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Autore: Adeia Di Elferas    20/04/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Quella notte, Caterina aveva deciso di non far uscire nessuno. Forse i francesi avrebbero ricevuto un duro colpo, se fossero stati attaccati anche quella volta, ma la conta dei soldati che le erano rimasti l'aveva convinta che non fosse il caso di fare un simile azzardo. Avevano già mostrato i muscoli a sufficienza: era arrivato il momento di fare una guerra di logoramento più subdola, lasciando che fossero i nemici a fiaccarsi da soli continuando a litigare.

Nottetempo, comunque, la rocca era stata viva come al solito, e la torre che era andata in parte distrutta era stata ricostruita pressoché alla perfezione. Lavorare al buio e di fretta stava diventando la specialità dei manovali della Sforza e lei, come aveva sempre fatto nel corso della sua vita, non era stata da meno, aiutandoli a portare pietre, martellare laddove serviva e spostare detriti pesanti all'occorrenza.

Perciò, anche se non era uscita in battaglia, la Tigre era arrivata al mattino con appena un paio d'ore di sonno all'attivo e la schiena a pezzi.

Appena aveva fatto chiaro, era salita sui camminamenti, nella speranza di capire se ci fossero dei movimenti particolari al campo francese. Con lei c'era Giovanni da Casale. All'inizio gli aveva chiesto di non seguirla, ma poi lui aveva insistito e la donna aveva ceduto. In fondo, quella notte, quando era rientrata in stanza dopo aver lavorato assieme agli operai, Pirovano l'aveva accolta come sempre, con una passione calda, e allo stesso tempo rassicurante, immutata malgrado gli eventi e lo scorrere del tempo, regalandole una parentesi di pace che difficilmente trovava con gli altri. Anche se, forse, non era un metro di giudizio corretto, per la Leonessa le abilità del milanese bastavano a renderglielo indispensabile. E quindi, se voleva seguirla sui camminamenti, perché non concederglielo?

“Forse l'idea di tuo fratello non è del tutto sbagliata.” disse Giovanni, mentre entrambi scrutavano l'orizzonte, gli occhi strizzati contro il vento gelido.

La Sforza si accigliò e si voltò appena verso di lui: “Stai attento a quello che stai per dire.”

La donna gli aveva raccontato tutto quello che Alessandro le aveva confessato. L'aveva fatto in modo molto stringato, ma non aveva omesso nulla. Le era venuto naturale, quando, stanchi, ma appagati, lei e Pirovano si erano trovati abbracciati sotto le coperte, racchiusi in una specie di bozzolo di calore e tranquillità. Siccome ciò che il fratello aveva fatto le creava ansia, la Leonessa aveva cercato di scaricare la tensione confidandosi con il suo amante favorito, ma, forse, aveva commesso un errore.

“Insomma...” prese a dire l'uomo, stando attento a come proseguire il discorso: “L'Alégre è molto influente, presso il re e i comandanti francesi... Forse cercando una mediazione con lui potremmo salvare la vita dei nostri soldati e mantenere salvo l'onore.”

“Se credi davvero che succederebbe così, allora sei un illuso.” tagliò corto Caterina: “Il papa muore dalla voglia di mettere la mia testa su una picca, e stai tranquillo che, se dovessimo arrenderci, farebbe in modo di punirci tutti solo per non dare a vedere che è solo me che voleva distruggere.”

Giovanni non sembrava convinto, ma dovette lasciar cadere la questione, perché, proprio dal centro della città, stava arrivando un piccolo drappello di uomini. Sembravano di rappresentanza, non un concreto pericolo, ma ciò che non gli quadrava era l'insegna che l'araldo portava in mostra.

La Tigre strinse gli occhi più che poteva e poi, scuotendo il capo, diede di voce a Baccino, che non era molto distante da lei. Il ragazzo arrivò di corsa e, non appena la donna gli chiese di descrivergli cosa vedesse, egli si concentrò e poi cercò di essere il più preciso possibile.

Appena ebbe sentito abbastanza, Caterina trasecolò: “Mi sembrava impossibile, ma...”

“Cosa?” chiese Pirovano, stranito, benché la descrizione fatta da Baccino gli avesse riportato alla mente lo stemma dei Riario.

“Quello è l'araldo del cugino del mio primo marito. Il Cardinale Sansoni Riario.” spiegò lei, a beneficio tanto di Giovanni, quanto del cremonese.

