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Autore: Adeia Di Elferas    16/04/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Non fosse stato per voi..!” stava ancora inveendo Yves d'Alégre mostrandosi scomposto come forse mai nessuno dei presenti l'aveva visto: “Tutta colpa vostra! Quando il re lo verrà a sapere..! Si trattava del più grande ingegnere d'artiglieria di Francia!”

“Se lo fosse stato, non si sarebbe lasciato trovare scoperto come un babbeo!” ribatté il Borja, fronteggiando il comandante francese a viso aperto, malgrado la sua voce tremasse appena.

“State ben attento a come parlate...” si intromise il Balì di Diogione, guardando il Valentino di sottinsu: “Vi devo forse ricordare io che un esercito, per vincere una guerra, deve avere i propri comandanti d'accordo e uniti?”

“Ricordatelo a loro!” sbottò Cesare, indicando l'Alégre e gli altri francesi che lo attorniavano come pescecani: “Mi accusano della morte di un soldato che si è fatto trovare scoperto!”

“Se voi non aveste voluto avvicinarvi..!” insinuò il Ligny, scuotendo platealmente il capo.

“Questo è troppo...” fece allora il figlio del papa, sollevando le mani e poi andando verso la scrivania che aveva fatto mettere proprio nel centro del salone dei Numai, in modo da poter usare quell'ambiente per stilare ordini e bandi: “Non ne intendo parlare mai più. Trovo, anzi, vergognoso che mi abbiate costretto a non continuare l'attacco dopo l'incidente. Domani si dovranno scaricare contro quella dannata rocca tutti i nostri migliori cannoni, e non intendo più ascoltare vostri consigli in merito. Piuttosto, prima che si iniziassero i tiri d'artiglieria vi ho sentiti discutere di alcuni problemi di ordine pubblico. Esigo che me ne parliate subito.”

A quel punto, il Balì di Digione spiegò in breve quanto stesse accadendo in città. Benché avesse usato parole molto semplici, arrivando subito al dunque, al Borja parve di non aver compreso appieno la questione.

“Mi state dicendo – chiese, parlando piano, accigliato – che volete che io emetta un ordine che impedisce ai forlivesi di comprare, per qualsiasi ragione, beni messi in vendita dai nostri soldati?”

“Sì.” annuì subito Saint-Just, scavalcando il Balì: “Si sono messi a vendere in piazza le cose che hanno rubato dalle case in cui sono stati alloggiati, e i forlivesi, che hanno bisogno, le comprano!”

“E quindi?” chiese il Duca di Valentinois, non riuscendo a capire dove fosse il problema: “Hanno preso con la forza dei beni e ci stanno guadagnando... Dovreste essere fieri dei vostri uomini, non chiedermi di punirli...”

Tra i comandanti francesi ci fu un breve momento di tensione. Fu Monsignor Sandé, alla fine, a decidere di dire a Cesare come stavano esattamente le cose.

“Molti di questi soldati – disse, un po' a mezza bocca – sono arruolati con condizione... Molti di loro vorrebbero guadagnare abbastanza, con questa guerra, per riscattare terreni e case che hanno perso nei modi più disparati. Altri ancora vorrebbero comprarsi la libertà, pagando il debito che hanno con la legge francese a suon di ducati e non di anni di carcere o di guerra...”

Il figlio del papa, per la seconda volta nel giro di pochi minuti, si trovò stupefatto dal modo in cui i suoi sottoposti ragionavano, tanto che esclamò: “E allora tanto di guadagnato! Un uomo che si ingegna per riaver le sue cose o per riottenere la libertà andrebbe solo premiato!”

“Vi sfugge una cosa fondamentale dell'esercito del re di Francia.” si intromise a quel pugno Yves d'Alégre, che ancora non era sbollito del tutto dalla sfuriata di poco prima: “Se si trattasse di un esercito di uomini che combattono su base volontaria, per compiacere il loro signore o, ancor di più, per la gloria del regno di Francia, state pur certo che non sareste partito con un seguito di oltre quindicimila uomini. Sareste stato fortunato se ne aveste trovati anche solo quindici.”

Improvvisamente il Borja capì, a fondo, ciò che i comandanti avevano provato a dirgli in modo velato. Se i soldati avessero trovato il modo o di affrancarsi dall'esercito, o di guadagnare a sufficienza da poter badare ai loro affari e tornare in patria, la loro campagna militare sarebbe finita lì a Forlì.

