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Autore: Fire Gloove    23/04/2020    6 recensioni
Sabbia di ferro. Un materiale grezzo, scuro, amaro, volatile. Il rapporto tra i due migliori portieri che la Generazione d’Oro del calcio giapponese abbia da offrire, un po’ ci somiglia. Sono separati da dissapori alimentati da anni di competizione senza esclusione di colpi. Distanti e disinteressati, come granelli di sabbia.
Poi però qualcosa cambia d’improvviso: il ritorno di Genzo in Giappone potrebbe mettere in discussione un sacco di cose.
Perché, in fondo, è proprio dalla sabbia di ferro che si parte per creare un acciaio meraviglioso come quello della lama di una katana.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Alan Croker/Yuzo Morisaki, Ed Warner/Ken Wakashimazu, Genzo Wakabayashi/Benji, Kojiro Hyuga/Mark, Mamoru Izawa/Paul Diamond
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Iron Sand & co'
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…una notte di fine estate

 

 

 

 

Come era inevitabile che fosse, l’afa di agosto alla fine cedette il passo al vento fresco delle prime settimane di settembre. La routine di Genzo si era stabilizzata in un modo che gli creava un rigurgito di disgusto. Alzati, va’ a lavoro, stai otto o nove ore a studiare dati e ad assistere Nishimura-san nei rapporti con clienti e fornitori, torna a casa, fatti una doccia e vai a dormire. Ripeti all’infinito. 

Il suo umore era in caduta libera, e scendere dal letto la mattina stava diventando sempre più faticoso. La sua vita sociale era pressappoco inesistente, un po’ per mancanza di tempo e un po’ perché lì non conosceva nessuno. Wakashimazu non si era fatto sentire, e il suo orgoglio gli aveva impedito di mettersi in contatto con lui, malgrado la sera del suo primo giorno di lavoro avesse quasi ceduto. I suoi amici, sparsi per la nazione, cercavano di essere presenti per quanto possibile, ma si rendeva conto anche lui che avessero i loro impegni e le loro vite, e che non poteva pensare che le mettessero in pausa per stargli appresso. Sdraiato nell’oscurità artificiale della sua stanza, con le imposte chiuse per impedire al sole di quella domenica mattina di irrompere nel suo malumore, scosse la testa. Conoscere gente non gli era mai venuto troppo difficile, ma in quel caso tutto il contesto proprio non aiutava: i colleghi lo tenevano un po’ a distanza, forse a causa di qualche voce messa in giro da suo fratello, o forse semplicemente perché era il figlio del capo e non si sentivano a loro agio a prendersi delle confidenze. L’unico con cui avesse creato un qualche rapporto era il suo responsabile, Michizane Nishimura, che lo aveva palesemente preso in simpatia, lasciandosi scivolare addosso i dissapori familiari dei Wakabayashi. Era stato un collaboratore della prima ora di Kitahachi, e dei battibecchi infantili dei suoi figli non poteva fregargliene di meno, questo l’aveva messo ben in chiaro con Genzo. Gli importava solo che il ragazzo facesse bene il suo lavoro, e che non si tirasse indietro davanti alle sfide. Al portiere ricordava vagamente Mikami, il che glie lo rendeva simpatico a pelle, malgrado a volte volesse ammazzarlo per la troppa solerzia con cui lo monitorava. Di certo però non poteva uscire per locali o andare a bere con un cinquantenne. Quindi, malgrado quella piccola conquista, si ritrovava punto e da capo. Per quanto non ne vedesse il motivo, si sforzò di alzarsi dal letto e di cominciare la giornata. Si trascinò fino in cucina, dando un’occhiata all’orologio a muro, che gli comunicò che era quasi mezzogiorno, e mise su la macchina per il caffè americano. Aprì il frigo per vedere se avesse qualcosa per cucinarsi una colazione domenicale di un certo rispetto, ma gli scaffali gli apparvero tristemente vuoti. Con il poco tempo che passava a casa, fare la spesa era diventato quasi superfluo. Per pranzo mangiava sempre in una tavola calda della zona industriale, e a cena spesso ordinava qualcosa, ché la forza sufficiente per mettersi ai fornelli non avrebbe saputo dove trovarla. Si rassegnò ad accontentarsi di una dose di caffeina, per poi uscire a pranzo. Almeno aveva trovato un motivo per mettere il naso fuori di casa. 