“E quindi che facciamo?” domandò il milanese, preoccupato.

“Nulla. Voglio vedere cosa vuole.” fece lei, cominciando a immaginarsi i quadri più disparati.

Da un lato, sperava in una mano tesa. Dall'altro, dato che quell'inviato di Raffaele era scortato dai francesi, temeva che il cugino si fosse solo prestato ai giochi del papa e del re di Francia, lasciandosi usare, com'era sua abitudine.

“Vai a chiamarmi Alessandro.” disse piano la Tigre, rivolgendosi a Pirovano: “Digli che è venuto il momento che estingua il suo debito.”

Giovanni annuì e poi, mentre già si stava allontanando, si sentì dire dall'amante di restare poi all'interno della rocca e non mettersi in vista. Insomma, voleva che se ne stesse il più possibile lontano da un eventuale pericolo.

Tempo che il messo cardinalizio arrivasse sotto la rocca, anche lo Sforza era giunto a destinazione e si era messo accanto alla sorella. Caterina, guardinga, si era appollaiata dietro una merlatura.

“Ti dichiarerai mio portavoce e dirai quello che ti dirò io.” gli ordinò.

L'uomo, che pure non si sentiva adatto, annuì e si appoggiò al parapetto, in attesa che il messaggero parlasse per primo.

Nell'attesa di un cenno da parte del messo, la Leonessa riordinò le idee. Non voleva mettersi in mostra per paura di una trappola. Anche se più volte era stata ben in vista sui camminamenti, forse volevano farla uccidere in modo plateale, facendole abbassare la guardia con la scusa di quell'abboccamento. Oppure si trattava davvero un altro tentativo di avvicinarla per trattare e, in quel caso, Alessandro avrebbe avuto occasione di ripagarla rifiutando una pace che lui stesso aveva cercato di ottenere a sua insaputa.

“Sono qui per conto del Cardinale di San Giorgio!” gridò il portavoce di Raffaele: “Devo parlare con Madonna Sforza!”

Alessandro, senza aspettare di essere imbeccato parola per parola dalla sorella, ribatté: “Io sono il suo portavoce e suo fratello, sangue del suo sangue. Dovete dire a me, perché Madonna non intende parlare direttamente con voi!”

Seguì un breve silenzio, e la Contessa poteva quasi vedere il messo ragionare alacremente su cosa fosse giusto fare: insistere o riportare il proprio messaggio subito, togliendosi così prima d'impiccio.

“Sono qui per dire a Madonna Sforza – riprese l'uomo, con un forte accento toscano che fece aggrottare la fronte di Caterina, che si era aspettata una cadenza romanesca – che si arrenda. Che lo faccia ora, che accetti quel che il Santo Padre le offre e l'onore delle armi. Che lasci questa rocca e metta senno. Il Cardinale Sansoni Riario garantisce che non le verrà torto un capello e che lui stesso provvederà al suo sostentamento.”

Alessandro non sapeva cosa rispondere e, quando la Tigre se ne accorse, cominciò a suggerirgli una frase dopo l'altra.

Così il milanese iniziò a elencare una serie di invettive sdegnose e mordenti contro il papa, censurando solo le bestemmie più pesanti, con scorno della sorella, che, invece, insisteva per fargliele dire.

“E in quanto alle promesse del Cardinale e di tutti i preti del mondo – concluse Alessandro, tralasciando anche quella volta un paio di epiteti troppo scurrili per lui – valgono meno delle foglie di campo con cui i contadini si nettano il fondoschiena al mattino!”

La risposta del messo, sprezzante e, chiaramente, premeditata, non tardò ad arrivare: “Il Cardinale insiste, perché Madonna non voglia essere la rovina dei figlioli suoi! Le promette che il papa darà lei un'entrata di quattromila ducati in qualunque parte d'Italia ella voglia! E la si lascerà uscire dalla rocca con tutte le cose sue!”

Alessandro deglutì, guardando in fretta verso la Contessa. Questa, dopo essersi morsa l'interno della guancia, cominciò a suggerirgli la risposta e l'uomo prese a ripeterla parola per parola.

“Madonna e tutti noi suoi uomini intendiamo tenere la rocca fino al grano nuovo – e qui lo Sforza non riuscì a evitare di deglutire, perché quell'affermazione significava restare a Ravaldino ancora almeno sei mesi, una cosa a suo modo di vedere pressoché impossibile – e solo allora Madonna e il suo figlio primogenito Ottaviano ascolteranno proposte d'accordo.”

