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Autore: Persej Combe    29/02/2020    3 recensioni
Vieni da me, Augustine. Stasera i bambini sono con la madre. Vieni da me.
[Lubricantshipping]
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Altri, Clem, Lem, Nuovo personaggio, Professor Platan
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I racconti della scogliera'
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5
{ a L., M. }












   Quando aveva incontrato Aura per la prima volta, Meyer l’aveva sentita così simile a sé che si era subito convinto fosse una meravigliosa coincidenza, un segno del destino. Soltanto con il tempo si sarebbe reso conto che certe volte le coincidenze non sono altro che tali.
   Si era ormai fatta sera. Quel giorno Meyer aveva attraversato la Via Fogliebrune in compagnia di Combusken: sin dalla mattina non avevano fatto altro che allenarsi e acchiappare nuovi Pokémon fino a che non erano state esaurite le Sfere nello zaino. Allora, seguendo il consiglio di un Giramondo che avevano sfidato, avevano deciso di mettersi in marcia verso un albergo che doveva trovarsi più in là a nord. Sarebbe stato a tutti gli effetti un ottimo suggerimento, se soltanto il Giramondo non avesse omesso di precisare che si trattava dell’Albergo Diroccato. Meyer era rimasto con i nervi a fior di pelle in mezzo al sentiero ad osservare la vecchia struttura decadente, imprecando e borbottando tra sé e sé. Poi però aveva avvertito che il peso del bagaglio si stava facendo troppo gravoso sulle spalle, ed anche Combusken cominciava a tratti a chiudere gli occhi e a fermarsi lungo il cammino, vinto dalla stanchezza. Egli dunque aveva presto messo da parte ogni lamento, e a passi lenti si era diretto all’entrata più vicina. Non appena ebbe oltrepassato l’ingresso venne quasi travolto da un paio di ragazzini che stavano facendo a gara coi pattini nell’ampio corridoio principale: riuscì a ritrarsi per tempo, ma dopo non poté fare a meno di guardarsi intorno spaesato.
   C’erano non sapeva quanti Allenatori accampati in ogni dove, coi sacchi a pelo e gli zainoni ammassati contro le pareti. Qualcuno sonnecchiava in un angolo accoccolato al proprio Pokémon, altri avevano improvvisato un fuoco a terra per cuocere la cena. Quando Meyer provò a chiedere consiglio su dove potersi sistemare, una coppia di Gemelline gli indicò un corridoio poco distante: lì dovevano esserci delle stanze ancora vuote. Le ringraziò con un sorriso, offrì loro due gallette di Pan di Lumi da dividere insieme tra quelle che ancora gli erano rimaste nella borsa e si avviò.
   Nell’aria aleggiava un forte odore di erba che gli faceva pizzicare le narici. Meyer si fermò un po’ titubante di fronte alla prima porta e dopo essersi scambiato un cenno di assenso con Combusken bussò. Provò ad aprire chiedendo timidamente permesso.
   Il puzzo delle canne divenne nauseante. Meyer andò a coprirsi naso e bocca con una mano e restò sulla soglia a osservare la stanza senza emettere fiato. Un gruppo di Ribelli ne aveva fatto il proprio regno, e oltre che dagli spinelli abbandonati per terra, Meyer rimase turbato dalla quantità di bottiglie e lattine di alcolici, in parte riversati sulla moquette sfilacciata, scolorita dal tempo. Ad un tratto, mentre era assorto in quella visione di caos, un labile suono, di voce femminile, gli accarezzò brutalmente le orecchie. Meyer non poté reprimere l’impulso di rispondere a quel piacevole stimolo, che così all’improvviso veniva a distoglierlo dal putridume in cui era immerso. Si guardò attorno a cercare da dove provenisse quel sospiro, desiderando di poterlo cogliere un’altra volta, ma nel momento in cui sollevò lo sguardo ad indagare ciò che si celava nell’angolo più buio della camera, un brivido lungo la schiena lo trattenne dall’avanzare.
   Una massa informe e gigantesca si agitava nell’ombra come una belva agonizzante, stesa sulla branda a gridare implacabile il proprio dolore. Meyer ne ebbe lì per lì timore, salvo poi rendersi conto che si trattava di due corpi umani: un ragazzo e una ragazza, avvinghiati insieme come due animali accecati dalla foga di vincersi e possedessi l’un l’altro. Riconobbe un seno di lei che ricadeva mollemente sul petto, e il braccio irsuto di lui che oscillava senza forza nell’aria.
   Incontrò gli occhi del maschio. Li vide lucenti e arrossati, di un languore smorto, e gli ricordavano quelli dei vitelli. Provò un inspiegabile ribrezzo.
   Combusken indietreggiò di un passo. Il Pokémon tentò di convincere il suo Allenatore a fare altrettanto, ma egli non si mosse. Poi, a un certo punto, si avvicinò un giovane della combriccola a bloccargli la vista: decisamente più alto e piazzato di Meyer, si fermò a squadrarlo dall’alto in basso.
   «Scusa pivello, lasciagli un po’ di riservatezza. Sai, qui gli spazi sono quelli che sono... Noi li lasciamo fare», disse.
   Meyer si riscosse, pieno d’imbarazzo, e diede un’occhiata al resto del gruppo. Annuì, profondendosi in mille scuse.
   «Cercavi una stanza dove dormire?».
   «Ah, sì».
   «Beh, qui come vedi siamo al completo. Più avanti, però, dovrebbe essercene una libera. Prova a darci un’occhiata».
   «Certo. Grazie».
   Si allontanò il più in fretta possibile, seguito da Combusken che lo sorvegliava a qualche metro di distanza.
   Giunse alla seconda porta, e stavolta esitò a lungo prima di decidersi a bussare – il pugno che batteva sopra il legno tremava ancora. Aspettò una risposta. Qualcuno disse: «Avanti». Meyer aprì.
   In fondo alla stanza, rannicchiata in un angolo, c’era una ragazzina che stringeva in grembo un Mareep. Se ne stava tutta sola, seduta sul pavimento ammaccato, abbracciata con tenerezza al suo Pokémon. Nella mano teneva una spazzola che fino a poco prima doveva avere utilizzato per districare la lana dell’agnellino. Pareva così piccola, lei: il viso ancora tondeggiante, gli occhi grandi e azzurri, di fanciulla. Avrebbe dovuto avere sì e no due o tre anni meno di lui. Meyer venne colto da una dolcezza disarmante, un amabile sollievo dopo la visione di fronte a cui si era sentito tanto agitato poco prima. Adesso, davanti agli occhi gli si mostrava quest’immagine pura, della più viva innocenza.
   Combusken guardò sorpreso il giovane allontanarsi e muovere i primi passi verso di lei. Meyer s’inginocchiò ai suoi piedi e le rivolse intensamente lo sguardo. La ragazzina lo fissò in silenzio; le sue dita scorrevano con lentezza sulla schiena di Mareep. Il Pokémon socchiuse assonnato le palpebre. Osservò Meyer per un istante soltanto. Poi si addormentò.
   «Abbiamo un’altra appassionata del tipo Elettro, a quanto pare».
   Quegli occhi grandi e azzurri si posarono dubbiosi sulla sagoma del Pokémon Rampollo, e tornarono poco dopo a rincontrarsi con quelli di Meyer.
