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Autore: Slits    08/08/2009    2 recensioni
Alzò lo sguardo incontrando il viso rilassato del proprio sfidante.
« Le tue spade sono già sguainate. »
« Mi sono sempre chiesto che sapore avesse il sangue di un traditore… » le labbra del biondo si spezzarono in un ghigno insolitamente compiaciuto prima di aprirsi e parlare ancora una volta. Persino l’aria sembrò incrinarsi al suono di quelle ultime parole.
« Puro veleno. Ti andrebbe di morire nel tentativo di spillarne una goccia, spadaccino? »
Persino lei non riuscì a non inchinarsi al richiamo dell’imminente battaglia.

In un mondo in cui l'unico modo per sopraffare l'avversario è usare l'inganno, il Governo avrà a disposizione una nuova arma.
Un mugiwara muore. Dalle sue ceneri nasce la vera minaccia.
[Sanji/Nami; Franky/Robin]
[OOC; !Angst]
Genere: Azione, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nami, Sanji
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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27. Life is just a game
________

I suoi passi erano fermi, le falcate ampie.
Continuava a camminare nonostante il coprifuoco fosse scoccato già da alcuni minuti e la base, immersa in un insolito silenzio, non fosse illuminata che da pochi faretti strategici. Di tanto in tanto un ronzio più forte degli altri lo costringeva a fermarsi ed aguzzare l’udito, in allerta.
Era convinto che da un momento all’altro qualcosa avesse potuto sfiorare la sua spalla ed obbligarlo ad arrestare la propria marcia. Forse la mano fredda di uno spirito suicida.
Ma no, era solo intonaco caduto e polvere, come sempre.
Si fermò e forse per la prima volta si impose di prestare attenzione a ciò che aveva intorno. I suoi occhi si alzarono, in parte indispettiti, verso l’ampia volta che faceva da tetto all’insolita arena. I suoi contorni erano sporchi, le pietre sgretolate.
Ogni cosa di quel luogo stava cadendo lentamente in pezzi, segno, si riscoprì a pensare Trevor, che persino l’insondabile giustizia assoluta così a lungo proclamata fra le costrizioni di quei luoghi prima o poi sarebbe stata destinata a finire ribaltata. Sbriciolata come una di quelle tante pietre adesso traboccanti di acqua ristagnante e maleodorante.
Le tubature scoperte correvano lungo l’intero fascio di travi al di sopra di quel cunicolo, intersecandosi per metri e metri di gallerie sconfinate. Un reticolo talmente complesso e profondo che persino un marine esperto come lui avrebbe fatto fatica a ricordare una volta fuori di lì.
Gettò la sigaretta, suo unico faro nell’oscurità di quelle grotte, a terra e la spense con un colpo deciso di tacco. I lamenti continui portati in eco dal granito delle pareti furono il segno inequivocabile che era arrivato.
Un’ insolita fitta gli attraversò i lobi da parte a parte, costringendolo all’ennesima sosta forzata. Si fermò, più spazientito che realmente preoccupato, e si appoggiò ad una delle tante travi a sostegno della cupola.
Dal primo sintomo di insofferenza erano passati diversi giorni oramai e Trevor, con lo scorrere delle ore, era sempre più convinto che di normale in quelle vertigini non vi fosse che la semplice allusione. Oltre che una pura denominazione scientifica.
Un’altra parte di se, più recalcitrante e con decisamente meno voce in capitolo, gli aveva persino suggerito che la presenza di quei pirati fosse la possibile chiave di tutto. Non l’aveva mai ascoltata veramente, si ripetè convinto un’ultima volta, l’esser lì non era la prova che alla fine si fosse voluto arrendere a quel brusio interiore.
Era un marine, ed in quanto tale era suo preciso dovere custodire i prigionieri ed attentare quanto il più possibile alla loro incolumità. Il fatto che in una mano si fosse ritrovato a stringere una katana malamente intaccata e nell’altra poche fasce di bende, poi, non voleva di certo dire che fosse preoccupato per loro.