Lasciò che l’aroma pieno e il gusto amaro del caffè gli restituissero un po’ di pace interiore, e poi andò a infilarsi sotto la doccia. L’acqua calda che gli scorreva addosso gli sollevò la tensione dalle spalle, e l’ambiente caldo e umido del bagno gli conciliò un certo rilassamento fisico, se non anche mentale. Uscì dall’ampio box di vetro che si sentiva un po’ meglio, e si vestì con ritrovato vigore, deciso a godersi il tepore del giorno, in quella che avrebbe potuto essere una delle ultime domeniche di sole, visto che mancava appena qualche giorno all’inizio dell’autunno.

Il tempo per esplorare il quartiere in cui viveva era stato poco, e così decise di dedicare la giornata al fare una passeggiata, magari sgranocchiando qualcosa e lasciando per qualche ora che i problemi familiari e il lavoro restassero fuori dalla sua testa. Si infilò le cuffiette nelle orecchie e con le note di “Rebel Beat” dei Goo Goo Dolls ad accompagnarlo, si incamminò verso le sponde dell’Hori, il fiume che scorreva a pochi minuti da casa sua. Costeggiò il corso d’acqua per un bel pezzo, facendosi cullare dalla musica e cercando di concentrarsi sugli aspetti positivi della sua vita, che in quel momento forse non erano tantissimi, però c’erano. Per dirne uno, un paio di giorni prima era finalmente riuscito a farsi ricevere dal dottor Iwasaki, che dopo averlo visitato e averlo tempestato di domande sulla sua storia clinica, gli aveva comunicato che non escludeva che lui potesse tornare a giocare a livello professionale. Certo, gli aveva comunque prescritto altri quattro mesi di riposo assoluto, ma con l’inizio dell’anno nuovo avrebbe cominciato a seguirlo nel percorso di fisioterapia, e non era da escludere che potesse tornare in campo per la seconda metà del campionato di Bundesliga della stagione successiva. Se le previsioni si fossero rivelate veritiere, non vedeva l’ora di vedere che faccia avrebbero fatto i suoi parenti quando glie l’avrebbe comunicato. Sentiva già la delusione del padre salire, e la cosa gli dava una piacevole sensazione di vittoria. Soffermarsi su quel pensiero, unito al passeggiare accanto al fiume e guardare le nuvole bianche e soffici riflettersi sulla superficie dell’acqua, riuscì a fargli tornare il buon umore e, con esso, l’appetito. Con una rapida ricerca su Google Maps, scoprì che a qualche centinaio di metri da lì si trovava un parco all’interno del quale c’erano diversi chioschetti di street food e decise di dirigersi lì. Il Dotoku Park lo sorprese: era più grande di quanto si fosse aspettato, e in quella giornata dalla temperatura ancora quasi estiva, era pieno di gente. Poco male, pensò. Stare in mezzo a delle persone che non fossero quei musoni dei suoi colleghi gli avrebbe fatto bene. Mentre aspettava che la sua porzione di ikayaki fosse pronta, fu distratto da un clangore metallico. Nel cercarne la provenienza, il suo sguardo fu catturato da un piccolo skate park qualche metro più in là. C’erano diversi ragazzi che si allenavano a fare acrobazie con le tavole, ma la sua attenzione venne irrimediabilmente catturata da un fisico slanciato e sottile che troppe volte, negli ultimi cinque anni, aveva popolato le sue fantasie. Per un attimo, rimase senza fiato. 

