sussultai al suo tocco, e se non avesse trattenuto la mia mano con la sua l’avrei già ritirata. Mi sentivo vulnerabile e indifesa. Avevo paura e non volevo continuare. Il respiro si stava facendo sempre più corto e presto mi sarei ritrovata senza fiato. Feci per aprire gli occhi, ma Rosalie non me lo permise.

«Respira Bella, piano, prendi un bel respiro» mi ordinò con determinazione.

Aprii e chiusi la bocca, ma senza lasciar passare alcun fiato. Stavo impazzando. Feci per ritirare ancora la mano, ma Edward mi strinse più forte.

«Coraggio amore, ce la puoi fare, respira, così» mi disse ad un orecchio, imitando il respiro profondo che avrei dovuto seguire.

Dovevo farmi aiutare, dovevo farlo. Mi lasciai completamente guidare da lui, seguendo il suo ritmo e lasciando man mano rilassare i muscoli contratti.

«Bene» disse infine Rosalie «Ora mi devi dire cosa senti».

Non capii quello che intendesse dire. Mi sembrava scontato e stupido. Un po’ perplessa cominciai a parlare. «Sento… una mano. Che mi tocca…».

«Sbagliato» rispose lei, facendomi sussultare. «Non è una mano. Non devi tenere conto di quello che la rende simile, ma di quello che la rende differente. Devi considerare le differenze, Bella».

Tentai di pensarci, ma non trovai nulla. Gemetti, frustrata. Volevo solo riaprire gli occhi, non ce la facevo a continuare così. Il senso d’oppressione e turbamento stava nuovamente prendendo la meglio su di me.

«Coraggio Bella» incalzò lei.

Dissi la prima e stupida cosa che mi venne in mente. Volevo solo che la smettesse e presto, prima che le lacrime cominciassero a strabordare dai miei occhi. «È… fredda…?!» dissi incerta e scocciata.

«Giusto, per cominciare può andare bene, continua».

Mi sorpresi di quella risposta. Il senso di abbattimento stava per impossessarsi completamente di me. Tentai di concentrarmi, ma non riuscivo a scorgere altre differenze. Le mie gambe si muovevano tamburellando nervose sul pavimento. «Rose io, non so…» sbottai, armeggiata e sull’orlo del pianto, tentando ancora una volta di ritirare la mano.

«Pensaci bene» m’interruppe, intransigente e perentoria.

«Ti prego» gemetti.

«No».

Proprio quando stavo per scoppiare in lacrime mi ricordai che accanto a me in quel momento c’era Edward e che probabilmente stava soffrendo per le mie parole. Sospirai frettolosamente fra i denti. Fredda, mano fredda.

Smisi di tentare di concentrarmi, perdendomi completamente nelle sensazioni che mi stava regalando e nella percezione del suo tocco. Le differenze. Dovevo pensare alle differenze. Questo mi doveva obbligatoriamente portare al ricordo di un altro paio di mani.

Respirai ancora, piano, tentando di calmarmi e riportando la mente al presente.

Le mani di Edward.

«È delicato» biascicai arrossendo, e umettandomi le labbra «Il tocco… è delicato» ispirai ancora, lasciandomi andare maggiormente. «È dura, liscia» sussurrai, prendendola con entrambe le mani e sfiorandone il palmo. La toccai ancora, in tutti i punti. «Le dita… sono lunghe… da pianista» sorrisi debolmente.

«Brava, stai andando benissimo» mi esortò contenta Rosalie.

Serrai gli occhi e ricacciai giù tutta la mia paura insieme ad un conato di vomito. Continuai, guidata dall’istinto di liberarmi del dolore che sentivo dentro. «È forte e modella la mia pelle… ma non mi fa male. E-elegante. È la mano di Edward. Di mio marito».

«Brava Bella» sussurrò Rose con approvazione.

Aprii piano piano gli occhi, lasciando che le macchie rosse che vedevo per averli serrati con tale intensità danzassero davanti al mio campo visivo.

