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Autore: Adeia Di Elferas    25/04/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Giovanni Monsignani guardava impotente ciò che stava capitando in casa propria e, per la prima volta da che i francesi erano arrivati in Forlì, invidiò il suo giovane parente, Vangelista, fattosi frate e messosi al servizio della Tigre. Anche lui, in quel momento, avrebbe di gran lunga preferito essere a Ravaldino, protetto dalle spesse mura di pietra della rocca, piuttosto che starsene impotente a osservare la confusione che lo circondava.

Il 1500 era cominciato in grande stile, per la maggior parte dei generali francesi al seguito del Borja. Anche se il Ligny era dovuto ripartire – non senza qualche borbottio del Valentino – alla volta di Milano, per dare man forte al Trivulzio, che aveva fatto sapere, per vie traverse, di essere un po' in difficoltà e di temere un ritorno del Moro, gli altri avevano ben pensato di supplire con la loro voglio di far festa.

Era noto che gli uomini d'Oltralpe prendessero il Capodanno molto sul serio, ma Monsignani aveva creduto che dopo la cena della notte tra il 31 dicembre e il primo gennaio si sarebbero calmati. Nel momento stesso in cui gli avevano fatto sapere che il tutto sarebbe continuato almeno fino all'alba del 3 gennaio, Giovanni si era sentito mancare, ma non aveva potuto far altro che dirsene lieto e chiedere come potesse aiutare.

Per colmo di sventura, il quartier generale scelto per il Capodanno pareva essere proprio casa sua.

L'Aubigny, assieme a Monsignor Sandé e all'Alégre, avevano lavorato con cura a ogni dettaglio, prima di far accorrere gli invitati. Avevano fatto portare dai forlivesi di tutto: uova, agnelli, polli e vino. I primi, i più fortunati, erano stati perfino pagati per ciò che consegnavano, mentre agli ultimi erano state riservati come pagamenti solo bastonate e schiaffi.

Il clou della festa sembrava essere proprio quel giorno, benché fosse già il 2 gennaio, ed era già quasi tutto pronto. Sotto gli occhi increduli di Giovanni Monsignani, i francesi avevano fatto chiudere le logge del palazzo con travi e assi di ogni sorta, e avevano fatto sistemare dei tavoloni enormi circondati da sedie e poltrone prese da case vicine.

Arrivata l'ora del banchetto, gli invitati si presentarono ed entrarono nel salone improvvisato come un fiume in piena. Assieme a loro, una calca di curiosi e saccomanni si affrettava a scivolare dentro, nella speranza di poter mettere qualcosa sotto i denti.

Tutti si strafogavano, con il cibo e con il vino. C'era chi stava a tavola, servito dai domestici di Monsignani, e chi, invece, mangiava in piedi, chiacchierando rumorosamente con gli altri.

Alla fine giunse il momento più importante, il culmine di quei quasi tre giorni di festa: due uomini salirono in piedi sulla tavola ancora apparecchiata, e, partendo ciascuno da uno dei due estremi del desco, si misero a correre, buttando in terra i piatti, i calici e anche il cibo avanzato.

Appena finito, giunse un corte lunghissimo di uomini e donne, e tra loro spiccava un cavaliere in sella, con indosso una veste che gli copriva perfino le caviglie, e una berretta in testa a mimare una mitra.

Da lì, la festa si spostò anche fuori, senza curarsi del freddo, della neve o anche del pericolo di veder arrivare i soldati della Tigre. Tutti bevevano, gridavano e cantavano canzoni oscene. Nessuno si prese il disturbo di fermare i francesi più turbolenti, che, non trovando forse la compagnia desiderata tra le donne presenti alla festa, fecero irruzione in palazzi vicini, prendendosi senza problemi quello che volevano.

I motti e i lazzi si susseguivano senza che i forlivesi, perlopiù attoniti dinnanzi a un simile sfoggio di grossolana goliardia, riuscissero né a contrastare quella confusione, né a unirsi ai festeggiamenti.

