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Autore: Ridichetipassa    08/04/2020    0 recensioni
"Voglio diventare anche io una ragazza alla pari!"
Era nato così quello che per gli altri era solamente "l'ennesimo capriccio di Mia".
Ma l'apparenza, si sa, può celare molto. Ed è proprio un vuoto incolmabile quello che si nasconde dietro la sua frivolezza, e che porterà Mia a partire alla volta del Giappone, in un ultimo disperato gesto per riappropriarsi di sé stessa. Nella terra dei crisantemi, la ragazza sarà costretta a interfacciarsi con una realtà che se da un lato ha la delicatezza dei fiori di ciliegio, dall'altro ha la violenza apocalittica del Sole che sorge.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Una volta avevo letto una frase, scritta con un pennarello indelebile sulla porta del bagno della scuola: «il mistero del silenzio è che non fa mai lo stesso rumore».

L'avevo trovata piuttosto ridicola, senza senso, il frutto del vaneggiamento di qualcuno che si era divertito a fingersi un poeta.

"Che bella calligrafia!" aveva esclamato Giulia, per poi tirare fuori il cellulare e scattarle una foto, "Non trovi?" mi aveva chiesto voltandosi verso di me e trafiggendomi con i suoi cristallini occhi blu.

"Sinceramente? Sarà pure bella, ma non capisco cosa voglia dire..." avevo confessato scrollando le spalle con disinteresse. Lei mi aveva fissata, un'espressione disincantata che non le avevo mai visto cucita addosso, "Forse non è fatta per essere capita da quelli come noi".

Quelli come noi. Era una sottile linea di confine che avevamo tracciato per separarci dal resto del mondo. Ci teneva a distanza da tutto e tutti e ci dava una scusa per poterci elevare sempre un gradino più in alto.

Eppure, quel giorno, Giulia aveva usato la nostra formula con un significato diverso. Non era più un privilegio, ma qualcosa che non ci permetteva di andare oltre alla bella calligrafia di quel poeta da quattro soldi. Non ci permetteva di capirlo appieno.

Eravamo destinate alla superficie, lì dove ci eravamo inconsciamente rilegate, incatenate a quella frase rituale che era insieme la nostra benedizione e la nostra rovina.

Non avevo voluto approfondire il discorso. L'avevo lasciato cadere così, liquidandolo con un cenno di assenso e un banale "Già".

Quell'aforisma, però, me l'ero trascinata dentro per anni. Fino al Giappone.

Stavo camminando lungo la solita stradina, quella che mi avrebbe portato alle scuole di Hana e Nami, le mie immancabili cuffiette infilate nelle orecchie, quando d'un tratto una folata di vento più forte delle altre mi aveva spostato i capelli.

Una ciocca si era attorcigliata intorno al filo delle cuffie costringendomi a toglierle per sbrogliarla.

Silenzio.

Non avevo mai sentito un silenzio così terribilmente surreale. E non aveva nulla a che vedere con quello che si formava nella mia cameretta a Roma, quando decidevo di chiudere la porta.

Non aveva in sé il rumore dei clacson in lontananza, oppure le grida della vicina del piano di sopra, benché meno il fastidioso ticchettio dei tacchi di mia madre.

E non era neanche uno di quei silenzi pesanti, di quelli che ti si incollano addosso talmente sono opprimenti, soffocanti, di quelli che provi a colmare in ogni modo, fastidiosamente sgraditi.

No.

Quello era il silenzio nel suo significato più assoluto. Ed era fatto dell'odore dell'erba dei prati, del canto di qualche cicala in lontananza, dello scrosciare del fiume nella sua lenta e inesorabile corsa, del fruscio del vento e del calore del Sole pomeridiano sulla pelle.

Era leggero.

Di quella leggerezza in grado di scavarti l'anima e portarti a galla i pensieri.

E io, immersa in quella quiete idilliaca, per la prima volta, avevo finalmente dato un significato a quella frase che io e Giulia eravamo rimaste a fissare con amara impotenza.

