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Autore: Adeia Di Elferas    22/04/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Il condannato era Giorgio Folfi. Andrea Bernardi lo conosceva da sempre come uno speziale affidabile ed estremamente colto, pacifico e senza alcuna velleità rivoltosa.

Eppure il boia lo stava portando via dalla cella in cui era stato temporaneamente rinchiuso per andare a giustiziarlo nella sua dimora. L'ordine definitivo era partito da Monsignor Prevosto, che era uscito dalla casa del banchiere Antonio Giuntino, costretto a ospitarlo, con addosso i suo miglior abito e l'espressione pia degli uomini convinti di condannare il prossimo in nome delle leggi divine.

L'accusa l'avevano sentita tutti: il forlivese era stato dichiarato colpevole di aver intossicato un francese che aveva preso alloggio sotto al suo tetto.

In una sorta di punizione dantesca, il giustiziare trascinò il poveretto – ancora incredulo per quello che gli stava capitando – fino a casa. La piccola folla di curiosi, sia soldati francesi, sia comuni cittadini forlivesi, andarono senza protestare fino alla dimora dello speziale. Anche se lì poter essere in prima fila per vedere coi propri occhi fu difficile, il Novacula riuscì ugualmente a farsi un varco e poté assistere abbastanza da vicino alle mosse del boia.

Per prima cosa, al povero Giorgio Folfi, in lacrime e disperato, venne recisa di netto la mano destra, e i due assistenti del giustiziere la inchiodarono immediatamente alla colonna di mezzo del portico di casa.

A quel punto, lo speziale, sanguinante e annichilito dal dolore e dalla paura, provò a implorare pietà, ma, ovviamente, non ottenne altro se non uno sbuffo da parte del suo aguzzino.

Messa in bella mostra la mano tagliata, come un segno che era stato quello il luogo dell'omicidio, il boia diede ordine di legare il malcapitato sulla gridella del suo carro, coi piedi in su. Fatto ciò, diede ordine a uno dei suoi di trascinarlo a quel modo fin sotto a Ravaldino e poi, da lì, in piazza, dove sarebbe stato finito.

Il macabro corteo, quindi, si divise in due tronconi. Il primo andò direttamente davanti al palazzo dei Riario, in attesa di veder tornare il carro e assistere all'esecuzione, mentre altri – i più coraggiosi, pronti a sfidare l'eventuale reazione della rocca – corsero dietro al carretto.

Il Novacula, più per non dover correre che altro, decise di accodarsi a quelli che stavano raggiungendo la piazza.

Bastò poco tempo, per veder arrivare l'assistente del boia assieme alla sua triste preda. Ciò che restava di Folfi – che, malgrado tutto, ancora respirava – venne staccato dal carro e gettato ai piedi del boia, che era, intanto, stato affiancato dal forlivese Marco Francini, carnefice in carica.

Davanti a un pubblico attonito e silenzioso, quest'ultimo afferrò per i capelli il capo sanguinante del condannato e poi, facendosi passare una spada, glielo recise di netto.

La testa mozzata venne infilzata sulla forca che dominava la piazza, mentre il corpo venne attaccato alla catena usata di norma, in giorno di mercato, per pesare le merci. Su ordine del boia, si accese delle torce e, con queste, si diede fuoco al cadavere privo di testa e di mano destra.

Mentre ancora il corpo bruciava, l'odore acre che riempiva in modo spiacevole le narici di tutti i presenti, Bernardi borbottò tra sé una preghiera per quell'uomo mite e allegro che era stato lo speziale Folfi.

Qualcuno, tra i presenti, cominciò ad andarsene, mentre altri si mise a parlottare, sostenendo che una simile pena fosse stata scelta anche per colpa della Sforza. Quando Bernardi provò a chiederne il motivo, con discrezione, uno dei suoi concittadini, dopo averlo squadrato a lungo, quasi non riconoscendolo, sotto i suoi abiti nuovi e lussuosi, gli diede una risposta che gli mise i brividi.