Anche Bernardi, che aveva saputo di quello che stava accadendo a casa di Monsignani e che, quindi, era accorso tra i primi, non riusciva a far altro che starsene immobile e osservare come i barbari invasori facevano scempio non solo della loro città e delle loro donne, ma anche e soprattutto della loro morale.

In tutto quel caos assoluto, nessuno fece caso al grande assente della festa: il Duca di Valentinois.

 

Caterina avrebbe dato qualunque cosa, pur di aver notizie fresche dall'esterno. Non solo per quanto riguardava Forlì, ma l'Italia in generale. Si chiedeva cosa stesse succedendo a Firenze, se a Milano fosse ancora tutto nelle mani del Trivulzio, se Napoli si stesse attrezzando in qualche modo per difendersi...

Non sapere, la faceva stare malissimo. L'unica cosa di cui era abbastanza certa era il Giubilio Straordinario a Roma. Il papa sicuramente doveva essere intento a gongolare come non mai, con tutto il denaro che stava riscuotendo con quella trovata geniale. Il modo migliore per finanziare una guerra troppo dispendiosa era far leva sulla fede della povera gente. Il Duca di Valentinois avrebbe potuto continuare a pagare i soldati e comprare munizioni grazie alle monetine dei poveri penitenti.

Anche in quel momento, tutto ciò che la portava a osservare le mosse dei francesi, per quanto non sempre facili da intuire, stando sui camminamenti di Ravaldino, era solo il desiderio di sapere cosa stesse accadendo attorno a lei.

“Stanno costruendo parapetti e trincee...” disse, a voce bassa, Marulli, che le stava vicino.

La donna annuì e poi chiese al Facendina, che era stato in silenzio per tutto il tempo: “Credete che quelle protezioni possano davvero metterli al sicuro dai nostri colpi d'artiglieria?”

Il nipote di Roberto Sanseverino sporse un po' fuori il mento, perdendosi in quelli che dovevano essere calcoli abbastanza difficili, e poi, sospirando, ammise: “Quelli che vi si ripareranno per aver il tempo di colpire noi, probabilmente sì. Sono ripari di piccole dimensioni, quindi non serviranno a tutto l'esercito, mi pare chiaro, ma per gli artiglieri sì.”

La Leonessa si morse il labbro, sentendo una risposta che non avrebbe voluto. Poi, capendo che non avrebbe avuto senso continuare a osservare quei lavori, lenti, ma incessanti, voltò le spalle slla città e si rivolse agli uomini che le stavano attorno, ovvero Michele, il capo dell'artiglieria e qualche altro Capitano.

“Avete già preparato le botti?” domandò, le braccia incrociate sul petto e i lunghi capelli bianchi appena smossi dal vento freddo.

“Se ne sta occupando messer Giovanni da Casale.” rispose, laconico, Marulli.

La Sforza fece un cenno, come a dire che sarebbe allora andata a controllare di persona e poi aggiunse, pleonastica: “Quelle botti sono importanti.”

Detto ciò, raccomandando a tutti di stare attenti, si avvicinò alla scaletta, per andare a controllare come stesse gestendo la cosa Pirovano.

L'idea era stata abbastanza semplice, venuta per caso la sera prima, mentre lei e i membri del suo Consiglio di Guerra discutevano su come aumentare le difese della rocca, fermo restando che era impossibile pensare a lavori in muratura che andassero oltre il mero ripristino delle zone più danneggiate dai bombardamenti dei giorni prima.

E così, all'inizio quasi per scherzo, qualcuno aveva proposto di usare dei sacchi di sabbia. Dai sacchi si era passati alle botti e senza che si capisse quando, la facezia era diventata un affare serio.

Si era deciso di riempirle di sabbia o qualunque altra cosa che potesse renderli dei bastioni difensivi aggiuntivi. Al momento giusto, le avrebbero posizionate vicino ai pezzi d'artiglieria, per dare riparo ai soldati impegnati a sparare, e anche lungo il perimetro dei camminamenti e nei torrioni, permettendo così a chiunque di trovare un rifugio, per quanto improvvisato, ai colpi dei falconetti e delle passavolanti.