Così, impugnando già la penna, il Valentino borbottò: “E sia. Scriverò un bando ufficiale. Chi verrà pescato a vendere o comprare una qualsiasi cosa, senza il mio personale ed esplicito consenso, per un qualsiasi motivo, verrà messo alla forca.”

 

Rientrata nelle viscere della rocca, Caterina aveva voluto cercare il fratello. Le era parso strano che Alessandro non fosse sui camminamenti all'inizio dell'attacco nemico e, ancor di più, che non fosse arrivato nemmeno più tardi.

Aveva intanto chiesto al castellano di radunare il suo Consiglio più ristretto in assoluto e di dar appuntamento a tutti i membri nello studiolo, in modo da discutere quanto andasse fatto dopo gli accadimenti di quella mattina, e poi aveva chiesto un po' in giro al servidorame e a qualche soldato se lo Sforza fosse stato visto da qualcuno.

Cominciava quasi a preoccuparsi, chiedendosi se forse Alessandro non fosse stato sul torrione al momento del bombardamento e fosse magari tra i caduti, senza che né lei né altri se ne avvedessero.

Poi però, proprio mentre iniziava a darlo per spacciato, lo vide uscire da una delle stanzine di servizio che davano sul lato più tranquillo di Ravaldino.

“Dov'eri?” gli chiese, mentre la preoccupazione si trasformava molto velocemente in rabbia: “Hai un ruolo importante all'interno del mio esercito. Come mai non eri anche tu sui camminamenti?”

Il milanese, mostrandosi imbarazzato, indicò la porticina da cui era appena uscito e poi si toccò il ventre, rispondendo: “Sono stato qui...”

“Tutto il tempo?” domandò la sorella, fredda, indagando il volto di Alessandro come avrebbe fatto con un sospettato da interrogare e far confessare.

Finalmente l'uomo diede segni di incertezza. Prese tempo, si guardò in giro, soffiò un paio di volte e poi scosse il capo.

“Parla.” lo incitò lei, in tono colloquiale, ma sempre con una durezza che allo Sforza ricordava il tono che il loro padre usava con lui quando avevano a che fare l'uno con l'altro da soli.

Anche se Galeazzo Maria era stato un genitore presente, anche affettuoso a volte, Alessandro l'aveva sempre sentito distante e aveva sempre avvertito in lui una nota di disappunto, come se vedere il suo secondo figlio maschio perennemente scavalcato dalla bravura e dall'arguzia delle sorelle fosse per il Duca di Milano un motivo di incoercibile delusione.

Con quella punta di risentimento che si riaffacciava nella sua anima, il milanese disse, piano: “Io avevo da fare e... C'eri già tu. Credevo che la mia presenza non servisse.”

“Avevi da fare.” fece eco lei, insospettendosi: “Cosa, di preciso?”

Alessandro si schiarì la voce, cercando una spiegazione che non andasse a urtare troppo la sorella, che già sembrava innervosita. Non sapendo, però, dove fosse stata lei di preciso prima di salire sui camminamenti, l'uomo non se la sentì di inventarsi passatempi particolari in qualche ala della rocca e, non potendo nemmeno dire di essere stato in stanza, per paura che il fratello Galeazzo potesse smentirlo, farfugliò qualcosa riguardo le cucine.

“Tu non andavi nelle cucine nemmeno quando vivevamo a Porta Giovia.” fece notare Caterina, che, invece, da bambina aveva adorato il palazzo del padre proprio per la facilità con cui gli abitanti più nobili potevano mescolarsi agli altri.

Lo Sforza incrociò allora la braccia sul petto, e, abbastanza piccato, disse: “Uno non può avere un affare privato di cui occuparsi?”

“Non tu e non mentre ci bombardano.” rispose immediatamente la Contessa.

Alessandro si morse il labbro, assumendo un'espressione incredula, che, però, Caterina riconobbe come una delle espressioni che anche da bambino usava per allontanare da sé il sospetto, quando, invece, era colpevole.

Non lasciando più spazio alle parole, la donna gli si avventò contro, cogliendolo alla sprovvista e, premendolo contro il muro, mentre con la mano lo agguantava con forza stringendo il colletto del giubbone, gli sibilò: “Dimmi la verità.”

