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Autore: Evali    12/04/2020    2 recensioni
Un villaggio isolato, un popolo spezzato in due in seguito ad una terribile calamità, due divinità da servire, adorare e rispettare in egual modo: Dio e il Diavolo.
"- Io amo gli uomini.
- E perché mai io sono andato nella foresta e nel deserto? - replica il santo. – Non fu forse perché amavo troppo gli uomini? Adesso io amo Iddio: gli uomini io non li amo. L’uomo è per me una cosa troppo imperfetta.
- È mai possibile! Questo santo vegliardo non ha ancora sentito dire nella sua foresta che Dio è morto!"
Genere: Fantasy, Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Il peccato originale
 
DIECI ANNI PRIMA
 
- È qualcosa che gli altri non possono comprendere – disse Myriam.
- Che cosa? – domandò il piccolo Blake.
- Gli altri villaggi, al di fuori di noi. Non possono comprendere – gli disse sorridendo, facendo uscire dalla sua bocca una vaporosa nuvola di fumo scuro.
- I popoli hanno invocato angeli e streghe insieme per questo, per avere quello che noi abbiamo senza sforzo – continuò poggiando la mano sulla guancia del bambino, sorridendogli ancora.
– Abbiamo tutto quello che loro vogliono, per puro caso, Blake.
Un semplice scherzo del destino.
Una scelta fatta senza pensare, per evitare una catastrofe, una selezione nella quale ci siamo trovati in mezzo senza volerlo, senza sapere.
Una strana commistione di eventi casuali ci ha permesso di avere quel che tutti bramano: la perfezione fisica.
- Perché è quello che tutti vogliono? – domandò innocentemente il bambino, aspirando anch’egli del vapore scuro dalla boccuccia che gli porse Myriam.
- Mi chiedi perché?
Perché siamo nati per essere guardati, Even.
Per nient’altro.
Chi possiede la dote, non vi fa neanche caso, non ci accorgiamo della fortuna che abbiamo, fin quando non incontriamo qualcuno che ce lo fa comprendere.
Viviamo i nostri doni innati con indifferenza, dissennatezza e irriverenza, in cerca di qualcosa di oltre, senza sapere che quello che già possediamo ci basterebbe per raggiungere l’immortalità osannata.
Questo è il motivo per cui me lo stai chiedendo – gli rispose la ragazza, terminando di tritare un cristallo, per poi versarlo in una ciotola.
- I belli si buttano tra le fiamme senza preoccuparsi di venire sfregiati, mentre i mostri hanno l’ardire di guardarsi allo specchio, senza curarsi del dolore che deriverà da ciò.
Ognuno ha il suo giogo da portare – concluse la balia aspirando ancora quel fumo, spostandosi una ciocca del vaporoso cespuglio di capelli neri dietro l’orecchio coperto di orecchini.
Myriam era una bellissima ragazza dalla pelle color carbone, i lineamenti forti e androgini, un ovale del viso che sembrava disegnato, e un corpo dalle forme dolci, non troppo prosperose.
- Che cosa stai preparando? – domandò Blake spostando le iridi chiare sul miscuglio che stava prendendo consistenza dentro la ciotola.
- Un intruglio che permetterà ad una servitrice del Creatore di apparire come noi per ventiquattro ore: bellissima – gli rispose ella prendendogli il visino con le mani e voltandolo di profilo, scrutandolo, facendo scorrere il polpastrello dell’indice su di esso, partendo dall’attaccatura della chioma castana, passando per la fronte, per la curva del nasino, per le labbra piene, terminando nel mento dalla forma delicata e definita, e nel collo. – La donna che mi ha chiesto di prepararle questo intruglio pagherebbe con la sua anima per avere un profilo come il tuo – osservò Myriam, per poi lasciare libero il volto del bambino e permettergli di rigirarsi verso di lei.
- Userai la magia nera su di lei? – le domandò.
A ciò, la ragazza sorrise. – Tutti gli incantesimi pericolosi che richiedono un sovvertimento della natura come questo fanno parte della magia nera.
- E poi, quali altri?
- Ad esempio, la magia nera può far ringiovanire … – sussurrò lentamente Myriam - … può togliere e ridare la vita … - continuò, aggiungendo altri ingredienti nel miscuglio. - … può anche far innamorare o far divenire il ventre di una donna fertile … – disse alzando gli occhi su di lui.
- Può fare davvero tutto questo?
Myriam annuì. – Tuttavia, la magia nera richiede sempre un alto prezzo da pagare, altrimenti non vi sarebbe alcuna differenza con la magia bianca. Quest’ultima è totalmente innocua, un trucco, un gioco per bambini.
Niente a vedere con la sua gemella maledetta.
- Che tipo di prezzo? Credevo bastasse ringraziare sempre il nostro Signore alla fine di ogni incantesimo per ottenere l’effetto che si desidera.
- Il ringraziamento al nostro Signore è dovuto in ogni caso per renderlo possibile.
Ma ciò non basta.
La natura ha agito in un modo perché è onnipotente e noi non possiamo nulla contro di lei.
Se vogliamo mutarla, sfidarla, dobbiamo darle qualcosa di inestimabile in cambio, calibrato alla portata e al tipo di cambiamento che vogliamo ottenere – spiegò la ragazza.
- Tutti quelli che usano la magia nera devono dare qualcosa in cambio?
Myriam sorrise e annuì. – Impari in fretta, piccolo mio.
- Allora, tu e la donna che vuole cambiare il suo aspetto per ventiquattro ore, che cosa avete dato in cambio alla natura? – le domandò curioso.
- Questo non posso dirtelo – gli rispose amorevolmente, per poi immergere le dita nell’intruglio e ammirare di nuovo il volto del bambino seduto dinnanzi a sé, a gambe incrociate. – Saresti felice? – gli domandò.