Poi, improvvisamente, mentre me ne stavo con le palbepre abbassate e le labbra dischiuse, avevo sentito uno stridio, dapprima sottile, poi sempre più molesto.

Ci misi un po' a intuire da dove provenisse, ma quando lo feci fui costretta a infilarmi nuovamente le cuffiette nelle orecchie e ad alzare il volume della musica, il fiato corto, gli occhi sbarrati.

Quello era il rumore dei miei pensieri. E scricchiolavano contro quella quiete così perfetta, grattavano, violenti. Non erano discreti o equilibrati, non erano armoniosi, ma un groviglio di fili senza capo né coda, un mare in burrasca.

Non ero mai stata brava ad ascoltarmi. Preferivo tamponare ciò che mi frullava per la testa con la voce graffiante di Dustin Bates, anestetizzare quel brusio di sottofondo con le potenti e devastanti note di Carnivore.

Niente cicale, niente fiume, niente vento, niente pensieri, niente Mia.

Ed ero scappata a migliaia di chilometri di distanza da casa credendo che solo così avrei potuto ritrovare la Mia di un tempo, quella che mia nonna aveva amato tanto e che non si sarebbe mai accontentata di appartenere a "quelli come noi".

Ma la verità è che non ero ancora pronta ad affrontarmi, ad affrontare ciò che ero diventata. E allora, ogni stramaledetta volta che percorrevo quella strada da sola, mi aggrappavo alla mia amata musica pur di non annegare dentro di me. Ché non ne sarei uscita viva, ne ero sicura.

«Mia!»

Hana mi stava correndo incontro, sorridente, mentre si faceva largo tra i suoi compagni di classe che, come lei, erano usciti in quel momento dalla scuola.

Le dita fredde, leggermente tremanti, sospirai appena, sconsolata, e mi tolsi le cuffiette.

Silenzio. E un brivido di paura mi attraversò la schiena.

Mi avvicinai alla bambina, la mano aperta e tesa per afferrare la sua, piccola e delicata, rassicurante.

«Andiamo a prendere Nami!» mi disse e cominciò a trascinarmi, un passo dietro l'altro nella direzione della scuola della sorellina. Mi limitai a seguirla, a farmi condurre, lei l'adulta e io la bambina.

Hana era responsabile, una ragazzina di soli otto anni che di fanciullesco non aveva nulla se non l'aspetto. I capelli raccolti in una coda alta, le guance paffute, l'uniforme perfettamente stirata, le scarpe tirate a lucido e quel portamento che trasudava una calma e una sicurezza che io potevo solamente sognarmi.

La testa alta, poi, e i grandi occhi scuri fissi sull'orizzonte, pareva guardare al di là di ciò che si trovava davanti, sempre proiettata un passo più in là di tutti.

«Com'è andata la tua giornata?»

Faticavo ancora a pronunciare una frase di senso compiuto, ma dopo un mese di corso di lingua riuscivo quantomeno a farmi capire.

«Stai migliorando! La tua pronuncia è quasi perfetta!» e si voltò verso di me alzando il pollice in alto e mostrandomi un'espressione soddisfatta, «Al solito...nulla di ché» continuò, alzando le spalle con fare rassegnato e tornando a guardare avanti.

A Hana non piaceva la scuola. Ogni volta che toccavo l'argomento si limitava a formulare le solite risposte atone e corte. "Al solito", "Non è successo nulla di nuovo", "Bene". Chiudeva subito la questione cambiando tema.

«Oggi il Sole è molto forte...» disse mettendosi una mano davanti agli occhi. Intorno a noi, dietro le piccole abitazioni in cemento, la campagna la faceva da padrone. Era immensa, rigogliosa, profumata, una distesa di piante di grano e di erbe selvatiche.

E di fronte a quello spettacolo anche quella piccola strada, quelle case minute, quella staccionata in legno mangiata dai tarli, quei pali della luce arrugginiti acquisivano un fascino tutto loro.