Ken era… diverso. Non c’era traccia né della solita treccia ordinata con la quale domava i capelli corvini, né del sempiterno felpone oversize: l’unica parte del look a rimanere invariata erano i jeans scuri e stretti. Sopra a essi, il portiere dei Grampus indossava solo una canottiera nera che, già aderente di suo, gli si era ulteriormente appiccicata addosso grazie al sudore. Ciocche di capelli neri sfuggivano dalla crocchia alta e disordinata in cui li aveva raccolti, fluttuandogli attorno al collo e alle spalle ad ogni movimento, e facendo intuire l’effettiva lunghezza della capigliatura, che Genzo valutò che gli arrivasse poco sopra i fianchi. Gli occhi del giovane furono catturati da un dettaglio che era sicuro non ci fosse l’ultima volta che aveva visto il portiere a torso nudo, nella palestra di Parigi. Solo in quel momento fece caso al fatto che Wakashimazu non faceva mai la doccia negli spogliatoi, dopo le partite… si cambiava in tutta fretta e aspettava di essere in camera per lavarsi. Da sotto la stoffa della canotta, all’altezza delle spalle, spuntavano chiaramente delle linee di inchiostro, che andavano a comporre… un qualche tipo di albero? Dal poco che vedeva, Genzo non poteva esserne sicuro. Il ragazzo rimase a osservarlo per un tempo che gli parve infinito mentre tentava di fare un’evoluzione particolarmente complicata con lo skate, e si sentì invadere dalla stessa sensazione che l’aveva colto cinque anni prima, in quell’hotel distante migliaia di chilometri da lì: un desiderio così intenso che quasi lo spaventò. A differenza di quella volta, però, Ken si girò e lo vide. Nel momento in cui i loro occhi si incrociarono, l’atmosfera magica che aveva avvolto Genzo, facendogli sembrare che i suoni della folla fossero ovattati e distanti e che i minuti fossero dilatati all’infinito, si ruppe.

Gli sembrò quasi di sentire un crash in sottofondo.

Improvvisamente, tutto riprese a muoversi. Tutto, tranne Wakashimazu, che teneva gli occhi grigi e sgranati fissi su di lui, come se fosse sconvolto di vederlo lì, e come se si sentisse colto in flagrante per un qualche motivo che il giocatore dell’Amburgo non riuscì a immaginare. Anche nella ritrovata confusione, sentì qualcosa all’altezza dello stomaco tirarlo verso l’altro ragazzo. Pagò il proprietario del chiosco, che lo guardava perplesso dopo averlo visto bloccarsi in quella maniera, e si incamminò verso Wakashimazu, che nel frattempo sembrava essersi ripreso. Aveva recuperato la felpa, e la teneva in mano con aria nervosa, mentre col piede faceva scorrere avanti e indietro lo skateboard. 

“Ehi. Che coincidenza! Che ci fai qui?”

Queste furono le prime parole che uscirono dalla bocca di Genzo.

Ken abbassò gli occhi, e il suo interlocutore notò come le lunghe dita stringessero il cotone della felpa con un po’ troppa verve. 

“Abito nei paraggi… la domenica la passo spesso qui. Tu, piuttosto? Cosa ti porta da queste parti? Casa tua non è proprio dietro l’angolo.”

“Mi andava di fare due passi.”

Dopo questo primo scambio di convenevoli, durante il quale gli occhi di Wakashimazu si erano posati ovunque tranne che addosso a Genzo, calò un silenzio imbarazzato.

Wakabayashi si rimproverò interiormente: si conoscevano da anni, possibile che non riuscisse nemmeno a farci un poco di conversazione? Mentre questo pensiero gli attraversava la mente, con la coda dell’occhio colse un cartellone pubblicitario poco distante, e l’immagine che ci vide sopra gli diede l’illuminazione.

“Hai programmi per stasera? È uscito da poco al cinema il secondo capitolo di IT, non mi spiacerebbe andare a vederlo.”

Ken ritornò finalmente a guardarlo in faccia, con un’espressione a dir poco sbigottita sul viso.

“Mi stai chiedendo di venirci con te?”

Genzo scrollò le spalle.

“Ti sto dicendo che vorrei andarci, Wakashimazu, vedi tu cosa vuoi fare di questa informazione.”

“Io… sì… ecco, stavo programmando di vederlo anche io. Per stasera andrebbe bene.”

“Ottimo, allora ci vediamo per le otto? Cerco di capire qual è il posto più comodo in cui lo danno e ti mando un messaggio.”

“Va bene, a dopo. Ora devo tornare a casa a… a fare delle cose."

