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Autore: I n n e r Ebony    06/08/2009    1 recensioni
La casa era viva.
Osservandone il riflesso tremulo sulla superficie limacciosa del lago, questa consapevolezza mi colpì con una forza spaventosa. Per quanto quelle parole fossero del tutto prive di senso, risuonavano come un’eco fastidiosa nella mia testa.
La casa era viva.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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                                                                                                           La casa

La casa era viva.

Osservandone il riflesso tremulo sulla superficie limacciosa del lago, questa consapevolezza mi colpì con una forza spaventosa. Per quanto quelle parole fossero del tutto prive di senso, risuonavano come un’eco fastidiosa nella mia testa.

La casa era viva.

Avanzai lentamente nell’erba alta, che arrivava a lambirmi i fianchi, cercando di non pensare agli insetti che certamente brulicavano tra gli steli argentati. La sottile coltre di nebbia che il lago sembrava vomitare in sbuffi perlacei  rendeva l’aria umida e soffocante, ed il paesaggio vagamente spettrale.

La villa aveva un aspetto assolutamente comune, a prima vista: grande e bianca, aveva il tetto spiovente ricoperto di tegole piatte, grigie come le rocce che sbucavano dall’acqua torbida. Il lato nord era ricoperto di caprifoglio, che conservava la sua tinta rossastra nonostante l’estate fosse ormai terminata da un pezzo. La facciata principale era perfettamente simmetrica, scandita ritmicamente da dodici finestre – sei per piano- e chiazzata qua e là dalla muffa. Unica particolarità, il portone di legno massiccio, intagliato in modo singolare: un fregio intricato faceva da cornice ad un fauno, che avanzava con le braccia tese in avanti e le mani di ferro battuto che infrangevano la superficie scura e solida, reggendo due batacchi arrugginiti.

Sfiorai le incisioni con le dita, cercando d’imprimerne i dettagli nella mente, prima di afferrare con decisione il batacchio destro. Non ebbi il tempo di bussare: spaccando il fauno in due metà perfettamente speculari, la porta si aprì con un lieve cigolio. Ero talmente convinta che si fosse spalancata da sola, come in un prevedibile film dell’orrore di serie b, che restai interdetta per qualche istante nel trovarmi davanti una donna dalla figura alta e snella. Doveva essere una ballerina classica, così sottile ed aggraziata. Il volto lucido, dalle gote arrossate, era senza età; aveva occhi di un verde incredibilmente scuro, con la pupilla dilatata in modo innaturale: rimasi a fissarli, catturata dai bagliori che danzavano sull’iride come sulla corazza di uno scarabeo, mentre la donna m’invitava silenziosamente ad entrare.

L’ingresso era pressoché in rovina: l’intonaco, dove ancora era possibile vederlo, era marcito, mentre il caprifoglio s’insinuava dalla parete nord attraverso ogni possibile spiraglio, allungandosi poi, pigramente ma inesorabilmente, sul pavimento e lungo le altre pareti.

 La donna, immobile, mi scrutava coi suoi occhi irreali. Si era avvicinata in silenzio ad una lunga scalinata, ricoperta da moquette rossa e lisa. Era più semplice osservarla da quella distanza, senza lasciarsi catturare dal suo sguardo: i capelli parevano unti, raccolti in un crocchia in cima al capo; indossava un abito di seta rosa pallido, sottile come un velo, elegante ma completamente coperto di polvere. M’indicò di procedere lungo le scale, prima di congelarsi in un perfetto arabesque accanto all’ingresso.

Troppo stupita per far finta di nulla, mi avvicinai a quella che era diventata chiaramente una scultura: sfiorai la pietra liscia, umida, toccai incredula i lineamenti scolpiti. Quando la statua sbatté le palpebre, sobbalzai e corsi verso la scalinata.

Tutto ciò non aveva senso. La casa era viva.