   «Ma quello è un Combusken. Sarà di un banalissimo doppio tipo Fuoco/Lotta».
   Egli sorrise. Lanciò un’occhiata al suo compagno, incoraggiandolo ad avvicinarsi.
   «Ho incontrato Torchic una notte di pioggia in cui ero triste e temevo di aver perso tutto nella vita. Torchic mi ha illuminato la strada con la sua fiamma e scaldato il cuore col suo calore. Da allora lo porto sempre con me».
   Allungò una mano ad accarezzare il morbido batuffolo sulla fronte di Mareep. Al passaggio delle sue dita si formarono tante piccole scintille di elettricità.
   «È il mio Pokémon più fidato, nonostante in battaglia preferisca di gran lunga il tipo Elettro», concluse, accogliendo Combusken accanto a sé. Il Pokémon si accovacciò al suo fianco e restò a scrutare con attenzione le sembianze di quella ragazza che parevano aver incantato così intimamente il suo Allenatore.
   «Io vengo da una baita lungo la Via dei Pascoli. In casa abbiamo sempre allevato cuccioli di Mareep. I miei genitori non volevano che partissi, così ho iniziato a viaggiare più tardi rispetto agli altri bambini».
   Aura. Il suo nome piacque a Meyer fin da subito. Questa ragazzina che giungeva dalle campagne pareva avere l’indole di una Veterana, sebbene così giovane, e non ci volle molto affinché egli la prendesse in simpatia. Quella notte dormirono vicini, coi sacchi a pelo sistemati uno accanto all’altro, in mezzo al resto degli Allenatori che col passare delle ore si erano affollati nella stanza.
   L’indomani Aura fece sfoggio della sua determinazione pregando Meyer di darle consiglio per la Palestra di Romantopoli che lui aveva già battuto. Gli mostrò l’astuccio delle Medaglie ed egli vide che era riuscita ad accaparrarsi le spille di Temperopoli e Luminopoli, ma le mancavano ancora le precedenti.
   «È troppo difficile, ho già tentato due volte. Non sono ancora riuscita a elaborare una strategia vincente».
   «Dovresti provare a raccogliere le prime tre Medaglie, intanto. Sicuramente ti aiuterebbe a capire meglio i vantaggi e gli svantaggi di quei tipi e come sfruttarli in una squadra. Penso tu abbia semplicemente bisogno di fare esperienza e di allenarti un altro po’. Se non altro i tuoi Pokémon ne sarebbero di certo rafforzati».
   Aura accolse il suo consiglio con entusiasmo. Poi gli confessò timidamente di aver raccolto le Medaglie Pianta e Voltaggio perché non aveva voluto allontanarsi troppo da casa, nonostante desiderasse a tutti i costi distaccarsene.
   Rimasero insieme una settimana, il tempo affinché Aura si abituasse all’idea di spingersi da sola fino a Novartopoli e oltre. In quel lasso di tempo Meyer ebbe modo di scoprire quanto ella fosse tenace in lotta con i propri sfidanti, anche di fronte alle sconfitte, ed egli era certo che quella forza d’animo dovesse venirle dalla consapevolezza di far parte degli ultimi. Meyer aveva sempre saputo di essere un ultimo, e se in quella notte di pioggia non avesse incontrato Torchic sul proprio cammino, probabilmente si sarebbe arreso senza pensarci.
   Accompagnò Aura a Luminopoli. Fecero rifornimento di strumenti e rimedi vari. Ella ascoltò con attenzione ogni sua dritta, e Meyer si sentì lusingato dal modo in cui lo prendeva così tanto in considerazione, da quanto fortemente volesse imparare da lui ogni cosa – perché dopotutto, non era mai stato un asso nei combattimenti, e aveva sempre guardato alle lotte semplicemente come a un gioco. Si separarono ai piedi della Torre Prisma e si scambiarono la promessa d’incontrarsi di nuovo.
   I successivi due anni erano stati un continuo perdersi e ritrovarsi, ed era parso che quella fosse una caratteristica costante del loro rapporto. Intanto, in segreto, si erano innamorati a vicenda.
   Avevano finito per trascorrere gli ultimi mesi insieme, senza più dividersi, e già così giovani avevano iniziato ad assaporare la quotidianità di una vita in comune: una vittoria dopo l’altra, avevano cominciato a progettare obiettivi, a condividere aspirazioni e successi, spostandosi di città in città, fino a quando un giorno non erano giunti nella fredda Fractalopoli. Lì Meyer si era scontrato per la prima volta con l’agghiacciante furia dell’Avalugg di Edel, e nonostante la superiorità di tipo del suo Blaziken, era stato sconfitto. Vi aveva ripensato per giorni e giorni, persino tra le carezze di Aura che puntualmente si stringeva a lui per consolarlo, un’ossessione perenne che non riusciva a scacciare. Si erano rimessi in marcia spinti dall’entusiasmo di lei. Aura continuava a ripetere che sarebbe bastato allenarsi soltanto un altro po’ e che quando sarebbero tornati Edel non avrebbe avuto scampo. Ma in Meyer ormai si era fatto strada lo sconforto, e ancor di più la disillusione che gli proveniva dalla consapevolezza dell’età matura. Così, sulle soglie dei diciotto anni, una mattina si era fermato di fronte all’ingresso per la Via Vittoria insieme ad Aura. Lassù, sopra i monti innevati, si riusciva a scorgere la sede maestosa della Lega Pokémon, con le alte torri dalle finestre a bifora.
   «Io rinuncio», disse. «Aura... Sarà meglio lasciarci qui».
   Lei lo guardò sconvolta.
   «...Che cosa? Rinunci?».
   Meyer si voltò verso di lei, sentì il proprio cuore appesantirsi nello sprofondare dentro il suo sguardo smarrito e tra le labbra serrate a nascondere chissà quali parole, il dispiacere che scivolava fin troppo chiaro fuori da quegli occhi, sulle guance rosee di fanciulla ingenua, spaesata di fronte ai primi ostacoli disseminati dall’adolescenza. Allungò le dita ad asciugarle le lacrime, ma Aura si dimenò.
   «Pensavo che un giorno ci saremo saliti insieme, io e te... Possibile che per una semplice sconfitta tu ti tiri indietro così? Eppure ti manca talmente poco, Meyer, perché?».
   «È stato bello finché è durato, Aura... Ma ormai sono cresciuto. Non posso più andare avanti in questo modo. E comunque, sappiamo bene entrambi che non sarei riuscito ad arrivare lassù. Ho bisogno di studiare, di trovare la mia strada altrove».
   Aura ascoltò quell’ammissione standosene ferma in disparte. Meyer aspettò da lei una risposta, ma non disse nulla. Ad un tratto la ragazza si avvicinò, lo abbracciò, nascose il viso contro il suo petto. Poi, all’improvviso, Aura alzò la testa all’insù, lo guardò dritto negli occhi con quelle ciglia umide e le palpebre arrossate, ancora socchiuse sotto lo sforzo del pianto. Si strinse con maggior forza contro i lembi del colletto, non lo voleva lasciare andare, Meyer sentì la sua presa farsi terribile e angosciata. La vide sollevarsi sulle punte dei piedi, e poi lo travolse il sapore di quelle lacrime nella propria bocca mentre le loro labbra venivano a sfiorarsi e a spingersi le une contro le altre, rabbiose e tristi, piene d’inconsolabile amore. Meyer si avvolse attorno ad Aura, al suo corpicino che debolmente si riversava in lui a tastarlo vicino, così vicino a sé. La baciò teneramente e infinitamente, colmo di quel sentimento che ancora, troppo timidi entrambi, non si erano confessati. Si aggrappò ai suoi capelli, come a volersi arenare lì per sempre, lontano dalle delusioni, dai tormenti, dalle insicurezze, tra quelle ciocche bionde e sinuose, catene lascive del suo stesso desiderio. E quando finalmente piegandosi sulla bocca di Aura sentì di tornare a respirare, a riappropriarsi di una qualche serenità perduta, ella si ritrasse. La guardò allontanarsi, fermarsi ed esitare più in là lungo il sentiero prima di rivolgersi l’un l’altra il loro ultimo saluto, ora divisi, in cammino su due strade diverse.