- Di cosa?
- Di prestare qualcosa che ti appartiene, per un giorno, a qualcuno che lo desidera?
Blake esitò di poco a quella domanda, concentrandosi sulle dita impiastricciate di Myriam che si avvicinavano nuovamente e lentamente a lui.
- Perché questo incantesimo sortisca l’effetto desiderato, devo dargli il tocco finale e fondamentale: il disegno, la traccia precisa del risultato visibile all’occhio – spiegò. – Per questo prenderò in prestito i tuoi lineamenti, se sei d’accordo. Ovviamente non tutti, poiché stiamo pur sempre parlando di una donna adulta, mentre tu sei un giovane ometto. Ci vorrà un attimo – affermò Myriam cominciando a far scorrere le dita impregnate di quel liquido rosso sul naso del bambino, poi sul contorno delle sue labbra, sugli zigomi alti, su tutta la linea delle mascelle, sulle sopracciglia e intorno agli occhi.
Blake la lasciò fare.
- Bene. Ora rimani fermo – lo incoraggiò ponendogli le mani davanti al volto, chiudendo gli occhi e cominciando a pronunciare la formula.
Parlò nella solita lingua sconosciuta, dai caratteri indefiniti, eppure così familiari.
Quando terminò, si fece il segno della croce al contrario e ringraziò il Signore con una preghiera.
Infine, aprì gli occhi e gli sorrise. – Abbiamo finito. Ora posso pulirti il viso – annunciò prendendo un panno bagnato e passandolo con cura e delicatezza sul volto del bambino.
- Che lingua è quella con cui pronunci le formule?
- Non è una lingua che si impara.
Proviene da dentro di noi, senza alcuna regola, e ci permette di riempire i libri di incantesimi senza alcuna conoscenza linguistica, ma solo con la nostra forza, con la concentrazione, l’equilibrio mentale, la fede, la volontà e la speranza – spiegò.
- Perché mi insegni tutto questo anche se sai che mia madre non vuole e che, se lo scoprisse, ti  caccerebbe via o peggio? – le domandò Blake osservandola.
A ciò, Myriam gli accarezzò di nuovo una guancia, sorridendogli teneramente.
- Perché è quello che voglio, Even.
Tua madre non mi vieterà di amarti come se fossi mio, anche se non sei uscito dal mio grembo – annunciò con convinzione.
Blake ricambiò il sorriso in risposta.
Tuttavia, un momento dopo, poco prima che Myriam riuscisse ad alzarsi, venne colta da un malore improvviso e atroce, che la fece ricadere nel letto, piegata in due dal dolore.
- Myriam! – la richiamò preoccupato il bambino.
Myriam spalancò gli occhi e prese a piangere e ad urlare, stringendosi il ventre, poco prima che, dalle sue intimità, cominciasse ad uscire un lago di sangue denso, il quale macchiò tutto il materasso, comprese le gambe di Blake.
- No … no, no, no! – urlò lei in lacrime.
- Myriam, che ti succede??
- Devo aver sbagliato … devo aver per forza sbagliato qualcosa … - balbettò Myriam con la voce rotta.
- Che cosa??
- L’incantesimo …
- Che incantesimo …?
- Questa mattina … ho preparato un miscuglio e l’ho bevuto, pronunciando la formula correttamente e ringraziando il Signore … ma forse … forse a quest’ultimo non è andato bene. Il mio desiderio non è stato gradito …
- Che tipo di incantesimo, Myriam? – le domandò Blake vedendola accartocciarsi ancora, in preda agli spasmi di dolore.
- Per rimanere gravida … contro la mia sterilità … - rispose in un sussurro.
- Che cosa …? Che cosa posso fare??
- Nulla, piccolo mio. Aspetta qui con me e preghiamo il Signore che questo tremendo dolore mi abbandoni presto …
- No! Non puoi soffrire così! Devo fare qualcosa per te! – esclamò scendendo dal letto.
- Blake …
Ma il bambino si era già fiondato fuori dalla casetta, prima che potesse udirla.
Bussò a tutte le porte delle case circostanti, non riuscendo a trovare nessuno, poiché quello era orario di preghiera.
A ciò, in preda alla disperazione, corse, corse a per di fiato fin quando non raggiunse il fiume.
Raccolse tutte le piante, le erbe e i fiori che ricordava avessero un effetto calmante, rilassante o benefico in altro modo per l’organismo.
Dopo aver corso per quasi un’ora, raccogliendo centinaia di foglie diverse, riscese giù verso la casetta.
Quando rientrò, prese la prima ciotola che trovò e cominciò a macinare tutte le foglie insieme, mischiandole con acqua bollita.
Tuttavia, sentiva che ciò non sarebbe bastato per alleviare quel dolore innaturale, provocato da una causa più grande, una causa che sfuggiva al controllo umano.
A ciò, in un momento di realizzazione, si fiondò nello studio di suo padre, usato da quest’ultimo per accumulare e catalogare i vari metalli e i cristalli trovati nella galleria.
Suo padre gli aveva parlato dei metalli qualche volta, gli aveva spiegato il loro utilizzo, come maneggiarli, gli aveva esposto tutti i loro nomi, nomi che ricordava perfettamente e senza fatica.
Tuttavia, suo padre non si intendeva di medicinali e non voleva mai sentir parlare di intrugli magici, dunque Blake non poteva sapere se ciò che stava per fare fosse una possibile soluzione, o solamente una sciocchezza, un’azione sconsiderata e inutile che avrebbe avuto effetti collaterali imprevisti.
Sapeva solo che voleva far placare almeno un po’ il dolore al ventre della sua balia, la quale aveva smesso di perdere sangue ma si lamentava ancora per quel malore che sembrava insopportabile.