Salii di corsa la rampa, inciampando un paio di volte nei gradini, mentre i rampicanti alle mie spalle invadevano l’ingresso, fagocitando tutto ciò che trovavano. Mi aggrappai al corrimano, stringendolo convulsamente, mentre mi avvicinavo al piano superiore. Questo consisteva in un lungo corridoio buio, tanto stretto da rendermi claustrofobica.

Lasciai scorrere una mano lungo la parete, in cerca di un punto di riferimento tangibile, abbastanza concreto da darmi sicurezza anche in quel tunnel privo di luce. D’improvviso sotto le mie dita prese forma una maniglia circolare, fredda e liscia. Girai il pomello lentamente, cercando di non prestare attenzione al battito irregolare del mio cuore. La porta sembrò crearsi nel momento esatto in cui io vi poggiai la mano, facendo pressione per aprirla.

Mi ritrovai in una stanza incredibilmente luminosa: le pareti, di un bianco immacolato, erano decorate da sottili disegni rossi; rosso era il pavimento dalle piastrelle larghe, quadrate e variegate di rosa, così come rossi erano i panneggi che si alternavano a quadri dalle tinte calde. Dalla finestra entrava una luce intensa, innaturale, che baciava ogni oggetto rendendolo brillante, acceso. Persino la mia pelle sembrò rivestirsi di una strana luminescenza, ma non ebbi il tempo di restarne catturata. I disegni sulle pareti, che tanto mi ricordavano alcune antiche opere cinesi, presero vita: iniziarono una danza aggraziata, rincorrendosi sullo sfondo candido, mentre fiori di vernice sbocciavano sotto l’occhio attento di nubi ricche di fronzoli.

Non c’erano mobili, solo oggetti del tutto superflui: un vecchio manichino, un braciere sporco, qualche gabbietta vuota e delle scatole di cartone, appiattite contro il muro.

Un richiamo mi costrinse a voltarmi: dietro di me, in una piccola gabbia in ferro battuto, un maschio di cardinale rosso si lamentava della sua prigionia con voce monotona.

“Oh, andiamo, comportarti con gentilezza! Per una volta che abbiamo ospiti!”

M’irrigidii. Non c’era nessuno nella stanza, oltre a me.

Percorrendo le pareti con lo sguardo, mi soffermai stupita ad osservare un ritratto: raffigurava una ragazza dal volto appuntito, con profondi occhi neri come pece, bordati di rosso,  e lunghi capelli raccolti in una stravagante acconciatura. Seduta su una poltroncina in stile rococò, teneva tra le dita sottili una rosa, mentre sulla mano destra un ragno tesseva pacifico la sua tela. Sotto i miei occhi stupefatti, la ragazza si riaccomodò con grazia, facendo frusciare il suo abito di satin nero, bordato di pizzo.

“Perdonalo, dopo tutti questi secoli non ha ancora imparato le buone maniere... Mia cara, posso sapere cosa stai cercando?”

Rimasi interdetta per un istante.

“Io... Non lo so”

La fanciulla inarcò le sopracciglia sottili, mentre la bocca a forma di cuore si stringeva in una smorfia di disappunto.

“Tutti sono in cerca di qualcosa, tesoro...”

Il cardinale parve replicare a quell’affermazione.

“Sì, Mr Harris, tutti tranne noi... Ma noi non ne abbiamo motivo ormai. Cara, attenta... Non smarrire il tuo scopo, o non potrai più tornare indietro”.

Non perse la sua espressione perplessa  nemmeno quando uscii dalla stanza, voltandomi un’ultima volta prima di chiudere la porta dietro di me.

Tornata nel corridoio, fui immediatamente attirata da uno spiraglio di luce. Prima non c’era, ne ero certa.

Mi avvicinai celere, sperando di lasciarmi alle spalle la spiacevole sensazione di soffocamento che mi aveva attanagliata. Questa volta, la porta si aprì da sola, senza emettere alcun suono.

Entrai di soppiatto, guardandomi intorno con molta più accortezza di quanto non avessi fatto prima: dopo un dipinto vivente ed un uccello dal quoziente intellettivo quasi certamente superiore al mio, non sapevo a cosa potessi andare incontro.