Dopo quest’ultima frase, Ken praticamente scappò, lo skate sotto il braccio e una linea di tensione che gli attraversava tutta la colonna vertebrale. Aveva davvero appena accettato di passare una serata con Wakabayashi? Doveva assolutamente fare qualcosa per rilassarsi, o non ci sarebbe arrivato vivo, all’ora dell’appuntamento. E poi, l’altro portiere continuava ad avere quella luce strana negli occhi quando lo guardava. Ma che diamine significava?

Genzo, dal canto suo, rimase a guardarlo allontanarsi, interrogandosi sul perché di quell’uscita di scena così repentina. Realizzò di non avere una vera idea di come fosse Wakashimazu caratterialmente… però forse non era così importante, pensò, mentre lo sguardo scivolava lascivo lungo la figura dell’altro che si allontanava. Chissà che la serata non desse frutti interessanti?

 

***

 

Il primo impulso di Ken, appena la porta di casa si chiuse alle sue spalle, fu quello di chiamare Kojiro, ma il dito gli si bloccò prima di portare a termine l’operazione, per due motivi. Per prima cosa, si rese conto che in Italia erano le cinque del mattino, e poi… l’ansia già se lo stava mangiando da dentro, e al pensiero di doversi giustificare con Hyuga perché aveva deciso di passare del tempo con il damerino, il nodo che sentiva alla bocca dello stomaco si accentuò. Nel rendersi conto che la persona che di solito era il suo porto sicuro in quel caso non avrebbe fatto che peggiorare la situazione, il panico aumentò ulteriormente. Sentendo una morsa cominciare a comprimergli i polmoni, scivolò a sedere a terra, lì nel mezzo del soggiorno, e assunse la posizione del loto. L’unica cosa che poteva fare per calmarsi, in quel momento, era cercare di meditare un po’, e andare alla ricerca di quell’immenso spazio interiore che sapeva di poter raggiungere se solo fosse riuscito a stabilizzare il respiro e a svuotare la mente da tutti i pensieri. Lottando contro il desiderio di appallottolarsi su se stesso, cominciò a rilassare la schiena, lasciando che le scapole scivolassero verso il basso e che le spalle si aprissero il più possibile, creando anche fisicamente più spazio perché i suoi polmoni potessero espandersi. Per controllare il ritmo del respiro, che continuava a sembrare dettato da un soffietto impazzito, si concentrò sulla durata di inspirazioni ed espirazioni e piano piano riuscì a domarlo, riportandolo su una frequenza normale. In sincrono con esso, si sistemò anche il battito del cuore. Quando fu certo che il panico fosse retrocesso, si concesse di analizzare cosa di preciso gli avesse causato quell’attacco.

Perché temeva in modo così intenso il passare del tempo con Wakabayashi? In primo luogo, perché non c’era nessuno che riuscisse ad accendere le sue insicurezze più che l’altro portiere. Il secondo motivo era strettamente collegato al primo: odiava farsi vedere debole dal rivale, e visto quanto l’altro lo facesse sentire insicuro, era molto probabile che i lati più fragili del suo carattere venissero fuori, nel passare insieme un periodo abbastanza lungo di tempo.

E allora cosa lo aveva spinto ad accettare quell’invito ad andare al cinema?

Ripensò alla cena che avevano fatto con Morisaki, e di nuovo gli sovvenne quanto fosse stata divertente. Forse, il SGGK era una persona così spiacevole solo nella sua testa. Forse si stava facendo tutte quelle paranoie per nulla. D’altronde, pensò, lui e l’altro portiere non si conoscevano davvero… e se in tutti quegli anni si fosse fatto un’idea sbagliata, dettata principalmente dall’astio che intercorreva tra Kojiro e Genzo, e dal fatto che la dirigenza della Nazionale si fosse dimostrata tanto ottusa da preferirgli il rivale senza nemmeno dargli una possibilità di lottare per la maglia da titolare? In fondo, non poteva certo addossare a Wakabayashi colpe non sue…

Quelle riflessioni riuscirono a tranquillizzarlo un poco. Dopo essersi alzato e aver messo a posto lo skate, decise di farsi una doccia. Con un po’ di fortuna, l’acqua calda avrebbe lavato via, oltre alle tracce di sudore, anche quelle del malumore.