   Meyer quasi non riuscì a trovare la forza di parlare per una settimana. Blaziken, suo silenzioso confidente, era l’unica compagnia che si concesse di avere accanto in quel muto vagabondaggio sulla Via Malinconia, in rotta verso Luminopoli, per rischiarare in qualche modo le idee di fronte alle luci della Torre Prisma. Fu passeggiando intorno all’ingresso della quinta Palestra che una sera, sbocconcellando una galletta, Meyer comprese ancor più intensamente che quel mondo non era più fatto a sua misura. Vide un gruppo di bambini intenti a sfidarsi e a scommettere su chi per primo avrebbe sconfitto il Capopalestra. Inevitabilmente il suo pensiero si rivolse ad Aura, alla sua mano che spazzolava il pelo di Mareep – lei non aveva avuto nient’altro che le lotte Pokémon per appropriarsi del proprio destino, per essere sé stessa. Subito dopo Meyer si premette una mano sulle labbra per impedirsi di andare oltre e di riportare alla mente le sensazioni di quel bacio, che tuttavia non gli diedero pace per l’intera notte, quando più tardi provò a coricarsi nell’angusta cabina che gli avevano assegnato al Centro Pokémon di Piazza Rosa. Ricordava la dolcezza di quella bocca e si ritrovava bloccato in una spirale indistinta di emozioni che erano a tratti delizia e poi nostalgia.
   Iniziò a darsi da fare per cercare un appartamento dove stabilirsi, e soprattutto un lavoro, poiché con i suoi genitori aveva premuto affinché una parte della quota per gli studi potesse contribuire a pagarla lui stesso. Suo padre e sua madre erano stati piuttosto contenti di vederlo così deciso e indipendente, ma lo avevano anche rassicurato che per il momento non era necessario che si sacrificasse a quel modo. Alla fine si erano trovati d’accordo che lui avrebbe provveduto all’affitto e al proprio sostentamento, di tutto il resto se ne sarebbero occupati loro da lontano.
   Per un periodo venne assunto come fattorino di un ristorante: da lì cominciò a covare il desiderio di potersi fare prima o poi una motocicletta tutta per sé. Al momento gli bastava allacciarsi i pattini ai piedi e sfrecciare attraverso i vicoletti fra una consegna e l’altra. La mattina presto si recava in Università – si era iscritto a Ingegneria Elettrica –, seguiva con attenzione i corsi, prendeva appunti meravigliandosi di volta in volta delle cose nuove che imparava, nel pomeriggio si fermava in biblioteca a studiare, e infine a una certa ora si recava al Centro Pokémon per farsi una doccia e prepararsi per il turno serale. Dopodiché rincasava nella sua cabina soltanto a tarda ora, l’una passata, con la schiena a pezzi e i vestiti che puzzavano di fritto. Le ultime energie rimaste gli bastavano appena per spogliarsi, ammassare gli abiti nel cestello della biancheria sporca che l’indomani all’alba avrebbe portato a pulire nella lavanderia in comune messa a disposizione dalla struttura, poi si stendeva sul letto, pensava ad Aura, e si addormentava.
   Fu durante un giro di consegne che, un sabato sera, Meyer trovò un annuncio di affittasi in un piccolo palazzo a metà strada tra Piazza Blu e Corso Basso. Cercò di fissare al più presto un appuntamento con l’agenzia immobiliare, s’informò sui costi e su tutto ciò di cui aveva bisogno. Non si scoraggiò di fronte a quella manciata di appena qualche metro quadro – dopotutto non era che un monolocale da studente, in ogni caso da Allenatore aveva dovuto accamparsi in ambienti ben più spartani – e il giorno in cui andò a vedere l’appartamento ne fu talmente entusiasta da sentirlo già suo. Festeggiò insieme a Blaziken, subito si mise in contatto con i genitori. Di ritorno al Centro Pokémon ne parlò con un’Infermiera Joy, la trattenne almeno mezz’ora raccontandole dello scorcio che si vedeva dalla finestra del balcone, e della cucinetta e della lavatrice, poi avrebbe comprato quella vecchia scrivania che aveva puntato giorni prima al mercatino dell’usato, sotto sconto era così conveniente, e ancora avrebbe avuto bisogno di un tappeto, per i mesi invernali, forse avrebbe potuto prendersi cura di una pianta, la stanza era così luminosa, e poi...
   «Certo che però vi toccherà stringervi! Un appartamento così piccolo...».
   «Blaziken avrà sempre la sua Premier Ball. E comunque le dimensioni non sono certo un problema, per noi».
   «Oh, no, non mi riferivo a Blaziken! Dicevo... la tua ragazza».
   «...La mia ragazza?».
   Guardandola sorridere in quel modo, sottilmente malizioso e attraente, Meyer fu persuaso per un attimo che ci stesse provando con lui. Era già pronto a scusarsi e a mettere un freno alle sue attenzioni; non fece in tempo che quella aggiunse:
   «Ma sì, ha telefonato tutta la mattina! Dovrete stringervi per bene, tu e la tua ragazza».
   «Io non...».
   Aura. Nello stesso istante in cui realizzava che non poteva essere altri che lei, il telefono squillò un’altra volta, lo chiamarono: «Meyer! C’è Meyer?», egli scattò, si fece vedere, afferrò la cornetta con le mani impazienti. Lo lasciarono solo.
   «Aura!» esclamò, le lacrime agli occhi.
   «Ciao, Meyer».
   «Oh, Aura, sono così felice di sentirti!».
   «Anch’io, Meyer. Come stai?».
   «Bene, benissimo! Credo di non essere mai stato meglio!».
   Com’era bello poter ascoltare di nuovo la sua voce! Si sentì invadere tutto da una dolce commozione, completamente assorbito dalla contentezza. Con imbarazzo realizzò che avrebbe tanto voluto averla davanti a sé e stringerla, accarezzarle i capelli, prenderle il viso tra le mani e poi... Arrossì.
   «Tu invece come stai?» le chiese.
   Per un attimo sembrò come che Aura si fosse messa a tacere così all’improvviso. Meyer diede un’occhiata alla cornetta temendo fosse caduta la linea. Ma eccola di nuovo che tornava a parlare:
   «Bene», disse.
   Sospirò sollevato.
   «Mi hanno detto che hai chiamato più volte, stamattina...».
   «Sì. Ho chiesto di te in tutti i Centri Pokémon di Luminopoli. Per un attimo ho pensato che avessi ripreso a viaggiare e ho avuto paura che non avrei saputo dove cercarti...».