“Come sta andando?” chiese Caterina, una volta arrivata nel cortile, dove il suo amante stava, in effetti, coordinando i lavori di riempimento delle botti.

L'uomo, sudato, malgrado il freddo, scosse il capo e borbottò: “Un sacco di fatica e non è detto che funzioni.”

Indispettita dal tono, che sottintendeva abbastanza chiaramente il dissenso di Giovanni nei confronti di quella strategia, la Contessa ribatté: “Se qualcuno non avesse ceduto subito la parte più importante delle nostre fortificazioni, forse non saremmo dovuti arrivare a riempire centinaia di botti con la sabbia.”

Pirovano incassò la stoccata, ma, quando la Tigre lo oltrepassò, rapida, diretta al porticato, lo sguardo che lui dedicò alla sua schiena apparve come un chiaro moto di sfida.

“Continua tu.” disse in fretta Giovanni, prendendo a caso uno dei manovali che stava facendo il lavoro più pesante: “Falle riempire bene.” e, detto ciò, corse dietro alla Leonessa.

La raggiunse quando lei era già quasi alle scale che portavano alle cucine, e la fermò, afferrandola per un braccio.

La Sforza si voltò di scatto, guardandolo interrogativa: “Che vuoi?”

“Dov'eri stanotte?” le chiese lui, di rimando: “Ti ho aspettato sveglio fino alle quattro e non sei tornata.”

“Al mattino, però, quando ti sei svegliato, ero al tuo fianco.” fece notare lei.

“Rispondi alla mia domanda.” insistette il milanese, abbassando la voce, e chinandosi un po' di più si di lei.

Caterina si sentì colta in fallo. Dopo la riunione del suo Consiglio di Guerra, si era ritirata nello studiolo del castellano a discutere un momento con i suoi segretari, ovvero Baldraccani, Gian Giacomo da Imola e Monsignani, per valutare meglio la sua posizione e decidere il da farsi, nel caso fosse morta prima della fine della guerra. Si erano intrattenuti per quasi un'ora, ma alla fine lei era rimasta sola con Vangelista, e, dopo qualche chiacchiera stanca, che non interessava a nessuno dei due, aveva ceduto all'ascendente che lui riusciva a esercitare su di lei e aveva finito per accettare ciò che aveva rifiutato un paio di giorni prima.

“Non sta a te chiedermi come passo le mie notti, sono stata già molto chiara su questo punto, più di una volta.” lo rimbrottò lei, deglutendo: “Siamo in guerra, avevo altre cose da decidere con i miei segretari, e non...”

“Anche con il frate?” chiese Pirovano, trattenendo a stento la rabbia.

“Sei ridicolo.” lo liquidò la Tigre, divincolandosi, finalmente, e sottraendo il proprio braccio alla presa di lui: “Ci siamo parlati molto chiaramente, e più di una volta. Ci siamo spiegati, ne abbiamo discusso e ci siamo accordati su tutto quanto, eppure non perdi occasione di dimostrare che farlo non è servito a nulla. Se volevi una moglie fedele, non dovevi prenderti un'amante come me. Se non l'hai ancora capito, significa che non sei sveglio come pensava mio zio Ludovico.”

Sentendosi apostrofare a quel modo, il milanese non riuscì a dire altro.

La Sforza, vedendo la sua espressione pietrificata, non trovò di meglio da fare se non ordinargli, perentoria: “Vattene in camera nostra, o dove ti pare. Ragionaci sopra. Qui adesso ci penso io.”

Lasciandosi alle spalle il giovane, la Leonessa tornò in cortile, e prese subito in mano la situazione.

Cominciò a dare direttive e poi si mescolò ai manovali, come aveva sempre fatto, facendo lei stessa quel che richiedeva fosse fatto dagli altri. Riempì le botti, controllò il lavoro altrui, e poi aiutò gli operai a trasportare le cose più pesanti laddove serviva.