Questa stanza era più arredata della prima, ciononostante appariva più spoglia: il mobilio color mogano si stagliava contro le pareti blu carta da zucchero; un tavolino da tè, al centro di quel piccolo salotto, posava su un tappeto persiano dai delicati toni dell’azzurro e del violetto, circondato da poltroncine foderate di velluto blu notte. Nessun quadro adornava le pareti, né erano stati messi soprammobili o ninnoli di qualche genere sul mobilio. Non c’era nulla che la rendesse vissuta, personale.

Per questo il mio sguardo fu catalizzato immediatamente da una credenza ad angolo: al suo interno, unico oggetto non essenziale, stava compostamente seduta una bambola di porcellana. Mi mossi verso questa con una lentezza esasperante, quasi aspettandomi che saltasse fuori dalla teca di cristallo per farmi a pezzi.

Giunsi davanti a lei e posai una mano sulla fragile barriera che ci separava. Era una bambola davvero incantevole, e doveva certamente essere costosa. I capelli parevano veri, di un bel rosso cupo, e gli occhi erano sospettosamente simili a zaffiri; indossava un abito da passeggio blu pavone, con eleganti scarpette bianche ai piedi ed un cappellino del medesimo colore sul capo.

Mi salutò con un lieve cenno della testa ricciuta, e soffiò le sue parole leggere e musicali fuori dalle labbra dipinte.

“Cosa cerchi,Nausicaa?”.

Di nuovo quella domanda. Quella dannata, inutile domanda. Seccata, volsi lo sguardo altrove: sul davanzale un piccolo astrilde blu dall’aria annoiata cinguettava, producendo una nenia malinconica.

“Lo sai, Nausicaa... L’hai sempre cercato, ogni singolo giorno della tua esistenza”.

Lo sapevo? Scossi piano la testa, incredula, senza distogliere l’attenzione dall’uccellino.

Sobbalzai, sentendo qualcosa di soffice contro le mie gambe. Abbassai lo sguardo allarmata, ma si trattava solo di un gatto. Era uno Scottish fold,  a giudicare dalle orecchie piegate in avanti, di un bel color grigio fumo. Senza pensarci troppo lo sollevai da terra e lo strinsi, ascoltandolo fare le fusa contro il mio petto. Era una sensazione piacevole.

“Lo sai, Nausicaa. Devi solo ritrovarlo”.

S’immobilizzò nella sua posizione composta, e capii che non avrebbe più proferito parola. Senza smettere di coccolare il micio, abbandonai anche quella stanza.

Tornata nel buio, a guidarmi questa volta fu una melodia allegra, che sembrava uscire da un violino. Seguii il suono per parecchi metri - ancora non ero riuscita a scorgere la fine del corridoio – sfiorando la parete con la mano, sempre in cerca di un pomello. Quando lo raggiunsi, il gatto sgusciò via dalla mia presa; il pelo dritto, gli occhi spalancati fissi sulla porta, soffiava con furia. Quella reazione mi fece accapponare la pelle: socchiusi la porta e gettai un’occhiata frettolosa nella stanza. Non era un violino a suonare: con busto di donna e corpo di ragno, una terribile creatura, simile all’Arachne mitologica, suonava i fili della sua stessa tela con un lungo osso giallastro pericolosamente simile ad un femore umano.

Senza proferire parola, richiusi la porta. Qualcosa –presumibilmente il mio istinto di sopravvivenza- mi suggerì di allontanarmi il più in fretta possibile da lì.

Il gatto mi seguì a testa bassa, muovendo la coda a scatti, mentre cercavo di tornare sui miei passi. Mi guardai intorno, confusa: non vedevo più le scale dietro di me, mio unico punto di riferimento.

 Perfetto, mi ero persa. Peggio, mi ero persa in uno stupido corridoio senza capo né coda, al secondo piano di una casa viva, circondata da ritratti parlanti, bambole animate e donne-ragno violiniste con abitudini alimentari alquanto discutibili.

Nausicaa...”.