Ma cercava delle risposte, oh Dio se le poteva cercare, e quella feccia rappresentava il solo appiglio a cui avrebbe potuto aggrapparsi pur di non scivolare e cadere un’altra volta. Il suo corpo non avrebbe sopportato ancora a lungo i segni di quei continui passi malfermi.
Ed il dolore, su questo ci avrebbe scommesso sino all’ultimo, merdoso berry, non era che un semplice segnale chiamato a marcare quella linea di confine che per troppe volte, troppo a lungo era riuscito ad oltrepassare. Raggiunto il suo climax sarebbe scemato poco a poco, lasciando spazio infine al nulla.
Ricordava ancora delle dicerie che Hige si era riproposto di raccontargli durante i primi giorni d’addestramento, pronto a tutto pur di non lasciarlo andare. Non vi aveva mai prestato davvero attenzione, un po’ come a quella voce dentro di se, eppure qualcosa, pur non ascoltando veramente, il suo udito era riuscito a captarla.
I pensieri l’avevano prontamente accantonata, ritenendola un peso persino inutile da sopportare e trascinare, ma qualcosa dentro di se gli aveva imposto di metterla da parte ed attendere, in attesa di giorni migliori in cui poterla riportare alla luce. Ed adesso quei sintomi, quella situazione e persino quello stesso dolore sembravano esser stati sufficienti a scorgerla fra la polvere e liberare una volta per tutte.
Scosse la testa e si riportò in piedi, decidendo che per quel giorno ne aveva sprecato sin troppo di tempo per autocommiserarsi. Farlo non avrebbe portato via tutto quel dolore del resto, né tantomeno gli avrebbe dato una mano a scaricarne un po’ nel vano tentativo di tornare a respirare aria pura.
Era saturo e niente avrebbe più potuto cambiare la realtà dei fatti.
Ignorò l’ennesimo crampo, dato quasi come un avvertimento sentenzioso da parte del proprio organismo, e con un movimento bilanciato del polso spalancò l’entrata della cella. Il momento era finalmente arrivato.
L’aria all’interno della stanza era gravida di odori, maleodorante. Il pavimento, di granito come il soffitto e le pareti di sostegno, faceva vanto dell’incuria con cui i carcerieri sembravano quasi provare un voluttuoso piacere nel volerlo lasciare.
Appese agli spigoli in pietra, in bella vista poco al di sotto delle finestre minuscole chiamate a portar luce lì dentro, facevano bella mostra catene e manette dei più svariati generi.
Trevor si meravigliò, o per meglio voler dire, tentò di simulare un’espressione meravigliata, quando scoprì che ad esserne occupate erano semplicemente due. Le altre, rilucenti sinistramente ai primi bagliori del mattino, si limitavano a penzolare distratte, oscillando quando a destra e quando a sinistra.
A stabilirne l’esatto momento vi era ciò che ad un primo sguardo, l’attento marine,  non esitò a scambiare per un cadavere in avanzato stato di putrefazione. Si fece forte della propria convinzione anche quando gli occhi di quel ragazzo si spalancarono e rimasero a fissarlo a lungo, privi di espressione.
Tutto ciò che sembrava tenerli ancora in vita, che aiutava quella flebile speranza a non spegnersi del tutto e bruciarlo ancora, seppure con minore intensità, erano i tentativi di raggiungere l’ombra accasciata al suo fianco. Ed allora tendeva il busto, protendeva il corpo verso quella ragazza come se con questo gesto potesse riuscire, in qualche maniera, a sentire anche lui, dentro di se, il suo respiro.
Come se farlo gli avesse potuto dimostrare che ciò che da giorni stava tentando di sfiorare, logorando la carne contro la ruggine di quelle catene, non era un cadavere e che lui, quindi, non era stato un cattivo vice capitano. Ma per quanto si sforzasse, per quanto i suoi tendini potessero urlare di dolore e le ferite dilaniarsi, solo una volta era riuscito a sentire la sua schiena premere sulle dita. E gelarle quasi per quanto fosse fredda.
Trevor rimase immobile, ad osservare quanto la disperazione, il dolore e la sconfitta potessero portare un uomo in fondo. Fargli sfiorare le viscere della terra e catapultarlo ancora più giù, fra le crepe del proprio animo.