«Va tutto bene» bisbigliò Edward, e non capii subito se fosse un’affermazione o una domanda.

Rose riprese a parlare con più calma. «È un piccolo inizio, lo so. So anche che ti sembra di non aver conquistato nulla, ma in questo momento ogni cosa farà la differenza».

Tremai, alzai lo sguardo su di lei e annuii, ripetendomi mentalmente le sue parole e provando a farmi forza. «Grazie Rose».

«Figurati» disse lei, sorridendomi e chinandosi per accarezzarmi una guancia.

Inaspettatamente fui colta da un improvviso attacco di nausea e mi allontanai. «Scusa» mormorai, con una mano alla bocca e una alla pancia.

«Ti senti male?» chiese Edward accarezzandomi i capelli.

Appoggiai la fronte sulla sua spalla fredda. «Solo… un po’ di nausea».

«Stenditi un po’» mi propose, prendendomi poi in braccio e sollevandosi in piedi. Rosalie sistemò le coperte e Edward mi appoggiò delicatamente sul materasso. Mi rannicchiai su un lato in posizione fetale.

Edward mi sfregava la schiena, tentando di darmi sollievo, mentre Rose mi accarezzava una guancia. «Vuoi che ti porti in bagno?» mi chiese gentilmente dopo un po’.

Scossi il capo sul cuscino, prendendo un respiro. «No… è già passato» mormorai atona.

Edward mi sorrise, tentando di rassicurarmi. «Ti sei agitata un po’. Non ti stancare, riprendi fiato e riposati».

«Possiamo darle i calmanti» disse Rosalie indicando delle fiale di vetro su comodino.

«Sì, avrebbe dovuto prenderli appena sveglia» ripose Edward.

«Dovremmo chiamare Carlisle».

Sentii la bocca ardere, senza saliva, e il fiato bloccarsi in gola, mentre stringevo forte la mano di Edward. Non volevo. Non volevo ancora pensare di aver bisogno di un medico per guarire dalla mia follia.

«Rosalie» la richiamò bonariamente Edward, notando la mia reazione «va bene così, per ora. Se starà di nuovo male lo chiameremo. Ci vorrà qualche giorno di terapia continuativa prima che si possano apprezzare gli effetti».

Rosalie annuì. Aprì il flaconcino che era sul mio comodino e fece cadere sulla mano una compressa che mi porse insieme a un bicchiere d’acqua. La mandai giù in un sorso e glielo riposi.

 Esitai, poi mi strinsi al braccio di Edward, lasciandomi cullare dalla pace e dal torpore artificiale dei farmaci.

«Tesoro, vuoi mangiare qualcosa?» mi chiese Rosalie.

Quella domanda mi sorprese. Non pensavo al cibo da molto, molto tempo.

«È quasi mezzogiorno» continuò lei, aspettando che le rispondessi in qualche modo.

Mi stupii di aver dormito per così tanto tempo, ma non dissi nulla. Non avere il controllo del tempo mi disorientava molto. Mi girai supina e Edward mi sistemò i cuscini dietro la schiena. Il precedente attacco di nausea unito all’effetto degli psicofarmaci mi aveva lasciata spossata.

Edward mi prese le mani fra le sue e mi fissò intensamente, probabilmente in attesa di una mia risposta.

Feci vagare lo sguardo lontano, sospirando. Non avevo appetito, e, stranamente, la prospettiva di farmi infilzare ancora con degli aghi non mi pareva così orribile, ma sapevo che era necessario ricominciare a mangiare. Edward era così fiducioso che lo facessi. «Va bene» biascicai infine, disinteressata.

Mi sorrise, facendo trapelare la sua felicità per quella piccola concessione.

«Torno subito» mi disse Rose, scomparendo.

Mi persi per un attimo ad osservare il volto dell’uomo che avevo sposato. Stavo facendo tutto per lui. La mia vita era legata a un filo. E quel filo dipendeva dal mio amore per lui e dalla sua felicità.

 

«Ecco qui» disse Rose posando il vassoio.