Mi voltai, brancolando nel buio più assoluto. Una voce dalla consistenza del velluto mi chiamava, m’invocava in quel buio gelido e soffocante.

Nausicaa, vieni”.

La voce, calda e purpurea, sembrò materializzarsi nelle tenebre e guidarmi, con movimenti sinuosi di serpente. I miei passi erano innaturalmente lenti, pesanti come se fossi stata immersa nell’acqua fino alla vita. Era una sensazione angosciante, più cercavo di uscire da quell’oscurità insensata e penetrante, più mi pareva di affondarci dentro.

Qui, Nausicaa...

D’improvviso esplose la luce: una luce bianca, gelida, che mi abbagliò per un istante. La voce suadente di prima continuava ad avvolgermi con le sue spire infuocate, annebbiando la mia mente già poco lucida. Quando la luminosità si fece più sopportabile per i miei occhi, iniziai a scorgere ciò che mi circondava: mi ritrovavo in una sorta di sterile giardino,uno spiazzo recintato in un deserto di un bianco accecante, che si stendeva a vista d’occhio, perdendosi all’orizzonte. Al centro di quello strano giardino c’era un albero nero, che pareva morto, con frutti incandescenti che pendevano dai rami nodosi. Intorno a me, migliaia di farfalle nere svolazzavano producendo un fruscio lieve. Mi mossi lentamente, osservando il loro volo rapita; mi rendevo perfettamente conto che abbassare la guardia a quel modo era quanto di più sbagliato potessi fare, eppure non potevo farne a meno: quelle piccole creature nere, tanto fragili e sottili da sembrare fatte di seta, o di nuvola, incatenavano il mio sguardo alle loro danze.

Finalmente, mia cara”.

La voce che mi aveva attirata lì richiamò la mia attenzione, interrompendo bruscamente l’incanto.

Mi ritrovai a fissare una ragazza al’incirca della mia età, pallida e sottile, con lunghi capelli d’ebano e grandi occhi d’ametista. Mi sorrise, gentile e gelida, avvicinandosi.

Ti attendevo... Da molto, davvero. Non puoi immaginare quanto fossi impaziente di conoscerti.”.

La freddezza del suo sguardo mi suggeriva ben altra cosa, ma una voce nella mia testa mi spinse ad evitare inutili polemiche. Un corvo si posò sulla sua spalla, e lei tese una mano ad accarezzarlo, tubando affettuosamente qualcosa in una lingua incomprensibile.

“Scusa, ma... Tu chi...?”

Perdonami, sono terribilmente sbadata. Sai, è raro che io riceva visite di cortesia... Di solito mi viene solo portato il pranzo, e non ho molto tempo per stare a socializzare col mio cibo... Inoltre credo sia considerato maleducazione giocarci.”.

Mi sorrise distratta, indicando un cumulo di ossa con la testa. Invece si tornare al proprio posto, i capelli le fluttuarono attorno come pigri serpenti d’acqua. Rabbrividii, sforzandomi di non arretrare.

In ogni caso... Il mio nome è Morgana, lieta di averti qui.”.

Sottolineò quelle parole con un inchino ed un ampio gesto ad indicare il giardino. Il corvo gracchiò, fissandomi coi suoi occhi neri e lucidi.

“Come fai a conoscermi?”.

Ma è facile , dolcezza! Io, semplicemente, so”.

Il suo sorriso si allargò, coinvolgendo per la prima volta anche gli occhi.

Tutto. Dal momento esatto in cui hai posato il tuo sguardo sulla casa, io ho avuto libero accesso ad ogni tuo pensiero, ad ogni tuo ricordo.”.

La mia espressione allibita doveva essere alquanto buffa, e Morgana scoppiò in una risata bassa e gorgogliante, simile al suono dell’acqua di sorgente che sbuca dalle rocce.

Vuoi la prova? Beh, è normale... Tutti la vogliono. Vediamo... All’età di cinque anni scappasti dalla tua classe d’asilo prima delle vacanze di Natale, terrorizzata dall’uomo mascherato da Santa Claus. Ti ritrovarono dopo un’ora di ricerche, raggomitolata sul ramo di una quercia del giardino.

