Serie TV > Il Trono di Spade/Game of Thrones
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Autore: Rossini    24/03/2020    0 recensioni
Prosegue la saga de "Le cronache dei draghi e dei re", cominciata con "L'apprendista di fuoco". Il sistema è ormai sovvertito: la pace che per secoli era perdurata, adesso è stata interrotta da una serie di trame, guerre e rivolgimenti che hanno persino portato al ritorno di un'antichissima dinastia. Ma i fratelli del re appena deposto sono ancora tutti in circolazione, per quanto sparsi su tre continenti. Spetta dunque al nuovo sovrano Targaryen gestire questa complessa situazione, che diviene ancora più ingarbugliata pensando alle misteriose e oscure energie che all'est e all'ovest risorgono sotto forma di vita e fiamme. Esiste forse qualcosa che i Sette maghi del passato più ancestrale, col tempo decaduti e divenuti schiavi, nascondono a tutti i partecipanti - nessuno escluso - di questo ennesimo e disastroso gioco del trono?
Genere: Avventura, Fantasy, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altri
Note: Lime, Otherverse | Avvertimenti: Non-con, Spoiler!, Tematiche delicate
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Capitolo 30

L'ULTIMO ARRIVEDERCI

 

 

 

Molto tempo prima.

Il cielo stellato di quella notte era uno di quelli che rendevano piacevole una bella passeggiata all'aria aperta, orientando il proprio orizzonte verso l'alto. Uno di quelli che qualcuno avrebbe definito “poetico”. Il maestro del giorno e della notte aveva visto molti soli, molte luna e molte stelle nella sua vita. Li aveva studiati, approfonditi, sviscerati. Perciò, certo: era una discreta serata d'estate, ma lui ne aveva di certo viste di migliori. Aveva vissuto, nella sua vita di maestro dei Sette, tante di quelle serate uniche per la vita di un uomo, che quella alla fine non rappresentava in effetti nulla di particolare. Almeno nella sua estetica. E poi, quella era stata per lui una serata tutt'altro che felice. L'ultima, della sua vita, in compagnia dei suoi affezionati allievi. Tutti, tranne Yusseth. Lui aveva deciso di rimanere, nonostante l'insistenza del maestro che andasse con tutti gli altri. E dire che il vecchio mago dal pizzetto rosso non era neanche stato troppo tenero: lo aveva maltrattato, quel suo povero discepolo, lo aveva minacciato, aveva imprecato contro di lui... Ma Yusseth – che era intelligente – aveva capito: tutto quello serviva ad allontanarlo, e lui non intendeva farlo e difatti non sì allontanò. Rimase con il suo maestro anche quando l'ultimo dei suoi compagni lasciò l'Accademia. E ci rimase anche quando il maestro gli diede dell'imbecille. Qualche momento dopo tuttavia, a battaglia ormai perduta, il maestro integrò quella parola con un affettuoso “tenero”. Yusseth era un tenero imbecille. E lo era davvero, se questo significava talmente affezionato al suo maestro che non intendeva lasciarlo, nonostante le scenate e le brutte parole.

Quello che Yusseth non aveva capito, era che Braff non era per generosità che voleva allontanarlo, ma per egoismo. Non è che il vecchio maestro voleva evitare di procurare al giovane una grande amarezza; bensì voleva evitare di procurarla a se stesso. Perché separarsi da tutti i suoi allievi, e dunque dalla sua attività accademica, significava già di per sé subire una ferita assai profonda. Ma separarsi da Yusseth avrebbe potuto ucciderlo: ecco perché il colpo avrebbe dovuto essere rapido e deciso. E invece il giovane scelse di infliggerglielo – e infliggerlo a se stesso – lento e tremendamente doloroso.

Yusseth era giovane, e di conseguenza testardo. E per tutta la durata della loro grama cena, gli fece delle domande su ciò che sarebbe dovuto succedere. Era come se avesse intenzione di accompagnarlo fino all'ultimo istante; fino a quando il maestro del giorno e della notte sarebbe per sempre svanito dentro a un sigillo con l'impronta di un drago. Secondo lui, Braff glielo avrebbe permesso: lo avrebbe lasciato lì, da solo, lontano da casa, in una foresta incantata, circondato da mostri e spettri, senza più nessuno a proteggerlo. Era pazzo! Già mentre gli rispondeva, il maestro stava pensando a un modo per impedirglielo; un modo per liberarsi di lui. E uno c'era: era difficile, ma si poteva fare...