Edward si sedette su un lato del letto, sorridendomi. «Guarda» disse girando con cucchiaio una poltiglia arancione «Deve essere buona».

La osservai vacua. In fondo dovevo solo ingoiare quella cosa. Quanto poteva essere difficile? Sospirai afflitta; poi mi rabbuiai, abbassando lo sguardo. Mi sentivo terribilmente in colpa.

Sentii una mano sotto il mento. «Bella?» mi chiamò Edward, guardandomi intensamente negli occhi. «Cosa succede?».

Sfuggii nuovamente ai suoi occhi indagatori, non volevo che mi guardasse così. Non volevo che mi osservasse. Mi mordicchiai un labbro. «Ci è rimasta molto male?» chiesi infine, a voce così bassa e tremante che se non ci fossero stati due vampiri davanti a me non mi avrebbero neppure sentita.

«Ma no Bella… Esme non ce l’avrebbe mai con te» mi rispose subito Rosalie capendo di cosa stessi parlando.

Edward mi prese il volto fra le mani, cancellando con i pollici le lacrime silenziose che avevano cominciato a scendere.

Mi portai una mano tremante alle labbra, gli occhi persi nel vuoto dei ricordi. «Io… Io…» balbettai «non volevo farlo». Mi lasciai completamente andare, sfogandomi nelle lacrime. Risollevai lo sguardo su quello di Edward e deglutii a vuoto. «Mi voleva far mangiare per forza. Jacob» spiegai, tirando inutilmente su con il naso, visto che ormai il pianto si era fatto più accesso «aveva messo qualcosa nel cibo… e io non lo volevo mangiare. Lui diceva che era solo per far abbassare la febbre, ma… io… mi forzava… tentavo di non mangiare, ma lui…».

«Amore», mi richiamò Edward, gli occhi ampi di rabbia e tensione, accarezzandomi una guancia «non mi perdonerò mai per tutto il male che ti ha fatto. Per tutto quello che hai dovuto sopportare. Deve essere stato orribile».

Presi la mano con cui mi stava accarezzando la guancia e volsi la testa, baciandogli il palmo e lasciando calmare i singhiozzi. «Ti prego, dì ad Esme che mi dispiace tantissimo, ti prego» mormorai afflitta.

«Ma non è necessario, lei già lo sa».

«Ti prego» incalzai, stringendo maggiormente la presa sulla sua mano.

«Lo faccio io Bella» mi disse Rosalie «Se tu vuoi le spiegherò le ragioni del tuo comportamento e vedrai che lei capirà. Starete entrambe sicuramente meglio».

Valutai cautamente quello che mi stava dicendo. No, non volevo che altre persone venissero a sapere dei mostri che torturavano la mia mente. Ma sì, volevo che Esme fosse felice. Volevo rimediare al mio errore. «Sì» sussurrai, calmando definitivamente i singhiozzi e lasciando che Edward mi asciugasse le ultime lacrime. «Solo a lei» aggiunsi debolmente.

«Va bene, solo a lei» disse Rosalie contenta uscendo dalla stanza.

Edward mi sorrise e io ricambiai il suo sguardo con l’intensità che mi potevo permettere. «Ora mangia qualcosa» fece porgendomi una cucchiaiata del passato di verdure. Ci soffiò sopra per farla raffreddare e l’accompagnò alla mia bocca con l’altra mano.

Tremai. Tentai di ricordarmi che ero con Edward, non Jacob. Che ero al sicuro. Aprii le labbra e la mandai giù, non senza qualche difficoltà. Era meno disgustosa di quanto mi sarei immaginata. Pensai che forse sarebbe stato più facile se avessi preso il cucchiaio con le mie mani, ma avevo paura che cambiando qualunque cosa avrei potuto avere una reazione incontrollata. Avrei potuto ferire ancora Edward. Aprii la bocca per prendere una seconda cucchiaiata, e scese giù più facilmente.

Feci per sollevarmi leggermente, in modo da sistemarmi meglio sul letto, facendo leva sulle braccia, ma sentii delle fitte e ricaddi fra i cuscini. Guardai Edward disorientata e preoccupata.