Si chiese se anche lui, se anche quelle cicatrici che in bella mostra alleggerivano i suoi polsi, fossero passati attraverso tutto questo in un passato non troppo lontano. La risposta, il suo eco, furono troppo assordanti per poter essere anche solo ascoltate.
Si limitò ad accantonarle e tornare con lo sguardo a quel ragazzo.
Un ringhio profondo, più vicino al ruggito di un maschio dominante che al respiro di un essere umano, lo mise in guardia quando le sue mani si avvicinarono troppo alla pelle di quella sconosciuta. Le ritrasse e sorridendo comprensivo decise che dedicarsi prima a lui sarebbe stato, senza alcun alone di dubbio, la cosa più prudente.
- Non ti muovere. – più che un ordine, la sua risuonò come un’insolita supplica.
La pelle del ragazzo sussultò quando le sue mani sfiorarono il primo dei due legacci che lo tenevano in costante simbiosi con il granito della cella. Cadde con un primo strato di croste, lasciando spazio ad una carne viva ed insolitamente bluastra per credere di esser destinata a non seccarsi al primo movimento di torsione.
Trattenne stoicamente un gemito, decidendo ancora una volta di imporsi un limite che difficilmente avrebbe superato.
- Per… perché…? – le sue labbra secche, impastate dal sangue e dalle ferite, resero quella domanda un legittimo sussurro. Trevor dovette valutare a lungo la frequenza di quel sospiro, scandirne le pause poco alla volta prima di riuscire a capire cosa gli avesse chiesto realmente. Lasciò cadere il braccio sinistro a terra, senza curarsi particolarmente della forza con cui l’arto sfiorò infine il suolo e si limitò a rispondere :
- Le mani sono il bene più prezioso per uno spadaccino. Non ci si può permettere di insozzarle con stupide ferite. –  assaporò piano quelle parole, passandosele sulla lingua come un sapore già sentito ed accantonato da tempo. Zoro sbarrò gli occhi.
- E la katana è la sua anima, un estraneo non la deve sfiorare neanche con un dito. Se oggi te l’ho portata è semplicemente perché credo che sia giusto che a custodirla sia il suo proprietario, anche se feccia.
Anche se meriterebbe di morire. –
L’ultima frase venne pronunciata come se fosse intrisa di puro veleno.
Dovette trattenere il respiro ed ingoiare svariate volte pur di non vomitare, quando la sua attenzione tornò finalmente allo squarcio della ragazza. L’odore di carne in decomposizione, divenuto oramai insopportabile, si propagava lungo l’intera ferita. Il foro d’entrata era divenuto, in parte persino in merito alla continua tensione posta dalle catene, un taglio perpendicolare sulla pelle putrida della schiena e la solcava liberamente, percorrendola da destra a sinistra.
Si portò le mani alle labbra per trattenere un’imprecazione e si adoperò per estrarre per lo meno il proiettile. Senza la presenza di un corpo estraneo le probabilità che l’infezione continuasse a propagarsi sarebbero davvero state ridotte al minimo.
- Non è morta, non ancora almeno. – una sua semplice riflessione diede voce ai pensiero dello spadaccino.
- Nessuno di voi lo è. –
- Come fai a saperlo? –
- Lo so e basta. – la mano di Zoro si strinse istintivamente lungo la mina della Wado.
Farlo lo riportò indietro nel tempo, a ricordi che oramai credeva di aver dimenticato per sempre.
Non era stato un preludio di battaglia il suo e questo oramai, ne conservava l’assoluta certezza, lo sapevano entrambi. Il loro era un gioco vecchio del resto, nato probabilmente insieme alla sua passione per il fumo e la propria devozione alle spade.
Si divertivano nell’arruffare il pelo, gonfiare le loro code perfette sino a renderle vaporose e soffiare semplice aria. Ma i denti non li avevano mai mostrati veramente e le unghie le avevano sempre tenute, quasi come con il terrore che potessero colpire persino per errore, in devota reclusione poco sotto i cuscinetti.
Come gatti si provocavano, studiavano ed annusavano.
Come amici e fratelli non sarebbero mai andati oltre questo.