   «Oh, no. Ormai, Aura, non credo che partirò più. Sai, oggi ho trovato un appartamento: mi trasferirò presto. Non è proprio vicino all’Università, però... D’altra parte, gli studi mi stanno dando un sacco di soddisfazioni! Tra poco avrò il mio primo esame, sono un po’ agitato... Ma mi piace tutto, mi piace tutto tantissimo. Sono felice».
   Di nuovo, dall’altro capo del telefono fu silenzio. Meyer rimase ad aspettare.
   «Aura, non ti sento».
   Si spaventò.
   «Aura?».
   Udì un lungo, pesante, intenso sospiro. Avvicinò la mano libera alla cornetta come a volerla posare sulla sua guancia – la sua presenza gli mancava fin troppo.
   «Meyer, perché hai smesso di lottare?» la sentì mormorare ad un tratto, e la sua voce era bassa bassa, di un tono ambiguo tra il triste e lo stizzoso «Perché invece non ritorniamo a viaggiare insieme, eh? Lascia stare l’appartamento, i tuoi studi. Dove pensi che ti potranno mai portare, dopotutto? Andiamocene da qualche parte in cui ancora non siamo stati. L’hai mai visto un tramonto ad Hoenn, la luce del sole che scende sulle rocce di Ceneride? Non ho mai sentito il vento soffiare tra le foglie del Bosco di Lecci. Che profumo avrà? Sei mai salito su una montagna? Quanto pensi sia alto il Monte Corona? Io non ho mai camminato a piedi nudi sulla sabbia delle spiagge di Malie, e non ho mai mangiato una Malasada. Voglio presentarmi alla Lega, e se non vorrai batterla tu lo farò io per te. Alleneremo insieme i nostri Pokémon fino a quando poi...».
   Ad ogni dettaglio, ad ogni domanda che lei aggiungeva, Meyer si sentiva crescere sempre più e stupidamente di rabbia. Non riusciva a capire per quale motivo proprio adesso ella venisse a dirgli tutte queste cose, una dopo l’altra, senza alcun nesso logico, come che semplicemente vagasse in qualche sua fantasia, tra i pensieri; e forse anche lei come lui ancora soffriva per quella loro separazione tanto improvvisa e inaspettata, forse anche lei la notte lo pensava e non riusciva a trattenere il rimpianto al ricordo di tutto ciò che era stato lasciato alle spalle – se solo fosse stato davvero così, pensò Meyer – ma ormai che cosa se ne poteva fare, arrivati a questo punto? Possibile che ancora non l’avesse accettato, che non avesse realizzato a distanza di mesi che le cose erano cambiate, che lui aveva già scelto un’altra via e che non sarebbe più tornato indietro?
   Tutto l’entusiasmo che lo aveva riscosso nel momento in cui l’Infermiera Joy al banco lo aveva chiamato per rispondere al telefono svanì di colpo per lasciare il posto ad un irrefrenabile rancore che gli gonfiava il petto man mano che prendeva un respiro, poi un altro, e un altro ancora. Forse un banale capriccio, irrazionale e sciocco, di un ragazzo maturo d’età e d’intenzioni, ma non ancora di mente: irruente, poco saggio, avvezzo troppo al sentimento e troppo poco al ragionare – e pure Meyer a diciotto anni che cosa poteva saperne?
   «È per questo che mi hai chiamato? Mi hai cercato... per dirmi questo?».
   Lei tacque, ancora.
   «La mia strada è questa, Aura! Perché non vuoi capirlo?!».
   Riagganciò la cornetta e se ne andò via incollerito, coi pugni affondati nelle tasche e una smorfia terribile sul viso. Attraversando la sala d’aspetto, Meyer incontrò nuovamente l’Infermiera Joy che poco prima aveva fatto quell’insinuazione tutt’a un tratto insopportabile.
   «Non è la mia ragazza!» ringhiò, e corse nella sua cabina senza più rivolgere parola a nessuno.
   Nei giorni successivi, Aura continuò a cercarlo. Meyer talvolta la ignorava, poi però si sentiva in colpa e allora rimaneva lì nella sala d’attesa aspettando che richiamasse, pregando che non si fosse offesa e ripetendosi in mente le più disparate scuse che riusciva a mettere assieme, rifinendo questa frase qui, e questo tono qua, la virgola, il punto... Intanto, i preparativi per stabilirsi nel nuovo appartamento procedevano serenamente, Meyer si era già appuntato da parte, ricopiando la pianta sul suo diario, come avrebbe sistemato le proprie cose e come avrebbe disposto i mobili, provava a schizzare qualche scarabocchio per avere un’idea di che veduta d’insieme avrebbe avuto – ma a disegnare non era proprio capace, e un volta trasferito si sarebbe reso conto di quanto fossero assurde le prospettive che aveva tracciato – e quando non aveva la matita a portata di mano passava ore e ore a coltivare quell’immagine nella sua fantasia, accumulandovi dettagli su dettagli finché non se ne sentiva soddisfatto.
   Al contrario, per quanto cercasse di evitarlo, i litigi con Aura aumentavano: aveva assunto all’improvviso questo atteggiamento morboso, ossessivo nei suoi confronti, e col passare delle settimane egli era quasi giunto a odiare lo squillo gracchiante del telefono, le Infermiere Joy lo guardavano infastidite, e lui non sapeva in che modo sistemare la situazione. Per quanto volesse bene ad Aura, il clima che aveva creato era diventato a tratti insostenibile. Si ripromise che le avrebbe parlato chiaramente, quando un giorno qualsiasi, inaspettatamente e senza un perché:
   «Aura, smettila di cercarmi!».
   «Mio papà non c’è più».
   Meyer sentì ogni impulso di rabbia spegnersi all’improvviso, il silenzio fischiare nelle orecchie. Si lasciò andare contro il muro, allontanando per un attimo la cornetta dall’orecchio, coprendo con una mano il microfono. Soltanto adesso capiva il perché di quell’insistenza, la disperazione nel tentativo di riportarlo sulla sua vecchia strada. Pensò a quanto dovesse sentirsi sola, gli girava la testa. E lui non aveva capito nulla. Ma perché non glielo aveva detto prima? Aura piangeva, ed era qualcosa di tremendo.
   «Dove sei? Vengo da te».
   «No, non venire», quanto faceva male sentirla con quella voce! «Mia madre non ha preso bene il fatto che abbia viaggiato insieme a un ragazzo. Non è il caso che tu ti presenti adesso... Vorrei tanto vederti anch’io, ma tutto quello che mi sono sentita di fare è stato chiamarti... Se non la tua presenza, volevo sentire almeno la tua voce, capisci? Mi manchi, Meyer... Mi manchi troppo...».
   Con l’impotenza che cresceva sempre più nel suo animo, egli cercò di trovare le parole, qualcosa da dire, ma era tutto inutile, e la lingua si seccava nella sua bocca, in gola c’era un nodo che non si poteva sciogliere. Aura continuava a piangere, ed egli ebbe paura che non avrebbe smesso mai. Ad un tratto, non seppe dove trovò la forza, le sue labbra si mossero da sole, non sentiva nemmeno che cosa stesse effettivamente dicendo, si abbandonò alla ragione che per un istante era riuscita a riprendere il controllo sulla sua persona:
   «Aura, ascoltami. Ti lascio il mio indirizzo di casa. In realtà devo ancora finire di compilare le pratiche per il trasloco, ma penso che ormai... Vieni quando vuoi».
   «Grazie, Meyer... Grazie...».
 
