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Autore: Fire Gloove    26/03/2020    5 recensioni
Sabbia di ferro. Un materiale grezzo, scuro, amaro, volatile. Il rapporto tra i due migliori portieri che la Generazione d’Oro del calcio giapponese abbia da offrire, un po’ ci somiglia. Sono separati da dissapori alimentati da anni di competizione senza esclusione di colpi. Distanti e disinteressati, come granelli di sabbia.
Poi però qualcosa cambia d’improvviso: il ritorno di Genzo in Giappone potrebbe mettere in discussione un sacco di cose.
Perché, in fondo, è proprio dalla sabbia di ferro che si parte per creare un acciaio meraviglioso come quello della lama di una katana.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Alan Croker/Yuzo Morisaki, Ed Warner/Ken Wakashimazu, Genzo Wakabayashi/Benji, Kojiro Hyuga/Mark, Mamoru Izawa/Paul Diamond
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Iron Sand & co'
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Sotto il cielo di Amburgo

 

 

 

 

 

Genzo era furioso. Quella notte non era riuscito a chiudere occhio, ed era dal pomeriggio precedente, quando gli avevano comunicato la notizia peggiore della sua carriera calcistica, che si aggirava per casa come una bestia ferita.

All’inizio, si era rifiutato di accettare la situazione. Aveva urlato in faccia al medico, gli aveva dato dell’incompetente, del ciarlatano. Poi, mentre il panico faceva lentamente presa su di lui, aveva cominciato a contrattare. Ok, non avrebbe giocato, ma poteva almeno continuare ad allenarsi? No? Neanche un pochino? Il dottore era stato categorico: almeno sei mesi di stop assoluto, e poi si sarebbe valutato se la situazione permettesse di reintrodurre, a poco a poco, un po’ di stress sui suoi polsi. Quello che era certo, era che nel migliore dei casi avrebbe dovuto stare fermo per una stagione intera. Nel peggiore, la sua carriera poteva essere definitivamente terminata.

Non voleva nemmeno prendere in considerazione quell’eventualità. Certo, si era infortunato un sacco di volte, fin da bambino, complice il suo modo molto aggressivo di giocare e un pizzico di sfortuna. Ma era sempre guarito, anche in tempi molto veloci. Perché questa volta avrebbe dovuto essere diverso? Una vocina nella sua testa gli ripeteva che non aveva più l’elasticità di un dodicenne, che ormai era adulto, e che era più che plausibile che facesse più fatica a guarire, soprattutto dopo lo stress immane a cui aveva sottoposto il suo corpo l’anno precedente, durante il World Youth.

Certo, se proprio la sua carriera avesse dovuto essere stroncata da un infortunio, avrebbe preferito che accadesse in un qualche momento epico, tipo la finale di un mondiale, tipo nel parare il tiro di un cannoniere serio, come Karl o Levin, non durante la più stupida delle amichevoli, in una partita che era poco più di un allenamento, fermando un tiro che avrebbe potuto prendere a occhi chiusi, semplicemente perché nel tuffarsi era atterrato male sui polsi. Ma quello era stato, evidentemente, il colpo di grazia.

Il ragazzo sprofondò a sedere sul divano, affondando la testa tra le mani. Anche quel semplice movimento gli provocò un intenso malessere alle braccia fasciate. 

La decisione di tornare in Giappone l’aveva presa la sera prima, anche se sarebbe stato più corretto dire che gli era stata imposta dal padre.

Il ragazzo ripensò alla conversazione telefonica che aveva avuto col genitore.

 

“Non ho alcuna intenzione di tenerti ad Amburgo a far nulla.”

Davanti alle proteste del figlio, la sua voce si era fatta ancora più dura.

“Puoi giocare a calcio? No. Questo vuol dire che non ti stai più guadagnando uno stipendio. Non sei più un bambino, non vedo perché dovrei ricominciare a mantenerti. I tuoi fratelli lavorano nell’industria di famiglia da anni, ormai, ed è ora che cominci a farlo anche tu, a maggior ragione se c’è la possibilità che la tua carriera agonistica sia finita.”