“La Tigre – gli disse – ha messo nelle sue celle il figlio di Giuntino e va a sapere che fine gli ha fatto fare... Ora questo speziale si dimostra un partigiano della Tigre... Credete che Giuntino abbia chiesto clemenza al francese o gli abbia consigliato di non avere alcuna pietà? Tutto torna, messer Bernardi... La Contessa ha scavato a fondo coi suoi artigli, e ora tocca a lei venir graffiata.”

Tornandosene a passo lento e capo chino verso casa sua, Andrea pensò al passato e fece un facile confronto tra la legge della Leonessa e quella del Valentino. Babone era stato un bargello crudele, la stessa Sforza era stata violenta e implacabile, eppure al barbiere quelli passati sembravano quasi tempi d'oro, in confronto a quelli che stava vivendo.

“Il diavolo...” disse a voce bassa l'uomo, portandosi una mano al risvolto del giubbone di velluto con cui il Valentino aveva voluto omaggiarlo un paio di giorni prima: “Il diavolo...”

 

“L'ultimo giorno dell'anno...” sussurrò Caterina, prendendo in mano il calice pieno di vino e sollevando un sopracciglio: “Chi mai avrebbe creduto di trovarsi a un passo dal Millecinquecento in queste condizioni...”

Accanto a lei, Giovanni da Casale fece un suono sordo e andò avanti a mangiare come nulla fosse, un boccone dietro l'altro.

La Sforza gli dedicò uno sguardo un po' apatico, esattamente come lui dimostrava di essere ogni volta in cui lei provava a fare un discorso che andasse oltre le armi e la guerra. Proprio mentre il suo amante finiva con gusto il piatto di zuppa che aveva davanti a sé, finendo il lavoro con un po' di pane nero, la Tigre si disse che non sarebbe stata una cattiva idea passare un po' di tempo con Vangelista Monsignani. In fondo era uno dei suoi segretari, di quando in quando era anche giusto metterlo a parte dei suoi pensieri, specie dopo i due affronti che il Borja le aveva fatto.

Innanzitutto, non riusciva a digerire lo scempio che i francesi stavano facendo della statua di Giacomo. In secondo luogo, il giorno prima, un forlivese era stato barbaramente trascinato, legato a un carro, proprio sotto alle mura di Ravaldino. Sui camminamenti lei non c'era, ma il Capitano Mongardini, che era di vedetta, era subito corso a raccontarle ogni dettaglio. Non potevano sapere il motivo di quella scena così violenta, ma era chiaro che sbandierarla a quel modo era stata un'idea del Valentino.

E in effetti, sarebbe stato inutile negarlo, quel fatto l'aveva innervosita non poco, abbastanza, almeno, da toglierle il sonno quella notte e renderla intrattabile il giorno dopo.

“E pulisciti quella bocca..!” sbottò di colpo la Tigre, vedendo che nella barba di Pirovano si era fermata qualche briciola di pane: “Sarai anche un soldato, ma ti porti a letto una Contessa!”

L'uomo rimase esterrefatto da quell'uscita e la fissò stranito mentre la donna si alzava e lo redarguiva un'ultima volta con un'occhiataccia.

Già mentre camminava svelta in corridoio, la Sforza si trovò pentita del suo scatto. Dopotutto, il suo amante non aveva fatto nulla di che, né si era comportato in modo diverso dal solito. Era lei a essere più nervosa del consueto.

Ciò che le pesava era davvero il non potersi confrontare alla pari con il milanese. Rimpiangeva come non mai i momenti in cui accanto a lei c'era stato Giovanni Medici. Con lui aveva trovato non solo una stabilità sentimentale, una parvenza di regolarità, che l'aveva portata a smettere per un po' di cercare la compagnia di uomini di cui a volte ignorava perfino il nome. Ma, soprattutto, le aveva dato la possibilità di condividere anche ciò che le passava per la mente. Insieme leggevano, si consigliavano, discutevano i problemi e poi ne venivano a capo.

Con Pirovano, invece, così com'era stato con tutti gli altri uomini arrivati dopo il Popolano, tutto ciò che esulava la parte fisica del rapporto era un campo di rovi, qualcosa di imperscrutabile e pericoloso. Anche con Giacomo era stato così... Eppure, se avesse potuto, la Tigre avrebbe scelto ancora lui.