La Leonessa si prese un istante e, dato che dal messaggero non arrivava favella, andò all'attacco finale.

Il fratello, talmente agitato da doversi aggrappare alla pietra della merlatura per trattenere il tremito delle mani, riportò, fedelmente: “Che Madonna conosce il cugino Cardinale e sa che egli è uomo di poco animo e manchevole cuore. Che non si meraviglia che ora tenti di indurla a condizione così disonesta e dannosa, né che voglia persuaderla a un partito che non si può accettare senza una grande viltà e pusillanimità. Che Madonna conosce molto bene che il Cardinale va al cammino suo usato per farla schiava dei suoi figli, ma che non si illuda, ché prima di diventarlo morirà qui, e, se volesse fare un accordo, lo farebbe rimanendo sovrana, rifuggendo dalla soluzione di essere costretta a cedere il governo ai suoi figli. Perché anche in passato non ha mai voluto cedere il dominio, per non essere sottoposta a lui.”

Rendendosi conto con un leggero ritardo di aver forse detto troppo, con quell'ultimo inciso, Caterina si affrettò a far dire al fratello qualcosa che andasse a stemperare quella che sarebbe potuto suonare come un'ammissione di egoismo e malafede. Era vero che lei credeva che Raffaele stesse brigando per restaurare Ottaviano come fantoccio dei Borja, ma era altrettanto vero che far capire quanto lei fosse contraria, a prescindere, a un governo retto dal figlio, non l'avrebbe aiutata.

“Sia come sia – concluse Alessandro, riportando ancora una volta fedelmente le parole della sorella, che restava accucciata accanto a lui – riportate quanto è stato detto, e tornate con una controproposta valide del Cardinale, se vi piace.”

Interpretando bene un cenno della Tigre, lo Sforza si allontanò, a quel punto, dalle merlature e sparì alla vista del messo mandato da Raffaele. Seguì la Contessa fino alle scale e, appena furono scesi, la fermò.

“Che hai inteso fare, facendomi rispondere a quel modo?” chiese lui, rimasto più confuso che altro, da ciò che aveva appena dovuto fare.

“Prendere tempo – spiegò lei – e far capire loro che non mi bastano le moine di un uomo come Raffaele per piegarmi.”

“E cos'è questa storia dei tuoi figli? Credi davvero che il papa...” cominciò a dire Alessandro, ma la donna lo interruppe.

“Raffaele non si è ancora reso conto di chi sia davvero Ottaviano. Non lo conosce.” fece lei, scuotendo il capo: “Magari crede davvero che, una volta reinsediato, possa avere un qualche peso, ma si sbaglia. È un inetto già per conto suo, figuriamoci se fosse nelle mani del papa...”

“Ma almeno avremmo tutti salva la vita...” fece notare Alessandro, seguendo la Leonessa a passo svelto.

Questa, diretta alla sala delle armi, fece un suono beffardo e commentò: “Ottaviano avrebbe salva la vita. Non noi.”

“Ebbene...” ribatté allora lui, perplesso: “Ottaviano è comunque tuo figlio... Sapere almeno lui salvo dovrebbe essere un incentivo, per te...”

“Invece non lo è.” mise in chiaro Caterina, mentre entravano nell'armeria: “Tra tutti i miei figli, lui è l'unico che potrei sacrificare senza dolermene. Lui e suo fratello Cesare.”

Alessandro, che non l'aveva mai sentita parlare così della propria prole, avvertì un brivido gelido lungo la schiena. La guardò un momento, quasi sperando che si rimangiasse tutto, dando la colpa della propria asprezza alla tensione di quel momento. E invece la Tigre stava prendendo una spada e una pietra cote per fare il filo, apparentemente già dimentica di quanto avesse appena detto.

“Allora...” disse, con difficoltà, lo Sforza, cominciando a chiedersi chi fosse davvero la donna che aveva dinnanzi, dato che era a tratti così diversa dalla bambina assieme a cui era cresciuto: “Allora io torno... Torno sui camminamenti per vedere come...”

“Sì, torna sui camminamenti.” gli fece eco la donna, indicandogli l'uscita della sala delle armi.