A Genzo gli occhi si erano riempiti di lacrime di rabbia. Il padre aveva sempre considerato la sua decisione di fare il calciatore professionista come un frivolo capriccio, a cui aveva accondisceso solo davanti alla sfilza di successi che gli aveva portato. Non lo stupiva che prendesse la palla al balzo – il gioco di parole gli fece curvare la bocca in un sorrisetto amaro – per riportarlo all’ovile e impiegare anche lui nell’azienda di famiglia. 

“Comunque, conosco un ottimo medico sportivo che potrà seguirti nella fisioterapia. Ha lo studio a Nagoya, e per tua fortuna avevo già intenzione di mandarti lì. Abbiamo un appartamento libero, e la sede locale della Wakabayashi Motors ha decisamente bisogno di un po’ di carne fresca a livello dirigenziale.”

Detto ciò, gli aveva comunicato di avergli prenotato un volo per il Giappone di lì a tre giorni, dandogli giusto il tempo necessario per fare i bagagli e salutare qualche amico prima di dover mettere in pausa la sua vita per almeno un anno. Genzo non aveva potuto fare altro che accettare la decisione. Discutere con suo padre era assolutamente inutile, il carattere orgoglioso e testardo l’aveva ereditato da lui.

 

Gli veniva da urlare. Una parte di lui era tentata di mettersi a lanciare roba, metter a ferro e fuoco il bellissimo appartamento che il padre gli aveva comparato, ormai tanti anni prima, nel centro di Amburgo. Ma quel posto era casa, più di quanto non lo fosse qualsiasi altro luogo nel mondo, e non sarebbe mai riuscito a rovinarlo, nemmeno per fare un dispetto al genitore. La sua vita era lì, in Germania. Era lì che era avvenuta tutta la sua maturazione, come persona. Era il luogo in cui si era trasformato da bambino, a ragazzo, a uomo. E ora non sapeva se sarebbe mai tornato a vivere lì. Nel giro di tre giorni, la sua vita sarebbe stata completamente sconvolta, e non c’era niente che lui potesse fare per opporsi alla cosa.  

Quel lasso di tempo passò anche più in fretta di quanto avesse previsto: le sue giornate furono scandite dall’impacchettare roba. Dovette decidere cosa lasciare lì, in cantina o in un deposito, e cosa portare con sé in Giappone: se di alcuni oggetti, come i vecchi libri di scuola o i vestiti che si erano accumulati sul fondo dell’armadio e che non indossava più da anni, fu facile liberarsi, di altri lo fu molto meno. A metterlo più in crisi furono tutte le medaglie e le coppe dei vari tornei. Pensare di lasciarle indietro gli mandava una staffilata dritta al cuore, ma l’idea di averle esposte nella nuova casa, come un perenne monito di quello che rischiava di perdere per sempre, non era che fosse molto più rosea. Con un moto di stizza, tirò un calcio allo scatolone in cui stava mettendo tutti i suoi memorabilia sportivi, facendolo rovesciare sul pavimento. Imprecò e decise di uscire per una corsetta per tentare di schiarirsi la mente. Almeno quello poteva ancora farlo… per colpa di quei maledetti polsi, quasi tutte le altre attività sportive gli erano vietate. Per tutti gli dei, pure quando si masturbava doveva avere una certa cautela. Sbuffò una risata amara ripensando alla faccia che aveva fatto il medico mentre pronunciava quelle parole. 

Uscito di casa, si diresse ad andatura sostenuta verso il lungofiume. Il sole stava tramontando su quella che sarebbe stata la sua ultima notte su suolo tedesco, e la temperatura dell’aria aveva finalmente iniziato ad abbassarsi. 