Interrogandosi su quella parzialità che non riusciva a eliminare nemmeno a quasi cinque anni dalla morte del suo secondo marito, la donna arrivò finalmente a destinazione.

“Sapevo di trovarti qui.” disse piano la Contessa, avvicinandosi a Monsignani.

Il venticinquenne portava sulle spalle la stola da confessione, ma, accanto a lui sulla panca non c'era nessuno.

“Hai bisogno di me?” chiese il ragazzo, parlando a sua volta a voce bassa, guardando di sottecchi l'altro religioso, che stava seduto non molto distante.

“Sì.” rispose lei, che, in effetti, l'aveva cercato nella speranza di poter esporre a lui i suoi pensieri, cosicché, prestandole l'orecchio, Vangelista potesse aiutarla a rimettere le cose un po' in ordine.

“Andiamo in camera tua?” chiese il frate, vedendo un paio di soldati che si stavano avvicinando, probabilmente proprio per farsi confessare.

“Sì.” annuì lei, capendo che, restando lì, non avrebbero avuto né il tempo né la tranquillità necessaria per discutere di argomenti delicati come quelli che lei voleva trattare.

Arrivati in stanza, la Sforza chiuse subito la porta. Stava pensando a come iniziare il discorso, quando, voltandosi, vide lo sguardo acceso di Vangelista e capì subito quanto avesse frainteso il suo invito. Era comprensibile, in fondo, dato che, fino a quel momento, l'aveva cercato pressoché sempre per un solo motivo.

Perciò, allungando una mano per tenerlo un po' a distanza, la donna spiegò: “Voglio solo parlare.”

Monsignani annuì, però le sue intenzioni non sembravano essere cambiate. Con lentezza, si avvicinò un po' di più alla sua amante, fino a riuscire a stringerle il fianco con la mano e strapparle un bacio.

“Ho detto che voglio parlarti.” ribadì lei, ma anche quella volta il frate finse di non capire e tornò alla carica.

Questa volta il modo in cui la stava baciando e stringendo a sé aveva qualcosa di molto più possessivo. La Contessa riconosceva quel genere di atteggiamento, e non le piaceva. Benché stesse facendo del suo meglio per respingerlo con le buone, alla fine si vide costretta a chiarire il tutto in modo più drastico.

Spazientita, gli diede uno spintone e alzò la voce: “Ti ho detto che voglio solo parlare!”

Il ragazzo, spiazzato, sollevò le mani, a mo' di scusa, e poi si sistemò meglio il cordone che gli stringeva la veste in vita: “Scusami.” deglutì.

Caterina fu indecisa, se scusare davvero quello che era successo, e andare avanti come nulla fosse, o essere più severa e smorzare quell'incontro sul nascere, in modo che Vangelista capisse davvero l'errore che aveva commesso. La donna avrebbe potuto capire benissimo il primo slancio, volendo anche il secondo, ma l'ostinazione con cui lui aveva ignorato il suo diniego verbale l'aveva spaventata.

“Lascia perdere.” sussurrò la Tigre: “Vattene. Meglio che resti sola.”

Avvilito per come stavano andando a finire le cose, Monsignani tentò, balbettando, di riparare in parte al fraintendimento, ma la milanese non lasciò spazio per una pace.

Guardando uscire il frate, la Sforza si sentì come svuotata. Si era illusa che almeno lui avesse cercato in lei qualcosa che andasse oltre, e, invece, pure lui aveva tolto la maschera, facendole capire che l'unico aspetto di lei che l'attirava era quello, di fatto, più accessibile e semplice da gestire.

Andandosi a sedere sul letto, la Contessa guardò distrattamente la scrivania su cui erano ancora appoggiati dei libri di Giovanni Medici. Si sfiorò il nodo nuziale che portava all'anulare sinistro e poi, con un sospiro tremulo, cercò consolazione in una certezza che ormai l'accompagnava da settimane: sarebbe morta, in quella guerra, in un modo o nell'altro, e finalmente avrebbe rivisto gli unici due uomini che avessero davvero contato qualcosa nella sua vita.