«Mia? Perché ti sei fermata?»

«Scusa, mi ero un attimo incantata» le risposi dandomi una leggera pacca sulla fronte, per poi ricominciare a camminare.

La scuola di Nami era a qualche centinaia di metri di distanza rispetto a quella di Hana.

Era un edificio basso, ma piuttosto esteso, adatto per la quantità di bambini che doveva ospitare.

Entrate dall'ingresso principale, ci affacciammo nella classe della minore. Intenta a giocare in un angolino con alcune bambole, Nami non si era accorta di noi.

La trovavamo spesso così, a giocare da sola. Lei da un lato e il resto dei suoi compagni dall'altro. Ogni tanto cambiava postazione, magari si sedeva più vicina ad altri bambini, oppure si sistemava a cerchio assieme a tutti quando la maestra leggeva loro qualche libro, ma non l'avevo mai vista parlare con nessuno.

«Nami!»

Hana la chiamò, la sua voce dolce e soave risuonò in tutta l'aula attirando l'attenzione su di sé.

La piccola alzò la testa e, dopo averci inquadrate, con un balzo si alzò da terra e corse verso di noi.

«Ce ne avete messo di tempo!»

«Guarda che siamo arrivate in orario» le rispose la sorella stizzita, dandole un pizzicotto sulla guancia paffuta e rosea.

La maestra, una giovane donna dai modi gentili e premurosi, si avvicinò e ci aiutò a recuperare lo zainetto della bambina dall'attaccapanni. «Ci vediamo domani, Nami» disse e si inchinò leggermente. «A domani, maestra» pronunciò lei chinandosi a sua volta in un modo talmente esagerato e goffo da strapparmi una lieve risata. La donna le passò una mano tra i capelli scompigliandoglieli, un gesto materno che non mancava mai di riservarle, dopodiché salutò anche noi con un breve cenno del capo e sparì di nuovo all'interno dell'aula.

«Andiamo che ho fame!»

Nami era molto diversa dalla sorella maggiore. Con i capelli sempre arruffati, il grembiule immancabilmente sporco di tempera e le scarpette impolverate, camminava sempre un passo dietro a noi, troppo occupata a raccogliere i sassolini più belli sul ciglio della strada per poter mantenere la nostra andatura.

«Questo è proprio bello! Guarda che forma!» urlò all'improvviso per poi raggiungerci e mostrarmelo, entusiasta. «Mia, è del colore dei tuoi occhi!» e mi afferrò la mano, posandolo sul palmo, «Te lo regalo» affermò infine, scoprendo i dentini in un sorriso disarmante.

Quel minuscolo sasso era di un grigio chiaro tendente al celeste, striato da alcune venatura più scure. Me lo portai vicino ad un occhio, «Tu dici?» le chiesi e lei annuì, «È lo stesso colore dei laghi di montagna, di quelli che stanno in alto alto» mi spiegò.

«In alto alto?»

«In alta montagna non ci sono piante e l'acqua dei laghi riflette solo il colore del cielo» proseguì Hana per lei, «I tuoi occhi hanno il colore dei laghi di montagna, Mia.»

Mi limitai a ringraziarle, colta alla sprovvista da quella piacevole similitudine. Era il complimento migliore che avessi mai ricevuto.

Continuammo a camminare, il Sole che a mano a mano andava nascondendosi dietro le colline in lontananza. D'un tratto passammo vicino all'unica area giochi del paese. Alcuni bambini, sorvegliati dai genitori, erano intenti a giocare tra loro. Chi usava lo scivolo, chi l'altalena, chi invece era impegnato a costruire castelli di sabbia oppure a saltare la corda.

Hana e Nami, come sempre, passavano dritte, la testa bassa, i pugni serrati lungo i fianchi. Non alzavano mai gli occhi dall'asfalto fino a quando non superavamo il parchetto. Sembravano terribilmente a disagio e adottavano lo stesso comportamento anche quando incontravano altri loro coetanei lungo la strada.

