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Autore: Claire Riordan    18/04/2020    1 recensioni
Remake del nuovo decennio di una mia vecchia, ma a me carissima, fanfiction, intitolata "Believe in Fate", riscritta in chiave più potteriana e meno "teen drama" americano, come era inizialmente nata, con una rivisitazione dei personaggi e delle loro storie.
Dal prologo: "[...] il Gran Galà del Quidditch prevedeva che Hogwarts mettesse in campo un'unica squadra, formata dai migliori giocatori della scuola, i quali sarebbero stati selezionati da un’apposita commissione composta dagli esponenti più importanti e competenti in materia. Questa squadra, poi, avrebbe dovuto competere con le più grandi nazionali di Quidditch del momento, tra le quali spuntavano i nomi di Inghilterra, Germania e Spagna, segnalate come le favorite per il grande torneo."
ATTENZIONE: nessun collegamento di nessun genere con "The Cursed Child".
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Albus Severus Potter, Altro personaggio, Famiglia Weasley, Lily Luna Potter, Nuovo personaggio | Coppie: Rose/Scorpius
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
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Margaret O’Neill lanciò l’ennesima occhiata impaziente al quadrante dell’orologio che aveva al polso: Dylan, come al solito, era in ritardo.
Nel caldo pomeriggio di luglio, il parco di St. James, nel cuore di Londra, era quasi completamente deserto, eccezion fatta per qualche anatra che si rinfrescava nel lago e alcuni scoiattoli che scorrazzavano tra le diverse zone d’ombra degli alberi.
Si passò una mano tra i capelli, guardandosi in giro nervosamente: il cuore le batteva forte, sapeva che la conversazione che stava per intraprendere non sarebbe terminata nel migliore dei modi. Quante volte, del resto, dopo la lettera di Dylan, aveva pessimisticamente – o realisticamente, forse - immaginato quel momento?
Sapeva bene cosa aspettarsi. Il fatto che Dylan le avesse chiesto una pausa di riflessione già significava che si sarebbero lasciati, ma era talmente masochista che le piaceva pensare che così non sarebbe stato.
Si distese sulla panchina su cui sedeva da un po’, fissando distrattamente i raggi del sole filtrare tra le foglie verdi sopra di lei, la mente piena delle parole scritte dal suo ragazzo dopo che lei si era lamentata di sentirsi una sorta di peso, per lui. Lui le aveva detto che no, non era un peso, ma la loro relazione non stava procedendo come lui sperava. Aveva l’impressione che Margaret fosse molto… che termine aveva usato? Oh, sì: “pressappochista”. L’aveva accusata di non essere abbastanza sicura quando si trattava di prendere decisioni che riguardavano entrambi, perciò le aveva chiesto quella fantomatica pausa per schiarirsi le idee su loro due.
Maledetto rigira-frittate.
Non seppe dire quanto tempo passò - secondi, minuti, ore - prima che l’inconfondibile voce di Dylan Kirke raggiungesse il suo orecchio pronunciando il suo nome.
Margaret scattò a sedere, osservando Dylan avanzare verso di lei a bordo di una vecchia bicicletta, probabilmente rubacchiata da qualche deposito babbano incustodito. Lo vide arricciare le labbra in una parvenza di sorriso, ma non era il solito sorriso che le rivolgeva: era indubbiamente attraversato da un’ombra di tristezza.
«Sei in ritardo» gli fece notare Margaret cercando di suonare affabile, mentre lui depositava la bici poco lontano senza troppi complimenti.
«Lo so, scusa» rispose semplicemente sedendosi accanto a lei sulla panchina, sudato e affannato.
Calò il silenzio. Era chiaro che nemmeno Dylan sapesse cosa dire.
«Allora?» lo incalzò Margaret, inquieta. Se proprio doveva soffrire, voleva che fosse una cosa rapida e più indolore possibile.
«Beh, ecco» cominciò lui «Non riesco ad essere me stesso, con te. Non mi sento libero di comportarmi come mi comporterei con i miei amici»
Margaret voleva dirgli che era normale, che con lei non avrebbe mai potuto comportarsi come si comportava con i suoi amici. Era la sua ragazza, era ovvio che l’atteggiamento nei suoi confronti fosse diverso.
O forse non dovrebbe?
Attanagliata da quel nuovo dubbio, si limitò ad annuire, ascoltando tutto quello che Dylan aveva da dirle.
