«Che
cos’è un serpente a sonagli?»
La
domanda veniva da un bambino
con due grandi occhi azzurri e un paio di denti mancanti. Anna
abbassò il
foglio che teneva tra le mani e osservò il suo piccolo
interlocutore. «È un
serpente con una specie di… sonaglietto sulla
coda» spiegò. «Una specie di
pallina: lui agita la coda e la pallina suona.» O almeno
credo, aggiunse poi
silenziosamente.
«E
perché agita la coda?» chiese
la bambina dai tratti andini seduta a terra con le gambe compostamente
incrociate. Era piccola e grassottella e qualcuno le aveva pettinato i
capelli
in due graziosi codini neri che le restavano dritti in testa.
Prima
di rispondere, Anna spostò
lo sguardo sul terzo ragazzino che le era stato assegnato: era
più grande degli
altri due ed era incastrato in una sedia a rotelle. La sua gamba
destra,
ingabbiata in una sorta di impalcatura metallica la cui funzione era
sconosciuta alla ragazza, era tesa davanti a lui. Poveretto,
pensò la giovane
con un moto di compassione nei suoi confronti. Era probabilmente troppo
cresciuto per le fiabe e infatti pareva sonnecchiare, palesemente poco
interessato alle vicende del Serpente a Sonagli e ai suoi litigi con la
Stella
Polare.
«Il
serpente scuote la coda quando
è arrabbiato» spiegò pazientemente
Anna, tornando a rivolgersi alla bambina.
Quella
le rivolse uno sguardo
scettico. «Uhm… sei sicura?» la
interrogò, puntandole addosso i suoi brillanti
occhi neri. «Il mio cane scodinzola quando è
contento, non quando è arrabbiato.
Magari il serpente scodinzola perché così suona
il… il sonaglio e lui può fare
un po’ di musica per i suoi amici.»
Beata
innocenza, pensò Anna con un
sorrisetto. «Be’, però qui stiamo
parlando di un serpente, non di un cagnolino.
I serpenti fanno un po’ schifo, sono freddi, invece i cani
sono carini e
coccolosi… no?» A parte il cane-coccodrillo che
alberga da parte a casa mia:
per decidere se è carino e coccoloso anche lui mi serve
qualche ulteriore
verifica empirica.
«A
me piacciono i serpenti»
bofonchiò il ragazzino sulla sedia a rotelle, aprendo un
occhio appannato.
«Sono fighi.»
Anna
si rabbuiò. «Evita di usare
certe parole» lo rimbeccò a bassa voce.
«Ci sono dei bambini piccoli!»
Il
ragazzino – Leonardo, se non
ricordava male – alzò gli occhi al cielo e
tornò a sonnecchiare.
«Beh!»
riprese Anna, tornando a
rivolgersi ai due bambini che le dedicavano un minimo di attenzione.
«Vogliamo
scoprirla, questa storia del serpente e delle stelle, oppure
no?»
Quando
i due piccoli annuirono con
un movimento perfettamente sincronizzato, Anna riprese in mano la sua
fotocopia
e iniziò a leggere.
Una
ventina di minuti più tardi –
tanto le ci era voluto a leggere una paginetta, tra interruzioni e
commenti
vari – la ragazza si stiracchiò e si
alzò in piedi. «Allora?» chiese, rivolta
al suo pubblico. «Vi è piaciuta la
storia?»
«Era
figa» commentò mollemente
Leonardo.
La
ragazza lo fulminò con gli
occhi. «Ma se nemmeno l’hai ascoltata!»
sbottò. «Hai praticamente dormito tutto
il tempo!»
«Bugia!»
ribatté lui. «Ho
ascoltato tutto, invece: parlava di un serpente che era geloso della
stella
polare e allora la mordeva, poi lei rimaneva paralizzata e lui mordeva
tutti,
anche i cacciatori. E poi lui è stato trasformato in una
stella, anche se non
ho capito bene perché.»
