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Autore: Seiten Shiwa    02/04/2020    0 recensioni
« Cacca di elefante... ». Affermò seria lei, quasi sovrappensiero.
« … come prego?! ».
Ho sentito bene?! Ha detto proprio... !?
« Cacca di elefante... ». Ribadì lei, con lo stesso tono usato prima.
John si portò una mano alla bocca, e non resistette a non ridere, in modo poco composto.
Gli sembrava di esser diventato Rosie, e che lei fosse Sherlock.
*AVVERTENZE: CONTIENE SPOILER DI TUTTE E 4 LE STAGIONI DI SHERLOCK*
Note: E' ambientata dopo la 4a Stagione
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: Movieverse | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Ben trovate, vecchie e nuove lettrici!

 

Eccoci al secondo capitolo.

Con questo, finalmente, capirete perché ho dato questo particolare titolo alla storia.

 

Non smetterò mai di ringraziare le principali Muse Ispiratrici di questa storia <3 <3 <3

 

PREMESSA: CONTIENE *SPOILER* DI TUTTE E 4 LE STAGIONI DI SHERLOCK.

Se non volete rovinarvi la serie, non leggetela!!!

 

Dediche:

Tale fanfiction, principalmente, è dedicata proprio a Kostanzin e Hulka <3 <3 <3

Più, a tutti gli altri maschioni del mio cuor: Stephen, Ezio, Ermengaldo, Big Jo, la FraVi e una mia compagna di accademia di canto (te devo trovà un nome da maschio!!!).

 

Altre note:

I personaggi appartengono a Sir Arthur Conan Doyle e alla BBC.

Non ci guadagno niente a scrivere questa roba se non divertirmi.

 

MA e dico MA i personaggi nuovi introdotti da me medesima sono miei, appartengono a me...

E... udite udite... stavolta si ispirano a persone reali!

Sì... dico a VOI, sentitevi prese in causa.

 

Solo a fine storia vi rivelerò chi mi ha ispirato chi.

Ma tanto lo capirete già da sole ;)

 

detto ciò.... BUONA LETTURA!!!

 

Elephant's Poop

 

02 Capitolo

 

Non si accorse dello scoccare delle 11 e che proprio in quel momento la porta di quella specie di elegantissimo studio in cui si trovava, in cui tutti i mobili erano di legno rovere, con quadri di Monet, si aprì.

 

« Buon giorno! ». Fu la voce femminile che ne seguì.

 

« Oh... Buon giorno a lei! ». Rispose John, stringendo la mano che gli era stata offerta.

 

Era una donna mora, dai capelli boccolati, con alcune ciocche ben nascoste verdi smeraldo, non troppo alta, e dagli occhi penetranti verdi.

Proprio due smeraldi: come quello che portava all'anulare sinistro, della mano che non aveva stretto, e come le ciocche dei suoi capelli.

 

Il suo colore preferito doveva essere quello...

Dannazione...

Inizio a dedurre anche io, a forza di stare con Sherlock... !

 

« Lei deve essere John Watson?! Molto piacere! ». Sorrise, e con un gesto della mano, lo invitò a sedersi di fronte alla propria scrivania.

 

John si tolse la giacca che aveva e lo posò sulla spalliera della sedia che avrebbe usato, accomodandosi.

 

Lei si tolse il lungo cappotto nero, che aveva l'aria di essere molto caldo, visto quella gelida mattina Londinese – nonostante un bellissimo e quanto mai raro sole. Lo appese ad un attaccapanni dietro la porta, ed afferrò il camice appeso proprio lì di fianco, indossandolo.

 

Deduco sia anche molto avvezza all'ordine, dal modo in cui sistema le cose sulla scrivania...

Niente... Sherlock mi ha proprio contagiato con questa scienza della deduzione...

Devo smetterla!!!

 

« Piacere mio... ? » rimase in dubbio, non sapendo il suo nome.

 

« Dottoressa Ginevra Meier! ». Rispose lei, con un sorriso radioso, finendo di sistemare delle cose sulla scrivania: fascicoli, cartelle, che aveva tirato fuori dalla sua borsa da dottore... proprio simile ad una di quelle con cui John si recava a lavoro in ospedale.

 

Non era abituato ad essere lui, però, il paziente.

 

Per troppi anni aveva vestito il camice, che trovarsi con un suo collega, e non per una chiacchierata fra amici, lo faceva sentire leggermente impotente.

 

« Dottoressa Meier... » assaporò quel nome sulle labbra.

 

Probabilmente non è di Londra...

 

« No, se se lo sta chiedendo, non sono Inglese... sono di origine svizzera, anche se ho avuto un nonno che viveva in Italia... ».

 

Lui rimase stupito.

 

Non ditemi che...

 

« Non faccia quella faccia, Signor Watson... Mycroft non è uno che rende la vita semplice alle persone. ». La dottoressa fece un sorrisino eloquente.

 

John sorrise, alzando gli occhi al cielo.

Dannato Mycroft... Dannatissimo... che tu sia sempre dannatissimo Mycroft!!

 

« Negli anni ho potuto seguire il caso di Sherlock, anche se non troppo da vicino. Ed anche quello di Euros. Veramente due menti geniali... la loro scienza della deduzione mi ha affascinato a tal punto, da volerla integrare alla mia di scienza... ».

Si accomodò finalmente sulla poltrona, ponendo le mani di fronte a sé.

 

« … e Mycroft?! Lui non è mai stato oggetto dei suoi studi?! ». John cercò di stemperare l'ansia che lo aveva accompagnato fino a quel momento.

 

Lei offrì un sorriso birichino.

« Va contro i miei principi. Siamo colleghi. Abbiamo sempre lavorato a stretto contatto. Non potrebbe mai essere mio paziente... forse di qualche mio collega... ». Gli fece l'occhiolino.

 

« Non potrebbe avere neanche me in cura, allora... visto sono in stretto contatto con un suo altro paziente! ». Riferendosi a Sherlock.

 

« Ho solo studiato le menti di Sherlock ed Euros. Non sono mai stati miei pazienti. Quindi no... Anzi, proprio perché lo sarà – lo è appena diventato – non potrò avere più Sherlock fra gli aspiranti mie pazienti... ».

 

« Come se Sherlock accettasse di buona lena di andare dallo strizza cervelli... ». Mugugnò a voce troppo alta John.

 

« Oh, suvvia! Non denigri così il mio lavoro! ». Lo disse scherzando, e poggiando la schiena contro lo schienale della propria poltrona.