«Facciamo sempre le stesse cose» continuò lui «Ci chiudiamo in dormitorio e ci sbaciucchiamo per tutto il tempo, se andiamo ad Hogsmeade ci rintaniamo in un locale e non facciamo altro che baciarci. Insomma, vorrei un rapporto un po’… diverso»
«Diverso in che senso?»
«Come con un’amica a cui posso dire tutto, di cui mi posso fidare. È ovvio che però… insomma, non saresti solo un’amica»
Margaret deglutì appena, per cacciare indietro quel nodo che le stringeva la gola da che Dylan l’aveva raggiunta «Beh, posso provare a comportarmi anche da amica» mormorò, sebbene non avesse idea da dove cominciare per andare nella direzione voluta da Dylan «Solo che… insomma, non so se possiamo funzionare, così»
«No, infatti» asserì Dylan «Ma non c’è solo questo»
Margaret sentì un peso sprofondarle nello stomaco. Che altro c’era?
Guardò Dylan per esortarlo ad andare avanti.
«Insomma, se non sono io a cercarti, in qualunque modo, tu non lo fai» si lamentò il ragazzo «e ogni volta che tento di parlarti dei miei problemi, annuisci e cambi discorso. Si parla sempre e solo di te»
Margaret prese a riflettere freneticamente, nel panico: davvero non lo ascoltava e ciarlava solo di sé stessa? Eppure, di cosa le aveva parlato Dylan, in quei poco più di tre mesi? Delle sue aspettative sul viaggio che lo attendeva di lì a pochi giorni, delle cavolate che faceva a scuola assieme ai suoi amici ai danni del custode, della sua migliore amica, diceva lui, che gli chiedeva consigli per conquistare il ragazzo dei suoi sogni. Non le aveva mai accennato a problemi famigliari o scolastici. Insomma, niente di così rilevante, no?
Ma, da un lato, non poteva dargli torto: Margaret lo tormentava continuamente con le sue chiacchiere sul fatto che Dominique Weasley, la sua migliore amica, molte volte la trascurasse perché preferiva passare il tempo con il suo ragazzo, su quanto fosse insopportabile la professoressa di Incantesimi, troppo severa e pretenziosa. Di certo non poteva parlarne con i suoi genitori: erano Babbani e, per quanto avessero accettato di avere una figlia strega, non erano propensi a discorsi riguardanti la magia. Dylan non poteva biasimarla per questo.
«Tu… non mi chiedi mai di fare qualcosa assieme» gli rinfacciò.
«Beh, non posso fare tutto io» constatò Dylan.
Rimasero di nuovo in silenzio, guardando ostinatamente in direzioni diverse. Margaret era arrabbiata con lui. Lo era sempre. Dylan riusciva continuamente a darle un motivo per arrabbiarsi con lui, ma mai, mai una volta aveva osato sfogarsi e sbattergli in faccia tutto quello che pensava e per cui soffriva: il suo essere così assente, così sfuggente ma, allo stesso tempo, così dolce in quei rari momenti in cui stavano insieme, era probabilmente il motivo per cui Margaret aveva completamente perso la testa per lui.
Lo considerava superiore a lei, a volte irraggiungibile. Non si sentiva mai abbastanza al suo fianco.
«Io posso… posso provare a cambiare» disse Margaret dopo un po’, la voce tremante.
Dylan scosse la testa «Non puoi cambiare perché lo decidi» replicò, in tono baritonale.
Margaret tirò su col naso, rivolgendo gli occhi al cielo nel tentativo di cacciare indietro le lacrime che teneva dentro da due settimane, da quando Dylan le aveva chiesto quella maledetta pausa, e minacciavano di uscire proprio in quell’istante. Non voleva piangere davanti a Dylan, non l’aveva mai fatto e non sarebbe stato quello il momento in cui gli avrebbe mostrato quanto debole l’avesse fatta diventare quella questione.
Ma, evidentemente, a lui non sfuggirono i suoi occhi lucidi.
«Non ne soffri solo tu, Maggie» disse lapidario.
Certo, come no.
«Quindi finisce qui?» chiese lei, dopo qualche altro minuto di silenzio.
Dylan storse il naso «Temo di sì» sussurrò «Non credo riuscirei a convincermi che le cose potrebbero migliorare»
Margaret annuì, incapace di ribattere in qualsiasi modo.