- Chi siete veramente? -  le sue labbra si incresparono in ciò che in un altro luogo, tempo e pensiero qualcuno avrebbe amato definire un sorriso. Alla sua bocca secca ricordava invece tanto un’increspatura, uno spacco indifferente che lo attraversava da un lembo all’altro della pelle.
Non aveva mai dato molta importanza lui, a quello sbreco.  
- Siamo pirati. -  rispose semplicemente.
- Chi siete veramente? – ripose la stessa domanda, ma il suo tono parve esser in grado di frantumare persino la pietra. Zoro rimase immobile, perplesso, e con lo sguardo tornò a scrutare gli occhi languidi del biondo.
Quel chi sei? avrebbe voluto gridarglielo in faccia. Urlarlo talmente forte da rimanere senza voce e lasciarlo intontito sino al ritorno del suo capitano.
Avrebbe voluto prenderlo per le spalle e sbatterlo contro quella pietra sino a farlo rinsavire; tirare a forza le lacrime fuori dalla sua splendida maschera di creta. Spaccarne le incrinature a pugni, scavare nelle crepe sino a renderle fori maestosi.
Avrebbe voluto tante cose Zoro, troppe forse. Eppure tutto ciò che riuscì a fare fu dare una risposta scontata, talmente insulsa da ferire la sua stessa lingua prima ancora di vedere la luce di quel giorno.
- Siamo fratelli di madri diverse… - si limitò a dire - … e siamo venuti qui per riprenderci il maltolto. -
Vide Sanji sorridere beffardo e stringere distrattamente fra le braccia il corpo martoriato di Nami.
Qualcosa di familiare aveva solleticato le sue orecchie, penetrando talmente in fondo da aprire uno squarcio che sino a poco prima aveva creduto non esserci. Qualcosa che non aveva calcolato e mai si sarebbe potuto perdonare per aver fatto. Si accese una sigaretta e poggiando delicatamente il capo della navigatrice sul suo ventre, tornò con lo sguardo allo spadaccino.
- Sentimentalismi, sogni, vaneggiamenti… sembra quasi che vi abbiano fatto tutti con lo stesso stampo. Ma non cambiate mai repertorio? -
- E’ possibile cambiare qualcosa di profondo come una cicatrice? – questa volta toccò a lui sbarrare gli occhi stupito. Sfiorò con il palmo sinistro la propria gamba e sentì la risata beffarda di Zoro raggiungerlo subito dopo. Inutile, quel fottuto damerino non sarebbe mai cambiato.
Sempre a nascondere le proprie, di ferite. Esattamente come per quel dannato ciuffo.
Ci fu una pausa momentanea in cui entrambi si soffermarono ad osservare Nami che diceva qualcosa di incomprensibile nel sonno.
Trevor si limitò a stringerle la mano ed a sussurrare un appena vibrato – sono qui. –
- Sanji-kun… - ripetè un’ultima volta, ricambiando la stretta con la stessa forza di un bambino febbricitante. Sembrava quasi una bambolina di porcellana per quanto la malattia l’avesse ridotta allo stremo, fragile sino a creder di potere cadere in pezzi da un momento all’altro.
Si chiese se da un momento all’altro gli si potesse davvero sgretolare fra le braccia, spargendosi come polvere su quel pavimento lurido.

- Davvero non hai paura di niente, Sanji? –
- Certo che non ho paura, niente può spaventarmi. E tu? Tu di cosa hai paura, Nami? –
- Della morte. Perché quando arriva non la si può combattere… devi solo arrenderti ed aspettare che ti porti via… -


Oh si che aveva paura! La stava provando in quel preciso istante. Il suo corpo ne era pervaso in ogni sua parte. Forte, prepotente. Lo scuoteva talmente forte da lasciargli poi addosso una sensazione di vuoto troppo incolmabile.
La paura è un sentimento troppo grande per essere affrontato e in quel momento lo stava capendo chiaramente.
Ma doveva fare qualcosa.
La strinse ancor più a se,  quasi con il timore che potesse scomparirgli davvero fra le braccia.
- Sono qui. –  si stupì lui stesso di quanta delicatezza stesse usando.