Osservò il tavolo nel quale erano disposti in ordine tutti i campioni di metalli e cristalli estratti dal sottosuolo di Bliaint, facendo vagare gli occhi in una ricerca fugace e alla cieca.
Doveva fidarsi dei suoi sensi e del suo istinto, due elementi che Myriam gli descriveva sempre come fondamentali: i fiori, le foglie, i tronchi, l’acqua, le polveri, i vapori, le rocce, i cristalli vanno toccati, saggiati con le dita, con la bocca, con il naso e con gli occhi, per conoscerli e capirli, comprendere i loro effetti, le loro auree, le loro proprietà positive o negative.
Ma ciò valeva davvero per qualsiasi cosa?
Il piccolo Blake se lo domandò ma non aveva il tempo di rispondersi.
I suoi occhi si posarono su una pietra gialla, luminosa.
Zolfo, pensò. La prese in mano, soppesandola, memorizzandone la consistenza, l’odore e la forma.
Ma non era ancora soddisfatto.
A ciò, fece vagare ancora lo sguardo, fin quando le iridi blu non si posarono su un metallo più luminoso degli altri.
Argento, disposto esattamente vicino all’oro, ma quest’ultimo non venne minimamente guardato dal bambino.
Prese anche la pietruzza d’argento e si diresse verso la cucina, dove aveva poggiato la ciotola con l’intruglio.
Si avvicinò al camino acceso, solo dopo aver recuperato la lunga pinza che suo padre adoperava per maneggiare i metalli e le pietre senza toccarle, e la usò per disporvi la pepita di zolfo nell’estremità.
Dopo di che, infilò la pietruzza ben stretta dalla pinza in mezzo alle fiamme del camino, attendendo, cominciando ad utilizzare un panno per reggere il manico dell’utensile quando questo iniziò a scottare troppo.
Quando sentì un odore penetrante e quasi intossicante provenire dal fuoco, Blake estrasse la pietruzza e constatò che stesse gocciolando; la avvicinò alla ciotola e fece cadere qualche goccia di zolfo sul composto, cominciando a tossire nel momento in cui inalò il fumo che quella pietra semiliquefatta rilasciava. Durante il procedimento si scottò le mani diverse volte, una delle quali fu molto più dolorosa delle altre, tanto che la bruciatura gli ferì il palmo.
Un rivolo di sangue colò dalla lesione e cadde sul pavimento, mentre il bambino tratteneva il fiato e stringeva i denti per non emettere versi di dolore.
Terminato con lo zolfo, afferrò la pepita d’argento e cominciò a graffarne la superficie con uno dei lunghi coltelli che sua madre usava per tagliare la carne.
Quando aggiunse anche abbastanza scagliette di argento nel miscuglio, seguendo le proporzioni degli altri ingredienti, mischiò nuovamente il tutto e versò altra acqua bollente.
In conclusione, raggiunse Myriam in camera e salì sul letto, trovandola ancora sdraiata e ripiegata su se stessa, sudata e tremante.
- Tieni, ti ho preparato una cosa – le disse porgendole la ciotolina fumante.
- Che cos’è? – gli domandò in un sibilo la ragazza allungando le mani per prenderla.
- Non lo so – rispose sinceramente il bambino.
Myriam accennò un sorriso dolorante con le deboli forze che aveva in corpo. – Hai scelto tu tutti gli ingredienti?
Blake annuì incerto.
- Vuoi avvelenarmi …? – ironizzò la ragazza, per poi avvicinare il naso per sentirne l’odore e tossicchiare non appena quel vapore le invase le narici.
Blake si chiese dove la trovasse la forza e la voglia di scherzare in quelle condizioni. – Spero di no.
A ciò, Myriam bevve un sorso del miscuglio, e, nel momento in cui deglutì, il crocefisso appeso al contrario nella parete del salotto precipitò a terra, attirando la loro attenzione.  
- Blake, hai ringraziato il Signore prima di farmi bere l’intruglio? – gli chiese subito Myriam distogliendo lo sguardo dal crocefisso e tornando a guardare il bambino.
- No, perché non è un intruglio magico. Non ho pronunciato nessun incantesimo.
- Oh, Blake, non serve sempre pronunciare una formula per fare in modo che la magia faccia il suo corso.
- Ma non ho usato la magia – insistette il bambino.
- Il tuo “rimedio” sta funzionando, ometto – lo informò Myriam mentre i lineamenti del suo volto si distendevano e riusciva a mettersi seduta.
- Senti meno dolore?
- Sì, sento meno dolore. Ed è merito tuo – gli disse sorridendogli e stringendogli la mano per ringraziarlo. - Mi chiedo come tu abbia fatto a fare tutto da solo, Even.
Il bambino le sorrise e le si sdraiò di fianco, sentendola più rilassata.
- Le prossime volte dovrai sempre ringraziare il Signore, anche quando credi che non ve ne sia bisogno. Devi sempre farlo – si raccomandò lievemente allarmata Myriam, dando per scontato che vi sarebbero state delle prossime volte.
L’idea di Blake rimase la stessa, sapeva di non aver fatto nulla di paranormale, dunque non sentiva alcun senso di colpa, ma decise di non risponderle, poiché percepiva della preoccupazione nella voce di Myriam.
- Oh, piccolo mio, non puoi avere tutto quello che vuoi solo con la tua determinazione, la tua bellezza o la tua intelligenza.
Non funziona in questo modo, te l’ho detto.
Tu vuoi il cielo e la terra senza cedere nulla di te.
Vuoi mutare la natura senza pagare alcun prezzo.
Prima o poi dovrai cedere qualcosa.
A quelle parole, Blake comprese che la sua balia ritenesse ciò che lui aveva appena fatto come qualcosa di pericoloso e vietato dalla legge.
- Lo dirai a qualcuno? – le domandò con tranquillità, dopo qualche secondo.