Correre lo fece sentire meglio. C’era qualcosa di quasi magico nel modo in cui sentiva i muscoli della schiena sciogliersi e l’enorme peso che si portava addosso da giorni sollevarglisi dalle spalle. Per qualche manciata di minuti lasciò che la sua attenzione si soffermasse solo sull’aria che gli scompigliava i capelli e sul ritmo forte del cuore che gli pulsava il sangue nelle vene. Fece un lungo giro, cercando di toccare nel suo itinerario tutti i luoghi di Amburgo che preferiva. Passò davanti all’elegante edificio che ospitava la scuola che aveva frequentato, poi deviò per arrivare al parco dove tante volte lui, Karl e Hermann si erano allenati da ragazzini. Si fermò su una piccola altura ad ammirare la distesa verdeggiante di un grande prato, ai limiti del quale si trovava un piccolo spiazzo di terra battuta che sembrava fatto apposta per giocarci a calcio. Sorrise nel pensare che, malgrado tutti i soldi che Herr Schneider aveva speso in allenatori privati, il famoso Fire Shot del figlio era stato inventato e perfezionato proprio lì, grazie ai giocosi assist di Kaltz e gli sfottò e le parate di Genzo.

Scosse la testa, non c’era niente da fare. Per quanto si sforzasse di distrarsi, il suo cervello continuava a tornare al calcio. Pensò che, se proprio doveva perdersi sul viale dei ricordi, tanto valesse farlo per bene. Tirò fuori il cellulare dalla tasca dei pantaloncini e digitò un messaggio.

 

– Ci siamo, è l’ultima sera. Ci salutiamo a dovere?

 

La nuvoletta della chat andò ad aggiungersi alle altre del gruppo che lui, Karl e Hermann avevano su Whatsapp. Ricevuta la notizia della sua partenza forzata, entrambi avevano fatto i salti mortali per passare con Genzo più tempo possibile. Il Kaiser era persino riuscito a farsi dare qualche giorno di vacanza dagli allenamenti del Bayern-Monaco per tornare ad Amburgo. Come previsto, la risposta alla sua chiamata alle armi non tardò ad arrivare.

 

– Eh, come no?! Facciamo all’Omas alle dieci?

 

Sia il portiere che l’attaccante concordarono con la proposta di Kaltz. 

L’Omas Apotheke era il loro locale di fiducia sin dai tempi del liceo, e non c’era luogo migliore per passare un’ultima serata assieme.

Genzo ricominciò a correre verso casa. Aveva giusto il tempo di farsi una doccia e finire di chiudere gli ultimi pacchi, e poi si sarebbe diretto verso quella che sperava fosse una sbronza colossale. I postumi avrebbe potuto smaltirli tranquillamente il giorno dopo durante l’infinito viaggio aereo per il Giappone.

 

***

 

Lo spesso fondo di vetro del boccale cozzò violentemente contro il tavolo.

Lo spettacolo che si sarebbe posto davanti a un ipotetico osservatore esterno era ben poco edificante: Genzo stava con la testa appoggiata alle braccia incrociate sul tavolo e biascicava qualcosa sul fatto che – porcadiquellaputtana – dopo tutti quegli anni avrebbe dovuto saperlo che cercare di tenere il ritmo con due tedeschi che bevevano non era una buona idea. Alla sua destra, in equilibrio precario su uno degli sgabelli di legno del pub, Hermann non versava in condizioni molto migliori: si teneva dritto a fatica, e mordicchiava il suo onnipresente stuzzicadenti con aria vacua. L’unico che manteneva, come sempre, un certo contegno, era Karl. Gli amici non lo chiamavano certo Kaiser solo per la sua innata eleganza in campo, ma anche per il modo in cui riusciva ad approcciarsi ad ogni situazione della vita senza perdere un certo contegno aristocratico. Anche lui però, a guardarlo bene, aveva le gote un po’ troppo rosse e gli occhi leggermente appannati. Da quando si erano seduti a quel tavolo, un paio d’ore prima, avevano mandato giù una birra dopo l’altra a un ritmo vertiginoso. Erano probabilmente arrivati al sesto o al settimo giro, nessuno di loro era più in grado di tenere il conto. 