Mentre il pensiero ossessivo che hai riguardo questa casa dal primo momento in cui vi hai posato sopra gli occhi, è che essa sia viva”.

La osservai sbigottita, con la bocca semiaperta e un dito a mezz’aria come per ribattere, ma senza una risposta pronta. Deglutii rumorosamente: dannazione, che cosa umiliante. Cercai di ricompormi, per non mostrarle il mio turbamento. Forse era un comportamento sciocco, eppure feci di tutto per mostrarmi forte, all’altezza, e persino gentile.

“La casa dunque... l’hai creata tu?”

All’incirca... Diciamo che la casa è parte di me, e senza di essa io non sarei che nebbia sulle rive del lago. Io sono la casa, dolcezza”.

Annuii, come se avessi capito. Era impossibile che tutto ciò stesse accadendo sul serio, doveva essere un’allucinazione... O un sogno. Sì, mi dovevo essere addormentata in riva al lago e avevo sognato tutto quanto. Morgana  rispose con un cenno di diniego, per poi iniziare a camminarmi intorno, come un critico d’innanzi ad un’opera d’arte. O come un predatore pronto a balzare sulla preda. Cercai di rimuovere la seconda similitudine non appena si affacciò nella mia mente.

“Sono impazzita, vero?”

Sentivo la voce tremare, nonostante i miei sforzi per farla risuonare sicura.

Impazzita? Certo che no, mia cara. A che pro impazzire? La realtà è molto, molto più folle di una qualunque allucinazione. La realtà è subdola, nasconde ciò che la pazzia rivela. Non è meraviglioso come siamo tutti parte di questo gioco assurdo? Come tutti lo analizziamo con sguardo  lucido, pensando di averne carpito i segreti? Mentre in realtà è l’occhio vuoto ed opaco del pazzo ad aver colto la verità.

Si avviò verso l’albero, carezzando prima lo steccato con la mano destra e la mia nuca con la sinistra. Cercai di reprimere un brivido a quel contatto inaspettato. Morgana staccò un frutto e lo addentò con decisione, mentre i suoi occhi si facevano neri come scarafaggi, e i capelli parevano arrampicarsi in aria su tralicci invisibili; la sua carnagione aveva acquisito una sfumatura verdastra, e l’abito le s’incollava addosso come fosse fradicio. Il corvo svolazzava sopra di lei senza sosta.

Chi stabilisce cosa è bene, cosa è male? Cos’è giusto e cosa non lo è? Allora dimmi, Nausicaa. Tu cosa cerchi? Qual è la tua verità?

Io cosa diavolo stavo cercando? Ripensai alla bambola, alle sue parole: era qualcosa che inseguivo da sempre... Ma tutto ciò non aveva alcun senso.

Ecco.

Un senso. Anzi no.

“Il Senso. Il Significato”.

Morgana camminò, e per la prima volta mi accorsi che non poggiava i piedi a terra, ma fluttuava ad almeno un palmo dal suolo. Ciononostante, le impronte dei suoi piedi nudi erano perfettamente visibili sul bianco del suolo.

Il Significato. Che magnifica ricerca, mia cara. Cosa può dare un senso alla vita se non il Senso di tutto? Però... Non ci è dato conoscere, dolcezza

“Fino alla fine” sussurrai appena.

Esatto. Fino alla fine... Ecco cosa volevi, bimba mia, ecco cosa cercavi. E io, sono qui per donartela”.

Tese verso di me il frutto infuocato, ed io respirai il suo profumo dolce misto a quello di salsedine di Morgana.

“Quindi... Questa è la fine... Farà male?”

Certo che farà male, dolcezza. Ma ne varrà la pena. Ne vale sempre la pena, sai?

Annuii ed addentai cauta il frutto, mentre mi sentivo divorata dalle sue fiamme. Il fuoco mi trascinò nell’oscurità più assoluta, mi seppellì nel silenzio più cupo.

Poi fu la Luce.

 

  
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