«Prima di te, riuscivo ad uscire con una ragazza per una o due settimane al massimo. Qui si tratta di buttare al vento più di tre mesi, che non sono pochi» disse ancora lui, forse nel tentativo di difendersi «Devo ancora capire come ci si comporta quando si sta assieme ad una persona, credo»
Sicuramente, pensò Margaret irritata. E, forse, pure lei doveva ancora capirlo.
Giocherellò con un filo sfuggito da un laccio delle sue scarpe, incapace di riordinare i pensieri. L’unica cosa che si impose fu di non piangere per lui, né ora, né mai.
«Come pensi passerai l’estate?» le domandò Dylan dopo un po’, tornando al suo solito tono gentile, forse per cercare di alleggerire l’atmosfera. Margaret pensò che avrebbe anche potuto raccontare una barzelletta, ma il suo umore sarebbe comunque rimasto sottoterra e la tensione nell’aria si sarebbe potuta tagliare con un coltello.
«Ancora non lo so» rispose scrollando le spalle «Probabilmente resterò in città. Ma se Dominique mi ospita, credo andrò a casa sua, in Cornovaglia. E tu? Andrai in Francia?»
«Sì!» esclamò Dylan, contento come un bambino a Natale, come se la discussione di pochi minuti prima non fosse mai avvenuta «Non vedo l’ora!»
Ecco perché l’aveva lasciata. Solo ora capiva.
Voleva godersi il suo viaggio senza avere gufi fra i piedi a qualsiasi ora del giorno, a consegnargli lettere di una fidanzata forse un po’ troppo gelosa che gli chiedeva dove fosse, con chi e cosa stesse facendo, divertendosi con la sua famiglia ed i suoi amici e basta. Certo, avrebbe potuto dirlo chiaro e tondo piuttosto che inventarsi tutte quelle inutili e banalissime scuse. Sicuramente, ci avrebbe fatto una figura migliore rispetto a tutta quella mediocre messinscena.
«Come sono andati i G.U.F.O.?» le chiese invece Dylan, interrompendo le sue elucubrazioni.
«Oh, bene» rispose Margaret, cercando di mantenere lo stesso tono amichevole di sempre «Ho ottenuto Eccellente in Aritmanzia, Trasfigurazione, Difesa e Antiche Rune. Per il resto, Oltre Ogni Previsione»
«Non ti smentisci mai» le disse lui ridendo. Margaret sentì una fitta alla bocca dello stomaco: chissà se l’avrebbe mai più rivisto sorriderle in quel modo…
Dylan guardò l’orologio e Margaret lo imitò: le quattro e tre minuti. Erano lì da nemmeno mezz’ora. C’era voluto davvero così poco per mandare tutto in frantumi?
«Ora devo andare» disse lui «Passa una bella estate»
Lei annuì in silenzio. Era certa che, se avesse aperto bocca per dire qualcosa, sarebbe scoppiata a piangere.
Dylan le diede un rapido bacio sulla guancia e la guardò in volto.
«Non essere giù» esclamò, come se si stesse rivolgendo ad una piagnucolosa madre prima di partire per Hogwarts e non alla sua ragazza appena scaricata «Ci vedremo a scuola, no?»
«Immagino di sì» rispose Margaret, tentando di sorridere.
Dylan le rivolse un ultimo sorriso per poi afferrare la sua bici e avviarsi verso l’uscita del parco.
Margaret esitò, indecisa se rincorrerlo e dirgli che no, non poteva lasciarla così, avrebbe dovuto prendersi del tempo in più per rifletterci, perché lei lo amava come non aveva mai amato nessuno in vita sua. Ma lui? Poteva dire che Dylan fosse innamorato di lei quanto Margaret lo era di lui? Forse no. Era sempre stato abbastanza chiuso quando si trattava di esprimere in maniera esplicita i propri sentimenti.
Con un ultimo sguardo in direzione del punto in cui Dylan era scomparso, Margaret girò sui tacchi, avviandosi verso la metropolitana. Si sentiva la gola chiusa, serrata, gli occhi brucianti di lacrime.
Ma non doveva piangere.
Si scoprì fiera di sé quando rientrò nella sua abitazione deserta – i suoi genitori erano al lavoro - alla periferia della città e si rese conto di non aver versato una lacrima per Dylan. Evidentemente ne aveva versate abbastanza per tutto quello che le aveva già fatto passare.
Ma nel momento in cui mise piede nella sua stanza al piano di sopra, l’unica foto di loro due, appesa al muro proprio di fronte alla porta, la colpì con la forza di un pugno allo stomaco.