Ogni tanto salutavano qualche vicino di casa, un vecchietto di passaggio o qualche signora che conoscevano, ma non erano mai particolarmente affabili o sorridenti.

Non ne capivo il motivo e mi sarebbe piaciuto chiederglielo, ma allo stesso tempo sentivo che non era il caso di insistere, che se solo l'avessi fatto avrei incrinato irrimediabilmente il rapporto di fiducia che si era instaurato tra di noi.

E allora tacevo, proprio come loro, e facevo finta di nulla.

«Vi va un gelato?»

Quel giorno, però, non ce l'avevo fatta a ignorare le loro espressioni demoralizzate.

Hana e Nami sollevarono lo sguardo e, dopo un attimo di incredulità, esclamarono in coro un "sì" allegro che mi strinse il cuore.

Il supermercato, che si trovava in fondo alla via del tempio, non era molto grande, ma era l'unico in tutta la zona e proprio per questo era abbastanza fornito. La struttura, a tratti decadente, era piuttosto vecchia e frutto dell'incuria dei proprietari: una coppia di signori grassi e pigri che avevo visto solamente due volte da quando ero arrivata lì.

«Voi scegliete i gelati che vi piacciono di più, io entro un attimo dentro per cercare una cosa.»

Mi aggirai per gli scaffali con in mente un obbiettivo ben preciso: le caramelle. Quando vivevo a Roma, i miei genitori non mi permettevano di comprare alcun tipo di cibo "spazzatura": niente patatine, niente caramelle, niente merendine. Seguivo un'alimentazione rigida e controllata e col tempo avevo imparato a fare a meno di qualsiasi "schifezza" dolce o salata che fosse. Ma lì in Giappone, complici lo stress e la lontananza dai miei, avevo scoperto il piacere di mangiare, di tanto in tanto, qualche caramella, di quelle gommose colorate e a forma di tanti animali diversi.

Ne presi tre pacchetti, giusto per essere sicura di non finirne la scorta, e mi avviai alla cassa.

Appoggiata al bancone, un'espressione annoiata dipinta sul volto, la commessa era intenta a scrivere un messaggio al cellulare.

Da dietro il grembiule verde scuro con il logo del negozio, usciva la manica colorata e pomposa della sua maglietta. I capelli lunghi e neri, raccolti in due codini alti, erano decorati da tante mollettine a forma di fiore e le dita paffute erano ricoperte da numerosi anelli fluorescenti.

Sakura aveva sicuramente un aspetto singolare, eccentrico e vistoso, a tratti decisamente infantile, e un carattere estroverso e allegro.

«Ciao!» si ravvivò vedendomi arrivare con il mio bottino in braccio. «Quelle piacciono molto anche a me» indicò il pacco con le caramelle al gusto di fragola, prima di cominciare a trafficare con la cassa.

«Devo pagarti anche due gelati...» cominciai guardandomi intorno, «Le bambine dovrebbero averli scel-»

Fuori dalla vetrina, Hana stava cercando di estrarre la sorellina dal banco frigo. Della più piccola non si vedevano che le gambe sottili, in quel momento impegnate a scalciare furiosamente.

«Nami!»

Mi scagliai fuori dal negozio e, afferratele le caviglie, la tirai fuori dal frigorifero. Nelle mani, vittoriosa, teneva due gelati grandi quanto il suo viso. «Vogliamo questi!» urlò ancora a testa in giù, mentre Hana rideva di gusto, piegata in due con le lacrime agli occhi.

Io le osservai, dapprima sconvolta, poi sempre un po' più divertita.

E così i nostri ruoli si ribaltavano. Al suono delle loro risate cristalline e dei piedini che battevano sull'asfalto come grandine, io tornavo a fingere di essere l'adulta e loro di essere le bambine.

Avevo imparato a godermi quei momenti, consapevole di quanto fossero effimeri.

Duravano poco, il tempo che impiega il petalo di un fiore di ciliegio a toccare terra.

   
 
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