 

« Per carità, non mi permetterei mai... ! ». Alzò le mani lui, capendo di aver fatto una battuta fuori luogo.

 

Lei avrebbe voluto ridacchiare del volto imbarazzato del dottore, ma le parve una cosa davvero poco professionale.

 

« Allora... qual buon vento la porta nel mio studio?! ». Chiese lei, aprendo le braccia.

 

« … ah... Mycroft non le ha detto che mi ci ha trascinato sotto ricatto?! ». Rispose sarcastico.

 

Questa volta lei si lasciò andare ad un ghigno, che lasciava sottintendere molte cose.

« Non credo il Signor Holmes Senior le abbia puntato una pistola alla tempia, per costringerla ad attendere a questo nostro appuntamento... ».

 

« Oh! Come se gli mancasse il coraggio! … magari di imbavagliarmi, e trascinarmici incappucciato, se necessario!! ». John guardò fuori dalla finestra. Quanto gli rodeva stare lì.

Dannati Holmes... Sempre a gestirmi la vita...

 

« Ma non è questo il caso... no?! ». Indagò lei.

 

« No... ». Pronunciò lui: a denti stretti, in modo secco, asciutto.

Poi volse il viso nuovamente a guardarla.

Alla fine lei non aveva colpa. Lei stava facendo il suo lavoro.

E lui non poteva comportarsi da maleducato nei suoi confronti.

 

Dannato Mycroft...

Che non si prende neanche la colpa dei suoi sotterfugi...

 

« Non sono abituata a lavorare in climi ostili... Se proprio non vuole attendere a questo meeting, la porta è lì, e non la obbligherò in alcun modo a restare... ».

Ginevra Meier non era una che amava perder tempo. Era una precisa, chirurgica, professionale.

 

John tornò ad osservare i quadri nella stanza.

E come un idiota, riprese a dedurre alla Sherlock...

 

I quadri di Monet donavano quel tocco di colore a quella stanza resa cupa dall'arredamento in legno e dall'unica piccola finestra, lontana da dove erano seduti.

 

Erano quattro quadri in tutto: I Papaveri, Spiaggia a Pourville, Un percorso nel giardino e Il ponte di Argenteuil.

 

Quest'ultimo era il più vicino alla porta.

 

John la fissò, e la tentazione fu forte.

Strinse serratamente i pugni, posati sopra le gambe, e non seppe cosa sperare: se avere il coraggio di alzarsi per andarsene, o avere il coraggio di rimanere.

 

I suoi occhi trovarono rifugio da quei pensieri concentrandosi sul quadro di Monet che rappresentava Il percorso in giardino, e che si trovava proprio alle spalle della dottoressa.

 

« … Come se lavorare, mi perdoni, studiare casi come quello di Sherlock ed Euros sia stato poco ostile...». Si ritrovò a dire, tanto per riprendere a dire qualcosa.

Qualsiasi cosa, che non fosse la frase “voglio andarmene”.

 

Lei si aggiustò una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

 

John notò che aveva l'intero padiglione auricolare ornato da piercing.

 

« Tutt'altro... è stato molto divertente... ». Sorrise lei. E sembrava veramente orgogliosa di ciò.

 

Ah beh... per fare il lavoro che fa, gli devono piacere quelli strani...

Altrimenti non si spiega...

 

« Probabilmente, sì... » rispose la dottoressa, alle sue supposizioni mentali.

 

Lui rimase di ghiaccio, all'ennesima deduzione.

 

« Mi parli di lei, John Watson... » aprì le mani lei, mostrando i palmi verso l'alto.

« Perché Mycroft le avrebbe preso appuntamento con me, questa mattina?! Oppure non so... mi parli di qualsiasi altra cosa... Ma mi parli di lei. ».

 

John si massaggiò il setto nasale, e respirò un paio di volte.

Ormai era lì.

Non aveva senso opporre resistenza.

 

Tanto la dottoressa Meier avrebbe dedotto cose alla Sherlock: non aveva scampo.

Non aveva via d'uscita.

 

Portò gli occhi nuovamente al quadro dietro di lei.

Quel percorso fiorito lo associò al suo percorso di vita.

Peccato che di fiorito, esso, non avesse nulla... anzi, tutt'altro.

Si sentiva come se tutta la vita che avesse vissuto fino a quel momento fosse stata un lungo viale, nel quale si era lasciato alle spalle fiori appassiti.

 

« Okay... le parlerò di me.». Acconsentì lui, mettendosi a braccia conserte.

 

Lei annuì, felice, e si sistemò ancora più comodamente contro la sua poltrona girevole, mantenendo comunque una posa composta, professionale. Solamente più a proprio agio.

 

« Sono un dottore. Un medico militare. Ho prestato servizio in Afghanistan. ». Iniziò lui, come stesse leggendo il suo profilo su wikipedia.

« Sono tornato – no, non è corretto – sarei rimasto, ma mi hanno costretto a congedarmi, perché ho riportato una ferita alla spalla... » ed indicò il punto con un dito «... Dopo il mio rientro nel Regno Unito, ho fatto uso di un bastone per camminare, perché avevo un tremore alla gamba, e spesso mi faceva male... Qualche tempo dopo scoprii che era psicosomatico. Lo scoprii esattamente perché fu Sherlock a dirmelo... Me lo dedusse la prima volta che ci incontrammo... ».

Gli veniva da ridere al solo pensiero...

Mesi e mesi di psicoterapia e cure con la sua ex psicanalista, e lei non se ne era per nulla accorta.

Poi, dal nulla, Sherlock lo dedusse. Ci fu il loro primissimo caso. Corsero a perdifiato per i più nascosti vicoli di Londra. E lui stette bene...

 

Sorrise, perdendosi in quei pensieri.

 

Io stesso: un dottore... sbagliai la mia autodiagnosi... se ancora ci penso...!

 

Lei annuì, e lo invitò a continuare.

 

« …. Accadde poco dopo alcuni mesi dal mio rientro in patria.... Incontrai un vecchio amico dell'università: Mike Stamford... e non so se posso realmente considerarlo ancora un amico, visto non si è degnato neppure di venire al mio matrimonio, ma va beh, questo è un altro argomento... e beh, insomma, io avevo bisogno di un coinquilino con cui dividere un appartamento, e lui mi presentò Sherlock. ».

Sentì di sudare freddo a quel ricordo.

Non sapeva neanche lui perché.

« Il resto... il resto credo lo sappia dai giornali... o dal mio blog... ».

 

« Signor – no – Dottor Watson... mi spiace confessarle che non leggo ne giornali ne blog... la mia vita è interamente divisa fra il mio lavoro e la musica. Non ho altri interessi, che non siano strettamente connessi a qualche forma di arte.... ».