Attorno ai due fratelli si stava creando una piccola folla. Non più di una dozzina di persone, ma per Caterina erano già troppe. Voleva sapere la verità, ma non voleva dare spettacolo. Tuttavia non allentò la presa, ben sapendo che, se Alessandro le fosse sgusciato via in quel momento, passata la tensione, non avrebbe forse più trovato occasione per fargli vuotare il sacco.

Il milanese, il fiato corto sia per la sorpresa, sia per la stretta all'altezza del collo, fece fatica a parlare, ma riuscì comunque a dire, in un soffio appena udibile: “Non fare così... Sai che sono più alto e grosso di te. Se volessi, potrei avere la meglio su di te e ti metterei in ridicolo davanti a tutti.”

“Provaci.” lo incitò lei, lasciando appena la morsa con cui lo teneva premuto contro il muro.

Mosso dall'istinto di conservazione, l'uomo, appena si sentì un po' più libero, provò davvero a sopraffare la sorella, ma la Tigre, dimostrando di aver seriamente addestrato il suo corpo a ogni tipo di lotta, nel giro di qualche secondo riuscì a farlo cadere in terra e a immobilizzarlo.

“Allora?” gli sussurrò all'orecchio, tenendogli il braccio piegato dietro la schiena, conscia che gli occhi di tutti erano puntati su di loro con ancor più attenzione.

Nessuno si era intromesso in quel singolare litigio in famiglia, e la donna ne era felice. Da un lato significava che nessuno la riteneva in pericolo, in un confronto aperto con un uomo della stazza di Alessandro, e, dall'altro, significava che nessuno osava mettere il naso nei suoi affari a meno che non lo chiedesse lei esplicitamente.

“Dimmi cosa avevi di tanto urgente da fare. Dimmelo.” insistette la donna, perentoria.

A quel punto, sentendosi messo in ridicolo e non vedendo altra via d'uscita se non confessarle tutto, così come avrebbe fatto quando erano bambini, lo Sforza deglutì e spiegò, a voce abbastanza bassa da essere udito solo dalla Leonessa: “In questi giorni ho cercato un contatto con Yves d'Alégre.”

“E perché?” chiese lei, cominciando a sudare freddo.

“Per trattare una resa.” ammise lui.

Quella rivelazione gelò il sangue nelle vene della donna che, come scottata, lasciò andare il fratello all'istante. Poi, mentre lui si rialzava, la Tigre ordinò ai curiosi che si erano assiepati lì attorno di dileguarsi e tornare ai propri impegni.

“Mentre tu vieni con me.” concluse, guardando Alessandro in modo significativo.

 

“Vi ho detto, per favore, di non far recapitare lettere qui.” aveva detto Alessandra Scali, quando aveva consegnato il messaggio a Ottaviano: “Questa è la casa di mio fratello e non mi perdonerei mai, e dico mai, se ospitarvi qui si rivelasse per lui una condanna. Ho accettato per riguardo a vostra madre e perché stimo mio marito abbastanza da condividerne le idee, ma...”

Il Riario si era scusato, mostrandosi docile come mai in vita sua e aveva assicurato che si trattava di una missiva di suo fratello Cesare, che, messo al corrente da tempo del loro nascondiglio, voleva solo assicurarsi della loro salute.

La padrona di casa aveva ribattuto in modo freddo, sottolineando come capisse le preoccupazioni del religioso, ma chiedesse ugualmente una maggior attenzione. Si era trattenuta a stento dal dire che avere in casa Sforzino e Galeazzo era un vero piacere, per quanto era intellettualmente stimolante il primo e educato e servizievole il secondo, mentre trovarsi a far da balia anche allo stesso Ottaviano e pure a Carlo – ovvero Bernardino – era tutt'altro che piacevole o semplice.

Il Riario, però, sembrava non essersi accorto più di tanto delle difficoltà della loro ospite e così si era convinto che un volto serio e delle scuse apparentemente sentite bastassero per mettere da parte quell'episodio e poter rischiare di nuovo di tirare la corda, senza per questo temere che si strappasse.

Così, quel giorno, ricevuta la lettera, si era messo nella sua stanza e l'aveva letta tutta d'un fiato. Si trattava di un messaggio molto stringato di suo fratello Cesare che, però, invece di assicurargli un suo pronto arrivo lì a Firenze, lo pregava di aver pazienza e pregare, dato che il fattibile era già stato fatto e che si doveva solo attendere di saperne l'esito.