 

Il messo del Cardinale Raffaele Sansoni Riario era tornato a palazzo Numai, aveva riferito, in fretta e senza riportare troppo fedelmente le parole di Alessandro Sforza, ciò che era stato detto e poi era ripartito immediatamente, dicendosi pronto a tornare in Forlì non appena avesse avuto nuove disposizioni dal suo signore.

Cesare era furibondo. Non si era certo aspettato che la Tigre si lasciasse piegare da una simile sceneggiata, ma in fondo un po' ci aveva sperato. Se, per pura fortuna, il Cardinale avesse avuto l'idea giusta per farla capitolare, lui si sarebbe preso la rocca, la città e la Tigre in un colpo solo e senza far fatica. E invece si trovava da capo.

Come se non bastasse, Bernardi gli aveva riferito che tra i francesi stava correndo una voce molto pericolosa e, per quanto ne sapeva lui, del tutto infondata. Si diceva che l'assedio stesse durando così tanto e stesse proseguendo in modo tanto sconclusionato perché Lorenzo il Popolano, che di fatto cercava di comandare Firenze in tutto e per tutto, fosse riuscito a combinare con il Valentino un accomodamento.

Il Medici, cognato della Tigre, secondo questi pettegolezzi, aveva ceduto alle richieste di lei, che domandava soccorso e aiuto, e lui, per andarle incontro, avrebbe cercato di corrompere i francesi, o meglio, l'uomo che li guidava, quindi Cesare, affinché le azioni belliche fossero deboli e lente, tanto da permetterle di respirare, nella speranza che, alla fine, il re di Francia accantonasse l'idea di conquistare la Romagna.

“Fate venire qui i miei condottieri.” aveva sentenziato, stancamente, allungando una mano verso Luffo, che, ormai, sembrava più un servo che non il padrone di casa.

L'uomo, che negli ultimi giorni era come invecchiato di colpo, aveva chinato il capo ed era sparito.

Dopo nemmeno venti minuti, il salone si era riempito di francesi e il Borja aveva finalmente potuto elencare i suoi ordini per quel giorno.

Per il momento il Duca di Valentinois non poteva comandare l'artiglieria come voleva, men che meno dopo che il portavoce del Cardinale di San Giorgio aveva osato consigliare a voce alta di cessare il fuoco per qualche giorno, almeno finché non fosse tornato in città con le nuove proposte del suo signore. Poteva solo dare ordini di tipo generale, disponendo l'indebolimento dei nemici e una maggior disciplina dei soldati.

“Dato che la popolazione e i nostri soldati – cominciò il Borja, le mani strette dietro la schiena e lo sguardo impenetrabile che passava da un graduato all'altro – hanno paura gli uni degli altri malgrado tutti i bandi che ho già scritto, mi trovo costretto a farne uno nuovo con cui intimo a tutti, sia ai forlivesi, sia ai nostri, di consegnare le armi private e portarle a Porta Schiavonia dove saranno raccolte, pena la perquisizione e la forca per i trasgressori.”

Nessuno osò contraddirlo, anche se, nell'ipotesi che la Sforza conducesse altre sortite notturne, lasciare l'esercito praticamente privo di difesa, eccetto quando armati dai loro comandanti, sembrava a tutti una scelta molto discutibile.

“Inoltre – proseguì imperterrito Cesare, la testa pesante e forse un po' di febbre, dovuta al mal francese che quel giorno sembrava volerlo tormentare più del solito – i contadini dovranno trasportare cinque fascine ciascuno davanti alla rocca di Ravaldino, dalla parte delle montagne.”

Il silenzio che seguì questa volta era diverso. In molti si scambiavano occhiate interrogative e il Balì di Digione fu quasi sul punto di chiedere il motivo di una simile imposizione.

Il Valentino, però, dissipò subito le perplessità, spiegando: “Perché ho deciso che da lì entreremo, facendo una braccia nelle mura. E dunque si dovrà passare sul fossato.”

I presenti non parvero particolarmente colpiti da quelle parole, anzi, in molti abbozzarono un sorriso condiscendente, come a dire che il figlio del papa stava dimostrando una volta di più la propria inesperienza, pensando di poter colmare un fossato a quel modo.

“E infine – concluse il Borja, più grave, voltando le spalle ai comandanti – voglio che si inizi la cavata.”

“Questa è una follia.” decretò, senza più aver pazienza, Yves d'Alégre.

“Voglio stanarla come un gatto farebbe con un topo.” lo zittì Cesare: “C'è di meglio che farla morire di sete?”