E così arrivò a sera stremata dalla fatica fisica, ancora stordita per la confusione della sua anima, e desiderosa solo di trovare un momento di pace. Quando arrivò in camera, dopo aver messo in fretta qualcosa sotto i denti e aver rinviato la consueta riunione notturna con il Consiglio al giorno dopo, trovò Pirovano che l'aspettava.

“L'hai giurato – gli disse, in un sussurro spezzato, mentre i loro corpi si aggrovigliavano, cercando di appianare gli attriti che li avevano divisi durante il giorno, e di trovare il benessere che la vicinanza dell'uno sapeva dare all'altro – fino alla fine.”

“Lo so.” rispose lui, senza fiato, mentre le sfiorava il collo con le labbra.

“Fino alla fine.” ribadì lei, afferrandolo per i capelli, in modo da tirargli indietro il capo e guardarlo negli occhi, nella penombra della loro stanza, illuminata solo dal camino acceso.

“Io, però, avrei preferito passare la mia vita al tuo fianco, non morirci.” si lasciò sfuggire lui, mentre quella posizione obbligata lo costringeva per un momento a fermarsi.

“Bisogna prendere quello che il destino dà.” ribatté lei, lasciando la presa sulla chioma nera di lui e tornando a concentrarsi sulla loro unione.

Dalle labbra schiuse di Giovanni uscì un piccolo sospiro e poi, mentre la sua donna gli mordeva la spalla, nell'imporsi su di lui, il milanese si arrese del tutto, bisbigliando: “Hai ragione...”

 

Quel 4 gennaio, Isabella d'Aragona si sentiva tremare come una foglia, nella fitta nebbia che avvolgeva Milano.

Aveva temporeggiato finché aveva potuto e poi, tessendo la tela come il più abile dei ragni, aveva fatto sì che al momento della sua partenza, fosse tutto pronto. Anche se aveva deciso quasi all'ultimo minuto, era riuscita ad assicurare per sé e per le figlie una partenza sicura e dei forti appoggi al sud.

Il suo piano era ancora in fieri, ma era certa che a Napoli avrebbe trovato appoggio e, se per caso così non fosse stato, avrebbe cercato di virare verso Bari, che, di fatto, era sua di diritto. Ludovico non aveva fatto bene i suoi calcoli, quando le aveva riconcesso quel feudo, poco prima di essere annientato dai francesi.

Isabella, chiusa nel calessino, con le due figlie che le si aggrappavano con tenacia anche nel sonno, non guardava nemmeno più fuori. Sapeva di aver già passato il confine della città e, con un po' di fortuna, avrebbero aggirato egregiamente anche i controlli sul limitare del Ducato. Gian Giacomo da Trivulzio, malgrado la voce grossa e tutte le persone che aveva fatto impiccare per i più disparati motivi, stava dimostrando di non essere affatto in grado di tenere in pugno uno stato come quello milanese. Ormai i confini erano solo sulla carta e i controlli erano quasi azzerati. Per l'Aragona non sarebbe stato difficile, lasciarsi tutto alle spalle.

E, se aveva deciso di farlo, era stato proprio anche perché si era resa conto che il momento era molto propizio. In più le voci che volevano il Moro pronto a tornare in Lombardia per riprendersi Milano l'avevano inquietata moltissimo. Con suo figlio nelle mani del re di Francia, lei non poteva permettersi di finire di nuovo prigioniera dello Sforza. Anche se lontana dal suo Francesco, doveva essere libera di muoversi e agire, aspettando che arrivasse l'attimo giusto per riprendersi il suo unico figlio maschio.

Sistemandosi una ciocca di capelli rossi, la donna cominciò a elencare nella mente le famiglie milanesi, sfollate da tempo, che avevano subito risposto al suo grido d'aiuto: i Cusani, i Meravigli, i Lampugnani...

Mentre un breve brivido le attraversava la schiena, pensando a come proprio un membro di quest'ultima famiglia, molti anni prima, avesse ucciso il padre del suo defunto merito, l'Aragona diede un piccolo bacio sulla fronte della figlia più grande, e uno sulla guancia della più piccola. Le due erano stanche e spaventate e si erano addormentate nel momento stesso in cui lei le aveva strette a sé.