Con quel pungolo fisso nel petto, la donna si rialzò, controllò con gesti automatici la sua armatura, sistemata con cura sul sostegno di legno, e poi, raddrizzando le spalle, uscì di nuovo. Si sarebbe tenuta i suoi pensieri per sé. In fondo l'aveva fatto per tutta una vita...

 

“Solo io e suor Elena sappiamo che Giovannino è un maschio.” assicurò suor Ubbidienza, annuendo con fare grave, mentre prendeva in braccio il piccolo, che la fissava con diffidenza.

Bianca accennò a un breve sorriso, mentre anche Cornelia tendeva le braccia per farsi prendere da qualcuno. Accontentando la nipote, la Riario si morse il labbro e poi chiese alla monaca cosa ne sapesse di tutta la sua situazione.

La donna – che era arrivata nella cella della forlivese da poco, per aiutarla a cambiare e pulire i due bambini, come ormai faceva ogni sera – sollevò entrambe le sopracciglia e rispose: “Poco, poco, in effetti... Quello che mi ha detto la badessa: che voi avete bisogno di aiuto e riservatezza, e che questo bel bambino ha bisogno di un posto sicuro, dove nessuno lo cerchi.”

Bianca fece un cenno d'assenso e poi, osservando l'abito da bambina che celava ai più la vera identità del fratellino, sussurrò: “Sapete chi siamo?”

Suor Ubbidienza, a quel punto, si schiarì la voce: “Ebbene, non mi è stato detto tutto, ma...” le sue guance si imporporarono, mentre continuava: “Messer Fortunati non ha voluto dire molto, a me, nemmeno quando mi è stata affidata la piccola Cornelia... Però, ecco, so bene che lui è stato in Romagna parecchio tempo e ha conosciuto Madonna Sforza... E il vostro accento, se mi permettete, vi tradisce.”

La Riario, come folgorata da quella rivelazione, si premette una mano sulle labbra, suscitando una mezza risata della monaca.

“Ma non temete, messer Fortunati – riprese Suor Ubbidienza, arrossendo di nuovo, quando arrivò a citare il piovano – ci ha detto chiaramente cosa rischiate voi e cosa rischiamo noi a tenervi qui. Non vi tradirà nessuno. Nessuno vuole che Lorenzo Medici faccia entrare le guardie in armi in questo monastero!”

La figlia della Tigre trovava giorno dopo giorno sempre più sorprendente la prontezza di spirito e l'intelligenza di quella suora, e ne apprezzava molto la compagnia. Quella notte, l'ultima dell'anno, era felice di poter essere almeno per un po' in sua compagnia.

“Voi, qui a Firenze, non festeggiate il Capodanno domani, vero?” chiese la ragazza, distraendosi.

“No.” ammise la monaca, e poi, non reprimendo un'espressione compiaciuta: “Ma so che voi a Forlì lo festeggiate il primo gennaio. Come a Milano. È una delle cose che ci ha detto messer Fortunati.”

Siccome, per la terza volta, la suora aveva preso colore nel citare il piovano, Bianca, approfittando anche dell'età della sua interlocutrice, che non doveva essere troppo lontana dalla sua, chiese: “E messer Fortunati è un uomo che vi piace molto, vero?”

Suor Ubbidienza scoppiò a ridere, guadagnandosi un'occhiataccia da parte di Giovannino che protestò per farsi liberare dal suo abbraccio: “Messer Fortunati è un uomo molto colto, molto...”

La Riario ricordava Francesco come un uomo distinto, anzi, lo si sarebbe potuto definire bello, ma, forse per il mestiere che faceva o per via della sua età, lei non l'aveva mai e poi mai visto in altro modo se non come un eventuale guida spirituale o, al massimo, come un surrogato di una figura paterna.

Perciò fu con sorpresa che disse: “Non avevo capito che avesse questo ascendente su di voi.”