“Le loro fonti sono troppo in profondità.” si oppose Achille Tiberti, che era arrivato quella mattina, proprio mentre tutti aspettavano di vedere come sarebbe finito il tentativo di intermediazione del messo del Cardinale Sansoni Riario.

“Che ne volete sapere voi..!” sbottò il Valentino, che era già stanco di vedersi davanti il naso adunco del cesenate.

“Ho vissuto qui molto più di voi.” fece l'uomo e poi, rivolgendosi anche agli altri: “E conosco bene la rocca e i suoi punti forti, e posso assicurarvi che l'approvvigionamento di acqua è proprio uno di questi. Non arriveremo mai a impensierirli, nemmeno se ci mettessimo a scavare giorno e notte!”

“Così ho deciso e così si farà!” gridò allora il Duca di Valentinois e, appena dopo aver siglato i bandi ufficiali, fece uscire tutti quanti e chiese di restare solo.

Una volta accontentato, però, chiamò un servo e gli chiese di cercare Andrea Bernardi.

“Voglio proprio vedere – disse, in un borbottare rabbioso – se è proprio vero che quella cagna non può morir di sete.”

 

Era un lunedì scialbo e spento, e per essere il 30 dicembre, non faceva nemmeno troppo freddo. I francesi continuavano a far tacere i cannoni, ma quella mattina Caterina aveva visto dei movimenti che non le piacevano.

Già dal pomeriggio prima, in realtà, aveva notato qualcosa di preoccupante e, restando a discuterne con i suoi generali fino a tarda sera, era giunta a conclusione che il Borja si stesse preparando a una cavata, per togliere loro l'acqua, e, forse, al riempimento del fossato.

Sia lei che i suoi uomini, però, si erano subito sentiti un po' più tranquilli, sapendo che almeno la prima delle due imprese gli sarebbe risultata quasi impossibile.

Però, in quel momento, i soldati francesi sembravano impegnati in tutt'altro. Stavano preparando, apparentemente, dei carri, come se si preparassero a dover trasportare qualcosa di molto ingombrante e pesante.

La Sforza aveva chiamato accanto a sé Baccino, che aveva una vista migliore della sua, e, similmente a come aveva fatto il giorno prima, si stava facendo descrivere nel dettaglio tutto ciò che lui vedeva più di lei. Il Facendina, poco lontano da loro, chiedeva con insistenza se dovesse preparare un falconetto per colpire i nemici, ma la Contessa gli diceva ogni volta di no, perché prima voleva capire che volessero fare. In più, sprecare munizioni per colpire quella manciata di soldati le pareva una mossa da evitare a prescindere.

Ci vollero un paio d'ore, prima che si riuscisse a capire cosa i francesi avessero in mente e, quando in un lampo di comprensione, la Leonessa se ne rese conto, scoppiò a ridere.

“Che c'è?” chiese Baccino, al suo fianco.

“Vogliono fare a pezzi la statua di Giacomo.” rispose lei, a voce bassa, guardando i primi manovali che litigavano su come fare a spezzare il bronzo enorme che raffigurava il suo secondo marito: “E sicuramente credono di darmi un dolore, facendolo.”

“E non è così?” domandò il cremonese, seguendo con lo sguardo i nemici, che, in effetti, ora stavano inequivocabilmente dando l'attacco a quell'effige monumentale che rappresentava il tanto vituperato Barone Feo.

Caterina, a quel punto, fece una smorfia di apparente disgusto: “L'ho sempre detestato, quell'obbrobrio. Non gli somiglia. Ed è stato forgiato solo per placare la mia ira, e non per sincero omaggio. L'unica cosa che mi spiace, è di non aver pensato prima io a usarne il bronzo per farne altri cannoni.”

Detto ciò, la donna tirò su con il naso e voltò le spalle alla fabbrica improvvisata dei francesi, andandosene.

Baccino, rimasto al suo posto, la guardò mentre si allontanava e poi tornò a osservare la statua. La Sforza poteva fare e dire quel che le pareva, ma al ragazzo parve chiaro che se ne fosse andata perché, in fondo, vedere quell'ultimo segno tangibile del passaggio di Giacomo sulla terra andare in pezzi era troppo doloroso. E per un momento, in un certo senso la capì e anche lui, nel vedere il primo pezzo di bronzo intaccato dagli arnesi dei nemici, avvertì uno strano groppo alla gola.