- Mai, Even, mai.
Sarà il nostro piccolo segreto – gli garantì ella baciandogli i folti capelli spettinati.
Blake si accoccolò meglio accanto a Myriam, addormentandosi.
Quando si svegliò circa un’ora dopo, sfuggì con delicatezza all’abbraccio della ragazza ancora appisolata e prese a camminare sul pavimento freddo a piedi nudi, dirigendosi nel salotto.
Si avvicinò al punto in cui la cima della croce del crocefisso si era schiantata e notò che l’impatto avesse formato uno spacco sul legno sottostante.
 
Alma Heloisa, sin da quando era bambina, si era sentita dire da sua madre che avrebbe affrontato tutto, che ogni cosa sarebbe stata sopportabile.
Era un concetto che si era ripetuta nella mente con una frequenza asfissiante anche da ragazza, quando si era fidanzata e sposata, e da adulta, ora che era madre a sua volta di un figlio e che ne portava un altro in grembo.
Se lo era ripetuto tutte le volte che aveva visto donne e uomini bruciare sopra quel palco in mezzo alla piazza.
Se lo era ripetuto quando i servitori del Creatore la guardavano e lei credeva che la osservassero perché la credessero una strega, e abbassava gli occhi, nonostante dentro di sé sapeva che fosse il suo bell’aspetto ad attirare quegli sguardi.
Se lo era ripetuto quando aveva avuto modo di incontrare degli stregoni che utilizzavano il potere donatogli dal Signore per i più svariati scopi.
Anche in quel caso, aveva abbassato gli occhi, come faceva sempre, e se ne era scappata via, come se la sola vicinanza di quelle persone potesse contaminarla e farla associare a loro.
Il fardello del suo credo le pesava sulle spalle come un macigno, nonostante lei amasse il suo Signore.
La sua condotta era una delle più impeccabili tra gli abitanti del villaggio, ligia, severa, composta, timorata, fedele.
Ma più passava il tempo, più sentiva che ripetersi quel concetto nella mente come un mantra non avesse più alcun senso, poiché, nonostante pregasse almeno cinque ore al giorno, nulla era sopportabile come sua madre le aveva fatto credere.
Se fosse nata serva del Creatore sarebbe stato tutto più facile, ne era sempre stata certa.
Nessuno l’avrebbe guardata come temeva di venire guardata, sarebbe passata inosservata, e ciò andava bene, perché a lei non importava nulla dell’aspetto fisico.
Per qualche motivo si sentiva fuori posto, sempre fuori posto dinnanzi ai servi del Creatore, come colpevole, nonostante non avesse mai fatto nulla di male.
Per questo Alma Heloisa non alzava quasi mai lo sguardo.
Tuttavia, quella mattina, non riuscì proprio a fare a meno di alzare gli occhi quando si trovò di fronte ad uno spettacolo tanto agghiacciante.
Il piccolo Blake era rimasto a casa con la balia, mentre Rolland si era ritirato prima dalla cattedrale per andare a lavorare nella galleria, dunque era sola.
Trascorreva ogni giorno molto tempo a pregare da sola nella cattedrale semivuota, ciò non le creava alcun disturbo, anzi, la rilassava.
Quella mattina, mentre era inginocchiata dinnanzi all’altare sopra il quale era esposto il crocefisso capovolto, con le mani congiunte e gli occhi chiusi, venne lievemente distratta da un flebile rumore di scarpette che camminavano nel marmo del pavimento, a intermittenza.
Heloisa aprì un occhio e notò una splendida bambina dai capelli rossi aggirarsi per l’altare, intenta ad accendere le candele di tutti i candelabri con cura, facendo meno rumore possibile.
A ciò, la donna accennò un sorriso involontario, riaprendo entrambi gli occhi.
- Vi ho disturbata, signora?
Sono desolata, farò più piano – si scusò la bambina, che all’incirca doveva avere la stessa età del suo Blake.
- No, non fa niente – la rassicurò Heloisa dolcemente. – Vivi qui? – le domandò poi.
- Sì, signora.
- Da quanto? Non mi pare di averti vista spesso oltre l’orario di preghiera.
- Solo da qualche settimana, signora – si limitò a rispondere la piccola.
- I monaci sono buoni con te? – le chiese poi, giusto per fare un po’ di conversazione.
A ciò, la bambina si irrigidì un po’ e guardò altrove prima di risponderle, ma Heloisa non vi fece molto caso. - Sì, mi trattano bene.
- Bene – rispose sorridente la giovane donna. – Come ti chiami?
- Arley Judith. E voi?
- Alma Heloisa. Allora, buona continuazione, Judith.
- Anche a voi – rispose cordialmente la piccola, perseguendo nel suo compito di accendere le candele.
Terminato di pregare, Heloisa si alzò in piedi, si fece l’abituale segno della croce al contrario e scese le due scalinate che la dividevano dal corridoio dell’entrata della cattedrale deserta.
Si rese conto che oramai era quasi passato l’orario di pranzo, il sole era alto in cielo, e si rimproverò mentalmente per essersi trattenuta più del dovuto, e aver fatto attendere Blake per il pranzo, facendolo rimanere più tempo con quella balia che non le piaceva per niente.
Con quel pensiero in mente, si affrettò a raggiungere l’uscita della cattedrale per fare ritorno a casa, ma, prima di mettere piede fuori dall’edificio, venne attirata da degli strani sussurri, come ovattati e sconnessi, alternati a sospiri.
A ciò, decise di rimanere qualche minuto in più per controllare da dove provenissero quei suoni indefiniti, per assicurarsi che nessuno si fosse sentito male e avesse bisogno di soccorso.
Seguì l’origine di quei sussurri e sospiri, giungendo ad una porta socchiusa accanto alla scalinata che avrebbe condotto alla parte alta e privata della cattedrale.