«E quindi» fece Yusseth, ingoiando un acino d'uva, a fine serata, «Dopo pronunciata la formula... semplicemente... sparirai?»

«Sì» rispose il maestro delle ombre, “la Spia”, «E tornerò solo quando evocato da uno stregone degno di questo nome. Sperabilmente mai, perché tale evocazione dovrà avvenire esclusivamente se le cose per il genere umano si saranno fatte... beh: ancora più serie di come non siano già adesso»

«Ma tornerai in una forma...»

«Diversa da quello in cui sono ora, certo, come ti ho detto»

«E che forma?»

«Non è chiaro. Per ciascuno di noi Sette Manti l'aspetto servile potrebbe prendere una direzione diversa, sulla base del nostro stesso potenziale magico e... del potere che l'incanto eserciterà su di noi. È una cosa molto complicata, che io stesso comprendo per meno della metà»

«Ma allora... se la comprendi per meno della metà... cioè... perché lo stai facendo?». Quando il giovane sollevò il capo, il maestro non poté non accorgersi che stava piangendo a dirotto. Che età piena di passioni quella che Yusseth stava vivendo: un momento prima pareva essere uno spavaldo menefreghista, padrone del mondo, e un momento dopo un cucciolo smarrito e pieno di ferite e lacerazioni. E così sarebbe andata, e così doveva andare: avrebbe sofferto e pianto per la separazione, certo. Ma si sarebbe ripreso e rifatto alla grande, di questo Braff era ancora più sicuro. O almeno, era questo che in fondo al cuore strenuamente sperava.

«Lo sto facendo» il maestro prese la mano dell'allievo «Perché gli Antichi Cinque sostengono che sia la cosa migliore. E la cosa migliore è quella che deve essere fatta»

«Non sai niente!» pianse ancora Yusseth «Non hai alcuna garanzia! L'incantesimo potrebbe andar male; potrebbe non produrre il risultato sperato, tu potresti semplicemente... semplicemente...»

«Morire?» gli tolse la mano dalla mano, e gli accarezzò il volto, «La morte non mi spaventa. Perché mi è stato insegnato – e ho imparato ad esserne sicuro – che nulla finisce. Ma che viviamo in un contesto di costanti mutazioni» gli asciugò le lacrime «Io ti rincontrerò un giorno. Saremo... molto diversi. Magari tu sarai più vecchio di me. E più saggio e coi...» gli arruffò la zazzera «capelli grigi. E uno di noi potrà essere una donna; o tutt'e due, magari» rise. Poi improvvisamente serissimo: «Ma saremo noi. Come oggi, come ora, per sempre... Noi».

Non finirono di mangiare. Non sparecchiarono. Andarono fuori, sotto quel famoso cielo stellato, bello, ma non così speciale. Almeno esteticamente. Perché in termini d'importanza, era sì assai speciale. Erano le ultime ore che il maestro del giorno e della notte passava con il suo Yusseth, il migliore e il più affezionato dei suoi allievi. Il fattucchiere più brillante. E il sorriso più sconvolgente. Lì fuori, il maestro e la l'allievo si scambiarono, sotto la luna splendente, i più sinceri messaggi di rispetto e d'amore. Gli ultimi di quelle loro vite. Braff diede al giovane ciò che lui voleva. Si divertirono così tanto che alla fine si stancarono e caddero assopiti sulle amache.