 

Il mio blog è arte!

 

« … e no... non reputo i blog arte. » concluse con un sorriso eccezionale, degno della pubblicità della Mentadent.

 

John grugnì, all'ennesima deduzione.

« Suppongo debba andare avanti con la storia della mia vita, allora... ».

 

Lei fece spallucce.

« Come preferisce... può andare avanti, se le è più comodo... o tornare indietro... ».

 

John si sentì spaccare in due.

Avrebbe parlato per ore della sua vita con Sherlock.

Delle loro avventure.

Ma forse non era lì che risiedeva quello che lei voleva, quello che lei cercava.

 

« Non scelga di raccontarmi le cose in base a ciò che pensa io voglia sentirmi dire... perché non sarebbe ne il primo ne l'ultimo... ».

Ginevra iniziò a giocare con una penna, scribacchiando cose su un block notes, appoggiato alle sue gambe accavallate.

« Parli e basta... scelga se avanti o indietro al momento che mi stava descrivendo... il resto lo faccio io... è il mio lavoro. Me lo lasci svolgere... ».

Non glielo disse con tono presuntuoso. Ma gradiva non esser presa in giro. Voleva veramente solo fare il suo lavoro.

 

« D'accordo... ». Acconsentì John.

Le sue braccia, prima strette intorno a sé, tornarono a rilassarsi, posando le mani sopra le gambe.

« È difficile togliersi il camice, sa?! Quando lo si porta per così tante ore al giorno... aveva ragione Einstein... è più facile rompere un atomo, che un abitudine... ».

 

« Lo so... lo so molto bene... ». Annuì lei.

 

Lui sospirò, chiuse per un momento gli occhi.

E poi si lasciò semplicemente guidare dall'istinto del momento.

 

« Dicevo... questo mio amico mi presentò Sherlock, e finimmo per diventare coinquilini. E ripeto... non so davvero se considerarlo un amico: visto, come detto prima, non è neanche venuto al mio matrimonio... non so davvero cosa pensare... ci ho provato, seriamente, a capirne le ragioni... ma non me ne capacito... siamo amici... perché mai non è venuto al mio matrimonio?! Dannazione?! Gli avrò recato torto in qualche modo?! Forse si è offeso, ed è diventato geloso di Sherlock, che nonostante sia la stranezza in persona, è entrato più in confidenza con me, rispetto a lui?! Si sente tradito in amicizia?! Io proprio non... ».

 

« Cacca di elefante... ». Affermò seria lei, quasi sovrappensiero.

 

« … come prego?! ».

Ho sentito bene?! Ha detto proprio... !?

 

« Cacca di elefante... ». Ribadì lei, con lo stesso tono usato prima.

 

John si portò una mano alla bocca, e non resistette a non ridere, in modo poco composto.

 

Gli sembrava di esser diventato Rosie, e che lei fosse Sherlock.

 

Quando Rosie piange, Sherlock le si avvicina, e le dice semplici parole: per lo più nomi scientifici, dal suono a quanto pare così strano, che ella smette immediatamente di piangere, e lo fissa, per poi iniziare a ridere. E lui, sorridente come non mai, è capace di nominargli non si sa quante parole scientifiche strane.

 

Altre volte, quando lei piagnucola, lui le avvicina il passeggino al tavolo, dove magari sta conducendo esperimenti – e John spera sempre siano esperimenti poco pericolosi – e le racconta del caso che sta seguendo, o le descrive passo passo ciò che sta facendo. E lei, con quei suoi occhi grandi, azzurri, è lì, ammaliata, che lo fissa, lo segue con le pupille, come fosse l'unica cosa degna di attenzione.

E John non può fare altro che rimanere in silenzio, al di là della porta, tenersi il mento con la mano, per non rimanere a bocca aperta come un pesce lesso, e non fiatare. Perché il fiato, quelle scene ormai quotidiane, glielo tolgono. E perché sa, che al minimo accenno dell'aver notato quelle tenerezze, sicuramente, Sherlock, vergognandosene, le cesserebbe.

 

Non che Sherlock non si sia mai accorto di come John li spii nella loro quotidianità.

Ma c'è un tacito patto nei loro sguardi.

Fin tanto che John non gli fa notare il suo comportamento paterno, e non glielo rinfaccia con qualche battuta, Sherlock non si sente strano o a disagio nel comportarsi in quel modo.

 

Sherlock... paterno...

Questa è proprio bella...

 

E John non ne rimarrebbe affatto stupito, se da lì a sei anni, si ritroverà Rosie a ripetere a memoria la tavola periodica, o i quattro elementi del DNA, o che ne sa: magari nomi latini di piante di qualche libro di botanica letto per sbaglio.

 

Spero Sherlock abbia fatto sparire quello sui veleni... e quello sulle droghe...

Soprattutto quelli sulle droghe e i veleni!!

 

« Cacca... di elefante?! ». Sussurrò, smettendo di ridere, tornando alla realtà.

 

« Deduco non sia stata solo la mia definizione, a farla ridere così... ». Notò la dottoressa Meier, sorridendo, avendo dedotto che John si era perso in qualche ricordo piacevole.

 

Lui annuì, quasi imbarazzato.

« Cosa vuol dire... quello che ha appena detto?! ».

 

« Cacca di elefante?! ». Chiese per conferma lei, anche se non ne aveva bisogno.

 

« Sì... mi stavo chiedendo, ad alta voce, il perché il mio carissimo amico non è venuto al mio matrimonio... e lei... lei se ne è uscita con questa cosa! ».

 

« Perché è cacca di elefante... ». Ribadì lei.

 

John alzò un sopracciglio, e mandò leggermente la testa all'indietro.

Avrebbe voluto afferrare il concetto con la velocità con cui Sherlock fa deduzioni, ma evidentemente per il suo cervello troppo – tanto - umano e ordinario, era impossibile.

 

« Cacca di elefante... è un concetto non troppo semplice, ma cercherò di semplificarlo per lei... ».

Iniziò a spiegare, con calma e rassicurazione.

« Ha presente la scienza della deduzione?!». Vide John annuire. « L'ha fondata il suo amico Sherlock Holmes, e benché abbia basi abbastanza solide, per quanto riguarda l'uso che ne fa lui, molti si azzarderebbero a dire che non è “attendibile”. Cosa vuol dire infondo... dedurre, Dottor Watson, per lei?!».

 

John ci pensò un attimo, prima di rispondere.