 
 
   Passò un mese. Meyer non ebbe più notizie da Aura, finché una mattina, attraverso il vetro della cassetta della posta intravide una lettera solitaria adagiata sul fondo. Riconobbe la sua scrittura nelle curve ampie del corsivo in cui era segnato il proprio nome, e per un istante aveva provato l’impulso di disdire immediatamente ogni appuntamento che avrebbe dovuto attendere in giornata per chiudersi in casa a leggere e rileggere quelle righe, ma il senso di responsabilità lo aveva presto dissuaso, e Meyer aveva trascorso il resto del giorno tenendosi la lettera nel taschino, vicino al cuore. Quando poi la sera era rientrato, aveva lasciato la busta sul comodino, si era preparato da mangiare, aveva cenato senza particolare appetito, e per l’emozione aveva lasciato il piatto pieno a metà. Dopo essersi sistemato per andare a dormire si era accovacciato sul letto, tutto chino sulla busta, che era sua e soltanto sua, e l’aveva aperta con una cura invidiabile, stando attento a non sciupare la carta, a non farvi strappi, né la minima pieghetta – quei suoi gesti esalavano un che di sacro, un’intima riverenza. Su un foglio c’era scritto:
 
   Caro Meyer,
 
   Per il momento c’è bisogno che resti qui a casa. Mia madre è ancora molto scossa, lo sono anch’io, e non voglio lasciarla sola. È quasi imbarazzante il fatto di trovarci ad appena due ore di treno di distanza e non poterci vedere... Eppure è così... Perciò ho pensato di inviarti una lettera.
   Come stai? E come vanno i tuoi studi? Io ho abbandonato la mia carriera da Allenatrice. Non so se un giorno la riprenderò. Per adesso non ne voglio sapere. Mio padre avrebbe preferito che rimanessi qui alla baita a prendere il suo posto, non mi ci vedeva bene a lottare con i Pokémon (lo sai che i miei sono sempre stati un po’ così) e ora come ora rimettermi in marcia mi farebbe sentire troppo in colpa. So che era qualcosa a cui lui teneva molto, e mi sentirei di tradirlo se non restassi. Forse ti farà strano... Ma non so in che altro modo esprimermi.
 
   Scusami, ho scritto tutto di getto... Spero di sentirti presto.
 
Aura  
 
   Meyer rilesse la lettera più volte, quella sera, e l’indomani si svegliò che ancora la teneva in mano. Si alzò dal letto con le gambe appesantite dalla sonnolenza che non lo reggevano in piedi, mosse quei due o tre passi che lo separavano dalla scrivania coi piedi scalzi e infreddoliti. Mentre li sfregava tra loro, seduto scompostamente sulla sedia, frugò tra i fogli sparsi in mezzo ai libri, fece scorrere le dita tra i biglietti che durante la settimana aveva riempito di schemi e di appunti. Contrastando la nausea che gli provocava la vista di tutte quelle formule che avrebbe dovuto imparare a memoria per l’esame, continuò a cercare in ogni angolo finché non trovò un pezzo di carta vuoto. Quindi fu la volta di smuovere gli astucci e i portapenne – aveva banalmente collezionato i bicchieri di un fast food e ammassatovi dentro ogni singola penna che possedeva –, e intanto che le matite e gli evidenziatori cadevano sul pavimento, scrisse:
 
   Piccola Aura,
 
   Non lasciare andare quello che desideri. Non riesco a immaginare quanto possa essere grande il dolore per aver perso tuo padre, ma ti prego, non perdere anche te stessa.
 
   Poi gli si era offuscata all’improvviso la vista, la gola aveva preso a graffiare, aveva tirato su col naso, e sporcandosi le guance d’inchiostro era stato costretto a interrompersi.
   Aveva saltato le lezioni del giorno. Più tardi aveva dovuto telefonare un compagno e pregarlo di passargli le note; quando però l’aveva raggiunto per avere da lui una copia della registrazione che aveva fatto in aula, Meyer non era riuscito a seguire neppure uno dei ragionamenti che il collega gli aveva riassunto prima di cedergli la cassetta. Una volta tornato a casa, l’aveva inserita nel mangianastri, si era messo le cuffie alle orecchie e impugnando la penna era rimasto in attesa che le parole del professore fluissero ordinatamente a distoglierlo dai suoi pensieri. Ma era troppo distratto, e il bigliettino che aveva macchiato quella mattina era ancora lì, stipato in un angolo, in attesa di accogliere il resto. Lo ignorò, lo accartocciò, vi ammassò sopra i libri e i quaderni per impedirsi di guardarlo più a lungo. Si forzò a trascrivere la formula che il professore stava dettando, in una grafia storta e irrispettosa dei margini stabiliti dai quadretti. Poi però si accorse di aver sbagliato una lettera, che si era dimenticato un’altra volta l’alfabeto greco, allora la mano andò a rovistare tra i vecchi appunti, a ricercare quel post-it su cui si era segnato i caratteri principali che aveva incontrato fino a quel momento, ma sfogliando e sfogliando non lo trovò. Guardò dentro il blocchetto che aveva lasciato nello zaino, il professore intanto continuava a parlare, scialacquando definizioni su definizioni che Meyer si stava perdendo da parte, indietro con l’ascolto – nulla, ancora nulla, nemmeno lì! Stava per gettare a terra qualche altro taccuino in preda alla disperazione, quando il suo sguardo si posò sulla pila che aveva accatastato più in là sulla scrivania. Restò a fissarla con le mani che vibravano di un tremore inquieto.
   Si tolse le cuffie. Il nastro intanto continuava ad andare avanti. Meyer sollevò i libri e i quaderni uno ad uno, spostandoli dall’altra parte del tavolo, finché non rimase che quel pezzo di carta stropicciato e sporco di lacrime e inchiostro.
   E ricordatevi che la chiave dell’esame è lo scritto, lo scritto!, diceva il professore.
   «Mio dio, ma cosa ho scritto?» mormorò lui, rileggendo quelle due righe che aveva messo insieme la stessa mattina. Le trovò improvvisamente egoiste e meschine, seppure nate dal dolore per quell’anima sola.
   Per quanto fossero giuste e si trattassero effettivamente di ciò che aveva sentito premere di più nel suo petto squassato dai singhiozzi, si accorse tuttavia che in esse era intriso un certo sentimento ingordo, cattivo, prodotto dal desiderio unicamente suo, personale, di riavvicinarla a sé, come che nella sua sofferenza egli dovesse imporsi a manifestare la propria presenza, la rivendicazione del possesso di quell’amore che nutriva per lei, per la sua persona che non avrebbe sopportato di vedere cambiare (per quanto l’indole giovanile sia di per sé, come è naturale, un mutamento continuo e irrefrenabile, ad essa il cambiamento è doloroso e difficilmente lo riesce a tollerare) sotto la pressione insostenibile del lutto. Ma stava ad Aura e soltanto ad Aura scegliere che cosa fosse più giusto per lei e come dovesse sentirsi: lui, dinnanzi a tutto questo, non era nessuno, non era nulla.
   Le inviò semplicemente le sue condoglianze, un abbraccio, il suo affetto – e in segreto mille, mille baci.
 
 
 