Dedicò buona parte del pomeriggio a farsi qualche coccola: dopo essersi lavato, passò tutto il tempo necessario ad asciugare i lunghi capelli scuri, e quando ebbe finito li lasciò sciolti, cosa che faceva raramente anche in casa, e si godette il loro abbraccio setoso lungo tutta la colonna vertebrale. Poi si fece una tazza di tè, e si dedicò alla lettura di un buon libro, lasciando che le lancette dell’orologio scorressero via senza prestarci troppa attenzione. Abbandonò il mondo letterario in cui era sprofondato appena in tempo per potersi cambiare e raggiungere in orario il cinema che Wakabayashi gli aveva indicato per quella sera. Indossò un paio di jeans grigio antracite, e sopra uno dei suoi classici felponi larghi, questa volta in una profonda sfumatura di verde. Fece per cominciare a intrecciarsi i capelli ma, dopo un attimo di esitazione, decise invece di raccoglierli in una crocchia alta, più disciplinata di quella che in cui erano stati costretti quella mattina al parco, ma che comunque lasciava che un paio di ciocche gli si drappeggiassero morbide ai lati del viso.

Quando uscì di casa, si sentiva stranamente tranquillo.

 

***

 

Il film era scorso via in fretta, e li aveva lasciati entrambi carichi di adrenalina e con la voglia di andare in un posto tranquillo per scuotersi l’inquietudine di dosso. Considerato che dovevano ancora cenare, scelsero un chiosco sul lungo fiume e ordinarono due porzioni di yakisoba, sedendosi poi a uno dei tavolini disposti lungo l’argine. C’era una bella atmosfera: dal corpo principale della struttura partivano una moltitudine di fili di piccole lampadine, che emettevano una luce calda, tendente all’arancione, e che correvano sopra tutta la zona con le sedute, fino ad arrivare ad arrotolarsi attorno a dei pali piazzati nell’acqua bassa adiacente alla sponda. Il tutto creava un suggestivo gioco di riflessi, che si moltiplicavano tra le superfici metalliche dei tavoli e l’acqua scura dell’Hori. La filodiffusione della radio riempiva l’aria della musica ritmata di un qualche tormentone pop, che andava a mischiarsi con il frinire delle cicale. L’estate quell’anno stava esitando a lasciare il passo all’autunno e, per quanto la temperatura fosse leggermente scesa, l’atmosfera rimaneva quella leggera e spensierata tipica della stagione calda.

Per una manciata di minuti, tra i due regnò il silenzio. Appena usciti dal cinema, si erano lanciati in un commento del film appena visto, e la conversazione era scorsa fluida, ma esaurito quell’argomento erano ritornati sulle loro posizioni leggermente difensive.

Ken si finse incredibilmente impegnato a osservare il gioco di luci, ma non gli sfuggì come invece lo sguardo di Genzo non si spostasse dal suo viso. Dopo qualche minuto, si stufò di essere studiato come un qualche strano esperimento scientifico.

“Mi dici che hai da fissare? Cos’è, ho un rospo in testa?”

Genzo fu preso in contropiede dal commento, ma recuperò rapidamente la consueta sicurezza. Decise di iniziare a tastare il terreno della seduzione. Il suo scopo era ritrovarsi le cosce magre e atletiche dell’altro avvolte attorno ai fianchi nel minor tempo possibile, ed era ora di mettersi all’opera.

“Nah, è solo che sei carino.”

Il complimento, pronunciato nel tono più disinteressato del mondo, rimase per un istante sospeso in mezzo a loro. Quando Ken recepì il significato delle parole, arrossì violentemente.

“Ah, ehm… io… ecco… Grazie?”

Le parole inciamparono fuori dalle sue labbra in modo goffo, facendolo diventare ancora più rosso. Ma che problemi aveva Wakabayashi!? E perché quella strana luce che aveva avuto negli occhi già la sera della prima cena ora era ancora più accentuata?

“Perdonami, non volevo metterti in difficoltà. Raccontami qualcosa di te, ti va? Non so praticamente nulla, a parte per i meriti calcistici.”