Anna
arricciò il naso. Al di là
del fatto che Leonardo l’avesse apparentemente apprezzata,
doveva riconoscere
che si trattava di una storiella abbastanza insulsa e nemmeno
particolarmente
adatta ai bambini. Perché diavolo mi hanno fatto leggere una
storia che parla
di bestie velenose e di gente che muore? La prossima volta chiedo che
mi diano
il Brutto Anatroccolo o qualcosa del genere! «Va bene,
bambini!» disse. «Per
oggi è tutto. Ci vediamo un altro giorno, ok?»
Un’infermiera
che si era
materializzata accanto a lei prese per mano i due bambini
più piccoli e li condusse
fuori dalla biblioteca. La ragazza li guardò allontanarsi
con uno strano
dolorino all’altezza del petto e una punta di tristezza che
le stringeva la
gola: i due piccoli sembravano in salute, ma se si trovavano in
ospedale, un
motivo c’era. Anna trasse un respiro profondo e poi si
riscosse. «Hai bisogno
di una mano?» chiese, abbassando lo sguardo su Leonardo.
Quello
scrollò il capo con
decisione. «No, faccio da solo» replicò,
afferrando le ruote della sedia a
rotelle e iniziando ad armeggiare per spostarsi in avanti. Era evidente
che
aveva qualche difficoltà, ma Anna decise di non intervenire:
il bambino era già
abbastanza grande per offendersi per un aiuto non desiderato.
«Cos’è
quella cosa che hai attorno
alla gamba?» chiese allora.
Leonardo
parve brillare
d’orgoglio. «Me la stanno allungando»
disse, con il tono di chi stava
annunciando una cosa meravigliosa. «Era un po’
più corta dell’altra e camminavo
male. Quei ferri mi entrano nelle ossa e le tirano, capisci? Solo che
ce n’è
uno che mi fa un po’ infezione e quindi vogliono tenermi
d’occhio.»
Troppe
informazioni, pensò Anna,
rabbrividendo al pensiero di ossa allungate a forza. Ammesso che la
spiegazione
del ragazzino fosse attendibile, ovviamente. «E non ti fa
male?» chiese.
«Oh,
sì, fa malissimo» confermò
Leonardo con entusiasmo. «Prendo un sacco di
pastiglie.»
«Ah…»
Prima
che il bambino potesse
aggiungere altro gli si avvicinarono due giovani uomini. Il
più alto dei due,
che indossava un camice da infermiere, afferrò con decisione
le maniglie della
carrozzina, ignorando le proteste del suo occupante. «Avanti,
Leo: è ora di
tornare in camera!»
«Ma
no!» sbuffò il ragazzino. «Non
ne ho voglia! Non possiamo restare qui ancora un
po’?»
«Niente
da fare» replicò serafico
l’infermiere. «Qui ci puoi tornare domani, se fai
il bravo e se non litighi con
il tuo compagno di stanza.»
Leonardo
storse le labbra in una
smorfia contrariata. «Sì, va be’. A me
quello lì sta antipatico.»
L’altro
ragazzo, un giovanotto
biondo e con il naso aquilino, gli rivolse un gran sorriso.
«Non possiamo
conoscere solo persone simpatiche, Leo caro.»
Mentre
l’infermiere lo spingeva
verso la porta, Leonardo mugugnò qualcosa: Anna non
riuscì a decifrare le sue
parole, ma aveva il forte sospetto che si trattasse di qualcosa che un
ragazzino
della sua età non avrebbe nemmeno dovuto sognarsi di
pronunciare.
«Che
tipo» commentò con un sorriso
il ragazzo biondo, apparentemente divertito dal malumore del bambino.
«Già»
annuì educatamente Anna.
«Mentre leggevo la storia sembrava stesse dormendo, ma in
realtà pare che abbia
sentito tutto…»
Il
ragazzo sospirò. «Si annoia. È
entrato per un’operazione veloce e invece, tra una
complicanza e un imprevisto,
è in ospedale da molto più tempo del
dovuto.» Poi spostò la sua attenzione
sulla ragazza che aveva di fronte. «Oh, comunque io sono
Andrea» le disse,
porgendole la mano.
«Anna»
replicò lei.
«Come
la mia ex» commentò lui,
lasciandola un attimo senza parole. «Hai iniziato
oggi?»
La
ragazza si schiarì la voce.