Ma quella ragazza era quanto di più innocente quelle mura potessero anche soltanto sperare di custodire, non doveva morire. Nessuna donna lo avrebbe più dovuto fare fra le sue braccia.
Le sue mani non avrebbero più dovuto stringere nessun altro corpo gelido, impregnarsene dell’odore sino ad arrivare a spellarsi pur di toglierselo di dosso.
Mai, mai più.
- Perché le hai mentito? -  
Zoro volle aspettare che la compagna chiudesse gli occhi prima di porre quella domanda. Non era di certo sua intenzione ferirla quanto più quell’arena ed il governo avessero già fatto.
E se l’illusione di avere Sanji di nuovo con se l’avesse potuta far stare meglio, anche soltanto per trarre respiri più profondi, lui l’avrebbe accettata. Di annullarsi con questa non gliene sarebbe dovuto importare.
- Prego? –
- Tu non sei Sanji, sai di non esserlo. Perché le hai fatto credere il contrario? –
- Perché il ricordo di Gambanera è la sola cosa che ancora la tenga aggrappata alla realtà ed alla vita. Non voglio che muoia, lei non ha colpe qui dentro. – lo spadaccino lanciò uno sguardo indecifrabile alla compagna prima di tornare ad osservare il marine. Sebbene osservare con ogni probabilità non sarebbe stato il termine più esatto da usare.
Fissare, senza provare alcuna sensazione, sarebbe stato di certo quello che meglio gli si sarebbe potuto avvicinare.
- Nell’arena sembravi pensarla diversamente. -
- The show must go on. – rispose atono, prima di voltargli le spalle ed incamminarsi verso l’uscita.
- Il motivo per cui so con certezza che siete ancora tutti vivi, è legato ai cancelli di questo posto di merda. Sino a quando rimarranno chiusi allora nessuno di voi sarà veramente in pericolo. – il silenzio dello spadaccino lo convinse a dare ulterior spessore alla propria spiegazione circa il funzionamento dell’arena.
- E’ giusto credere, visto lo stato in cui le tue braccia sono ridotte, che tu non te ne sia neanche accorto… - fece una pausa ad effetto ed infine continuò - …ma legato al polso di ognuno di voi vi è un bracciale. Il suo compito è di registrare costantemente le vostre funzioni vitali e trasmetterle al database dell’Iris.
Se malauguratamente uno di voi dovesse come dire… spirare, le porte si aprirebbero all’istante e voi, o ciò che ne è rimasto, sareste liberi di andarvene. –
- Uno per tutti quindi... -  la voce dello spadaccino parve assumere per la prima volta un’espressione di puro disgusto. Trevor sorrise.
- Disgraziatamente il tutti per uno non sembrava esser incluso nell’offerta. –
Rimasero in silenzio a fissarsi per alcuni secondi. Poi Zoro parlò :
- Non c’è nessun’altra soluzione, vero? – l’ennesimo ghigno serafico increspò le labbra del marine, insolitamente compiaciuto.
- Non ti facevo così sveglio! I miei complimenti, Roronoa! Davvero! – si fermò il tempo necessario a spegner la paglia con il tacco e ruotare sulla gamba sufficientemente in fretta da non dare il pietoso spettacolo del proprio dolore.
Di certo non sarebbe stato il grado di sopportare la sua ennesima massima sul benessere dello spirito e l’annullamento del piacere fisico.
- No, non c’è altra soluzione.
Se volete davvero salvare questa ragazza la dovrete sottoporre alle migliori cure mediche, lontano da questo buco di fogna… -
- E per farlo al prossimo combattimento uno dei due sfidanti dovrà lasciarci la pelle. Facile. – si stupì nel sentire come la sua voce non conservasse neanche un pacato accenno di sarcasmo. Doveva essere davvero un ottimo vice capitano.
- Chi saranno i prossimi sfidanti? – chiese semplicemente.
Trevor si slacciò il polsino della camicia e fece sfoggio dello stesso bracciale che, seppur intriso di sangue e croste, spiccava insolitamente sulla pelle d’ebano dello spadaccino.
- Noi. – rispose con altrettanto velato divertimento.


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