Ottaviano non aveva la più pallida idea di cosa avesse potuto mai provare a fare suo fratello, ma aveva capito, da quelle poche righe, che Cesare non si sarebbe sbilanciato ulteriormente, nemmeno chiedendo apertamente cosa avesse in progetto di fare o avesse già fatto.

Finito di leggere, il giovane era andato nella biblioteca, dove sapeva che avrebbe trovato i fratelli.

Non aveva mai amato troppo la loro compagnia, era inutile negarlo, specie quella di Bernardino, ma in quei giorni si sentiva così solo e così in gabbia da trovare piacevole averli vicini.

“Cosa c'è?” chiese, teso, Galeazzo, quando lo vide.

“Nulla.” rispose Ottaviano, andandosi a sedere su una poltrona e ravviandosi i capelli castani, portati sempre lunghi, ma molto meno curati del solito.

Sforzino, che stava leggendo ad alta voce un'agiografia, andò avanti imperterrito, come se il fratello maggior non fosse lì. Anche Bernardino lo ignorò in modo plateale, continuando a curiosare tra gli scaffali, del tutto disinteressato ai libri in sé, ma molto incuriosito dalle coste di cuoio, alcune morbidissime, altre vecchie screpolate, così piacevoli al tatto da portarlo a sfiorarle tutte, una per una.

Ottaviano finse di non essere minimamente infastidito dall'indifferenza dei due fratelli e si rivolse a Galeazzo: “Nostro fratello Cesare ha un piano per mettere in salvo nostra madre.”

Il ragazzino, sentendo ciò, sgranò gli occhi e, finalmente, anche Bernardino e Sforzino si misero a guardare il maggiore, ormai del tutto dimentichi dei loro passatempi.

“Ovvero?” chiese Galeazzo, perplesso da quell'uscita improvvisa del fratello.

Il Riario più grande, sentendosi puntati addosso gli occhi di tutti e tre gli altri, gonfiò un po' il petto e ribatté: “Siete tutti troppo piccoli per capire. Non avrebbe senso che io perdessi tempo a spiegarvi...”

“Ci scommetto che non ce lo vuoi spiegare – fece Bernardino, muovendo due passi verso di lui e stringendo a pugno le mani lungo i fianchi – solo perché non l'hai capito nemmeno tu.”

Se quella stessa identica obiezione gli fosse stata mossa da un altro dei suoi fratelli – uno qualsiasi, Bianca compresa – Ottaviano non avrebbe reagito, al massimo avrebbe fatto un sorrisetto e una battutaccia. Ma vedere il volto del Feo, così simile tanto a quello di sua madre quanto a quello di Giacomo, lo metteva a dura prova già di norma...

“Come se tu, figlio di uno stalliere analfabeta, fossi abbastanza intelligente da capire una cosa da adulti!” inveì, alzandosi di scatto e facendosi aggressivo tanto con il tono, quanto con la postura del corpo.

Galeazzo, di rimando, si mise subito tra i due fratelli e, dopo uno sguardo intimidatorio a Bernardino, si rivolse al maggiore: “Hai vent'anni, sei il più adulto tra noi. Quindi sii il primo a fare la pace. Non è il momento di accendere questo genere di dispute...”

“Fatti da parte...” lo scansò Ottaviano, con uno spintone, che, tuttavia, lo smosse appena: “Io non faccio la pace con il figlio di uno che si è guadagnato un titolo portando a letto nostra madre!”

Sforzino, non sopportando la tensione che si era creata, nel frattempo, aveva preso la sua agiografia ed era sgattaiolato alla porta, andandosene in silenzio.

“Nemmeno io voglio fare la pace!” ribatté Bernardino, le guance rosse e gli occhi un po' lucidi, sintomo di una rabbia profonda che avrebbe tanto voluto rompersi in lacrime: “Tu sei solo un assassino! Hai ucciso mio padre!”

Era la prima volta, da quello che ne sapeva Galeazzo, che il fratello minore accusava in modo tanto plateale il maggiore. Era già pronto a intervenire, a dividerli anche con la forza, se necessario. E invece assistette a una scena molto strana.

Il Riario strinse le labbra con tanta forza da trasformarle in due fili bianchi, mentre i suoi occhi restavano puntati sul figlio di Giacomo Feo, impietriti, come se un nuovo dolore si stesse sommando a una serie di tormenti già sedimentati nelle sua anima.