« Osservare, raccogliere informazioni, e poi elaborarle... e tirare fuori la verità... ».

 

Ginevra annuì.

« Esatto... Osservare, giusto. Raccogliere informazioni, giustissimo, e poi elaborarle... ma mi fermo qui.».

 

John avvicinò di più la sedia alla scrivania, incuriosito da quell'argomento.

 

« Lei, essendo dottore, seppur diverso da me, cosa fa quando arriva un paziente in studio?! ».

 

John rispose di getto.

« Lo accolgo! ».

 

...“Dannazione, John... proprio Capitan Ovvio, eh!” - si sentì sgridare dalla voce di Sherlock nella sua testa...

 

Ginevra trattenne a stento una risata... Oh, sì, sarebbe morta dal ridere di fronte a lui.

Ma era un suo paziente: doveva pur mantenere un certo contegno.

 

« Pensi ad un paziente che sta male. Molto male. Che non riesce a parlare... come fa una diagnosi!?Come capisce cos'ha?! ».

 

John fece spallucce.

« … Osservo... Lo visito... Cerco di capire dove ha dolore, cosa gli fa male, quali sono i sintomi... E seguo delle procedure, delle manovre, in base alla parte del corpo coinvolta... ».

 

« Esatto, esatto! Lei, in base a dove è localizzata la fonte del disagio del paziente, si muove di conseguenza. Esatto. E per farlo, lo osserva, lo visita... giusto?! ».

 

John annuisce convinto.

 

« Quindi... Lei osserva con gli occhi, le mani che visitano sono lo strumento con cui raccoglie dati, nel caso in cui il paziente non possa dirle a voce cosa le faccia male... ».

 

John annuì nuovamente.

 

« Le sue mani, i suoi sensi, si connettono al cervello... scavano fra tutti il libri, le lezioni, gli appunti, i casi precedentemente studiati... cioè, il suo cervello è il suo elaboratore. È elaboratore e archivio insieme. Svolge entrambe le funzioni. Ma si comporta per lo più come fosse un motore di ricerca, come fosse Google. E poi...!?».

 

« E poi... quando ho trovato dei dati attendibili, che spiegano i sintomi del paziente, posso finalmente partorire una diagnosi! ».

 

Ecco, questo lo so!

 

« Partorire... che curioso verbo per rilasciare una diagnosi... ». Sorrise lei « Eppure... è vero... alcune diagnosi sono un vero e proprio travaglio... e quando finalmente comprendi l'origine dei disagi del paziente, è come se tu abbia partorito.».

 

« Sì... per quello ho usato proprio quel termine... ». Sottolineò John.

 

« Bene... quindi, partorire una diagnosi, è un po' come affidarsi alla scienza della deduzione del suo amico, giusto?! ».

 

John annuì, accavallando le gambe, trovandosi molto interessato: sempre più interessato a dove quel discorso li avrebbe portati.

 

si ma... la cacca di elefante?!

 

Ginevra si accarezzò distrattamente un orecchino a forma di drago, pendente lungo il collo.

 

« Lei è sempre sicuro... delle diagnosi che fa, Dottor Watson?! ».

 

Quella domanda lo spiazzò.

 

« Ha mai sbagliato... a fare una diagnosi, Dottore?! ». Chiese lei, e lei sue labbra non accennavano più al sorriso spensierato di prima. Erano chiuse, in un'espressione incolore. Fredda. Come fossero senza sentimenti.

 

Una maschera...

Va beh... doveva pure fare la sua parte: il suo lavoro: il dottore, fra i due, lì, era lei.

Lui era il paziente.

 

John mandò giù la saliva. La gola improvvisamente secca: gli si chiuse.

Quasi gli bruciò.

 

Lei lo fissò, con sguardo impenetrabile, non aggiungendo altro. Aspettando solamente una risposta.

 

« S-sì.». Rispose finalmente lui, dopo un'altra manciata di secondi.

Ma soppresse i suoi pensieri: non volle ricordare.

Non voleva ricordare i suoi errori di valutazione quando era uno specializzando, quando era sul campo in Afghanistan, quando era in ospedale...

 

« È umano... sa?! ». Disse lei. Non in modo confortante. Lo disse, semplicemente: come fosse un dato di fatto chiaro a tutti.

 

« Non dovrebbe accadere... ». Confidò, chiudendo per un secondo gli occhi, buttando fuori aria.

 

« Non è una macchina... e benché le macchine siano create a nostra immagine e somiglianza, ed una mia amica Ingegnere, le direbbe che sono create per essere la parte migliore di noi: per fare i calcoli in modo più preciso, per avere il minimo margine di errore... beh... noi non siamo macchine. Aspiriamo alla perfezione... Ma non ci è dato raggiungerla. La perfezione è solo un utopia... e la cosa più vicina all'utopia, mi disse sempre questa mia amica Ingegnere, è la matematica... ».

 

John rimase senza parole.

Ginevra Meier era veramente una psichiatra con i contro coglioni.

 

Grande deduzione, John... altrimenti perché mi sarei lasciato studiare da lei?”

Niente, lo Sherlock dentro di me, non accenna a stare zitto...

 

« Mi dica, John... Sherlock ha mai sbagliato una deduzione?!».

 

John d'istinto avrebbe detto di no.

« Sherlock è... perfetto... così perfetto che è quasi utopico nelle sue deduzioni... ».

 

« .. Ma... ?! Lo sento che c'è un “ma”, sospeso... ».

 

« Sì... sì, ha sbagliato qualche deduzione. » Ammise, posando il mento sulla propria mano, ed il gomito sul bracciolo della sedia.

« Ha... ha sbagliato di poco, ma davvero poco... nei suoi casi. Giusto qualche svista... ».

 

Poi, come fosse uno tsunami, fu travolto da un pensiero.

E non seppe dire se fu un bene che quel pensiero lo travolgesse in quel momento.

 

« Ha sbagliato con me... ». Disse in un sussurrò.

Quasi bisbigliò.

 

E quella confessione, fece sorridere in modo sarcastico la dottoressa.

« Quando? … e come?! In che modo?! ». Domandò.

 

John continuò a fissare un punto qualsiasi per terra.

« Quando ci conoscemmo... dedusse dopo aver raccolto varie informazioni, che avevo un fratello...».

 

« Ma...?! » lo invogliò a continuare la dottoressa.

 

« Ma... non ho un fratello. Ho una sorella.... ».

 

« Poi?! ». Lo esortò nuovamente Ginevra.

 

John si sforzò di ricordare altro, per scacciare il pensiero principale che l'aveva travolto.

Il più grande errore di Sherlock...