   In quei pochi anni che seguirono, Meyer aveva preso a uscire con qualche ragazza, a frequentare nuove conoscenze. Soltanto a posteriori si sarebbe reso conto dell’ambiguità di certi rapporti con un paio dei suoi compagni di corso, le strette di mano, le confidenze sussurrate a notte fonda ubriachi, i baci sulle guance per salutarsi trattenuti eccessivamente a lungo con le labbra socchiuse. Ogni tanto ci si picchiava, coi pugni e con i morsi; Meyer era sempre stato contrario alla violenza, eppure non era mai riuscito a sottrarsi del tutto a quelle risse – ogni colpo avrebbe dovuto togliergli l’aria e invece lui vi respirava dentro a pieni polmoni, col naso fratturato e il sangue che colava da una parte, mentre una strana eccitazione ribolliva ovunque dentro di lui dandogli completamente alla testa. Solo dopo si sarebbe accorto di quanto disperatamente avesse ricercato in questo modo malsano un contatto fisico con il corpo maschile, quanto l’avesse desiderato senza mai averlo capito (accettato?) davvero. E nel frattempo passava le serate a crogiolarsi tra i complimenti che tutte quelle ragazze con cui si vedeva gli indirizzavano entusiaste per i tagli e per i lividi, perché ciò che una donna vuole è un uomo forte, virile, che la sappia proteggere – Meyer in realtà non era niente di tutto questo, e probabilmente sarebbero rimaste deluse dalla dolcezza, dalla pacatezza e dalla timidezza che gli riempivano l’animo: non avrebbe saputo proteggere neanche sé stesso, ma era proprio questo a renderlo splendido sul fiorire dei vent’anni, la sincerità con cui stava imparando ad ammettere le proprie debolezze e a riconoscerle come parte di sé. Aveva cominciato a riflettere a lungo, e non era raro che, standosene solo nel suo appartamento, spendesse ore fissando il soffitto, sdraiato sul letto, oppure che, accovacciato sulla sedia, rimanesse immobile davanti alla finestra a guardare la strada immerso in profondi e complessi ragionamenti. La scomparsa del padre di Aura l’aveva segnato più di quanto avesse inizialmente creduto, e allora si chiedeva che valore avesse per lui un padre, che cosa volesse dire la parola padre, la sua immagine, la sua presenza e di contro la sua assenza. Meyer non aveva mai avuto un rapporto troppo intimo con il proprio, di padre: se ne era andato via di casa così presto, e non c’era stato modo di costruire effettivamente qualcosa insieme. Spesso era capitato che qualche conoscente gli avesse rinfacciato la loro somiglianza, ma lui, non sapeva spiegarsene il motivo, aveva sempre accolto con fastidio certe allusioni, quelle similitudini che risiedevano nel sangue e a cui tuttavia l’impulso di ribellarsi era troppo forte. Dopotutto, non avrebbe potuto dire diversamente per quanto riguardava sua madre. Li conosceva poco, li aveva conosciuti entrambi fin troppo poco – si sarebbe ripetuto amaramente qualche anno più tardi.
   Il pensiero di Aura e del padre lo occupava quasi ogni giorno, di rado vi erano momenti in cui se ne dimenticasse, distratto dagli impegni universitari e dai primi tirocini, da qualche nuova ragazza con cui si attardava sotto gli archi del Pont Marie a scambiarsi i baci più intensi e caldi, o con cui giocava a rincorrersi tra i vicoli di Montmartre, in mezzo ai turisti e agli artisti di strada; ma non si era mai dato a nessuna di loro.
   Aura aveva continuato a scrivergli tutte le settimane. Sebbene non fosse lì con lui, egli la percepiva incessantemente accanto: talvolta, nell’aprire una lettera, aveva persino l’impressione di riuscire a sentire il suo profumo e che nello stringere quei fogli di carta si abbandonasse in realtà alle sue mani. Avrebbe desiderato abbracciarla più di ogni altra cosa, e checché si ostinasse a negarlo, ella gli mancava, e il suo ricordo stava fisso nella sua mente come una figura evanescente, che pian piano sbiadiva e che tuttavia generava in lui un sentimento profondo, doloroso come un tizzone ardente a contatto con la pelle nuda. Si lasciava consumare silenziosamente da quella passione, un poco alla volta: di tanto in tanto scivolava in una insolita apatia, poi d’improvviso un brivido eccitato lo riscuoteva da capo a piedi, e tornava ad essere il ragazzo di prima.
   Un pomeriggio suonarono alla porta. Meyer lasciò i libri sul tavolo, svogliatamente cercò nell’armadio qualcosa da mettere addosso – era rimasto in pigiama tutto il giorno – e dopo essersi sciacquato il viso in bagno andò ad aprire. Le sue guance si colorarono lievemente di rosso, mentre l’espressione seccata che campeggiava sul suo volto si faceva via via da parte a lasciare il posto ad una sincera sorpresa.
   «Aura», disse, osservando la ragazza che se ne stava ferma lì sulla soglia, tutta sorridente.
   «Ciao, Meyer», lo salutò lei con un piccolo inchino.
   Egli non poté trattenersi dal pensare come quegli anni di lontananza l’avessero piacevolmente cambiata: sebbene fosse rimasta di bassa statura, i suoi lineamenti si erano fatti più fini e aggraziati, e le forme del corpo avevano ormai il fascino di quelle di una donna. Aura indossava un adorabile vestitino a fiori dalle tinte rosa e azzurre, un nastro le fasciava delicatamente i fianchi morbidi, mentre ovunque sulla gonna era una cascata di veli e di pizzi leggeri. Meyer avrebbe voluto dirle che era così carina, ma si sentiva fin troppo imbarazzato per riuscire ad aprir bocca. Piuttosto, la invitò ad entrare.
   «Benvenuta nella mia tana!» annunciò con un teatrale gesto delle braccia, osservandola mentre si guardava attorno. Nel vederla così assorta a scrutare ogni dettaglio della sua stanza, provò un improvviso senso d’intimità. Quante volte aveva immaginato di averla lì con sé, mentre leggeva le sue lettere alla sera, sotto la debole luce dell’abat-jour... La fece accomodare sul letto e mettendo a scaldare dell’acqua per preparare un tè le domandò che cosa la portasse da quelle parti.
   «Indovina?».
   «È perché ti mancavo, scommetto...».
   «Ma smettila! Guarda qui, invece!».
   Meyer si girò e la vide rovistare dentro la borsa. Aura tirò fuori un astuccio di metallo col coperchio riccamente decorato di girali in smalto d’oro: lo sollevò con cautela, poi ne mostrò orgogliosa il contenuto. Su un cuscinetto di stoffa stavano tutte e otto le Medaglie della Lega di Kalos, fresche di lucidatura. Le prime erano appena smussate agli angoli, sui vetri colorati si notava evidente il segno di qualche graffio, ma l’ultima, la Iceberg, splendeva in tutta la sua chiarezza all’interno della sua fessura.
   «Sei diventata proprio forte, eh?» disse Meyer con un largo sorriso, colmo d’ammirazione. Avrebbe voluto darle una carezza sulla testa, stringerla tra le braccia in un impeto di euforia, ma la timidezza lo trattenne, di nuovo. Gli bastò riempirsi lo sguardo e le orecchie della risata spensierata in cui si era aperta la bocca di Aura che intanto continuava a tenere le spille bene in mostra.
   «Ho sconfitto Edel la scorsa settimana. La Lega Pokémon ormai è quasi mia», disse la ragazza. «Volevo fartele vedere tutte insieme... Sono belle vero?».
   «Già. È una vera soddisfazione vedere finalmente un cofanetto completo».
   «Non immagini nemmeno! Ho comprato un astuccio nuovo apposta. Ti piace? Ho speso tutti i risparmi che avevo messo da parte».
   «È molto bello, sì! Deve esserti costato un occhio...».
   «Dopotutto non posso mica presentarmi alle porte della Via Vittoria con la vecchia custodia! Durante il viaggio mi si è rovinata tutta, sai, il tempo, l’usura... Tu conservi ancora le tue Medaglie?».
   «Sì, ma è tanto che non le tiro fuori, si saranno ossidate... Aspetta».
   Si avvicinò alla libreria, scansò una pila di manuali e di fumetti che aveva accatastato insieme e dal fondo del ripiano prese una scatola: vi aveva riposto dentro i suoi averi di Allenatore, la Tessera, la Mappa Città, le ultime Poké Ball che gli erano rimaste alla fine del viaggio, vuote – dopo una lunga e sofferta riflessione alla fine aveva deciso di liberare tutti i suoi Pokémon, ad esclusione di Blaziken e di pochi altri cui si era affezionato, che portava sempre con sé legati alla cintura – e infine, ovviamente, il suo astuccio delle Medaglie. Soffiò sul coperchio per mandare via la polvere che si era accumulata in superficie, vi strofinò sopra un lembo della maglietta, poi si sedette sul letto accanto ad Aura e l’aprì.