Il ciondolare incessante e fastidioso della carrozza, in quel momento, a Isabella sembrava il rumore più bello e gioioso del mondo. La stava portando via da una prigione. La stava allontanando dai suoi aguzzini. E, si promise, se mai un giorno fosse tornata a Milano, vi sarebbe tornata trionfante, in sella a un grosso cavallo bianco, per fare il suo ingresso in città da signora e non più da schiava.

Mai più, per nessun motivo, da schiava.

 

Il sole stava sorgendo, tra le nubi biancastre e l'odore di ghiaccio. Era il 5 gennaio e Caterina aveva chiesto all'Oliva di riferirle in fretta le novità che l'uomo aveva raccolto giusto quella notte da uno dei suoi informatori che era riuscito rocambolescamente a far avere un messaggio alla rocca.

“Molti, veramente molti – disse il notaio, annuendo – sia tra i francesi, sia tra gli svizzeri vi ammirano, e talvolta sembra si dolgano di non potervi avere come comandante e signora.”

La Tigre, appoggiata al muro dello studiolo, sollevò un sopracciglio e commentò: “Mi fa piacere, ma purtroppo mi risulta difficile usare a mio vantaggio questa simpatia.”

“Dicono di voi, che siate la mente vera di questa guerra e che non esiste disegno del Borja che voi non possiate fermare.” proseguì l'Oliva.

“E quindi il messaggio finale è che se prendessero me, potrebbero prendersi anche la vittoria e il bottino.” borbottò la Leonessa, puntando gli occhi verdi verso il camino: “Dunque, come temevo, tutta quella stima mi si ritorce contro.”

“Secondo me si può ancora provare a sfruttarla, invece.” disse l'uomo: “Pensateci, un modo dev'esserci...”

La Contessa stava già scuotendo il capo, ma poi, folgorata da un'idea, disse: “Abbiamo modo di far arrivare un mio proclama in città, giusto?”

“Sia per mezzi occulti, sia per mezzi diretti.” annuì il notaio.

“Ebbene, allora voglio che entro un'ora, in tutta Forlì si sappia che ho messo una taglia sulla testa del Duca di Valentinois.” decretò la donna, inspirando a fondo: “Darò cinquemila ducati a chi me lo consegnerà morto e diecimila a chi me lo consegnerà vivo.”

“Come mai di più, se ve lo portassero vivo?” domandò, per mera curiosità, l'Oliva, mentre prendeva un appunto usando lo scrittoio del castellano.

“Perché se me lo portano già morto – rispose, sibillina la Sforza – avrò meno di che divertirmi.”

 

Cesare sgranò gli occhi, cerchiati di occhiaie. Non aveva voluto credere al primo pezzente di Forlì che era andato a riferirglielo, ma ora che perfino il Balì di Digione riportava quella notizia come vera, non poteva che credervi.

Era passata l'alba da non più di un'ora, e ormai in tutta la città non si parlava d'altro. Diecimila ducati a chiunque avesse consegnato il Valentino alla Sforza, vivo. Cinquemila, se gliel'avessero portato già morto.

“Ma non dovete averne paura...” tentò Tiberti, presente, assieme agli altri graduati, nel salone di palazzo Numai: “Adesso che abbiamo scoperto questo suo progetto, non rischiate più...”

Il Borja, che aveva passato quasi tutta la notte sveglio a controllare i pezzi d'artiglieria, scoprendo, per la prima volta in vita sua, quanto fosse davvero pesante la vita del condottiero, allargò le braccia e sbraitò, mosso tanto dalla paura, quanto dalla stanchezza: “Ma siete pazzo? Rischio eccome! Se quella crede che basti una taglia per farmi uccidere, significa che conosce i forlivesi!”

“Non correte alle conclusioni.” cercò di calmarlo l'Aubigny, imperturbabile come sempre: “Suvvia, ragionateci: chi potrebbe rischiare di avvicinarvi per una somma del genere?”