Incapace di trattenersi, Margaret scoppiò in singhiozzi, lasciando le lacrime finalmente libere di scendere.
 

 
Non appena aprì la porta della vecchia stanza dello zio Ron, Albus Potter avvertì immediatamente il profumo delle uova strapazzate. Nonostante i cinque piani che lo separavano dalla cucina, da sotto arrivava un allegro chiacchiericcio e il tintinnare delle posate contro i piatti.
Si lasciò sfuggire un sorriso mentre scendeva le scale di legno della Tana, la casa dei suoi nonni, Molly e Arthur, sfondo dei suoi ricordi di tutte le estati dal primo anno ad Hogwarts ad ora. Ogni anno, assieme a quasi tutti i suoi cugini, passava le giornate lì, in quella vecchia casa sghemba, ma che sapeva di famiglia. E del profumo dei manicaretti di Molly.
«’Giorno a tutti» mugugnò, facendo il suo ingresso in cucina stiracchiandosi.
«Oh, Albus, buongiorno!» trillò Molly, mentre dal tavolo si levarono alcuni sporadici e assonnati “Buongiorno” «Tè caldo? Spremuta d’arancia?»
Ancora piuttosto insonnolito, Albus prese posto accanto a Lucy «Una spremuta» biascicò, cercando di trattenere uno sbadiglio.
«Arriva subito»
«Sono l’ultimo?» domandò Albus ai cugini afferrando due fette di pane tostato da un vassoio in mezzo al tavolo «James dov’è?»
«È uscito presto questa mattina» rispose Rose, dietro il vapore della sua tazza colma di tè bollente «Iniziava il corso da Auror»
«Oh… giusto» ricordò Albus, incapace di distogliere lo sguardo dalla vestaglia rosa acceso della cugina. Era così poco da Rose.
Si stropicciò gli occhi prima di servirsi nel piatto un paio di salsicce. Ora capiva perché il fratello maggiore, il pomeriggio precedente, durante una delle loro partitelle a Quidditch sul prato al di là della siepe che circondava la Tana, gli aveva concesso la rivincita per il giorno successivo: non ci sarebbe stata alcuna rivincita.
James, vecchia volpe.
La cucina di casa Weasley era immersa nel silenzio più totale, rotto solamente dai suoni della colazione e, di tanto in tanto, da qualche sbadiglio, finché non fu un picchiettare meccanico e costante ad attrarre l’attenzione di tutti.
Un enorme gufo grigio e un più piccolo barbagianni sostavano sul davanzale della finestra, becchettando contro il vetro perché qualcuno aprisse.
«Sì, sì, non c’è bisogno di agitarsi» esclamò Fred, alzandosi per andare ad aprire. I due pennuti planarono dentro, appollaiandosi sulla credenza: legate alle zampe, avevano diverse buste.
«Penso siano le lettere da Hogwarts» disse Rose, liberando i gufi delle loro consegne. Dopo aver scrutato i nomi su ognuna di esse, passò le buste ai cugini.
«Sono arrivate le lettere?»
Nonna Molly riapparve di nuovo in cucina e sembrava visibilmente agitata «Qualcuno di voi ha ricevuto qualcosa?»
Albus capì che per “qualcosa”, Molly intendeva le spille di prefetto o Caposcuola. Non era un segreto che la nonna andasse tremendamente fiera di chi, in famiglia, otteneva quel piccolo riconoscimento.
Fu Rose la prima a rompere quell’attesa «Attenzione» esclamò, mentre estraeva qualcosa dalla sua busta «Caposcuola»
Mostrò agli altri la spilla: sullo stemma di Grifondoro, brillava una “C” argentata.
«Oh, Rosie!» esclamò Molly, correndo ad abbracciare la nipote «Sono così fiera di te»
«Ehi!» intervenne Hugo ad alta voce, per farsi udire sopra i toni di Molly. Alzò in alto il braccio in cui teneva una spilla uguale a quella della sorella, ma con sopra la lettera “P” «C’è un nuovo Prefetto qui!»
Ci fu uno scoppio di applausi generale al tavolo della cucina. Albus, tuttavia, rimase leggermente deluso: non essendo stato eletto prefetto due anni prima, sperava nella spilla da Caposcuola ora che si apprestava ad iniziare il suo ultimo anno, ma, evidentemente, i voti e la condotta di Rose la rendevano favorita all’incarico.
Anzi, sicuramente.