«Sì. Cioè, qui in biblioteca
sì, ho iniziato oggi, mentre in ospedale ci lavoro
già da un paio di settimane.»
Quell’informazione
parve accendere
la curiosità del giovane. «Lavori qui? Sei negli
uffici o nei reparti?» chiese,
scrutandola da capo a piedi come se il suo aspetto fisico potesse
aiutarlo a
scoprire la sua professione.
«Negli
uffici» replicò lei.
«Lavoro all’URP, e infatti è stata la
mia responsabile a propormi di fare un
po’ di volontariato qui: è convinta che possa
aiutarmi a migliorare la mia vita
sociale.»
Il
sorriso sul volto di Andrea si
fece ancora più pronunciato. «Ah, allora sei
un’altra delle prede di Giulia:
lei è tra le fondatrici di questo sportello e ha reclutato
di persona un sacco
di volontari. Ha portato qui anche me, sai?»
«Sì?»
fece Anna, studiandolo con
più attenzione. Aveva un volto molto particolare ed era
certa che, se lo avesse
già visto in giro per l’ospedale, se lo sarebbe
certamente ricordato.
«Io
non lavoro qui» precisò lui,
come per prevenire la domanda che stava prendendo forma nella testa
della
giovane. «Ma lei e mia madre frequentano un corso di pilates
insieme e a quanto
pare hanno convenuto che io abbia fin troppo tempo libero. Il che
è
un’illazione priva di fondamento, naturalmente: è
più il tempo che sono in giro
per l’Italia, che quello che sono seduto alla mia
scrivania.»
«Viaggi
per lavoro?» chiese Anna –
più per educazione che per reale interesse.
Lui
fece un vago cenno con la
mano. «Sì, seguo dei vari progetti, faccio delle
ispezioni… roba noiosa che non
credo ti interessi davvero.»
Touché,
pensò lei arrossendo
leggermente.
«Comunque
sono contento che mi
abbiano convinto a partecipare a questo progetto»
continuò Andrea con un
sorriso. «Mi piace, mi rilassa e mi sembra che rilassi anche
le persone che
ascoltano quello che leggo. Se posso, io tendo però a
evitare le favole: non
fanno proprio per me.»
«E
allora cosa leggi?»
Lui
le sventolò sotto il naso un
libro piuttosto sciupato. «Epica. Vedi? L’Orlando
Furioso.»
«Wow»
replicò lei ammirata. «E
riesci a leggere bene quella roba? Voglio dire: quando ci provo io,
finisco
sempre per fare una cantilena inascoltabile.»
«La
devi interpretare» scandì
Andrea, puntando gli occhi azzurri in quelli neri di Anna.
«Fare del teatro. Se
vuoi, uno di questi giorni ti do una dimostrazione. Magari ti accolgo
tra il
mio pubblico, che ne dici?»
Lei
rispose con un sorriso e si
chiese brevemente se dietro all’invito del ragazzo ci fosse
un secondo fine. Ma
non mi pare, ragionò guardandolo di soppiatto. È
uno strano soggetto, ma non mi
da l’impressione che ci stia provando: forse vuole veramente
farmi vedere
quant’è bravo a leggere roba scritta in versi.
«Be’, perché no?» concesse
dopo
una breve riflessione.
«Magnifico!»
annuì lui, con un
sorriso che andava da un orecchio all’altro.
«Magari più in là potremmo
addirittura fare una roba recitata: sai, sto cercando volontari per un
certo
progetto che ho in mente…» Poi lo sguardo di
Andrea parve focalizzarsi con più
intensità sul suo volto. «Di’ un
po’: ma tu sei di queste parti? Hai come un
accento un po’ strano… tra un paio di mesi sarai
ancora qui, vero?»
Anna
distolse lo sguardo per
qualche istante. «Sono… sono originaria di
Lanzate, sì, ma ho vissuto altrove
per parecchi anni. Sono appena rientrata alla base, per così
dire, ma ho
intenzione di rimanerci.»
«Per
sempre?» le chiese lui a
bruciapelo.