   «Al negozio dell’usato ho visto che molti di quelli che si sono ritirati le hanno rivendute», disse afferrando il cofanetto con delicatezza «Chiaramente a livello legale non hanno più alcun valore, ma pare che fruttino parecchi soldi, specie tra i collezionisti. Io comunque non avrei mai avuto il coraggio di darle via».
   Sulle Medaglie si era formata una patina scura e sgradevole. Meyer provò a sfregare un dito su di un paio, ma era abbastanza inutile, e così annerite facevano davvero una gran differenza rispetto a quelle ben pulite di Aura. Nell’ultima fessura risaltava anche troppo evidente lo spazio vuoto che avrebbe dovuto occupare l’ottava spilla. Quella mancanza non aveva mai fatto male più di tanto come in quel momento – gli era mancato così poco per davvero, e lui invece aveva mollato.
   «Cazzo...» mormorò, cominciando a realizzare solo ora fin dove era riuscito a spingersi nonostante le insicurezze e le continue difficoltà. Sentì gli occhi bruciare, si stropicciò gli occhi contro una manica per alleviare il fastidio.
   «Non te l’ho mai chiesto, Meyer... Ma ti è mai capitato di ripensarci?» chiese lei.
   «No», rispose lui «Nemmeno una volta. All’Università mi trovo bene. Certo, questo non vuol dire che non sia difficile o che riesca a fare tutto perfettamente... Però mi sento a mio agio. Da quando ho iniziato gli studi mi sono reso conto che è quello che avrei sempre voluto imparare nella vita: se dovessi tornare indietro al momento in cui ci siamo separati, farei di nuovo la stessa scelta. Sono felice nel posto in cui mi trovo ora».
   «Non ti ho mai detto neppure questo», disse ancora Aura, «Che sono contenta per te, dal profondo del mio cuore. Lo sono sempre stata».
   Meyer ne fu sorpreso. Aveva sempre pensato che non gli avesse mai perdonato quell’addio, e forse ciò che gli era bruciato di più era stato il rimorso per averla lasciata sola. Invece ora scopriva, guardandola distendere le labbra in un sorriso dolce, che nonostante le divergenze Aura lo aveva sempre avuto a cuore in ogni istante, e che aveva accolto con gioia ogni suo progresso. Meyer se ne sentì commuovere, sorrise a propria volta rassicurandosi nel calore che gli veniva dalle loro spalle che si toccavano distrattamente, seduti vicini così, come ai vecchi tempi.
   «Grazie, piccola».
   L’aveva chiamata in questo modo infinite volte nelle sue lettere, ma pronunciato per la prima volta a voce alta assumeva un effetto diverso, più concreto e tenero, amorevole. Gli era venuto talmente spontaneo che, nel momento in cui effettivamente lo realizzò, ne rimase imbarazzato – anche lei arrossiva, come lui. Si alzò a spegnere il fuoco sotto il bollitore, versò l’acqua nelle tazze e con un cucchiaino versò il tè solubile.
   «Mi dispiace, ho solo questo».
   «Va bene lo stesso, non preoccuparti».
   Porse la ceramica ad Aura e si riaccomodò al suo fianco, bevendo un primo sorso.
   «Però, dimmi... Ti è mai mancato viaggiare insieme, invece?» chiese ancora lei, con le dita che tremavano leggermente contro il bordo della tazza.
   «Quello sì. Ma più di tutto», ed esitò «più di tutto mi sei mancata tu, Aura».
   La mano di lei, allora, meravigliosamente fragile e irrequieta, di fronte a quella confessione non poté fare a meno di cedere. Meyer vide la tazza traballare nelle sue dita, ma prima che riuscisse ad afferrarla una macchia di tè era già caduta a bagnarle le calze. Aura si scusò più e più volte per la sua reazione un po’ sciocca, che era così sbadata, ma Meyer cercò di tranquillizzarla con mille parole gentili, che si sentiva un po’ in colpa anche lui e non voleva metterla a disagio. Prese un tovagliolo e lo passò piano lì poco sopra al ginocchio per asciugarla.
   Oltre le calze, riusciva a percepire la pelle morbida di lei, il calore che essa emanava. Per un accidente giunse a sfiorarle l’orlo della gonna. Si fermò. Aura però non si ritraeva. Egli sollevò gli occhi a incontrare i suoi, e li vide risplendere di un dolcissimo languore. Col fiato mozzato provò a chinarsi, ad abbandonarsi a un bacio, come quello di quando si erano separati tempo prima, senza più rivedersi per anni, e intanto si accorgeva che Aura di nuovo non si ritraeva, non si ritraeva.
   Non capiva nulla. Sentiva quelle labbra carnose schiudersi contro le proprie e diventare umide. Le mani di lei scorrevano lentamente sul suo petto e si arrestavano a tratti, ancora troppo pudiche per spingersi oltre con maggior sicurezza. Lui continuava a esitare sull’orlo di quella gonna, senza voler risalire più in alto. Il tè intanto cominciava a freddarsi.
   I veli e i pizzi leggeri scivolavano su quelle gambe con un fruscio delizioso. Meyer allungò il palmo a sentirli scorrere sotto le proprie dita, inebriato da quel suono, e intanto le forme di Aura si facevano sempre più tonde, più tenere, e il desiderio di unirsi con lei cresceva di volta in volta che solcava una nuova curva, un tratto sconosciuto di quel corpo delicato.
   Come nel dormiveglia, percepiva le membra appesantirsi. Ricadde sul letto, steso di schiena, abbracciato ad Aura e ai suoi innumerevoli baci. Fuori scendevano le prime gocce di pioggia, si alzava il vento. Loro si tenevano l’uno nell’altra, senza dirsi nulla, riparati nel proprio calore. Poi ad un tratto Aura si allontanò, si sollevò sulle ginocchia. Le sue braccia andarono a piegarsi dietro la schiena, e a poco a poco il pezzo superiore di quel grazioso vestito si allentò sopra il suo busto. Meyer vide le bretelline scivolare sulle sue spalle chiare, il modo in cui lei stessa con le dita se le sfilava con gesto sicuro e consapevole, sebbene timido, tanto timido. Aura sorrideva, le guance rosse e vivaci come due splendidi papaveri. Egli la guardò seminuda, con il reggiseno che le avvolgeva il petto minuto, ed era la cosa più bella che avesse mai visto.
   «Vuoi farlo davvero?».
   «Sì».
   Meyer si alzò. La strinse nelle braccia e poggiò la testa sul suo seno, sprofondando dentro di lei, nel suo profumo, e respirò contro la sua pelle, fra i suoi capelli. Aura lo accarezzava silenziosa, amorevole e sensuale al tempo stesso. Condotto dalle sue mani, Meyer le sganciò il ferretto dell’intimo e glielo tolse. Passò le dita sul suo petto nudo, fissandola ardentemente negli occhi. Mentre la baciava, le disse di amarla. Era la prima volta per entrambi.
   Restarono ad ascoltare il mormorio dei respiri che si spingevano a sfiorare le loro pelli, a sentire il contatto fra i loro corpi che si accoglievano a vicenda. Il piacere li soggiogò a poco a poco, accompagnato da una sottile paura di rivelarsi, di spogliarsi – quand’era troppo forte allontanavano gli occhi, poi li lasciavano vagare di nuovo su quelle forme che destavano così tanto imbarazzo e insieme attrazione, e si abbracciavano senza volersi separare mai più. Meyer si sentiva morire al solo udire i suoi sospiri, e subito rinasceva nel momento in cui ella lo richiamava, lo attirava a sé con le dita, sottraendogli un bacio o una carezza.
   In quello sforzo di aprirsi per la prima volta a un’altra persona, s’incontrarono nella sofferenza che li accomunava, in un timore che era solitudine e assieme amor proprio, completo abbandono nell’intimo altrui. Si tennero insieme, confusi, mentre il dolore li scuoteva entrambi per poi scomparire in macchie rosse sul telo bianco. Allora si abbracciarono, quieti quieti, la sonnolenza che scendeva sulle palpebre, immersi in una dolce calma, scandita dai battiti dei loro cuori.
   Meyer si stava per addormentare, quando ad un tratto Aura chiese:
   «È così brutto diventare adulti?».
   Lui la guardò, infagottata nelle coperte e accoccolata contro il suo petto.
   «Con te nemmeno tanto», rispose, e le diede un bacio sulla bocca.
 