Edward sospirò. «Non è niente, ti sei fatta un po’ male». E poi aggiunse, evasivo, al mio sguardo insistente «Qualche punto».

Distolsi lo sguardo. Presi qualche respiro superficiale per calmarmi. Mi volsi, e lasciai che mi imboccasse ancora. Ingoiai un altro boccone. Fu più difficile. Dopo un altro non potei più continuare. «Basta, ti prego» biascicai. Osservai il piatto. Non ne avevo mangiato neppure metà.

«Va bene» annuì, mal celando una certa preoccupazione. Mise via il piatto. Poi aggiunse, forse per rassicurare più sé stesso che me «È normale che tu non abbia fame. Hai preso i calmati, non hai mangiato per sei giorni. Il tuo organismo si deve riadattare».

«Sei giorni?» mi lasciai sfuggire dalle labbra per la sorpresa.

Lui sorrise per la mia reazione, poi sussultò, come se si fosse improvvisamente ricordato qualcosa. «Aspetta un attimo» mi disse con un sorriso incoraggiante. Scomparve in un secondo e dopo pochi istanti era di nuovo di fronte a me, con una mano dietro la schiena. «Indovina cos’ho qui?» mi chiese con dolcezza.

Lo guardai. Dentro di me sentivo una strana sensazione. Mi sentivo rassicurata. Forse quasi… felice?   

«Guarda» mi disse avvicinandosi e mostrandomi un barattolino di gelato e un cucchiaio.

Mi portai le mani alla bocca. «F…fragola e limone?» balbettai, facendo comparire sulle mie labbra l’antica ombra di un sorriso.

«Sì amore», mi disse contento ed emozionato «tieni».

Volevo piangere, ma in quel momento le lacrime di gioia non erano contemplate. Avevo paura che avrebbero riaperto voragini di malinconia che volevo solo tenere sotterrate. Ne presi un paio di cucchiai, e sia io che Edward lo interpretammo come una vittoria. «Grazie» commentai infine atona per farlo smettere.

«Devi ringraziare Alice».

«Alice…?» chiesi debolmente, rabbrividendo al ricordo del nostro ultimo incontro.

Lui sorrise. «Sì, è stata una sua idea».

Aspettai che Edward riponesse il gelato e mi feci pulire le labbra con un tovagliolo, perdendomi in lontananza con lo sguardo.

«Tesoro, Alice non ce l’ha con te» mi disse Edward intuendo i miei pensieri.

Sospirai, affranta e contrariata, al ricordo del risentimento che avevo scatenato in lei.

«Fidati di me, non può nascondermi i pensieri molto a lungo».

Mi voltai ad osservare Edward che, con le sopracciglia aggrottate mi parlava concitato.

«Lei soffre perché ti vede sempre allo stesso modo, che non migliori, che non vuoi migliorare. Non vede più il tuo futuro in cui eravate sorelle. Per questo soffre, e perché non ti comprende. Perché sai com’è Alice, lei è sempre quella che risolve la situazione» disse, parlando teneramente della sorella «lei è sempre quella che reagisce, e non ti comprende. Non capisce perché tu non vuoi reagire. Anche adesso, è vero, qualcosa sta cambiando ma… ha paura che non ritorni più com’eri. Che non ritorni più ad essere te stessa» concluse con dolore.

Non dissi nulla, riconoscendo la verità nelle sue parole. Non ero più io. Mi sentivo un inutile guscio, vuoto, abitato solo da un barlume di speranza alimentato dall’amore per Edward. Purtroppo il mio cervello umano non poteva sopportare dei dolori così grandi contemporaneamente. Lo sapevo che anche parlando e ricominciando a vivere non sarei più stata la stessa. Ero irrimediabilmente cambiata. Sentii un turbine nella testa. Mi sentivo intrappolata. Probabilmente se il diazepam non avesse già fatto effetto a quel punto mi sarei ritrovata in piena crisi di panico. Feci vagare il mio sguardo nella stanza, in cerca di una via d’uscita a quel senso d’oppressione che mi sentivo addosso. «Posso andare un po’ alla finestra? Vorrei prendere un po’ d’aria».