Davanti
a quella domanda, la
ragazza sentì montare in sé un’ondata
di panico. «Oddio… non lo so. Non ci ho
pensato» balbettò. «Forse. Per ora mi
sono trasferita per lavoro…»
Il
sorriso di Andrea si spense un
po’, come se il giovane avesse capito di aver toccato un
tasto dolente. «Ah.
Scusa, non volevo ficcare il naso in affari che non mi riguardano.
Suppongo che
tu sia qui da sola, quindi?»
Anna
dovette reprimere un moto di
fastidio. Quante volte mi toccherà ancora affrontare questa
conversazione, oggi?
Deglutendo per allontanare il nodo che le si era formato in gola, la
ragazza si
costrinse a fare buon viso a cattivo gioco. «Non sono proprio
da sola, in
realtà. Ho ancora una zia che abita in paese e che vedo
spesso. E poi ci sono
un paio di amiche con cui ho ripreso i contatti. Certo, il resto della
mia
famiglia è a Villanuova, ma…»
«Villanuova?»
la interruppe
Andrea.
Anna
sbatté un paio di volte le
palpebre, confusa. «Sì… non dirmi che
sai dov’è. Non è esattamente una
località
turistica.»
«Ma
certo!» fece lui. «Ultimamente
ci sto andando spessissimo per lavoro. Resto giù anche per
due o tre giorni a
settimana… sto seguendo un progetto alla Oltrafer. La
conosci?»
La
ragazza ebbe l’impressione che
la saliva le evaporasse dalla bocca. «Sì. Ci
lavora il mio ex» rispose, con la
lingua stranamente impastata.
Andrea
sgranò gli occhi. «Ma no! E
come si chiama?»
«Lorenzo»
fece Anna, prima di
riuscire a trattenersi.
«Lorenzo…»
ripeté il giovane,
meditabondo, come se stesse cercando di ricordare se conoscesse
qualcuno che
rispondeva a quel nome.
«Ma
non andare a cercarlo!» si
affrettò a dire la ragazza, avvicinandosi di un passo a lui.
«Non dirgli
niente, non dirgli che… che ci siamo conosciuti. Non ci
siamo lasciati
benissimo e non vorrei che lo prendesse come un invito a cercare di
contattarmi.»
Il
giovane levò subito le mani in
segno di pace. «Ma figurati se vado a cercarlo!»
esclamò. «Non è mia abitudine
andare a ficcare il naso nelle vite degli altri: chiedevo per semplice
curiosità. Anzi, adesso che me l’hai detto
starò super attento a non lasciarmi
sfuggire niente di compromettente; anche se non mi pare di conoscere un
Lorenzo
che lavora alla Oltrafer… probabilmente è in un
reparto con il quale non ho
niente a che fare.»
«È
un ingegnere meccanico» precisò
Anna, già sollevata dalla promessa del ragazzo.
«Lavora nell’Ufficio Tecnico.»
«Ecco,
vedi?» sorrise Andrea. «Io
ho più a che fare con i collaudatori e con
l’officina: probabilmente non l’ho
mai nemmeno incrociato.»
«Meglio
così» sospirò lei. Chissà
perché, aveva l’impressione di avere appena
scampato un pericolo.
♥♥♥
Anna
lasciò cadere le posate con
le quali stava mescolando l’insalata e lanciò
un’occhiata carica di
insofferenza al muro della cucina. Quel cane stava abbaiando da almeno
quindici
minuti.
E
adesso basta, però. Dove diavolo
è quel cretino del suo padrone?
La
ragazza si alzò bruscamente dal tavolo e marciò
verso il giardino. Quando era
tornata a casa dopo il turno in biblioteca aveva visto che
l’Audi nera non era
nel parcheggio, il che significava che il suo proprietario non era
ancora
rientrato. Ma adesso erano le sette e mezza passate: possibile che
fosse ancora
in giro?
Arrivata
in giardino, la ragazza
si aggrappò alla rete che divideva la sua
proprietà da quella di Oleksander e
spiò in direzione del suo appartamento. È tutto
buio, notò con una smorfia. Lì
dentro non c’è nessuno, se non il cane.