Il Feo, invece, deglutiva di continuo, per frenare il pianto, che, però, ormai gli rigava il volto, e, intanto, si mordeva le labbra, con forza, quasi fino a farsi male, per evitarsi sia di singhiozzare come il bambino che era, sia di aggiungere altre accuse a quella già molto pesante che aveva esternato.

Come se si fossero messi d'accordo, entrambi distolsero lo sguardo e, Ottaviano borbottando tra sé e Bernardino tirando su con il naso, presero le distanze. Il più grande andò subito alla porta, mentre il più piccolo si immerse di nuovo tra i libri, asciugandosi il volto di quando in quando con la manica.

Galeazzo, stupito dal confronto a cui aveva assistito, fu in forse se provare o meno a consolare il Feo, ma alla fine lasciò perdere. Bernardino assomigliava davvero molto alla loro madre, lo stava capendo ogni giorno di più. Quindi era meglio aspettare che fosse lui a cercare di avvicinarsi.

Infatti, dopo nemmeno un quarto d'ora, il bambino, ancora scosso per quanto accaduto, si andò a sedere accanto al fratello e gli porse un libro che parlava dei grandi condottieri del passato. Il Riario lo riconobbe come uno dei testi che sua madre leggeva loro da piccoli.

“Me lo leggi tu?” chiese Bernardino, con gli occhi bassi e la voce un po' incerta.

Galeazzo annuì e, aprendo il volume a caso, lo sfogliò fino a cercare uno dei suoi condottieri del passato preferiti e, senza nemmeno chiedere al fratello se fosse d'accordo sul soggetto scelto, cominciò a leggere, con voce calma, e il figlio di Giacomo, finalmente, si acquietò.

 

“Non dovevi per nessun motivo prendere un'iniziativa del genere senza consultarmi.” aveva detto Caterina, quando aveva convinto Alessandro a seguirla un momento in camera, per discutere da soli della questione.

“Tanto non mi ha mai risposto, quel maledetto francese...” aveva ribattuto lo Sforza, ostinato.

“Dimmi perché hai pensato che avremmo potuto ottenere una resa vantaggiosa – l'aveva allora incalzato la sorella – senza incorrere in una trappola tesa dal papa, sono curiosa.”

Si erano a quel punto confrontati in modo più aspro, ma estremamente aperto. Il milanese aveva esposto alla Tigre in modo molto chiaro le sue perplessità riguardo alla resistenza della rocca e alla sensatezza del resistere ancora, pur sapendo di non poter vincere. Lei gli aveva ricordato il patto che avevano stretto nel momento stesso in cui lui aveva messo piede a Ravaldino, e che, quindi, lamentarsi adesso di essersi infilato in una guerra a senso unico non era molto logico.

“Comunque – aveva aggiunto – ho più volte invitato chiunque non fosse disposto a seguirmi ad andarsene. Avresti potuto farlo. Anzi, puoi farlo anche adesso.”

Alessandro, nel sentirsi dire quelle parole, si era arrabbiato, aveva cercato di nuovo di esporre le sue ragione e alla fine aveva giurato: “Sono uno Sforza e lo resterò fino alla morte, non farò per nessun motivo il codardo che se ne va lasciando il sangue del suo sangue al massacro.”

La fermezza con lui l'aveva detto, aveva convinto Caterina della sua buona fede. Non poteva perdonarlo, per averla scavalcata a quel modo, ma non poteva nemmeno condannarlo, dato che, malgrado tutto, voleva restarle accanto.

Anche se con le dovute differenze, le sembrava di trovarsi dinnanzi al medesimo paradosso che le faceva amare e odiare Giovanni da Casale.

“E va bene.” disse lei alla fine, sfinita da quel litigio che non avrebbe mai voluto affrontare, men che meno in quel momento: “Ma da adesso farai solo quello che ti ordinerò io.”

Alessandro sollevando le sopracciglia, ribatté: “Non siamo più bambini, Caterina. Sono passati gli anni, e ora la differenza d'età che c'è tra noi non ti dà più l'autorità di comandarmi.”

“Su questo hai ragione.” annuì la Leonessa, incredula davanti ai modi del fratello che, malgrado fosse in torto, pareva ritenersi ancora in condizioni di dettar le regole: “Non siamo più bambini. Io non ho più potere su di te perché sono più vecchia, ma solo perché tu sei al mio soldo. Sono il tuo comandante: questo mi dà l'autorità di darti ordini.”

Lo Sforza sembrò indispettito, tuttavia, almeno quella volta, tenne a freno la lingua.