“Geeeeenzoooo”, biascicò Kaltz, “ma come farai a sopravvivere in Giappone con quella roba che avete il coraggio di chiamare birra?”

Il portiere alzò di un poco la testa per guardarlo.

“C’è il sakè. Non sottovalutare maaaaai il potere del sakè.”

Il centrocampista annuì con aria assorta, per poi scoppiare a ridere per solo-lui-sapeva-cosa. 

Schneider li osservò ridacchiando e scuotendo la testa. Sapeva già che le future uscite con Hermann avrebbero avuto un gusto diverso, amaro, senza la presenza del giapponese in mezzo a loro. Il loro terzetto era rodato dagli anni, e se qualcuno avesse guardato, anche solo distrattamente, la parete tappezzata di fotografie della sua stanza da letto, la prima cosa che gli sarebbe saltata all’occhio sarebbe stata il contrasto tra la testa di capelli nerissimi del portiere e le due teste bionde al suo fianco. Sentì il nodo di malinconia spingere sulla gola, e si affrettò a buttarlo giù insieme agli ultimi sorsi della sua pinta di birra.

“Su, Wakabayashi, dimostra che sei un uomo e svuota quel bicchiere, che ho voglia di fare un giro.”

La frase fu pronunciata da Karl con giusto un tocco di alterigia, e Genzo fece lo sforzo di alzare la testa per guardarlo con la miglior versione del suo ghigno beffardo che potesse produrre in quel momento.

“Ai tuoi ordini, oh magnificente K… Kaiser.

Un singhiozzo lo fece inciampare sul titolo, e tutti e tre ne ridacchiarono. Il portiere procedette poi a svuotare il boccale in un paio di sorsate decise. 

“Beeeeene. Per me possiamo andare.”

Si alzarono vagamente traballanti e uscirono nell’aria fresca della notte amburghese.

Tutti e tre erano consapevoli che si stesse avvicinando il momento dei saluti, e così si sforzarono di allungare il brodo, cominciando a camminare con passo instabile per le vie del centro. Il loro girovagare da ubriachi li portò sul lungofiume, dove si sedettero con le gambe a penzoloni oltre l’argine. Genzo prese a fissare le luci della città riflesse nell’acqua scura. 

Un fiume c’era anche a Nagoya.

Questo pensiero gli attraversò la mente senza che lui l’avesse davvero formulato, e in qualche modo lo rasserenò. Negli anni della sua adolescenza, aveva preso l’abitudine di schiarirsi le idee osservando le acque impetuose dell’Elba, e l’idea che almeno quell’abitudine non sarebbe stata del tutto spezzata gli fece piacere. Certo, era un altro fiume, avrebbe dovuto farci amicizia, prima di cominciare a confidargli le sue speranze e le sue paure più profonde, ma era comunque una base da cui partire per esplorare un terreno nuovo e sconosciuto. Anche perché lui, in Giappone, aveva sempre vissuto in una città relativamente piccola, e l’immensità delle metropoli asiatiche sinceramente lo intimoriva un po’.

Sperò che dall’appartamento in cui intendeva piazzarlo il padre si vedesse la sponda del fiume.

Fu strappato dalle sue riflessioni da una mano che gli atterrò poco gentilmente in mezzo alle scapole. Hermann era sempre delicatissimo.

“Wakabayashi, temo sia arrivata l’ora dei saluti”, la frase venne pronunciata quasi con leggerezza. E poi, in tono più grave: “In bocca al lupo, Genzo. Mi mancherai. Mi raccomando, non sparire.”

“Non preoccuparti, non vi libererete di me così facilmente. Ci sono comunque delle possibilità che l’anno prossimo io sia di nuovo qui con voi.” 