Bernardi, presente suo malgrado a quella riunione mattutina, avrebbe voluto dire che il francese parlava a quel modo solo perché, evidentemente, non aveva mai fatto la fame. Diecimila, o anche solo cinquemila ducati, erano più di quanto un uomo comune potesse di norma guadagnare in un'intera esistenza.

“Che poi...” borbottò Cesare, tentando davvero di recuperare la calma: “Crede davvero che io valga così poco? Con chi crede di avere a che fare? Diecimila ducati... Le farò vedere io, le farò vedere...”

“Dove state andando?” chiese Ferdinando d'Almeida, uno dei comandanti presenti in vece dei tanti francesi che avevano disertato la riunione per continuare i festeggiamenti di rito della vigilia dell'Epifania.

“Lo so io.” rispose, secco il Borja.

 

“E dunque – gridava la trombetta, rivolgendosi chiaramente agli abitanti di Ravaldino – chiunque consegni viva o morta, ripeto, viva o morta, Madonna Sforza, sarà ricompensato con centomila ducati d'oro! Viva o morta!”

La Tigre, che era sui camminamenti come buona parte dei suoi soldati, osservava in silenzio il messaggero che ripeteva per la terza volta il suo messaggio. Sapeva, o, meglio, immaginava, che il Borja non avrebbe mai onorato una simile promessa, ma poteva immaginare l'effetto che sentir nominare centomila ducati avrebbe potuto avere su alcuni uomini.

In confronto, la cifra proposta da lei era ridicola. La Sforza, però, a differenza del suo avversario, aveva pensato di mantenere la parola data. Altrimenti sarebbe stato facile, a quel punto, rilanciare e prometterne duecentomila, di ducati...

“Tira un colpo di schioppo.” ordinò la donna, non appena la trombetta si apprestò a ribadire il concetto per la quarta volta: “Fagli solo paura.”

Alessandro, poco distante da lei, fece un cenno al Facendina che, immediatamente, avendo ben inteso il cenno del milanese, fece partire un colpo, mandato volutamente a vuoto.

Il messaggero, comunque, si spaventò tanto da lasciare sul posto perfino la tromba, e corse via, in cerca di rifugio nei quartieri francesi.

Caterina si sentiva molti occhi puntati addosso. Era cosciente del peso della taglia che il figlio del papa aveva messo su di lei. Perciò si voltò lentamente, osservando con cautela i volti di tutti quelli che la circondavano. Non poteva negare di provare un filo di paura.

“Caterina!” gridò a quel punto qualcuno che lei non riuscì a scorgere, probabilmente dal cortiletto d'ingresso.

“Caterina! Caterina!” cominciarono a gridare tutti e, nel giro di un paio di minuti, la rocca rimbombò di grida d'esultanza e del picchiare insistente di armi contro gli scudi e di piedi in terra.

Rinfrancata come non mai da quell'esplosione, la Leonessa rimase al suo posto e, tornando a guardare verso la città, gridò: “Tutti al posto! Iniziamo a far fuoco!”

 

I bombardamenti erano iniziati presto, quella mattina, senza risparmiare nemmeno una munizione, né da una parte né dall'altra.

Cesare sentiva il cuore tremare ogni volta che da Ravaldino vedeva alzarsi un proiettile, e si sentiva in trappola tutte le volte in cui uno dei suoi cannoni si inceppava. Era praticamente l'unico comandante presente, perché i francesi, scansandolo di mala grazia, gli avevano fatto presente che l'assedio durava ormai da settimane e che un giorno in più o in meno non avrebbe fatto differenza, quindi tanto valeva onorare le feste e godersi la vigilia dell'Epifania, una ricorrenza santa, per i soldati d'Oltralpe.

Il Valentino, però, non li aveva ascoltati e, appena aveva sentito partire un colpo dalla rocca, si era subito messo a correre a destra e a manca per rispondere a ogni offensiva. Passava in rassegna di continuo le trincee che aveva fatto costruire, esortava gli artiglieri e incitava tutti a fare il possibile.

Lui, quella guerra, voleva chiuderla quel giorno.