Posò le dita sulla superficie della porta, distanziandola piano, giusto l’indispensabile per vedere chi vi fosse all’interno e cosa stesse facendo.
Ciò che si trovò di fronte agli occhi la fece pietrificare sul posto, togliendole la capacità e la forza di respirare.
In quella stanzetta semibuia, poiché priva di finestre e illuminata solo dalla luce di una candela, vi era uno dei monaci, un uomo di mezza età, accovacciato dinnanzi ad un bambino.
Heloisa lo riconobbe come uno dei bambini che aveva visto quella mattina durante la funzione, accompagnato da sua madre, la quale doveva essersene andata in anticipo.
L’uomo era letteralmente quasi addosso al piccolo, gli sussurrava delle frasi sconnesse all’orecchio con il naso immerso nei suoi capelli, e aveva le luride mani infilate sotto la sua maglietta, all’altezza dei fianchi, che si spostavano su e giù lentamente sulla sua pelle nuda.
Il bambino era immobile, si lasciava toccare e maneggiare a piacimento, ma, fortunatamente, Heloisa non riuscì a vedere il suo volto, poiché le dava le spalle.
Ma, in compenso, riuscì ben a scorgere il viso compiaciuto e in estasi del monaco.
Un violento voltastomaco le fece sentire un sapore acidulo in bocca, ma, per quanto desiderasse muoversi, le sue gambe tremavano e sembravano non voler obbedire ai suoi comandi.
Tuttavia, quando il monaco strattonò il piccolo e gli invase la bocca con la sua, quasi divorandola, Heloisa ritrovò tutta l’energia e il coraggio perduti, spalancando violentemente la porta dello stanzino, facendo entrare la luce e saltare in aria il monaco per lo spavento.
- Che cosa state facendo, padre …? – gli domandò in un sibilo nervoso e sul punto di esplodere.
A ciò, il monaco la guardò con i suoi occhi stralunati e un ripugnante rivolo di saliva accanto alla bocca.
- Signora, cosa ci fate voi ancora qui …? – le chiese balbettando, mentre il bambino si voltava verso di lei, rivelandole il suo bel volto spaventosamente incolore, quasi ceruleo.
Al solo guardarlo, il cuore di Heloisa si spaccò a metà, e la spinse a raggiungerlo immediatamente, prendendogli la mano e trascinandolo accanto a sé, allontanandolo dall’uomo.
- Io ho un figlio dell’età di questo bambino, padre.
Ho un figlio anche io!
Perciò ora ditemi immediatamente che cosa stavate facendo e se lo avete fatto ad altri prima di lui!
Pretendo delle spiegazioni, nel nome di Dio!
- No, signora, giuro sul nostro Signore che questo è il primo e l’ultimo! – urlò il monaco congiungendo le mani a preghiera, abbassando lo sguardo contrito.
Heloisa lo fissò sconcertata e profondamente disgustata.
- Voi servite il Signore.
Servite il nostro Signore attivamente, siete un suo messaggero.
Come … come avete potuto macchiarvi di tale sacrilegio …?
- Vi prego.
Vi prego appellandomi alla misericordia di Dio, augurandomi che anche voi possiate essere disposta al perdono quanto lui.
Vi prego di non farne parola con nessuno e io manterrò la promessa.
Vostro figlio e nessuno di tutti questi bambini è in pericolo.
- Allora cos’è stato quello che ho visto …?
- Un momento di debolezza che non si ripeterà.
Vi supplico.
Heloisa continuò a guardarlo, sentendo le lacrime pungerle gli occhi nel momento in cui realizzò qualcosa.
- Prima …
Prima, accanto all’altare, ho visto una bambina, una bambina che ha detto di vivere qui con voi – disse percependo ogni parola come una valanga nel suo petto. – Avete toccato anche lei … ? Avete toccato anche lei come facevate con lui …?
- No, assolutamente no.
- Sarà meglio che sia così.
Sarà meglio … - sussurrò Heloisa sentendo le gambe cederle quasi.
- Dunque, ho la vostra parola? – le domandò conferma il monaco.
Dopo una pausa interminabile, Heloisa chiuse gli occhi e annuì.
- Grazie, infinite grazie, figliola – le disse l’uomo quasi volatilizzandosi dinnanzi ai suoi occhi.
A ciò, dopo essersi riservata altri abbondanti minuti per riprendersi, Heloisa abbassò il viso per guardare il piccolo rimasto accanto a lei, ancora con la manina stretta alla propria e lo sguardo fisso dinnanzi a sé.
Si accovacciò per essere alla sua altezza e lo guardò in volto. – Stai bene? – trovò il coraggio di domandargli.
Il bambino si girò verso di lei, fissando gli occhi nei suoi, azione che fu deleteria per Heloisa, poiché, improvvisamente, nella sua mente, gli occhi verdi del bambino divennero di un blu acceso come quelli di Blake, e i suoi capelli neri si schiarirono assumendo anch’essi il colore di quelli di suo figlio, così come il restante dei suoi lineamenti e delle sue forme.
Heloisa sbatté le palpebre e abbassò lo sguardo, scossa, instabile.
Sapeva di aver appena commesso un peccato.
Il primo peccato della sua vita.
 
A distanza di dieci anni, la sua mente ritornò a quella maledetta mattina.
L’aria era tesa come sempre, come ogni volta che si ritrovavano soli in casa come in quel momento.
Heloisa non sapeva come fossero arrivati a quel punto.
Fece virare gli occhi fugacemente verso il suo primogenito, il quale la affiancava in cucina nella preparazione della cena, mentre padre Craig era seduto sul tavolino del salotto a scrivere.
Blake non le prestava la minima attenzione, se ne stava in silenzio a tagliare il pane, a far aumentare quella non troppo sottile linea di tensione nell’aria che vi era tra loro, apparentemente incurante.