Ma Yusseth fu colto da un sonno più profondo, beato. Il sonno degli angeli. Nel bel mezzo della nottata, il maestro Braff si destò. Diede un'ultima occhiata al più bello dei suoi allievi, con quei boccoli neri e quella pelle, turgida e vigorosa, del colore dell'ambra. E quell'unico occhio chiuso che aveva, del taglio come quello di un uomo delle dune orientali. L'occhio destro, Yusseth lo aveva perduto: era coperto da una benda. Aveva raccontato diverse storie in proposito, su come l'aveva perso, sia al suo maestro che ai suoi compagni. Storie troppo diverse l'una dall'altra, sconnesse. Braff sospettava che la verità su quell'episodio se ne stava nascosta sotto qualche dramma familiare. Di tutto infatti parlava Yusseth, e su tutto scherzava, tranne che della e sulla sua famiglia. Anche questo era un piccolo cruccio che restava nell'animo del maestro delle ombre: non aver saputo cosa aveva in verità tormentato il suo diletto, nella sua vita precedente.

Ma ormai era troppo tardi; il tempo era giunto. Braff si sollevò dall'amaca sulla quale aveva finito di addormentarsi. Preparò l'incantesimo. Era dura: ci volle quasi un'ora. Alla fine, riuscì ad aprile il portale, quasi attaccato all'amaca di Yusseth. Svegliò il giovane con uno schiaffetto. Il cielo era ancora tempestato di stelle, questa volta quasi magico per davvero. Incredibile: in poco tempo, la notte era cambiata. Ora era diventata speciale. Qualcosa nella volta sopra le teste degli uomini stava brillando molto più del solito...

Yusseth, che però era per sua natura un tipo sveglio, nonostante la dolce carezza del maestro, si rese subito conto che qualcosa non andava. Con uno scatto troppo rapido, si voltò e vide il portale aperto dietro di sé. «Che cosa hai fatto?» chiese. E continuò: «È una magia che non hai mai prodotto!» pianse «Quanto ti è costata? Cosa ci è voluto?»

«Niente» lo consolò il maestro delle notti e dei giorni.

«Come niente?! Questa cosa inficerà la tua preparazione di domani! Hai faticato troppo per questo! Che stupido, che stupido che sei! Sei uno stupido vecchio ostinato!»

«Andrà tutto bene»

«Tu morirai... morirai perché non farai bene a Cair Dedalos, e qualcosa andrà storto e morirai... ed è tutto colpa tua!»

«Non morirò, scemo. Ma sparirò comunque, e tu non mi vedrai più.-Non ci vedremo... per un po' di tempo. Tu conoscerai tante belle persone. E un paio le amerai»

«No, no»

«E vedrai mille e mille cose: qualcuna orribile. Qualcuna buffa»

«No!»

«Qualcuna simpatica, qualcuna meravigliosa, qualcuna sconvolgente, qualcuna travolgente»

«No...»

«Sì. Io ho visto cose sconvolgenti nella mia vita, tantissime. Ma l'ultima in ordine di tempo, è qui davanti a me»

«No...»

«Sì. Come ti ho detto ieri: oggi. Ora. E per sempre: noi». Fu la sua ultima parola. La pluralità, come quella tanto amata ed insegnata dal maestro Nidhogg. Non esisteva uomo, senza la comunità degli uomini. E in quell'ultimo tempo Yusseth proprio quello era stato: la sua comunità. La sua famiglia. Lui, e gli altri allievi dell'Accademia. Ma lui un po' di più. Il maestro deciso dunque di sorridere al proprio allievo. Dopodiché lo spinse con tutta la forza che aveva dentro il portale. E chiuse il portale. Rapidamente, ma non con poca fatica. Non poteva dirglielo nel momento del loro ultimo arrivederci, ma anche su quello Yusseth aveva ragione: quell'incantesimo lo aveva affaticato molto. Non pensava, il maestro Braff, che la sua Cair Dedalos fosse in discussione. Credeva sinceramente che comunque sarebbe andato bene, che i Cinque avrebbero fatto in modo che tutto andasse serenamente in porto. Altrimenti, sarebbe morto e rinato. E avrebbe rivisto il suo Yusseth.

Non lo spedì poi così lontano: una locanda a nord che lui stesso conosceva, ma anche molti allievi. Però collocata in un a posizione abbastanza utile da dare serenamente al maestro mago di attendere l'arrivo del suo prossimo ospite, un vecchio amico di nome Mawldor. Costui non venne nella prima mattinata, dando così la possibilità a Braff di riprendersi dall'incantesimo fatto nella notte e di fare una abbondante colazione. Quando il sole era già piuttosto alto, anche se ancora non perpendicolare all'orizzonte, alla fine il maestro delle fonti, l'Eremita, arrivò. Entrò nelle camere di Braff senza domandare permesso: lo faceva sempre. E dopo che quest'ultimo lo ebbe salutato, domandandogli da quanto tempo non si vedessero, il vecchio maestro delle fonti rispose: «Davvero tanto, vecchio amico mio. Davvero tanto. Sei pronto?»