Ora che ci pensava, però, c’era ancora una piccola speranza: il posto da Capitano della squadra di Quidditch di Grifondoro era rimasto vacante dopo che Adam Baston, caposquadra fino all’anno prima, aveva concluso gli studi a giugno. Magari quella spilla sarebbe toccata a lui? O gli avrebbero preferito Derek McLaggen, il suo migliore amico?
Leggermente agitato, mentre Lucy festeggiava la sua promozione a prefetto di Tassorosso, Albus aprì la sua busta: nulla. Solo il foglio con l’ammissione al settimo anno e l’elenco dei libri da acquistare.
Sospirò, un po’ amareggiato, mentre scenari immaginari del suo migliore amico che estraeva la spilla di Capitano dalla busta prendevano forma nella sua mente. Quel pensiero gli creò una leggera fitta d’invidia.
«Un Caposcuola e tre prefetti, ma è meraviglioso!»
L’esclamazione di nonna Molly riportò Albus alla realtà: si rese conto che si stava rivolgendo a Lily.
Albus guardò la sorella tenere in mano una spilla, gli occhi puntati su di essa come se non credesse a ciò che aveva fra le dita.
«Ti hanno fatta prefetto?» le chiese Albus, cercando di mantenere un tono quantomeno neutro: non voleva far trasparire la delusione e lo sconforto per essere l’unico della sua famiglia a non aver indossato quella piccola coccarda – anche James era stato prefetto.
Lily scosse la testa, ma sembrava aver perso ogni facoltà di parola.
«No?» disse Molly «E allora…?
Lily bisbigliò qualcosa di incomprensibile.
«Come?» chiese Albus, sebbene sapesse quasi con certezza la risposta: se non era prefetto, era…
«Capitano» sputò fuori Lily, come se avesse urgenza di liberarsi di quella parola «Capitano… della squadra di Quidditch»
Passò una frazione di secondo prima che Fred scattasse in piedi ed iniziasse a gridare ed applaudire «Capitano Lily Potter, sììì!»
«Congratulazioni!» esclamò Molly, riservando a Lily lo stesso trattamento dato a Rose poco prima. Lily sembrava completamente frastornata: evidentemente non si era ancora resa conto dell’onore che le era stato concesso, pensò Albus.
Cercò di unirsi ai suoi cugini nella gioia per la promozione della sorella, ma lo scoraggiamento per quella piccola sconfitta era piuttosto invadente. Fortunatamente, non passò molto prima che ognuno finisse la propria colazione e si dedicasse ad altro. Albus sfrecciò velocemente in camera sua, assicurandosi che Fred, che condivideva la stanza con lui, non avesse bisogno né voglia di entrare.
Da una delle cassettiere, recuperò una vecchia copia de “Il Quidditch attraverso i secoli”: lo aveva già letto almeno tre volte, ma, in quel momento, aveva più che mai bisogno di distrarsi.
Distrarsi dal Quidditch col Quidditch. Geniale, Albus.
Sbuffò e richiuse il libro con un tonfo, e una nuvoletta di polvere si sollevò dalle pagine. Si buttò sul letto, passandosi più volte le mani sugli occhi, quando udì bussare.
«Non ora, Fred, sto cercando di studiare» mentì, sperando che il cugino se ne andasse in fretta. Non aveva proprio alcuna voglia di parlare, con nessuno di loro.
«Al, sono io»
Albus, preso alla sprovvista, scattò a sedere: era Lily.
«I-io… non sono vestito, scusa»
«Apri la porta»
«Ti ho detto che…»
«Apri. La. Porta»
Albus sbuffò. Lily era così maledettamente simile a Ginny, a volte.
Impossibilitato a fare altrimenti, eseguì l’ordine della sorella.
Lily sostava sulla soglia, i lunghi capelli rossi sciolti e scarmigliati, con indosso un pigiama blu di almeno due taglie più grande, i piedi scalzi. Nella mano destra, teneva ancora la spilla da Capitano, nell’altra una busta ed una pergamena arrotolata.
La guardò, come ad esortarla a dire qualcosa.
«Lo so che ci sei rimasto male» disse, in tono fermo.
«Cosa?»
«Al, sei mio fratello, ti leggo come la Gazzetta del Profeta» continuò lei, superandolo ed entrando nella stanza senza troppi complimenti «Ci sei rimasto male perché hanno scelto me… e non te»
Albus richiuse la porta, un po’ sorpreso dall’atteggiamento di Lily.
«E… quindi?» fu l’unica cosa che riuscì a dire.