« Il nostro primo caso... il tassista serial killer... », disse in un soffio.

« Sbagliò a credere che lo avrei lasciato inghiottire una delle due capsule, non sapendo quale fosse avvelenata, pur di provare la sua intelligenza, e che non avesse sbagliato a scegliere quella che ebbe preso dalle mani dell'assassino... ».

e non era neanche quello.

 

Ginevra strinse le labbra, facendo formare loro una linea retta.

 

« Non mi sta dicendo tutto, John... ».

 

John si coprì il volto con entrambe le mani.

Aveva voglia di piangere ed urlare.

Lo sapeva da sé che non era tutto...

 

Lo sapeva benissimo che non era tutto!!

 

Perché la sua anima si sentiva nuovamente dilaniare a quel pensiero...

 

Ginevra gli pose davanti un pacco di fazzoletti.

 

John la guardò implorante.

 

« Se non se la sente, okay... ». Propose lei, deducendo che il suo paziente probabilmente avrebbe avuto una crisi di lì a poco.

 

John, però, ormai ce l'aveva lì, sulla punta della lingua.

Doveva confessarlo.

A qualcuno doveva dirlo.

 

E chi meglio di una psichiatra, durante una seduta di psicoterapia, poteva aiutarlo?!

 

Magari... magari parlarne lo avrebbe alleggerito...

Anche se il pensiero di camminare nuovamente nei sentieri di quei ricordi, era paragonabile a camminare a piedi scalzi su un tappeto di spilli.

Spilli che gli trafiggevano l'anima, e gliela bucavano, e sgonfiavano, poco a poco...

Finché l'unica cosa di cui rimaneva pieno era dolore lancinante.

 

Si passò le mani sulla fronte, si chinò in avanti, e cercò di respirare, reprimendo il pianto che di lì a poco ne sarebbe scaturito.

 

« Sherlock.... beh... sicuramente lo sa... si... » la sua voce tentennò «... si è finto morto per tre anni... solo tre persone vicine a me sapevano la verità... Mycroft, Molly e Irene... ».

Fu scaltro, all'ultimo secondo, a non rivelare il cognome di Irene. Nessuno doveva sapere che fosse viva. Senza cognome poteva essere un Irene qualsiasi, non per forza La Donna.

« E... proprio quando io ero andato avanti con la mia vita... ero pronto a chiedere a Mary di sposarmi... avevo più o meno, a mozzichi e bocconi - no, mi correggo - a stenti, ero riuscito ad elaborare finalmente il lutto... ad accettare che non potevo tornare indietro... mentre il senso di colpa per non aver potuto far niente per salvarlo mi mangiava notte e giorno... lui... lui è tornato... è... tornato! ». E il tono, da triste, si caricò di rabbia.

« Lui è tornato... con la sua faccia da cazzo... con le sue battute fuori luogo... come se non avessi MAI sofferto. Come se avessi semplicemente potuto riaccoglierlo fra le mie braccia... COME SE NIENTE FOSSE! ».

 

Quello era stato l'errore di calcolo più madornale di Sherlock.

L'errore che, nonostante fosse passato tanto tempo, non riuscivo a mandar giù.

 

« Lui pensava che, nella miriadi di possibilità in cui avrei potuto reagire, io non avrei MAI reagito nel modo in cui poi ho... ho reagito. MI STUPISCE, DAVVERO! DOTTORESSA! » ed alzò la voce, urlando quasi, esasperato « SERIAMENTE! MI STUPISCE! COME HA POTUTO... UNA MENTE GENIALE COME LA SUA... NON DEDURRE CHE IO LO AVREI PESTATO DI BOTTE....COME HA FATTO?! COME HA POTUTO ANCHE SOLO PENSARE CHE L'AVREI PRESA BENE? CHE NON MI SAREI SENTITO PRESO IN GIRO?! CHE LO AVREI PERDONATO COME SE NIENTE FOSSE! ». Afferrò un fazzoletto, e si soffiò il naso.

« Io proprio... non me ne capacito... UNA VITA... UNA VITA PASSATA A DEDURRE LE PERSONE, SOLO CON UN OCCHIATA! E POI ME! ME!!! IL SUO COINQUILINO! IL SUO MIGLIORE AMICO! L'UNICO MIGLIORE AMICO! LA PERSONA CHE TIENE DI PIU' A LUI... e sì, con presunzione, credo di tenere, e di aver tenuto di più a lui, molto di più di quanto abbia fatto suo fratello Mycroft!! ».

Ginevra si lasciò sfuggire una risatina a quell'affermazione.

Probabilmente, aveva ragione il dottore...

« E SHERLOCK! SHERLOCK NON ERA RIUSCITO A COMPRENDERE CHE MAGARI, MI SAREI UN TANTINELLO INCAZZATO, A RIVEDERMELO APPARIRE DAVANTI, DOPO TRE ANNI, DOPO AVERLO PIANTO IN LUTTO PER COSÌ TANTO TEMPO! ».

 

Ed eccolo lì, ora, John Watson.

Che non sapeva se ridere o piangere.

 

Non sapeva più quale emozione doveva vincere.

Dolore... Dolore ne aveva tanto nel petto...

 

Ma ora voleva ridere per l'idiozia di Sherlock... per la sua forse ingenuità?!

E voleva gridare... gridargli nuovamente in faccia quanto cazzo lo aveva fatto soffrire...

 

Ginevra aspettò che si calmasse, e riprendesse fiato.

Si riaccomodò con la schiena contro la propria poltrona.

 

Quando il respiro di John fu nuovamente abbastanza regolare, riprese a parlare.

 

« Perché Sherlock non ci ha pensato?! ». Soppesò con la propria voce la domanda che aveva attanagliato – per non dire tediato – la mente di John fino ad allora.

« Potrei provare a dedurlo, Dottor Watson... » disse, iniziando a cullarsi con la sua poltrona girevole, a destra e a sinistra.

« Potrei davvero provare a dedurlo... ma... sarebbe solo cacca di elefante! ».

 

John sgranò gli occhi, e sospirò esasperato.

Si portò le mani in faccia.

« E ci risiamo con questa cazzo di cacca di elefante! ».

Le puntò un dito contro.

« Se è una battuta, o qualsiasi altra cosa atta a deridere il mio dolore, il mio stato d'animo, perché magari è una psicoterapia d'urto, sappia che non è divertente, dottoressa Meier! ».

 

Lei ridacchiò, mettendosi le mani in grembo, e sorridendo.

« È un concetto che deriva da uno dei padri della psicoterapia... ». Annuì lei.