 

Cesare era rimasto molto soddisfatto nel vedere come stesse risultando facile fare a pezzi la colossale statua dello stalliere famoso per essere stato l'amante della Tigre. Era sicuro – perché gli era stato riferito che la Leonessa non era più stata avvistata sui camminamenti – che quella mossa, in un certo senso suggeritagli dal Bernardi, fosse un colpo di genio.

Infatti, quando il giorno prima aveva convocato il Novacula, per chiedergli che ne pensasse del loro tentativo di prosciugare le riserve idriche di Ravaldino, il barbiere aveva fatto spallucce, dicendo che gli sembrava un progetto molto ambizioso, quasi infattibile. Anche se non era mai stato abbastanza alla rocca da poter controllare le cose coi propri occhi, aveva aggiunto, aveva sempre sentito dire che l'approvvigionamento d'acqua fosse uno dei punti forti di quella struttura.

Così il Borja aveva provato a spostare l'argomento su altro, indagando di più sul passato della sua avversaria, ben sapendo che quella donna si sarebbe spezzata più facilmente nell'animo che non militarmente.

Quando Andrea aveva finito per citare il Barone Feo per la decima volta in pochi minuti, il Duca di Valentinois aveva indagato: “E della statua che mi dite? La farebbe infuriare, vederla cadere a pezzi?”

Il barbiere aveva sollevato le sopracciglia e poi, con una certa reverenziale cautela, aveva ammesso che era l'unica immagine abbastanza fedele che fosse rimasta del defunto Giacomo, fatta eccezione per quella nella cappella dei Feo in San Girolamo: “Che comunque – aveva fatto notare lui – lei non potrà mai più vedere...”

E quindi far abbattere quella statua era parsa un colpo da maestro al Valentino, che avrebbe fatto di tutto, pur di destabilizzare la sua nemica.

Stava ancora ripensando alla faccia stranita fatta da Achille Tiberti, quando lui aveva proposto di abbattere quel monumento. Era stato come se avesse proposto di puntare i cannoni contro il sole o provare a prosciugare il mare. Così aveva avuto la conferma che quella statua era una sorta di entità intoccabile per chi aveva vissuto a Forlì come il cesenate.

Solo il Ligny ebbe la lucidità sufficiente, però, per suggerire, giusto quella mattina, di usare il bronzo recuperato a quel modo per forgiare nuovi cannoni e pezzi d'artiglieria di vario genere.

Cesare non riusciva a smettere di pensare a quella statua e alla sua distruzione perché, mentre fingeva di ascoltare una rimostranza da parte dei suoi graduati, aveva incrociato lo sguardo di Bernardi. Era presente anche lui, nel salone dei Numai, perché il Borja voleva che riportasse fedelmente, nelle sue cronache, il suo modo severo, ma giusto, di governare. Dunque partecipare a un'udienza del genere gli sarebbe servito come linea per le nuove pagine della sua cronaca.

Però, immerso com'era nei suoi ragionamenti, il figlio del papa non aveva minimamente prestato orecchio al Balì, che stava finendo una lunga filippica.

L'unica cosa che il Duca colse furono le ultime parole del francese: “E dunque costui va punito in modo esemplare.”

Il Borja, rendendosi conto solo in quel momento che l'oggetto della discussione doveva essere una condanna a un forlivese, chiese: “Ne siete sicuri? È stato lui?”

L'accusatore se ne disse certo e così a Cesare non servì altro: “Ebbene, lascio a voi la scelta della durezza della condanna...”

Tuttavia, mentre firmava un ordine in bianco, il figlio del pontefice incrociò di nuovo lo sguardo del Novacula, e si chiese se avesse fatto bene a lasciare in mano a un francese una simile decisione.

Andrea, che aveva capito benissimo che il Valentino non aveva ascoltato nemmeno mezza invettiva del Balì di Digione, deglutì un paio di volte mentre quest'ultimo proclamava una condanna a morte, ma, a sua volta, demandò i dettagli a un'altra autorità: Monsignor Pervosto, che era di fatto il capo del quartiere in cui viveva il colpevole.

Anche i rappresentanti del governo forlivese – Luffo Numai, i dottori in legge Guglielmo Lambertelli e Simone Aleotti, e il fisico e studioso Bartolomeo Lombardini – non trovarono parole per opporsi e così si procedette senza altri indugi.

 

 
   
 
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