«E quindi mi dispiace» rispose Lily.
«Mi stai dicendo che ti senti in colpa?»
«Ho detto di sentirmi in colpa?»
Albus sbuffò, iniziando a spazientirsi «Non rispondere ad una domanda con un’altra…»
«Sto solo dicendo» lo interruppe Lily, alzando la voce di un paio di toni e sventolando le pergamene che teneva in mano a mo’ di ammonimento «che so quanto ci tenessi, e visto che qualcuno ha deciso di dare a me questo incarico, volevo solo…»
«Sì?»
Lily si era interrotta e le sue guance avevano assunto un colorito rosato.
«Insomma, io vorrei… vorrei che tu mi facessi da “vice-Capitano”. Che mi aiutassi. Hai più esperienza di me nel Quidditch e…»
«Lily» Albus la interruppe, poggiandole le mani sulle spalle. Ora capiva: Lily, la più piccola di casa, abituata ad avere da sempre due fratelli più grandi davanti, adesso che si trovava di fronte alla responsabilità di gestire un’intera squadra, non sapeva cosa fare. Ed era terrorizzata.
«Lily, so che questo ruolo ti spaventa» le disse, calmo «ma se qualcuno ha scelto te come Capitano, significa che quel qualcuno conosce benissimo le tue potenzialità. E credimi, chiunque sia stato, ha preso una saggia decisione»
Lily s’imbronciò, ma Albus era quasi certo che i suoi occhi fossero lucidi «Dici così solo per sentirti meglio e non essere arrabbiato con me»
Albus scoppiò a ridere «Ma non sono arrabbiato con te, sciocca!»
La tirò a sé e la strinse forte in un abbraccio.
«Ti odio» mugugnò Lily, schiacciata contro il suo petto.
«Oh, sì, anch’io, ti detesto» ribatté lui, ironico. Davvero, non era arrabbiato con lei, non lo era con nessuno. Forse, solamente un poco con sé stesso, per non aver dato di più quando era il momento. Ma ormai i giochi erano fatti e non si poteva più tornare indietro. Poteva solo andare avanti. E accettare la proposta di Lily.
«Comunque d’accordo, sarò il tuo “vice-Capitano”» disse poi, sciogliendola dall’abbraccio.
Lily tirò su col naso «Bene. Queste sono tue»
Passò ad Albus la busta ed il rotolo. Lui si sedette sul letto e Lily lo imitò.
«Una è di Margaret» disse, riconoscendo immediatamente il nastro blu con cui la sua migliore amica sigillava tutte le sue lettere «e l’altra è di… oh…»
Cercò di nascondere il nome del mittente, ma Lily fu più rapida «Amanda Boot?» commentò «Quella che gioca nei Corvonero?»
«S-sì, beh… ecco…» tentò lui, avvertendo uno strano calore pervadergli il volto «Insomma, io e lei siamo usciti un paio di volte prima della fine della scuola e… lei ci teneva a rimanere in contatto e quindi eccola qui»
Albus sbuffò, scocciato.
In che cosa mi sono cacciato, accidenti a me?



[ Claire Says ]
Ciao a tutti quanti!
In tempi abbastanza rapidi, giungo a voi col secondo capitolo. O primo, se contiamo che il precedente è il prologo, ma va bene comunque.
Dunque... iniziamo a conoscere un po' di personaggi, tra cui mio figlio Albus adorato, e, con molta, ma mooolta calma, inizierà a delinearsi tutto quanto.
Un paio di piccoli appunti sul prologo, che non ho annotato in fase di pubblicazione causa ansia:
- come citato nell'introduzione della storia, non ci sono collegamenti tra questo racconto e "The Cursed Child", quindi la maggior parte delle cose non canoniche che leggerete sono di mia invenzione - anche se la Rowling ha detto che TCC è canon, ma ci potrei aprire un convegno a riguardo, e questa è un'altra storia;
- temo non ci siano altri appunti, avendo detto tutto in un punto solo.
Ok, ho finito di fare sproloqui.
No, anzi, se volete potete aggiungermi sul mio profilo Facebook - cercate Claire Daisy Riordan -, su cui posto gli aggiornamenti degli aggiornamenti (aggiornamentiception) e strippo male in generale su cose di vario genere.
Ok, stavolta davvero BASTA, solo GRAZIE a chi ha recensito il capitolo precedente dando un'altra piccola possibilità a questa storia.
Much love.
C.

 
  
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