« Dicevo... Perché le preme tanto sapere, anzi no, perché la turba così tanto venire a capo delle motivazioni che hanno portato Sherlock a sbagliare una deduzione... ? ».

 

« Perché Sherlock non sbaglia praticamente mai! ».

 

« Non da quello che mi ha detto prima... ».

 

« Ha capito che intendo! » si mise le mani fra i capelli.

« Ha capito benissimo cosa intendo! E se non l'ha capito lo deduca.».

 

« No, me lo deve spiegare lei, Dottor Watson... ». Aprì le braccia, in attesa che l'altro parlasse.

 

« Ggrrr...! » grugnì John.

« Sa bene cosa intendo! Perché diavolo devo ripeterglielo! ».

 

« Repetita iuvant! ».

 

« Non so cosa abbia detto... ma okay... qualsiasi cosa sia...».

No, John decisamente non aveva studiato latino in vita sua.

« Vorrei sapere perché Sherlock, di tutte le volte in cui avrebbe potuto sbagliare... ha sbagliato proprio CON ME! Perché proprio con me ha dovuto fare un errore di calco?! Un errore di deduzione?! Come anche ha solo potuto pensare... che io non ci sarei rimasto male! Mannaggia la puttana! MA NON GLI E' PROPRIO VENUTO IN MENTE?! Sono la persona con cui ha abitato per quasi due anni – all'epoca –, sono quello che ha curato le sue ferite, l'ha strappato dal braccio della morte, ha sempre creduto in lui... come anche solo ha potuto pensare che io non abbia avuto sentimenti di rabbia?! Come ha potuto non pensare che io non mi sentissi ferito a morte dalla sua menzogna?! Avrebbe potuto dirmelo che era vivo! Avrebbe potuto farmelo capire!*».

John era nuovamente in preda alla disperazione.

« Mi ha sottovalutato! Ha sottovalutato me! E tutti i miei sentimenti per lui!».

 

« O forse... l'ha sopravvalutata?!».

 

« E perché mai? Lui non sopravvaluta nessuno, se non se stesso... ». Si fece spazio, sulle labbra di John, un sorriso amaro.

 

« Perché dice sottovalutato... e non sopravvalutato? ». Ginevra sapeva seminare bene il seme del dubbio nelle menti umane.

 

John sentì come se un legnetto avesse inceppato i propri meccanismi celebrali.

« Perchè... per-perchè... ». Boccheggiò.

« Perché mi ha reputato così stupido, da poterlo riaccogliere a braccia aperte... Come se fossi un idiota, che per tre anni, mettesse in pausa la propria vita, sperando in un suo ritorno... Ma come potevo anche solo immaginare che sarebbe... resuscitato?! Ritornato! Come potevo anche solo immaginare che non era mai morto! Se ha fatto di tutto affinché fossi il più convinto della sua morte!! MI HA SOTTOVALUTATO! Pensando fossi così idiota, che non appena sarebbe tornato, lo avrei perdonato di tutto... Come se fossi così idiota... da non riuscire a provare neanche dolore per la sua scomparsa... Lui pensa solo di se stesso che è intelligente... e di Irene, certo. Ma non di me. Anche se mi ha detto che sono il suo conduttore di luce. Ma questo non vuol dire essere intelligenti per lui. E a me, “intelligente”, non l'ha mai detto. Mai. ».

 

Ginevra, che aveva ascoltato bene, posò i gomiti sulla scrivania, incrociò le dita delle mani, e pose il mento sopra di esse.

« Uhm. Conduttore di luce. Beh. È un complimento notevole, quasi sentimentale, detto da Sherlock, che si definisce una macchina... quindi... perché non... sopravvalutato?!

Provi a guardarla da quest'altro angolo.... E se Sherlock, invece, la avesse reputata così intelligente... se avesse reputato i tuoi sentimenti verso di lui, così grandi, così puri... da fargli credere che, non appena lo avresti visto, lo avresti accolto veramente a braccia aperte?! Perché la cosa che agognavi di più non era elaborare il lutto... ma riaverlo nella tua vita?! ».

 

John annaspò.

Si sentì sudare freddo.

 

« Pensaci bene, John... ». Fece con un gesto vago della mano la dottoressa.

« Chi perde una persona cara... non ha come desiderio più grande elaborare il lutto e farsene una ragione... Vorrebbe solo non aver mai voluto quel dolore. Vorrebbe semplicemente riavere tale persona nella sua vita, a qualsiasi costo. E vorrebbe che ciò non fosse mai accaduto. Mai... ».

 

John non ci aveva mai pensato.

 

Perché sei idiota, John... non quanto Anderson, sia chiaro... Ma insomma... un po' di logica sentimentale!”, lo rimproverò il suo Sherlock interno...

 

« No. Non sarebbe da Sherlock fare questi ragionamenti così sentimentali...». Rise, e si sentì sull'orlo della pazzia.

 

« Perché no?! ».

 

« Perché Sherlock non è così! ». Batté le mani sulla scrivania, di fronte a lei, con uno scatto di rabbia.

 

Ginevra rise.

« Ci metteresti la mano sul fuoco?! ».

 

« Sì! ». Rispose senza esitazione.

Ma poi il pensiero volò a Rosie che piange, e a Sherlock che gli dice parole scientifiche per farla ridere.

« N-no! ». Ribadì subito dopo. Sembrando quasi più convinto della prima risposta data a bruciapelo.

 

Ginevra si riadagiò contro la propria poltrona, riprendendo a dondolarsi con le mani in grembo.

« Cacca di elefante...! Sempre è comunque... solo tanta cacca di elefante!! ».

 

A John sembrò di impazzire, a sentir nominare quella nuovamente.

 

Ginevra Meier era una che il proprio lavoro sapeva farlo straordinariamente bene.

« Sottovalutato... Sopravvalutato... Pensi che avrai mai la risposta sicura...?! Una risposta certa?!Una risposta che sia quella che definiresti giusta... !? ».

 

John abbassò il capo sulle braccia incrociate sulla scrivania, ed iniziò a fissare le punte degli stivali di lei, che si muovevano sul tappeto.

Era sconfortato.

Incerto.

Dubbioso.

« No. Non credo potrei mai... ».

 

Ginevra sospirò. No, non di rassegnazione.

Ginevra sospirò, perché a breve John avrebbe iniziato a capire.

E a far pulizia di tutta quella cacca di elefante di cui si era circondato fino ad allora...