“E non credere che questa cosa finisca qui.” aggiunse lei, andando alla porta e facendogli segno di seguirla: “Troverò il modo di farti pagare il tuo debito nei miei confronti, stanne certo.”

 

Bartolomeo d'Alviano teneva gli occhi fissi sulla figura secca e nervosa di Pandolfo Malatesta, e gli sembrava quasi di poter vedere il lavorio confuso della sua mente, sotto ai lunghi e unti capelli neri.

Il signore di Rimini, tormentandosi un momento le mani l'una nell'altra, voltò il naso lungo verso la moglie, che, grossa di quasi sette mesi, se ne stava in una poltroncina alle sue spalle, apparentemente del tutto disinteressata a quella questione.

“Ma dunque...” fece piano il Pandolfaccio, dopo essersi schiarito la voce un paio di volte: “Dunque Venezia, ecco... Davvero è disposta ad aiutarci?”

Il condottiero fece segno di sì con il capo e rimpianse di non aver voluto al suo seguito un attendente che potesse parlare al suo posto. Fin dal suo arrivo dalla vicina Ravenna, la sua lingua, rimasta infortunata tempo prima, sembrava essersi legata ancora di più e ogni parola gli costava una fatica immane.

Anche se era sempre stato un uomo di poche parole, in quei giorni l'aria salmastra e insalubre di Rimini sembrava averlo reso definitivamente muto.

Sgranchendosi la mandibola, Bartolomeo disse, lentamente: “Sì. Per Venezia siete importanti.”

Ciò che avrebbe voluto condensare in quella frase per lui era ovvio: Rimini era uno Stato che avrebbe fatto da cuscino tra le terre di Romagna conquistate dal Valentino – sempre che alla fine riuscisse davvero a prendersi Forlì – e i territori che restavano sotto la diretta influenza del Doge. E dunque, in quell'ottica, era fondamentale evitare che una deriva francese inglobasse anche i territori del Malatesta.

Pandolfo, però, sembrava non aver colto tutti i sottintesi dell'Alviano, infatti, quando riprese la parola, parve decisamente troppo entusiasta: “Ringraziate il Doge da parte mia e vi assicuro che la sua fiducia è ottimamente riposta! La stima che Venezia nutre per noi mi riempie di orgoglio. State pur certo che non vi deluderemo. Rimini sarà sempre vostra alleata e...”

“Ci stanno comprando.” disse, con tono strascicato, Violante Bentivoglio che, dalla sua postazione un po' nascosta, aveva ascoltato tutto e capito molto più di quello che era riuscito a cogliere il marito: “Ci proteggeranno solo perché per la Serenissima noi siamo una garanzia. Non c'entrano nulla la stima o l'onore.”

Bartolomeo, incrociando gli occhi della donna, non poté far a meno di reprimere un mezzo sorriso sghembo. Anche se Violante era molto, veramente molto, diversa dalla donna che era stata la sua Bartolomea, in quel guizzo di acume gliel'aveva ricordata.

“E allora che dovrei fare?!” si alterò il Pandolfaccio, voltandosi di scatto verso di lei, i pugni piantati nei fianchi con aria minacciosa: “Sentiamo! Tu che sai sempre tutto!”

La Bentivoglio, una mano sul ventre prominente, guardò l'Alviano e, con aria di commiserazione, disse solo: “Mio marito non ha ancora capito di essere un topo in trappola a cui il gatto, gentilmente, sta chiedendo il permesso per mangiarlo. Non ha ancora capito – e, alzando appena la voce si mise a fissare il Malatesta – che il gatto se lo mangerà sia che lui dica di sì, sia che lui dica di no.”

Il signore di Rimini sembrava sul punto di esplodere dalla rabbia per l'indisponenza della moglie, eppure, quando lei gli dedicò un'altra occhiataccia, l'uomo tacque e non ebbe più lo spirito di dire o fare altro.

“Quindi, messer d'Alviano – concluse Violante – fate quel che dovete. Noi collaboreremo, come sempre.”

Bartolomeo fece un cenno d'intesa con Violante e poi, a mezza bocca, precisò: “Sposterò qui i miei seicento uomini entro domani.”

 

“Quanti soldati ci sono rimasti?” chiese Caterina, seduta sulla poltrona che un tempo era stata di Giacomo.