Ma Heloisa sapeva. Sapeva quanto avesse voglia di litigare, perché ne aveva anche lei.
Non seppe quando la provò la prima volta, quell’ingente necessità di scannarsi con lui, ma, da che ricordasse, non vi era stato un momento nella sua vita che aveva trascorso in completa pace e serenità in compagnia di suo figlio.
Con Ioan era tutto diverso, perché era molto più simile a lei, era dolce, paziente, il ritratto della tranquillità e dell’obbedienza.
Ioan sapeva stare al suo posto, non faceva domande, non spariva dinnanzi ai suoi occhi, non la ignorava, né la attaccava, ma ascoltava tutto ciò che ella gli diceva senza battere ciglio.
Blake, invece, era l’esatto opposto del fratello, così come era il suo esatto opposto.
Forse era per questo che non erano mai riusciti ad andare d’accordo, in sedici anni.
Blake era irruento, Blake era testardo, Blake era determinato, Blake era cinico, irritante, sarcastico, troppo sveglio, troppo combattivo.
Al contrario di ciò che aveva sempre fatto lei, Blake non abbassava mai lo sguardo.
Lui teneva gli occhi fissi davanti a sé, costringendo chiunque gli fosse davanti ad abbassarli prima di lui.
Eppure Blake e Ioan erano una cosa sola, per quanto legati.
Eppure, più lo guardava, più somiglianze fisiche trovava tra lui e se stessa, come quei capelli scuri che gli si schiarivano al minimo contatto col sole, la pelle chiara e gli zigomi alti.
C’era qualcosa di sbagliato tra loro, qualcosa di rotto, un pezzo che era sempre stato rotto.
Un figlio non si può odiare, ma solo amare più di qualsiasi altra cosa.
Questo lo sapeva bene perché era quello che aveva sempre fatto.
- Rimarrai a cena? – gli domandò con la massima calma.
Il ragazzo si portò un pezzo di pane alla bocca, mangiandolo, prima di risponderle.
- Devo andare alla galleria.
- Dunque è un no?
Blake si voltò a guardarla, rimanendo in silenzio per qualche secondo. – Tu che dici?
- È la seconda volta che mi lasci a cenare da sola con padre Craig.
- Ti crea tanti problemi la cosa? Non sei tu quella che passa metà giornata a pregare in monastero? Non dovresti sentirti perfettamente a tuo agio con i preti?
Nonostante il suo tono di voce non fosse provocatorio, Heloisa non poté fare a meno di percepire un moto di nervosismo invaderle lo stomaco, associando quella frase al ricordo riaffiorato di quella mattina di dieci anni prima.
- Non puoi proprio fare a meno di litigare davanti al nostro ospite? – gli chiese in un filo di voce.
- Non sto litigando, madre. Tu vuoi litigare? – le rigirò la domanda come al suo solito.
- Sono stanca di litigare con te.
- Ma è tutto quello che riesci a fare con me, giusto? – le domandò avvicinandosele, questa volta più consapevole dell’effetto che le sue parole avrebbero provocato su di lei. – Lo senti? Quel languore che ti sale alla bocca dello stomaco quando resti troppo tempo senza discutere con me?
- Sei ingiusto.
- Cos’hai da dirmi oggi? Cosa ti turba, oltre al fatto che ti lascio sola a cenare con il nostro ospite?
- Non è appropriato che una donna sposata resti da sola a cenare con un …
- Ma fammi il favore – la interruppe tornando a concentrarsi sul pane.
- Blake, potresti ascoltarmi una buona volta?
- Ti sto ascoltando.
So che mi ritieni incapace di farlo, ma lo faccio sempre, in realtà.
Che poi non metta in pratica quello che mi chiedi, quello è un altro conto.
- Sei impossibile.
- Non preoccuparti, tra pochissimo non sarò più nel tuo campo visivo.
- Non è quello che vorrei.
- Che cosa vorresti, allora? Sono tutt’orecchie.
- Ti è stato affidato il compito di fare da guida al nostro ospite nel periodo della sua permanenza qui, e tu ti permetti di …
- L’ho portato in giro tutto il giorno.
Mi è stato detto di fargli da guida, come hai detto, non di fargli da balia ventiquattro ore su ventiquattro.
Né io né lui desideriamo così assiduamente e ardentemente la compagnia dell’altro.
- Cosa puoi saperne? Sei tu il suo punto di riferimento qui.
A ciò, Blake lasciò andare il coltello e si voltò a guardarla con un sorrisetto strafottente in volto, ponendo le braccia conserte.
- Vuoi andarglielo a chiedere, madre?
Vuoi andargli a chiedere se sarebbe così infastidito, turbato e perso se mi assentassi per un’ora o due?
Vuoi andargli anche a chiedere se preferisce che lo aiuti a vestirsi appena sveglio o ad imboccarlo mentre mangia, dato che ci sei?
Heloisa si portò le mani sul volto, strofinandolo e sospirando per la stanchezza. – È stata quella donna …? – gli domandò all’improvviso.
- Cosa …?
- È stata quella maledetta donna che ti accudiva da bambino a metterti contro di me?
Credeva di poterti fare da madre al mio posto, quella strega?
Ti ha messo tutte quelle idee in testa che …
- Stai uscendo di senno.
- Avresti preferito che fosse lei a crescerti.
Beh, se non fosse morta prematuramente, ora potresti andare a cercarla – sputò fuori quelle parole con una crudezza che non credeva di possedere.
Blake non rispose subito, probabilmente non riteneva che quell’affermazione meritasse la sua attenzione.
Tuttavia, quando Heloisa lo percepì muoversi nuovamente dalla sua posizione e allontanarsi da lei, non riuscì a reprimere l’istinto di voltarsi, bloccandosi poco prima di richiamarlo a sè, di fermarlo.