«No» rispose Braff, confessando dunque tutte le paure e ansie che non aveva avuto il coraggio di raccontare al suo Yusseth, «Ma che cosa cambierebbe? Dobbiamo farlo comunque».

Dopodiché qualche formalità ancora, ma giusto quel poco che poteva starci tra vecchi amici che non si vedevano da un po' di tempo, e qualche parola su quello che di lì a breve li avrebbe aspettati: perché ci si poteva anche scherzare, ma in fondo Braff e Mawldor rimanevano uomini. E qualsiasi uomo avrebbe affrontato quella avventura con un minimo di tentennamento.

Dunque: il viaggio. La tappa presso il Maestro Helmon, che entrambi non vedevano da anni e che – per gioco – decise di non manifestarsi e di attaccarli. Quando si rivelò, furono ovviamente grasse risate. La situazione fu un po' più complicata con Meredjuxor, il maestro della natura selvaggia. Fino alla fine, non si capì bene se lui avesse intensione di aderire a Cair Dedalos, come i Cinque avevano chiesto. Inutile dirlo: senza tutt'e sette i savi manti, l'incantesimo non sarebbe mai riuscito. Ma il nome della draghessa Kimera – una delle Cinque creature originarie – convinse il vecchio e folle stilita.

Dunque l'arrivo alla splendida città dei draghi, governata dal maestro Tararus, e i suoi raffinati abiti da principe. La foresta di Audorya, con le sue sequoie alte come castelli, e l'arrivo di Xenorus, a cavallo del suo splendido falcone da ricognizione; e quello del maestro sovrano, Corarus il Guerriero, dalla pesante corona di acciaio nero. Dopodiché l'avvento dei Cinque: Kimera, Kyrios, Luxia, Nidhogg e Requiem, bellissimi e spettrali come sempre. Il loro appello definitivo ai Sette: Corarus, Xenorus, Tararus, Meredjuxor, Mawldor, Helmon, Braff. La formula sacra; tutti loro giurarono. Dunque l'inumano dolore, mentale e fisico, della totale mutazione. Un dolore talmente lancinante che niente il maestro delle ombre poté opporgli, se non la sua lucidità, il suo pensiero, il suo ricordo. Più dolorosamente il maestro Braff infatti mutava, e più decise di concentrare la sua attenzione sulle immagini che con la propria mente riusciva a proiettare.

Il profumo di una madre, mentre lo stringeva nei suoi candidi abbracci.

Quello del pane col sesamo, appena sfornato.

Le mani di cartapesta di una nonna, mentre lo accarezzavano durante una febbre.

Lo scroscio dell'acqua della fonte dove gli piaceva giocare da bambino, e le risate dei suoi cari e dei suoi amici mentre lo facevano.

Il calore del primo incantesimo riuscito, e la soddisfazione che da esso ne scaturì. Il suo orgoglio e la sua autostima.

I complimenti di uno dei maestri, mentre lo dichiarava uno dei Sette Manti.

Gli esperimenti con Mawldor e con un giovane Helmon, non ancora pienamente formato.

Il suono del canto degli uomini, e quello dei figli di Audorya con le loro arpe fatte di corallo.

Le notti fredde passate a studiare le stelle.

I giorni caldi passati a studiare il sole, e di tanto in tanto a visitare il mare.

Il mutare ciclico della volta celeste, con la sua angelica sincronia.

I sorrisi dei suoi allievi soddisfatti, quando capivano una cosa. Il loro sconforto durante un compito un po' complesso. La loro rabbia per una valutazione giudicata ingiusta. Il loro amore, e la loro passione e dedizione, quando capivano che loro, per il maestro, erano come dei figli.

La passione la dedizione di Yusseth.

E Yusseth.

E Yusseth.

E Yusseth...

   
 
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