Il cambio repentino di argomento lasciò il Karate Keeper spaesato. Tentò di riguadagnare la concentrazione: a qualsiasi gioco stesse giocando l’altro, non voleva lasciare il fianco scoperto. Una grossa parte di lui sospettava che il SGGK lo stesse solo prendendo in giro, che stesse giocando con le sue insicurezze. Decise che la strategia migliore fosse quella di rimanere sul vago.

“Pratico anche il karate, ma questo immagino tu lo sappia già. E poi… leggo, guardo serie TV, cose così. Nulla di troppo fuori dalla norma. Tu?”

“Circa lo stesso. Meno il karate, ovviamente. Cos’hai visto, di recente? A me è piaciuta un sacco The Umbrella Academy. È una produzione Netflix, non so se la conosci.”

Gli occhi di Ken si accesero. Eccolo lì, il Genzo che era riuscito a stupirlo e a farlo rilassare durante la cena con Morisaki.

“Certo, come no! La prima stagione l’ho divorata. Mio fratello dice che sono il ritratto spiccicato di Ben… dici che dovrei offendermi per essere stato paragonato a un morto?”

Wakabayashi gli rivolse il suo classico sorrisetto sarcastico, che tante volte gli aveva fatto venir voglia di strappargli la faccia a forza di schiaffi e che invece in quel momento trovò… affascinante? Si maledisse anche solo per aver partorito quel pensiero. Ma che gli stava succedendo?!

“Beh, in effetti una certa somiglianza c’è… saranno le felpe? O il pallore? Non sapevo che avessi un fratello.”

Lo sguardo piccato che si era formato negli occhi di Ken allo sfottò si addolcì al pensiero di Ryu.

“Sì, di tre anni più piccolo. Tu ne hai?”

“Due, di dieci e sette anni più grandi. Dalla tua espressione, al tuo devi volere molto bene. Dev’essere bello, avere dei fratelli e non volerli ammazzare.”

Il portiere dei Grampus, per l’ennesima volta nell’ultima manciata di minuti, rimase interdetto. Non si era aspettato che l’altro lo rendesse partecipe di un dettaglio così personale. La cosa gli generò un buffo calore da qualche parte tra la pancia e il petto, a cui cercò di non dare peso.

“Non andate d’accordo?”

A Genzo sfuggì una breve risata sarcastica.

“Dirla così è un eufemismo. Diciamo che loro sarebbero stati molto contenti di restare in due, senza l’aggiunta di un fratellino talentuoso a ricordargli quanto non abbiano concluso un cazzo nella vita, a parte leccare il culo a paparino per farsi dare uno stipendio.”

Ouch. Percepisco giusto una punta di astio.”

“Io… sì, scusa, lasciamo perdere. Non avrei dovuto prendere l’argomento.”

Ken sorrise. In quel momento, l’altro portiere gli fece quasi tenerezza. 

“E tu, chi ti senti tra i fratelli Hargreeves?”

Mentre Genzo rifletteva su quella domanda, Ken si perse a osservarlo. Guardò i lineamenti del viso, accentuati da quello strano gioco di luci e ombre generato dalle file di lampadine, come se fosse la prima volta che li vedeva davvero. Trovò un’infinita serietà nella linea dritta del naso e in quella decisa della mascella, e un’inaspettata dolcezza negli occhi scuri dalla mandorla non troppo stretta e nella bocca carnosa. Fu lì che lo sguardo del ragazzo si fermò alla fine, su quelle labbra che sembravano così morbide. Ebbe quasi la tentazione di allungare una mano per toccarle, e quando si riscosse, si rese conto di aver già cominciato il movimento, sollevando di qualche centimetro la mano dal tavolo. La riabbassò di scatto, portandosela in grembo. Doveva decisamente darsi una calmata.

Wakabayashi fortunatamente non si era accorto di nulla, e stava rispondendo alla sua domanda sulla serie.

“Cinque, direi. Cioè, dai, è oggettivamente il più cazzuto, chi altro potrei essere? E poi, abbiamo lo stesso senso dell’umorismo.”

Ed ecco di nuovo quel ghignetto, dentro il quale la dolcezza della bocca si perse completamente, sostituita da sicurezza condita da un pizzico di supponenza.