“Senza contare donne, bambini, feriti e inabili alla guerra...” soppesò il castellano, facendo un rapido conteggio: “Poco più di settecento, mia signore.”

La donna si prese un momento. Nello studiolo, oltre a lei e Bernardino da Cremona, c'erano Pirovano, Marulli, Alessandro e Scipione. Aveva scelto accuratamente gli uomini da tenersi stretti in momenti come quelli, anche se, quel giorno, avrebbe volentieri potuto cambiare Giovanni da Casale con Luffo Numai, e suo fratello con suo figlio Galeazzo.

“Loro non possiamo sapere quanti uomini hanno ancora...” soppesò, pensierosa, mentre, distrattamente, accarezzava il bracciolo di pelle: “Chiaramente molti più di noi...”

La sensazione morbida che le dava quella carezza a cui si stava abbandonando le stava facendo tornare in mente i giorni in cui Cesare Feo era castellano e il suo Giacomo passava buona parte del suo tempo nascosto lì, a scansare i suoi impegni standosene comodo in poltrona. Anche se quel suo atteggiamento l'aveva fatta infuriare un sacco di volte, avrebbe dato tutto quello che aveva pur di poter tornare a quei momenti.

Ricordare il suo secondo marito, la portò a pensare anche a Bernardino. Si chiese se, da adulto, sarebbe stato bello come suo padre. La sola idea di non poter rispondere a quella domanda, le fece salire un nodo alla gola e pizzicare gli occhi, così si impose di concentrarsi solo sul presente.

Alzandosi – come se allontanarsi fisicamente dalla poltrona del suo grande amore potesse bastare a dimenticarlo anche solo per qualche minuto – andò verso la finestra. Era un po' appannata, per via della differenza di temperatura con l'esterno, ma poteva ugualmente scorgere qualche rado fiocco di neve che volteggiava come impazzito. Si era alzato il vento.

“Come rifornimenti siamo messi bene?” chiese, le mani allacciate dietro la schiena e il tono pragmatico di un vero condottiero.

“Abbiamo cibo a volontà, lo sapete – rispose il castellano, sfogliando un momento i libri mastri che teneva sulla scrivania – e l'acqua ci arriva dal pozzo, e non possono avvelenarcela. Abbiamo anche ancora una discreta quantità di vino.”

“E siamo forti.” intervenne Marulli, cercando di darle coraggio non solo con i fatti, ma anche con l'anima: “Uno dei nostri vale cento dei loro.”

“Cento magari no...” lo ridimensionò la Tigre, apprezzando comunque lo sforzo: “Ma dieci, posso anche concedervelo.”

“E quindi adesso che facciamo?” chiese Scipione, inclinando un po' la testa di lato.

La Contessa lo osservò con cura. La sua somiglianza con Girolamo Riario a volte era così spiccata da riuscire a innervosirla. Le sembrava così strano avere nel suo Consiglio Ristretto un ragazzo che fosse d'aspetto a un uomo che aveva odiato così tanto... Eppure Scipione era stato in grado di farsi apprezzare e stimare da lei tanto da farle scordare, il più delle volte, l'origine del sangue che gli scorreva nelle vene.

“Adesso aspettiamo.” decretò lei, incrociando le braccia sul petto e scurendosi in viso: “Attaccarli ora sarebbe un grosso errore. Possiamo spezzare i francesi, ma solo logorandoli. Prenderli di petto, anche se con l'artiglieria, sarebbe la nostra fine.”

“Quindi aspettiamo che si stanchino.” parafrasò Giovanni da Casale che, come Alessandro, non aveva ancora osato aprire bocca.

“Sperando che l'uomo che Costantino ha ucciso oggi fosse davvero qualcuno di insostituibile...” si permise di ipotizzare la donna: “O, perlomeno, che i francesi fingano che sia così, per avere un pretesto di lasciare la Romagna e correre verso Napoli.”

Gli uomini presenti si scambiarono qualche occhiata, con un misto incredibile di disillusione e speranza, e poi, tornando a guardare la loro signora, uno per uno si dissero d'accordo con lei.

“E allora andiamo – concluse Caterina, indicando la porta – anche se non li attaccheremo, voglio che la guardia sui camminamenti sia massima e che i soldati siano sempre pronti. Se, per caso, dovessero riuscire a mettere a segno un altro attacco come quello che stavano sferrando alla torre verso la strada di San Martino, potremmo dover metter mano alle spade, oltre che ai falconetti...”

 
   
 
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