Lo vide prendere il suo mantello, infilarselo e voltarsi verso padre Craig, quest’ultimo palesemente imbarazzato.
Doveva aver udito tutta la loro litigata, pensò.
- Ve la lascio volentieri, padre.
Fate attenzione: è una bestia che morde.
Tuttavia, l’ho fatta già sfogare un bel po’, come avete avuto modo di vedere.
Vi auguro buona cena – gli disse, per poi avviarsi verso la porta ed uscire.
Calò il silenzio nella casa.
- Forse è meglio che vada anche io, Heloisa – annunciò il giovane prete dopo quella lunga e tesa calma.
- Padre, voglio che sappiate che non era mia intenzione offendervi o insinuare che non mi senta a mio agio in vostra compagnia …
- No, lo capisco benissimo, Heloisa. Convengo che non sia convenevole rimanere per più di una volta a cena soli, noi due. Immagino possiate sentirvi incomoda, non scusatevi – si affrettò a dirle padre Craig sforzandosi di sorriderle cordialmente mentre si alzava, infilava il suo blocchetto dentro la tasca della tunica e recuperava il suo mantello sull’appendiabiti.
- Dove avete intenzione di andare, padre? – gli  domandò la donna in tono colmo di senso di colpa. – Tra poco pioverà.
- Non preoccupatevi, Heloisa, andrò semplicemente a pregare nella cattedrale. Sarò di ritorno a breve.
Detto ciò, il giovane prete uscì dall’abitazione e si diresse verso il luogo menzionato con un caotico mucchio di pensieri in testa che non avevano alcuna intenzione di lasciarlo in pace.
Era a Bliaint solo da pochi giorni e già sentiva di essere sul punto di cedimento.
Tutto quel mistero, quelle leggende, quelle voci, quelle esecuzioni, quel sinistro fascino erano divenuti tanto intossicanti da fargli girare la testa.
Non aveva mai dubitato della propria fede a Dio, ed era certo che mai lo avrebbe fatto.
Tuttavia, si rendeva conto che quello fosse il luogo peggiore al mondo per un fedele servo e messaggero di Dio, poiché era il covo di ogni possibile tentazione presente su quella Terra peccatrice.
La cosa peggiore in tutto ciò, era che non sapeva neanche lui in cosa consistessero nello specifico quelle tentazioni che percepiva attrarlo da ogni direzione, e aveva il terrore di scoprirlo.
Finchè sarebbero rimaste solamente paure indefinite, sarebbero state facili da scacciare della mente.
Doveva pregare.
Aveva bisogno di pregare per allontanare Satana da lui, dato che viveva in una casa che lo ospitava stabilmente, il Diavolo.
Non appena arrivò alla cattedrale, entrò senza neanche accorgersene, tanti erano i pensieri che gli  invadevano la testa.
Decise che si sarebbe confessato prima di pregare.
Tuttavia, non appena il giovane padre riprese contatto con la realtà, si accorse di udire degli strani rumori provenire dalla stanzetta confessionale.
La cattedrale era deserta e silenziosa, se non per quelle presenze nella cabina, le quali, credevano indubbiamente di essere sole.
Si avvicinò cautamente di qualche passo, per capire cosa stava avvenendo là dentro, ma quando vide i due, un ragazzo e una ragazza, uscire dalla cabina avvinghiati in una danza d’amore affiatata e passionale, si nascose immediatamente sotto una delle sedie presenti nel salone buio.
Ascoltò tutta la loro conversazione senza fiatare, sentendosi indubbiamente in colpa per esser testimone di una tale grave violazione alle sacre leggi di Bliaint, ma represse quel peso sul petto il più possibile, sperando con tutto il cuore che i due si dividessero a breve e se ne andassero, dandogli la possibilità di uscire di lì.
Soprattutto, ciò che sperava maggiormente, era che non portassero a termine il rapporto sessuale, ma, da come aveva inteso, non avevano intenzione di andare fino in fondo, spingendosi tanto in là, per sua grande fortuna.
Quando finalmente il servo del Creatore salutò la sua amata, uscendo dalla cattedrale, padre Craig si alzò, rivelando la sua figura alla ragazza, serva del Diavolo.
Ella sgranò i grandi occhi di carbone non appena si accorse di lui, capendo che avesse visto e udito tutto.
Nonostante ciò, mantenne la massima calma, rivolgendogli parola. – Siete qui per confessarvi, signore?
- Sì, signorina.
- Venite dentro – gli disse entrando per prima nella parte della cabina riservata al confessore.
A ciò, padre Craig non se lo lasciò ripetere, affrettandosi ad entrare nella porzione della stanzetta lasciata libera.
- Dunque siete voi che vi occupate delle confessioni? – le domandò spontaneamente, guardandola attraverso la spessa rete.
- Potete chiamarmi Judith, signore. Sì, me ne occupo io quando i monaci non possono farlo.
Immagino sappiate anche il perché, dato che avete ascoltato tutto ciò che io e il mio amante ci siamo detti poco fa – gli disse in tutta tranquillità.
- Oh, mi scuso enormemente, signorina Judith, non era assolutamente mia intenzione.
È stata una totale casualità.
Io sono padre Craig, provengo da un altro villaggio, sono solo in visita qui.
- Dunque siete anche voi un ecclesiastico.
Cosa vi porta qui, padre?
- Questioni pratiche, affari.
Tuttavia … questo luogo mi sta dando alla testa – le confessò.
- Per quale motivo?
- Non lo so bene neanche io.
So solo che sento di  dover chiedere perdono.
Non so per cosa, ma sento di doverlo fare.
Judith sorrise, come intenerita.
- Conoscete la differente versione di come sia andata quel giorno, il giorno del peccato originale? – gli  domandò.
- No, non la conosco – rispose il prete.