“Tiratela di meno, Wakabayashi, che se no si spezza.”

Il tono con cui Ken pronunciò quella frase però era più carico di divertimento che di fastidio, e il sorriso di Genzo si ampliò. Qualcuno stava cominciando a far cadere le sue difese, uh?

“Musica, invece? Cosa ascolti?”

“Principalmente hard rock e metal… anche se a volte mi perdo in qualche playlist di musica tradizionale, lo ammetto.”

“Però, Wakashimazu! Non ti facevo così hardcore. Il rock piace anche a me, ma in realtà ascolto un po’ di tutto… anche se ultimamente mi piace un sacco la musica elettronica.”

Ascolto un po’ di tutto era la classica frase che Ken si sarebbe aspettato da una persona superficiale come credeva fosse Wakabayashi. Eppure… dopo avergli visto passare sul volto delle emozioni così forti, mentre parlava dei fratelli, su quel punto cominciava a essere un po’ in dubbio. Sollevò lo sguardo, a incrociare gli occhi neri dell’altro, e sentì qualcosa che si smuoveva in quella parte di lui alla quale accedeva con la meditazione, quello spazio sconfinato da cui aveva l’impressione provenissero tutte le sensazioni positive. Arrossì un poco, non sapendo nemmeno lui bene il perché.

Genzo, nell’osservare gli occhi grigi dell’altro e il sangue che saliva a imporporargli il bel viso, si aprì in un sorriso vittorioso. Eccoli lì, i segni di cedimento che stava cercando. Wakashimazu, in quelle poche ore, gli si era rivelato come una persona incredibilmente introversa, ma ciò non faceva altro che rendere la caccia ancora più interessante. Decise che non avrebbe fatto la sua mossa quella sera: sarebbe stato come fare un movimento troppo brusco nelle vicinanze di un cerbiatto, facendolo scappare nei meandri della foresta e rovinando tutti i progressi. No, avrebbe aspettato ancora un paio di uscite… ma da quel che vedeva nelle iridi dell’altro, aveva già una discreta sicurezza nel pensare che sarebbe riuscito nel suo intento. Al solo pensiero di posare le mani su quel fisico sottile ed elegante gli venne caldo. E poi, non vedeva l’ora di poter ammirare per intero il tatuaggio che quella mattina era solo riuscito a scorgere.

La serata proseguì ancora per un poco tra altre chiacchiere di carattere generale, che però fecero egregiamente il loro dovere di rompighiaccio. Quando i due si salutarono, davanti al portone di casa di Ken, il ragazzo si stupì nel rendersi conto di quanto fosse stato calmo per tutta il tempo, a parte per quel micro-momento di panico quando Wakabayashi l’aveva definito carino. Con il pensiero tornò a quella battuta… chi sa da dove gli era venuta? Era sincero? Una piccola parte di lui sperò di sì, ma il resto del suo essere la silenziò rapidamente. Visto il buon esito della serata, però, avrebbe dovuto sicuramente raccontarla a Hyuga. Già gli si stava formando nei polmoni una risatina isterica all’idea di come avrebbe reagito la Tigre al pensiero di lui che fraternizzava col nemico. Però ehi!, gli avrebbe perdonato anche quella. Kojiro, quando si trattava di lui, era in grado di perdonare qualsiasi cosa. O almeno, così sperava…

 

 

Notine notose: Se per caso qualcuno di voi iniziasse ad avere istinti omicidi nei confronti di Genzo... non preoccupatevi, non siete i soli. 

Il Dotoku Park esiste davvero, a Nagoya, anche se dal satellite di Google ho scoperto essere un posto un po' meno accogliente di come l'ho descritto io, ops. Però sì, è lì.

Ah, purtroppo con questo ho finito i capitoli che avevo da parte... la vita vera ultimamente è stata un po' antipatica con me, e non ho avuto troppo la testa per scrivere. Cercherò di pubblicare comunque regolarmente giovedì prossimo, ma non sono certa al 100% di riuscirci. Scusatemi.

Grazie mille per essere arrivati fin qui!

 

 

 

   
 
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