 
 
   Furono otto anni di duri sacrifici. Meyer aveva fatto la conoscenza della madre di Aura, era stato messo in riga dal suo cipiglio severo. L'aveva conosciuta una domenica mattina, invitato per la prima volta alla baita a pranzare inseme: una donna ancora giovane, non particolarmente bella, sebbene nel taglio degli occhi e delle labbra vi riconoscesse qualcosa della grazia della figlia, il viso pieno e ambrato dal sole. Ciò che lo colpì di più furono le folte sopracciglia scure e rigide, non curate, che parevano tendersi perennemente sopra le palpebre in questo sguardo arcigno con cui lo attanagliava, prima di assestargli una carezza priva di tatto sulla spalla, nello sforzo di mostrargli un affetto che tuttavia non riusciva a provare. A Meyer pareva di percepire la sua diffidenza persino nel modo in cui si piegava a rivolgergli il volto, forzosamente vicino, eppure nascosto in parte dietro i lunghi capelli scarmigliati, una nuvola nera enorme e impenetrabile.
   «Bello è bello», l’aveva sentita dire ad Aura a fine giornata, mentre si era fermato all’ingresso per prendere la giacca «Ma non è nulla di che. Vedo che si dà da fare, che studia, ma non ha ancora trovato un lavoro stabile. Sarà un bravo ragazzo... Un bravo marito, non so».
   Poi aveva aggiunto che sembrava timido e poco virile, Aura aveva ribattuto che se lo trattava con così poca considerazione per forza s’intimidiva, lui che era tanto buono e sensibile, lei allora le aveva risposto seccamente che a maggior ragione non era quello che faceva per lei, «che se non vuoi tornare alla baita, vedi almeno di trovarti qualcuno che sia all’altezza e che sia in grado di mantenerti, di darti una casa e una famiglia, invece di scorrazzare da sola in giro per la regione come una poco di buono, a fare che cosa, poi, lo sai solo tu». Meyer aveva sentito Aura arrabbiarsi e urlarle contro, poi l‘aveva vista uscire di corsa dalla cucina e raggiungerlo ad afferrargli un braccio: «Ce ne andiamo», aveva detto, e se n’erano andati.
   Più tardi, sulla monorotaia che li avrebbe portati a Temperopoli Alta, si era scusata per entrambe, dopo essere stata in silenzio lungo tutto il tragitto a piedi fino alla stazione.
   «Speravo se ne fosse fatta una ragione. Non riesce a sopportare il fatto che tu mi stia portando via da lei».
   «È comprensibile, dopotutto è pur sempre una madre...».
   «Sì, ma non può continuare a tarparmi le ali in questo modo! Non ha nemmeno mai accettato che io volessi diventare un’Allenatrice... Non l’accettava neppure mio padre... E tu, non dare retta a quelle cose brutte che ha detto su di te. Io ti amo così come sei».
   «Lo so, Aura. Non ti preoccupare».
   Si abbracciarono, seduti sui sedili, assonnati e stanchi. Meyer la baciò a lungo sulla fronte, mentre lei si rintanava nelle sue braccia grandi e accoglienti. Giocherellavano un po’ con le dita, Aura gli accarezzava il pizzetto che aveva iniziato ad acconciarsi sul mento. Erano cresciuti tanto.
   «Finirò i miei studi, troverò un lavoro. Tu nel frattempo sarai diventata Campionessa, e allora ce ne andremo a vivere insieme. Viaggeremo per le altre regioni e faremo delle lunghe vacanze. Andremo a Ceneride, passeggeremo nel Bosco di Lecci, cammineremo sulle spiagge di Alola mangiando Malasade...».
   Nel sopraggiungere del dormiveglia, sembrava davvero che i loro sogni non fossero poi così irrealizzabili.
   Quando il proprietario dell’appartamento non c’era, spesso Meyer invitava Aura a dormire da lui
– bisognava farsi effettivamente stretti –, e così ricominciarono a tessere quella quotidianità di coppia, fatta delle cose più semplici, che già avevano vissuto negli ultimi mesi del loro viaggio a Kalos. La laurea era quasi vicina, così come la Lega: mentre Meyer preparava i suoi ultimi esami, Aura si allenava lungo la Via Vittoria, confrontandosi con altri Allenatori agguerriti come lei; aveva già provato a battere i Superquattro, ma i Campioni che si succedevano ogni volta uno di seguito all’altro rimanevano il suo più grande ostacolo, con le loro strategie articolate, difficilmente inquadrabili.
   Un giorno Aura tornò da Meyer prima del previsto. Disse che nella Sala della Luce aveva trovato per la prima volta una ragazza e che, nonostante l’avesse sconfitta anche lei, ne era stata contenta, come mai le era capitato prima di fronte a una perdita. Aveva deciso di ritirarsi, perché per quanto ambisse al suo posto, si era resa conto di non esserne all’altezza; ma non per questo rinunciò alla sua carriera di Allenatrice.
   Furono otto anni di duri sacrifici, e non tutti diedero il risultato sperato. Molte cose dovettero essere abbandonate, le strade tracciate nuovamente da capo infinite volte, poi interrotte e infine riprese, per poi essere definitivamente chiuse: che purtroppo, non le si poteva più percorrere.
   Ma Meyer sentiva che nonostante le sofferenze, nonostante i rifiuti e le separazioni, dentro di lui, di fronte alle numerose onde in cui si attorcigliava ininterrottamente la vita a ridosso della scogliera, una nuova gioia, calorosa e splendida, si stava facendo largo nel suo cuore: ed era Aura vestita di bianco all’altare, che sorrideva dolcemente con le guance arrossate – senza saperlo, portava Lem in grembo.


 
 
~ ~ ~



Volevo postare questo capitolo entro la fine del 2019 per salutare l'anno appena passato, perciò siccome sono già in ritardo di due mesi stavolta pubblico di sabato anziché di domenica per non scalare ulteriormente a marzo. È stato un anno denso di prime volte per me, sia sentimentalmente che nella vita in generale, quindi sarebbe stato davvero importante chiuderlo con una prima volta come quella della conchiglia di oggi: vale lo stesso anche dopo due mesi.
Ringrazio Afaneia per le recensioni alla terza e alla quarta conchiglia, czerwony per aver inserito la storia tra le ricordate e le preferite insieme a Nick Wilde, e come al solito tutti i lettori silenziosi che passano a dare un'occhiata! Tornerò presto con la sesta conchiglia ♥
Nel frattempo vi ricordo di lasciare un voto per Meyer nella lista dei personaggi se non lo avete già fatto, così che lo possa inserire nelle note della storia. Grazie mille ♥
Un abbraccio,

Persej
  
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