- Alcuni dicono che quando il Creatore creò il primo uomo e la prima donna, non vietò loro nulla.
Potevano fare tutto ciò che volevano nell’Eden.
Tuttavia, proprio a causa di questa assoluta libertà, loro cominciarono a non sentirsi in pace con loro stessi.
Sentivano ci fosse qualcosa di sbagliato.
Il loro corpo, la loro natura terrena, suggeriva qualcosa di diverso, rispetto a ciò che aveva detto loro il Creatore.
Era come se la loro carne li  spingesse a porsi dei limiti, dei limiti che rappresentavano automaticamente delle tentazioni alle quali resistere.
Fu così che Adamo ed Eva crearono l’Albero del Bene e del Male.
Fu un totale prodotto della loro mente, nient’altro.
Si convinsero che, nell’Eden, esistesse quell’unico albero che non potevano toccare, né guardare, pena la punizione eterna.
Poi, accadde ciò che accadde.
Eva, la più curiosa, la più ribelle tra i due, si avvicinò all’albero.
A tal punto, per non cedere spontaneamente al peccato e giustificare le sue azioni alla propria coscienza, la mente di Eva creò il Diavolo tentatore.
Secondo questa versione, il Demonio non esisteva prima di allora.
Fu la prima donna a crearlo, a immaginarlo parlarle e persuaderla a mangiare il frutto, violando il comando del Creatore che gli stessi Adamo ed Eva si erano imposti.
In tal modo, le paure, il terrore e i sensi di colpa dei due furono talmente trascinanti, potenti, insopportabili, da divenire reali.
Il Diavolo prese davvero consistenza, divenendo una vera e propria entità.
Una minaccia reale.
Una tentazione materializzata, per quanto forte e vivida.
Secondo tale versione, il peccato non è mai esistito davvero, padre.
Siamo noi ad esserci resi peccatori.
Al termine del racconto di Judith, il giovane prete ammutolì.
- Anche voi state immaginando una tentazione che non esiste, padre? – riprese la ragazza. – Lo state facendo per trovare una giustificazione al senso di colpa che vi affligge?
Lo state facendo per trovare un colpevole che possa salvare la vostra purezza d’animo?
Forse questo colpevole ha anche un volto e un nome?
Padre Craig deglutì, cercando di  riacquisire la calma. – Non avevo mai sentito questa versione.
- Ora la conoscete – rispose ella osservandolo per un lungo istante di silenzio glaciale. – Volete denunciarci alle autorità, padre?
- Cosa…?
- Volete denunciare me e Van Naren per la nostra relazione proibita? – ripeté concisamente.
- No, Judith. Non ho alcuna intenzione di farvi rischiare il rogo per tale motivo. Non lo farò. Manterrò il segreto.
- Cosa volete in cambio, per il vostro silenzio?
- Nulla.
Judith affilò lo sguardo, non del tutto convinta. – Non volete nulla in cambio?
- Sono un uomo di Dio, Judith, non sono solito fare ricatti – le rispose accennandole un sorriso amaro e rassicurante, per quanto possibile.
- Allora, permettetemi di aiutarvi con il vostro problema. Almeno saremo pari.
- Il mio problema?
- Il vostro senso di colpa, le vostre tentazioni. Ditemi se c’è qualcosa che posso fare.
Il giovane prete vi pensò un po’ su. – Posso prenderlo come un semplice favore?
Judith gli sorrise in risposta, annuendo riconoscente.
- Beh, dovete sapere che sono ospite a casa di una famiglia serva del Diavolo. La famiglia Rolland. Sono i proprietari della galleria di Bliaint. Li conoscete?
- In questo villaggio ci conosciamo tutti di vista, padre. Probabilmente li ho visti e, forse, ho scambiato qualche parola con qualcuno di loro durante i momenti di preghiera.
- Il loro primogenito mi sta facendo da guida, istruendomi sul villaggio.
Non che non mi fidi di lui, ma  … - si bloccò, cercando di trovare le parole giuste.
- Cosa, padre?
- Percepisco come se vi sia qualcosa che non va in lui, qualcosa che mi sta tenendo nascosta.
- Non è obbligato a dirvi tutto ciò che lo riguarda strettamente, padre.
- Sì, lo so bene, ma sento come se vi sia dell’altro.
Non so spiegarvelo, Judith.
Mi ha anche detto di esser riuscito a penetrare nella biblioteca della cattedrale nonostante sia chiusa al pubblico.
- Deve essere sicuramente la biblioteca dell’altra cattedrale. Questa qui la sorveglio io, trascorro quasi ogni giorno a leggere e a catalogare materiale. Non è mai entrato nessuno di esterno, ne sono certa.
- Allora deve trattarsi della biblioteca della cattedrale dei servi del Diavolo, come avete detto. Difatti, avrebbe molto più senso.
- Dunque, cosa volete che faccia, padre?
- Solamente, se avrete modo di vederlo, di scambiare delle parole con lui, di avvicinarlo, tenetelo d’occhio.
Cercate di scoprire qualcosa in più su di lui, se ne siete in grado.
Ha la vostra età, non dovrebbe essere difficile trovare una scusa per parlargli – le disse guardandola, realizzando nuovamente quanto i sedicenni di quel villaggio sembrassero più grandi e maturi rispetto agli altri che aveva conosciuto, fuori da Bliaint.
- Qual è il suo nome? – gli domandò la ragazza.
- Blake.
- Beh, almeno siamo riusciti a dare un nome al vostro serpente, padre – concluse ella sorridendogli complice. - Ora abbiamo un patto. Ovviamente, nulla di troppo vincolante – aggiunse. - Tuttavia, fate attenzione, padre: se non volete che Blake diventi reale, cercate di non concentrarvi troppo su di lui.
 
 
 
 
 
   
 
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