Lo sguardo di Edward si gelò e solo in quel momento mi ricordai di quello che era successo. Chi era dei due ad avere un disturbo da stress post-traumatico?

Mi sentii ancora peggio. Deglutii. Chiusi gli occhi e mi dondolai avanti e indietro, come tentando di cullarmi. «Non lo volevo fare davvero, lo giuro. È stato solo un momento» biascicai querula.

Lui chiuse e riaprì gli occhi, molto lentamente. «Shh. Va bene. Mi fido di te. Te l’ho detto» disse sollevandosi con grazia e porgendomi una mano per aiutarmi ad alzarmi.

«Grazie» sussurrai grata, prendendo la sua mano e facendomi guidare per la stanza. Mi sentivo molto debole e stanca, probabilmente per opera dei calmanti. E di certo non ero abituata a camminare, ma mi faceva sentire viva essere sulle mie gambe.

Ci sedemmo davanti alla vetrata semi-aperta, uno di fronte all’altra. L’aria fresca di Forks mi fece subito sentire meglio. Guardai in lontananza, fra i monti e fra le finestre e respirando a pieni polmoni.

Ripensavo a tutto l’affetto che ogni componente della famiglia mi aveva riservato in quei giorni. Non lo meritavo. No davvero. Appoggiai la testa al vetro, guardandomi le mani.

Sulla mano destra c’era inciso un segno verticale, rosso sui bordi.

«Loro lo sanno…?» chiesi, senza distogliere lo sguardo dalle mie mani. «Lo sanno che sono stata io, ad ucciderlo?».

«Sì Bella» mi rispose deciso Edward.

Singhiozzai, stringendomi il petto e sentendo i suoi occhi puntati su di me. «Non mi guardare, ti prego» mi strinsi più forte per contrastare il dolore che mi dilaniava «non mi guardare, lasciami qui, va’ via… non sono degna di averti accanto a me…».

«Bella, amore» mi chiamò serio «guardami».

Scossi la testa in segno di diniego.

«Bella» mi richiamò deciso e perentorio.

Dovetti per forza voltarmi. Lo osservai attraverso i miei occhi annebbiati di lacrime. Era estremamente serio, aveva un’espressione decisa in volto.

«È per questo che stai così male, perché lui è morto?».

Singhiozzai, nascondendomi il volto fra le mani. «Non perché è morto» piansi «Perché io ho ucciso una persona, ho ucciso un uomo, capisci?!» la voce era salita fino a che non ero arrivata allo stremo del pianto.

La sua voce invece era bassa, ma intensa e abbattuta «Io capisco che niente, mai, avrebbe dovuto macchiare la tua anima pura, e credimi se ti dico che avrei fatto qualsiasi cosa per evitarlo, ma lui ti ha fatto del male! Ti ha fatto del male Bella, e ne avrebbe fatto anche a me! E a tutti noi. Tu non hai nulla di sbagliato. Hai fatto la cosa giusta».

Non lo ascoltai e sovrastai le sue parole con i miei singhiozzi.

Edward riprese con un altro tono di voce. «È solo per questo o c’è anche altro?». Fece una pausa, durante la quale non risposi. «È per quello che ti ha fatto, vero?» mi chiese gentilmente.

Rimasi in silenzio. Alzai lo sguardo su di lui e l’abbassai. Lo prese come un assenso.

Aspettai di calmarmi. Fu più facile di quanto pensassi, non so se per opera dei calmanti o per il vano sollievo delle lacrime. Edward non disse nulla, ma rimase a guardarmi in silenzio. Sentivo i suoi occhi su di me.

Mi guardai nuovamente la cicatrice che mi ero causata tagliando la gola a Jacob. Tanta era stata la forza che avevo usato da imprimermi un profondo taglio. Un pensiero orribile mi attraversò la mente.