La monaca, forse capendo che non avrebbe dovuto indugiare su quell'argomento, scosse il capo e minimizzò: “Lo trovo un uomo degno di stima. Nulla di più.”

Sentito ciò, Bianca non volle più insistere e cominciò a parlare d'altro. Senza che nessuna delle due si rendesse conto di come, mentre ancora stavano cambiando i due bambini, arrivarono a citare il giardiniere che la Riario aveva visto qualche giorno prima nell'orto.

Suor Ubbidienza, dopo un mezzo apprezzamento uscito dalle labbra dell'altra, le dedicò uno sguardo in tralice e poi disse, tra il pensieroso e l'insinuante: “Sono in tante a volerlo, qui. E chi lo può pagare bene o lo soddisfa come vuole lui, può averlo senza che suor Elena se ne lamenti.”

Bianca, che non si era aspettata né un simile discorso, né un simile tono dalla donna che la stava aiutando con Giovannino e Cornelia, si sentì avvampare: “Ho... Ho capito.” e poi, dato che la monaca sembrava in attesa di qualche sua ulteriore domanda, la ragazza provò a chiedere: “E anche voi l'avete..?”

“No!” esclamò subito suor Ubbidienza, ridacchiando nervosa, il volto rubizzo: “No, no... Io mai, non scherzate. Io sono una monaca per convinzione. Alcune mie consorelle sono qui contro il loro volere, si prendono qualche momento di libertà, le posso capire. Voi non avete nemmeno preso i voti e quindi... Potrei capire anche voi, ecco. Non avete obblighi.”

Per qualche secondo, nessuna delle due parlò, e, sistemati i due bambini, tra loro restò ancora un silenzio strano.

“Se dovessi aver voglia di incontrare quel giardiniere – disse lentamente la Riario, tra il serio e il faceto – mi servirebbe qualcuno che guardasse i piccoli per un po'...”

La monaca, allora, come se prendesse come uno scherzo quella costatazione, ma, allo stesso tempo, rispondesse con serietà, sussurrò, il sorriso che si smorzava sul finale: “Quando vi servirà, ve li terrò io. Sono brava a mantenere i segreti.”

La figlia della Tigre fece un breve cenno con il capo e poi, più imbarazzata di quel che avrebbe voluto, ribatté: “Ora forse dovrei riposare... Si è fatto tardi.”

“Certo.” sorrise suor Ubbidienza e poi, gioviale come sempre, salutò anche i due bambini e lasciò la cella.

Assorta nei suoi pensieri, Bianca diede a Giovannino e Cornelia la bambola di pezza che il convento aveva regalato loro e li guardò mentre giocavano, o meglio, quasi si azzuffavano, per il possesso del giocattolo.

Si stese sul letto con un sospiro pesante e si mise a fissare il soffitto, lasciando che i ricordi e i pensieri fluissero liberi. Quando sentì scoccare la mezzanotte, l'inizio del nuovo anno, il fratellino e la nipote già dormivano da tempo, mentre lei era ancora vestita e sveglia, e, all'improvviso, l'idea di l'offerta di aiuto di Suor Ubbidienza non le parve più così assurdo.

 

Anche se quella era l'ultima notte dell'anno, Caterina, di comune accordo con i suoi Capitani, non aveva voluto una festa. Non aveva voluto nemmeno la compagnia di Giovanni da Casale, né di nessun altro.

Sfidando la neve, che aveva ripreso a cadere molto più fitta di prima, e il freddo, era salita sui camminamenti appena si era liberata dai suoi impegni e lì era rimasta. Si era accorta, dalle luci e dai suoni che arrivavano dalla città, che invece in Forlì si stava festeggiando come non mai.

Le tornarono alla mente i racconti che Bona, la donna che aveva considerato per anni come una seconda madre, le aveva riportato qualche volta: i francesi vedevano nelle feste di Capodanno un vero e proprio dogma. Con il senno di poi, forse, quella sarebbe stata una buona nottata per attaccarli.

Ricordare Bona aveva messo la Tigre di pessimo umore e vedersi dinnanzi la statua mutilata di Giacomo non faceva altro che farla stare peggio.