Ritornata
mestamente in sala da
pranzo, la giovane rimase immobile per qualche istante, ascoltando i
latrati
metallici di Yaroslav: erano continui e incessanti e così
fastidiosi che aveva
l’impressione che il cane le stesse abbaiando direttamente
nelle orecchie.
«Basta!»
urlò, picchiando una mano
contro la parete che la divideva dall’animale.
«Adesso finiscila!»
Calliope,
che era intenta a
montare la guardia davanti alla portafinestra, la guardò con
supponenza. Non
era difficile decifrare l’espressione di
superiorità chiaramente scritta nei
suoi occhi gialloverdi. «E tu non guardarmi
così» borbottò Anna. «Adesso
fai
tanto la figa, ma l’altro giorno avevi paura che il
cane-killer ti mangiasse,
vero?»
Per
tutta risposta la gatta voltò
nuovamente il muso verso il giardino buio e Anna si diresse a passi
lenti verso
la finestra del salotto – quella che guardava direttamente
sul vialetto
d’ingresso – meditando sul da farsi. Come si faceva
a fare stare zitto un cane
che, abbandonato a se stesso, sembrava avere tutte le intenzioni di
passare la
serata ad abbaiare?
Quei
pensieri furono brevemente
interrotti da un gruppetto di tre estranei che le sfilò
davanti e si infilò su
per la scala esterna che conduceva all’appartamento sopra a
quello di
Oleksander. Li
seguì con gli occhi e poi
scosse la testa quando sentì un coro di risate e saluti
gioiosi. Eh, va be’…
pensò. Quelli fanno una festicciola e se ne fregano del cane
che abbaia. Beati
loro che riescono a ignorarlo.
Lei
però non ci riusciva e quei
continui latrati iniziavano a darle veramente sui nervi. Tornata al
tavolo,
Anna trangugiò la cena in fretta e furia pregando
silenziosamente che nel
frattempo Yaroslav si stancasse di fare tutto quel baccano e si
addormentasse o
che, se non altro, il suo padrone si decidesse a tornare a casa. Sarei
proprio
curiosa di sapere dov’è finito. Non che fosse in
pensiero per lui, ma
quell’assenza prolungata le sembrava strana. Da
un’osservazione empirica – non
che lo spiasse, eh! – aveva notato che Oleksander faceva
degli orari piuttosto
regolari. Oggi
avrà avuto qualche
imprevisto, ragionò.
Quando
Anna depositò i piatti nel
lavello erano ormai quasi le otto e, fatta eccezione per alcune pause
di pochi
minuti, Yaroslav era ancora impegnato in un concerto di latrati. E va
bene,
pensò la ragazza asciugandosi le mani nello straccio appeso
accanto al
frigorifero. Con un sospiro esasperato afferrò una giacca
leggera e uscì di
casa per raggiungere quella del vicino. Quando si trovò di
fronte alla porta
d’ingresso bussò un paio di volte sfiorando il
pannello di legno con le
nocche. Yaroslav
smise immediatamente di
abbaiare. Anna avvicinò il capo alla porta e tese le
orecchie: dall’interno
dell’appartamento giunse uno zampettìo rapido e
pochi istanti più tardi
qualcuno parve soffiare sotto la porta. Mi sta annusando? Si chiese la
ragazza.
Accucciandosi
davanti all’uscio,
provò a parlare al cane. «Ehi, Yaroslav»
mormorò. «Cos’è tutto questo
chiasso
che stai facendo?»
Da
dietro alla porta giunse un
uggiolio e il suono di unghie che grattavano contro il legno. Ops.
Speriamo che
non gli righi la porta!
«Devi
fare il bravo» continuò.
«Sfortunatamente sembra che ti sia toccato un padrone idiota
che si dimentica
che l’ora di cena arriva anche per te. Tieni duro,
però: prima o poi tornerà
indietro.» A meno che non si sia sfracellato da qualche
parte, pensò, ma evitò
di dirlo. Anche se il cane non era certo in grado di capire le sue
parole, le
pareva comunque di cattivo gusto.
«Dai,
adesso smettila di abbaiare
e mettiti giù tranquillo sul tuo cuscino»
continuò, parlandogli come se fosse
capace di decifrare quello che gli stava dicendo.