Il portiere cercò di non lasciare che tutta la malinconia che aveva dentro si insinuasse nella sua voce, ma si rivelò un compito molto arduo. Si girò verso Karl, che lo stava osservando. Si sorrisero. Tra di loro non c’era mai stato bisogno di molte parole, la sintonia che li univa scorreva a un livello più profondo.

“Ciao Wakabayashi, cerca di non sfasciarti più di quanto tu non abbia già fatto.”

“Ci provo, oh mio Kaiser, ci provo.”

Senza aggiungere altro, si alzò con uno slancio e si incamminò verso casa senza girarsi a guardare le due teste bionde che si stava lasciando alle spalle.

Sapeva che se l’avesse fatto non sarebbe più riuscito ad andar via.

 

***

 

Ken srotolò il futon e ci si lasciò cadere sopra a corpo morto. Dopo qualche istante si tirò a sedere, spostò con una mano alcune ciocche di capelli sudati che gli si erano appiccicate alla faccia e si guardò in torno. Finalmente aveva finito di sistemare l’appartamento. Era stato faticoso, ma era molto soddisfatto del risultato. Dalla grande finestra della stanza da letto entrava luce in abbondanza, e la pozza luminosa dei raggi solari andava a posarsi sul piano di una piccola scrivania in legno di ciliegio. Un’intera parete era occupata da un grande armadio a tre ante anch’esso nel medesimo materiale, con tutte le ante intarsiate in un complicato motivo che riproduceva un paesaggio montano. Sulla parete opposta all’armadio stava il futon, con accanto un piccolo comodino che, alla struttura in legno, aggiungeva un piano di ceramica smaltata la cui decorazione rappresentava una coppia di carpe koi. 

Il ragazzo chiuse gli occhi e lasciò che la sua pelle assorbisse quanto più possibile dal calore del sole. Il fatto che la casa fosse finalmente in ordine, unito alla bellissima giornata che il clima aveva regalato quel giorno alla città di Nagoya, riuscirono a infondergli un po’ di buon umore. Era da tre giorni, dalla sera della cena a casa di Izawa, che a intervalli regolari gli tornava in mente la notizia che aveva appreso. 

Genzo Wakabayashi stava tornando in Giappone.

Non sapeva di preciso perché la cosa lo turbasse tanto. Il SGGK non stava certo tornando per giocare, quindi non avrebbe dovuto sentirsi minacciato nella posizione di miglior portiere della nazione, eppure l’idea che il suo più grande rivale, una persona che a volte aveva pensato esistesse con l’apposita intenzione di rendergli la vita un inferno, si andasse a stabilire proprio lì a Nagoya lo turbava. 

Nell’ultimo paio d’anni, il suo odio adolescenziale per Wakabayashi si era stemperato in una diffidenza condita di stima reciproca, ma comunque si sarebbe sentito più tranquillo se il portiere fosse rimasto a migliaia di chilometri da lui e dalla sua vita. 

Ma l’Europa non poteva tenersi Genzo e ridargli indietro Kojiro?!

Si lasciò cadere indietro sul futon, coprendosi gli occhi con un braccio, poi scosse lentamente testa. Non c’era nulla che lui potesse fare per evitare l’inevitabile, quindi era inutile continuare a preoccuparsene. 

Recuperò il telefono dal comodino, si mise di spalle alla stanza, sulla porta, e si scattò un selfie in cui inquadrava solo un angolo del suo viso, per comprendere il più possibile dell’ambiente alle sue spalle, e lo mandò sulla chat condivisa con Hyuga e Takeshi. Dopo di che, andò a buttarsi sotto la doccia, sperando che l’acqua calda potesse schiarirgli un po’ le idee.

 

 

Notine notose: Ed ecco la reazione del nostro PolistiroloBoy (cit.) davanti allo scombussolamento totale della sua vita. Non potevo certo farlo partire senza salutare i nostri due crucchi preferiti! <3 

 

 

 

   
 
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