 

« Dottor Watson... John... Sherlock, benché sia portato a ragionamenti logici e deduttivi... benché egli stesso si definisca con il temperamento di un iperattivo sociopatico – e io non mi sono mai azzardata a farne una valutazione psichiatrica, mi sono avvicinata a lui solo come “alunna della scienza della deduzione” - è umano... ».

Aprì le braccia, e sorrise.

E John si sentì di pendere da quella spiegazione, da quelle labbra che stavano per rivelargli una sacra verità.

 

John.... allora non hai capito niente! La verità vera... non esiste! È solo questioni di punti di vista! Oh gesù cristo... non fare come Anderson!” gli sussurrò lo Sherlock dentro di sé.

 

« So che questa cosa potresti non accettarla ma...è umano. Sherlock è umano e basta.

Il tuo amico non è una macchina. Per quanto possa affinare la logica della deduzione, non lo sarà mai... Il tuo amico sbaglia, sbaglierà ancora nella vita... ed ha sbagliato con te, con altri, perché è umano...! ».

Si mise composta, e lo fissò dall'altro al basso, ma non per schernirlo.

«... John... tu pensi... che la mente umana... sia facile da comprendere?! ».

 

« No... » biascicò John, col mento ancora poggiato sulle braccia.

 

« ... Sicuro...?! Perché, dalle reazioni di prima, mi sembrava che fossi convinto che Sherlock fosse associabile ad una macchina, e che riducendo te ai minimi termini comportamentali, avesse potuto realmente aver avuto la possibilità di azzeccare una tua reazione... ».

 

« Ma con i serial killer ci riesce! ».

 

Ginevra rise.

« John... Sherlock deduce delitti già accaduti, risale agli assassini, e ne studia i rituali comportamentali... Ma... Tu non sei un assassino. Non hai rituali comportamentali – a meno che tu non sia un maniaco ossessivo compulsivo » e rise da sola a quella battuta.

« Ma tu, John... sei il suo migliore amico. Il suo coinquilino. Voi avete sentimenti reciproci. E quando ci sono quelli, ci sono emozioni.. e le emozioni non possono essere incatenate a semplici deduzioni.... Sherlock può dedurre da una persona com'è, cosa ha fatto, e più o meno, a grandi linee, come si comporterà in futuro. Ma se incontrasse una donna, o un uomo... insomma.. una persona, che gli piaccia davvero... che si piacciono entrambi, l'un latro. Prova ad ipotizzare che nasca amore fra di loro... sarebbe certo di dedurre se quella storia durerà per sempre, oppure finirà in divorzio dopo dieci anni?! ».

 

« All'inizio... pensavo di sì... E sono convinto che lui risponderebbe di esserne capace... ». Ammiccò ad un sorriso sincero John.

 

Ginevra ridacchiò.

 

« Nessuno può sapere cosa si cela veramente dietro una mente umana, dietro dei sentimenti. E anche quando le persone ci parlano, ce li confessano, non sono mai onesti al cento per cento... ».

 

« Ne so qualcosa di menzogne in una relazione, si risparmi quel capitolo di psicoterapia...».

Scacciò simbolicamente con la mano il pensiero della sua ex moglie morta... che era un'afferrata assassina.

 

«Non intendevo quello... Le persone, quando parlano, e stavo facendo l'esempio del confidare i propri sentimenti, non sono mai oneste al cento percento. Non perché non vogliano. Ma perché la mente umana è in continua evoluzione. L'essere umano è costantemente sottoposto a stimoli sensoriali di tutti i tipi... E la verità suprema non esiste. La verità è qualcosa che è in continua evoluzione.... Ci ha mai pensato che Sherlock, magari, all'inizio abbia voluto dirle la verità, poco dopo l'inscenata della sua morte.. ma che poi sia successo qualcosa.. e l'abbia costretto a tacere... e alla fine... non abbia più avuto possibilità di farlo... e ha dovuto aspettare tre anni?! ».

 

« No. ». E gli uscì quasi come un ruggito profondo. Come venisse dagli inferi della propria anima.

 

« Ma è una delle infinite possibilità...». Fece spallucce Ginevra.

 

« … Se continuo a pensare anche solo ad un'altra possibilità su come sarebbe potuta andare, mi scoppierà il cervello!!». Ammise John, infilando la testa fra le proprie braccia.

« Basta... la prego, dottoressa... ». Ormai la sua mente era ridotta ad un misero straccio.

 

Lei si alzò, andò alle sue spalle, e gli preparò un bicchiere d'acqua, dal dispenser che giaceva in un angolo fra la libreria e la finestra.

 

Gli pose una mano sulla spalla.

 

John lentamente si rialzò dalla sua posizione china, e mise a fuoco prima il viso di lei, e poi il bicchiere d'acqua che gli veniva offerto.

 

Lo afferrò, e bevve senza esitazione.

 

« Esatto... basta pensare a cose di cui non avrebbe mai sicurezza... per questo... le ripeto: cacca di elefante... qualsiasi deduzione una persona sana di mente – e ghignò, facendo ghignare John stesso, forse perché sapevano che Sherlock non era affatto sano di mente – farebbe dei pensieri, delle emozioni, di un'altra persona... sono solo pippe mentali inutili... una gigantesca, enormissima, cacca di elefante. Un peso inutile, di cui la nostra mente, il nostro intelletto, farebbe volentieri a meno... Ti eviterebbe un sacco di mal di testa... Un sacco di tempo perso... »

 

John finalmente ebbe la sua epifania.

 

OH! Bravo John! Hai visto?” si complimentò il suo Sherlock interno con lui.

 

« Se vuoi lavorare su qualcosa... puoi lavorare su te stesso, John Watson.

Non potrai mai sapere con esattezza cosa gli altri provano, cosa gli altri sentono, come gli altri elaborano le emozioni... Neanche Sherlock può. E per quanto al suo amico ciò non piaccia, e farebbe di tutto per smentirmi, e smentire tutti i padri della psicoterapia... Ti posso assicurare che, per quanto affinerà la logica, avrà sempre un margine d'errore... ».

 

John annuì, sorseggiando altra acqua.

Sentendosi inspiegabilmente più leggero di prima.

 

« Mi piace usare una metafora, che ha usato una volta con me la mia amica Ingegnere... ».

 

John attese, quasi impaziente.

 

« Una volta, parlando di matematica – e te lo confesso – io non so veramente quasi nulla di quella materia... Mi disse che l'unità di misura con cui ogni uomo misura il mondo è se stesso. E benché le unità di misura siano utopicamente considerate perfette... se io e lei misurassimo con due righelli differenti la lunghezza di due cm... beh... ci sarebbe stato un errore. Non ricordo se relativo o assoluto, dovrei richiederglielo ». Ridacchiò, sperando di spiegare comunque bene il concetto.