La
giovane restò in attesa ancora
qualche secondo. Da dietro la porta non giungeva più alcun
suono e Anna pensò
con un fremito di speranza che forse il suono della sua voce era stato
sufficiente per tranquillizzare il cane. Muovendosi con estrema
cautela, la
ragazza si rimise in piedi e si allontanò dalla porta,
tornando a dirigersi
verso il suo appartamento. Non si era allontanata che di pochi metri,
però, che
i latrati ripresero con tutto il loro vigore.
Ma
porca… Anna fu tentata di
mettersi le mani tra i capelli. «Adesso basta!»
urlò, senza curarsi del fatto
che era all’aperto e che tutto il vicinato poteva sentire i
suoi strepiti. «Finiscila!»
L’eco
dell’ultima sillaba non si
era ancora spento che la finestra della villetta alla destra della sua
si
spalancò, lasciando intravvedere la testa riccia della sua
vicina di casa, una
bella ragazza che doveva essere un po’ più grande
di lei e che era madre di una
bambina di pochi anni. «Ma non la finisce più di
abbaiare, quel cane?» si
lamentò la donna, sporgendosi come per guardare la porta
chiusa dietro alla
quale si trovava Yaroslav.
«Non
lo so» sbuffò Anna,
allargando le braccia con fare desolato. «Ho provato a
parlargli un po’, ma non
serve a niente: la smette per un attimo e poi ricomincia da
capo.»
«Il
suo padrone non è in casa, suppongo»
fece la donna.
Anna
scrollò il capo in segno di
diniego. «No: a quanto pare non c’è
nessuno. Non ho idea di dove sia finito.»
«E
che palle, però!» sbottò la
giovane riccia. «Scusa» continuò poi,
rendendosi forse conto di essersi rivolta
in tono brusco a una persona con la quale non aveva scambiato che poche
parole,
prima di allora. «È che c’è
mio marito con l’emicrania e mia figlia che tra
un’oretta dovrà andare a letto: se continua
così, non riuscirò a farle chiudere
occhio.»
La
ragazza giocherellò con il
polsino della giacca, dispiaciuta per la vicina. «Non so
davvero cosa fare»
replicò, stringendosi nelle spalle.
«Forse… non lo so, magari si potrebbe
provare a chiamare Oleksander? Hai il suo numero, per caso?»
La
donna si lasciò sfuggire una
risatina sarcastica. «Ma figuriamoci! Con quello
lì ci ho avuto a che fare solo
durante le riunioni di condominio e tanto mi è
bastato.»
Anna
fece una smorfia. «E allora
non so davvero come fare. Il suo numero non ce l’ho nemmeno
io…»
La
donna alla finestra tacque per
qualche istante, apparentemente immersa in qualche riflessione.
«Sai chi
potrebbe avercelo? Loredana.»
«Chi?»
chiese la ragazza: quel
nome non le diceva niente.
«Ma
sì, la signora Rocca. Lei è
sempre bene informata.»
Anna
si illuminò. «Oh, hai
ragione!» esclamò. «In effetti, la prima
cosa che ha fatto quando ci siamo
presentate è stata chiedermi il numero di
cellulare… sai, per le emergenze.»
Lei
e la donna alla finestra si
scambiarono un sorriso e Anna si ripromise di scoprire almeno il suo
nome. In
effetti, ora che ci pensava, era probabile che gliel’avesse
anche detto, quando
si erano incontrate per la prima volta, ma lei aveva una pessima
memoria per
quel genere di informazioni. Sarà meglio chiederlo alla
signora Rocca, decise. Meglio
evitare di fare figuracce.
«Sì,
è una tipa previdente»
continuò la giovane riccia, riprendendo il discorso.
«Ti scoccia chiederglielo
tu?» aggiunse poi, con una punta di reticenza. «Lo
farei io, ma con mio marito
a letto con il mal di testa preferirei tenere d’occhio la
bambina…»
Anna
annuì. «Ma certo, nessun
problema» le assicurò. Anche se, una volta avuto
il numero, avrebbe dovuto
usarlo per chiamare Oleksander: e quello sì, che poteva
essere un problema.