Era stanca, e aveva ancora qualche doloretto dovuto alle recenti cadute da cavallo. Anche quella sera si era trattenuta fino a tarda notte a discutere con i suoi ingegneri e coi bombardieri, per studiare un modo per resistere il più possibile, perché era certa che, se la campagna del Valentino si fosse dilungata troppo, alla fine il re di Francia l'avrebbe interrotta per dedicarsi a ciò che davvero gli interessava.

“Se mi cercate – sussurrò la Contessa, ai due soldati che le stavano accanto – sono sul mastio.”

Stava per venire chiaro e la donna voleva scorgere il sole per prima. Così si inerpicò sulla torre maestra, quella per cui suo figlio Galeazzo aveva fatto tanti calcoli in modo che si potessero puntare al meglio i cannoni senza rimanere troppo esposti. Quando fu in cima, strizzò gli occhi e guardò verso est.

Malgrado il brutto tempo, riuscì a cogliere i primi bagliori di quel primo giorno di gennaio. Il nuovo secolo stava iniziando, proprio lì, davanti a lei. Solo un mese prima, era stata certa di non fare in tempo a contemplarlo, e, invece, era ancora viva.

La pianura era devastata, in parte dal disboscamento voluto da lei, in parte dalla mano dei francesi.

Il terreno era brullo e biancheggiante di neve.

La morsa che le strinse l'anima, a quella vista, le tolse quasi il fiato. Chiudendo gli occhi e annusando un momento l'aria gelida, la Leonessa ebbe l'illusione di essere tornata a Milano.

Purtroppo, però, era solo un'illusione...

“Mia signora...” la voce di Baccino la fece voltare verso la scaletta a chiocciola che arrivava dalla base del mastio: “Caterina...”

Con un sospiro stanco, la donna chiese: “Che c'è?”

Non aveva visto movimenti strani in città, e il tono del cremonese non le pareva particolarmente teso, quindi si permise di restare moderatamente tranquilla.

Il giovane, arrivandole davanti, le porse un dardo cui era arrotolato un messaggio: “L'hanno tirato poco fa... Dicono che sia per te.”

“Se sono altri tentativi di trovare un accordo, io...” cominciò lei.

Baccino, che non aveva letto in prima persona il messaggio, ma aveva sentito i commenti sprezzanti di Giovanni Testadoro, che per primo aveva srotolato la pagina, si permise di anticipare, con una certa sicurezza: “Non credo si tratti di una proposta d'accordo...”

La Sforza, allora, incuriosita, prese il dardo e spiegò la missiva. Le scappò da ridere, ma alla fine fece solo un ghigno.

“Casa sforzesca – lesse a voce alta – semenza di la serpe indiavolata.”

Il ragazzo non sapeva come commentare quella frase, perciò rimase in attesa di ulteriori reazioni della sua signora, che, in effetti, non tardarono ad arrivare.

“A breve, che ci piaccia o no – gli disse Caterina – dovremo tornare a usare i cannoni. Per allora voglio che ogni singola palla sia marchiata con bestemmie, insulti e vituperi di ogni sorta. Al signor Duca e a quel maiale di suo padre il papa.”

Baccino annuì e poi, dato che la Tigre stava per tornare alla scale, probabilmente per andare a riferire la sua decisione di vergare improperi su ogni munizione di Ravaldino, la fermò un momento, prendendola per un braccio: “Per quello che vale – le disse, dando voce a un pensiero che gli frullava in mente da giorni – per me non sei una lupa. Sei una Leonessa. Una gran donna, altroché.”

Per un istante, fugacissimo, la Contessa incrociò le iridi giovani del cremonese e vi trovò più di quello che vi aveva cercato fino a quel momento.

Con un sorriso un po' triste, gli accarezzò il volto, in un gesto che aveva un tratto quasi più materno che non passionale, e gli sussurrò: “Sarebbe stato bello, conoscerci in un altro momento.” e, detto ciò, si voltò di scatto e cominciò a scendere i primi gradini, senza aggiungere altro.

 
   
 
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