« Dicevo... ci sarà sempre un errore, fra la mia misurazione e la sua. Perché nessun righello è uguale ad un altro. Come nessun uomo è uguale ad un altro uomo....

John... potrai conoscere Sherlock come le tue tasche, ma non potrai mai capire cosa si prova a vedere il mondo dai suoi occhi...

e Sherlock... Sherlock potrà immedesimarsi in milioni di sguardi... Ma non vedrà mai il mondo con gli occhi degli altri. Rimarrà un grande osservatore... Ma mai il protagonista delle vite che deduce...».

 

John rimase molto colpito da quell'esempio.

Si sentì come se qualcosa dentro di lui, dopo quelle parole, si fosse spezzato.

E al contempo, si sentì come se veramente si fosse scrollato di dosso un peso enorme.

 

« Mycroft mi aveva detto che ti aveva preso appuntamento da me, perché facevi incubi su un pozzo... in cui quasi eri annegato... e vedi?! Abbiamo parlato di tutto, tranne che del pozzo in cui stavi per morire annegato... ».

 

John ridacchiò.

« Oh beh... quella è un'altra parte della mia vita... ».

Sospirò.

« Più recente, anche... e paradossalmente.. anche meno pesante, del peso che mi sono appena tolto oggi... ».

 

Lei si alzò in piedi.

« La aspetto, allora, lunedì prossimo... per ascoltare questa storia più recente e meno pesante della sua vita... ».

 

John fece altrettanto.

« D'accordo... ».

 

E sorrise sereno.

Leggero.

 

Si salutarono dandosi la mano.

 

Lui, presa la giacca, fu il primo ad uscire, e poi lei, afferrando il cappotto e la propria borsa, chiuse la porta a chiave.

 

« Vado a pranzo, poi ho un altro paziente verso le due di pomeriggio... ».

Gli disse, procedendolo verso l'ascensore.

 

Erano in un palazzo molto alto, che aveva l'aria di essere adibito a soli studi medici o olistici.

John, ripercorrendo a ritroso, al suo quasi fianco, il corridoio che aveva fatto all'arrivo, si accorse che le vetrate davano su una parte del Tamigi da cui si intravedeva un cantiere navale.

 

Era quasi l'una.

La seduta era durata un sacco di tempo.

Ma che importava?!

Mycroft ce lo aveva portato, e Mycroft avrebbe pagato!!

 

Entrarono in ascensore non appena arrivò, e non dissero nulla.

 

Lei era concentrata sul suo cellulare, e sorrideva serena.

John guardava per terra, ed ogni tanto verso lei, con le mani in tasca. Mani che stavano trasudando l'ansia della mattinata, ed erano così agitate da triturare i fazzoletti e gli scontrini che vi erano in entrambe le tasche.

 

Quando arrivano al pian terreno percorsero l'atrio, e finalmente fuori, si salutarono con una stretta di mano.

 

« Buona giornata, Dottor Watson! A lunedì prossimo! ». Ginevra gli mostrò un ultimo sorriso gentile per quell'appuntamento.

 

« Buona giornata e buon pranzo, Dottoressa Meier... e Grazie. ». John sussurrò l'ultima parola con imbarazzo.

 

Lei, tutta gioiosa e soddisfatta, si avviò verso un luogo dove avrebbe pranzato.

 

John la fissò, finché non la vide sparire fra la folla di gente che si accalcava ad una fermata del bus.

 

Dall'altro lato della strada, la limosine nera con cui era stato portato all'andata, lo stava aspettando.

 

Aspettò il semaforo verde, attraversò, e l'autista gli aprì la portiera dell'auto.

« Dottor Watson... ». Lo salutò, chiudendo lo sportello, non appena lo vide accomodato dentro.

 

Quando l'autista rientrò al suo posto, John osò muovere una richiesta.

« Scusa... Come ti chiami!?».

All'andata ero così preso dai suoi pensieri, che lo aveva ignorato completamente.

 

« George, dottor Watson ».

 

« George... hai fretta di tornare da Mycroft?! ».

 

« No. Il Signor Holmes mi ha assegnato a lei... per tutta la giornata... ».

 

Mycroft, probabilmente, aveva immaginato che non ne sarei uscito tutto intero, da una seduta con la dottoressa Meier...

 

«... Tutta la giornata?! ». Chiese, per avere conferma.

 

« Sì... ». Si fece meno formale l'autista.

« Non è necessario che la accompagni subito a casa, se non è quello che vuole... ».

 

« … Puoi portarmi ovunque.. io voglia?! ». Azzardò il dottore.

 

« Ovunque, purché entro i confini di Londra, Dottor Watson... ». Precisò l'autista.

 

John annuì.

 

Si allungò con una mano verso il navigatore che giaceva davanti l'autista, nella parte anteriore della limo.

 

Indicò un punto preciso sulla cartina di Londra.

 

« Qui... puoi portarmi qui?! ».

 

George annuì.

« Certamente signore... ci metteremo un po' ad arrivare, c'è molto traffico a quest'ora.» , ed iniziò ad impostare il percorso.

 

« Non importa... ».

Disse John, sistemandosi sul sedile, accanto al finestrino, pronto a godersi il viaggio, in pace con se stesso per una volta tanto.

 

« Mi sembrava giusto avvisarla... ».

 

« Grazie, infatti, ragazzo... ma non ho fretta di tornare a casa oggi... ».

Sussurrò l'ultima frase.

Anche se Rosie mi manca come l'aria, ma so che è in buone mani...

Anche se sono le mani di Sherlock...

 

L'auto partì, e John si godette nuovamente la vista della sua Londra brulicante di traffico, di persone...

Di vita.

 

« Dottor Watson, nel piccolo frigo c'è il pranzo per Lei... ».

 

« Grazie... ».

Rispose distrattamente John.

 

Al momento aveva fame solo di relax.

 

 

Continua...

 

Note dell'Autrice:

La cacca di elefante è un concetto che deriva da “La psicoterapia di Gestalt”, cui padre fondatore è Perls.

Personalmente distinguo tre classi di escrementi verbali: la cacca di pollo, cioè ‘buon giorno’, come sta?’ e via dicendo; la cacca di mucca, cioè i ‘perché’, le razionalizzazioni, le scuse; e la cacca di elefante, cioè quando si parla di filosofia, della terapia gestaltica come filosofia esistenziale ecc… quel che sto facendo io adesso, insomma.” Fritz Perls

 

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