Mi voltai verso Edward, sobbalzando. «E se non fosse morto?» chiesi in un fiato, terrorizzata da questa ipotesi.

Esitò, un’espressione afflitta sul viso, nel tempo che decideva quale realtà mi sarebbe stata più sopportabile. Poi si decise a dirmi la verità. «No Bella, è morto. Ho controllato io stesso». Mi prese le mani fra le sue. Lo feci fare, non avevo abbastanza forza di volontà per oppormi. «Se solo potessi tornare indietro e fare io quello che hai dovuto fare tu, credimi, lo farei. Troverei il modo e lo farei… Ma non posso. Non posso» mi disse addolorato.

I singhiozzi emersero nuovamente in me, con più forza. Io lo avrei voluto. Sentivo un egoistico senso di sollievo nel sapere che doveva essere lui a ucciderlo.

Edward si spaventò particolarmente per quella mia reazione. «Amore» mi chiamò ansioso, tendendomi le braccia.

Non esitai e mi lanciai sul suo petto. «Se… se fosse ancora necessario, s-so che lo rifarei. Lo ucciderei… u-un’altra volta, m-ma… sono solo un’egoista… p-perché preferirei che… fossi tu a farlo…».

Edward mi strinse più forte, tentando inutilmente di calmare i miei potenti singhiozzi. «Sarebbe giusto così» mi prese il viso fra le mani, facendomi scontrare contro i suoi occhi. «Tu non dovevi essere coinvolta in questo mondo strano. Io sono un vampiro Bella, io dovevo ucciderlo, sarebbe stato giusto così! Vampiro contro licantropo è normale. È normale, anche se orribile per me, uccidere qualcuno. Sono creato appositamente. Ma tu, piccolo, dolce, puro amore mio, tu non dovevi avere questo peso gravoso sulla tua anim…».

Chiusi gli occhi sul suo petto, lasciandomi cullare per un po’. Poi mi sentii sollevare e mi ritrovai fra le braccia di Edward. «Ho sentito odio» la mia voce era roca per il pianto appena cessato «tanto, profondo odio, e un forte desiderio di vendetta». Posai la testa nell’incavo del suo collo.

«Era esattamente quello che provavo anch’io» sussurrò Edward.

In quell’istante provai sollievo. Mi sentivo più leggera. Non sentivo più alcun peso opprimente. Respirare era tornato ad essere qualcosa di istintivo e naturale, facile.

Non sapevo esattamente perché, forse per essermi sfogata e aver raccontato a Edward tutto quello che avevo provato, forse perché semplicemente ero fra le sue braccia.

Capii che mi poteva davvero aiutare. Potevo davvero sentirmi meglio.

Mi sollevai leggermente, in modo da poter osservare il suo volto. Aveva un’espressione triste. «Grazie di aver rimpicciolito la paura» mormorai.

Lui mi fece il sorriso sghembo che tanto amavo, aprendosi nella gioia di vedermi un po’ meno fragile.

«Mi sei mancato» confessai, accarezzandogli una guancia.

Lui chiuse gli occhi e posò una mano sulla mia. Fu in quel momento che notai le fedi.

«Mi è mancato tanto mio marito» ammisi.

Sorrise, riaprendo gli occhi. «Anche a me è mancata mia moglie».

Mi avvicinai con il viso al suo, inspirando forte il suo odore dolce e delizioso. Chiusi gli occhi e misi fine allo spazio che ancora divideva le nostre labbra, baciandolo. Era quello di cui avevo bisogno. Era amore, e lavava via ogni mia ferita. Era amore, e curava la mia anima. Era amore, e mi permetteva di amare.

«Ti amo» sussurrai, staccandomi da lui.

Gli occhi di Edward brillavano come i miei, anche senza la possibilità di versare quelle lacrime di gioia che sicuramente avrebbero voluto scendere. «Ti amo anch’io».

«Edward» lo richiamai, ricordandomi di quello che mi aveva chiesto qualche giorno prima. «Anch’io mi fido di te» dissi baciandolo ancora.

 

 

   
 
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