Però, più le ore passavano e dal mattino si entrava nel pomeriggio e dal pomeriggio ci si avviava all'imbrunire, più al Duca fu chiaro che i suoi propositi sarebbero stati disattesi.

Era sicuro di aver creato dei danni seri alla struttura di Ravaldino, ma, con il buio che iniziava a farsi pesante e la polvere dei cannoni, non riusciva a quantificare bene le brecce ottenute. In più, e su quello, purtroppo, non aveva dubbio alcuno, i morti per parte francese erano tanti, tantissimi, decisamente troppi.

Se gli altri comandanti riuscivano a non importarsene, restando interessati solo ai loro gozzovigli, lui non poteva. Se avesse perso la guerra quella notte, lasciando che il suo esercito venisse decimato, come avrebbe fatto a farsi perdonare da suo padre?

“Basta così!” gridò, quando fu chiaro che non avrebbero preso Ravaldino quella sera: “Basta!”

 

Caterina sollevò una mano, e l'ordine venne riportato da un lato all'altro della rocca. I cannoni di Ravaldino finalmente tacevano.

Aveva aspettato qualche minuto, per essere certa che il Borja avesse finito di far fuoco, e poi aveva approfittato di quella tregua per smettere di sprecare munizioni e polvere.

“Dobbiamo subito controllare i danni.” disse, in fretta, facendo un cenno a Marulli e Pirovano, che erano stati accanto a lei per tutto il pomeriggio: “Mentre voi – aggiunse, indicando Alessandro e Scipione – contate i morti e fate soccorrere i feriti. Prima di notte voglio sapere in quanti siamo e come stiamo.”

La conta dei danni fu rapida e abbastanza pesante. Le difese residue del mastio – non molte, in realtà, dato che su consiglio di Galeazzo la Tigre le aveva fatte già abbattere quasi tutte – erano andate in pezzi. Il problema principale erano gli uomini e i pezzi d'artiglieria rimasti intrappolati sotto le macerie. In più la parte superiore di due torrioni sul fianco era stata completamente distrutta.

“Questa non sarà facile da aggiustare...” commentò piano Marulli, stando nell'ultimo punto sicuro del torrione e osservando, con l'ausilio di una torcia, la parte più malmessa: “Maledetti francesi...”

“Hanno un'artiglieria più forte della nostra – decretò Pirovano, senza mezzi termini, non accorgendosi che, alle sue spalle, un garzone stava ascoltando sia le sue parole sia quelle degli altri con un'attenzione spasmodica – e quindi, se non agiamo in qualche modo in fretta...”

“Hanno un'artiglieria migliore – convenne a quel punto Caterina, prendendo la torcia di mano a Michele e osservando lei stessa – ma noi sappiamo usare la nostra molto meglio. Se potessimo sapere quanti ne abbiamo ammazzati oggi, stai sicuro che potremmo dire che la giornata è nostra.”

“Maledetti francesi...” ripeté Marulli, scrollandosi dalle brache di cuoio un po' di polvere arrivata dai calcinacci che aveva smosso per farsi strada: “Scommetto che si stanno ingozzando di cibo e vino... Domani è l'Epifania. Oggi e stanotte per loro sono sacri...”

“Dovremmo proprio attaccarli, stanotte.” disse, senza ragionare troppo, Giovanni: “Mentre sono ubriachi.”

“Tanto la popolazione è pronta a prendere le armi e farmi tornare al potere, no?” scherzò, con tono troppo serio, la Leonessa.

Il garzone, nascosto nel buio, strabuzzò gli occhi e sentì il cuore battere veloce. Improvvisamente si chiese quanto il Borja avrebbe pagato una simile informazione. Se prometteva centomila ducati per avere la Tigre, magari ne avrebbe spesi almeno cento per conoscerne i progetti...

“Andiamo...” sbuffò a quel punto la Sforza, facendo cenno agli altri due di seguirla di nuovo sui camminamenti: “Abbiamo tante cose da decidere. Ah, e voglio che si distrugga il ponticello e si muri quell'uscita. Con una taglia sulla mia testa, preferisco sapere che nessuno può entrare o uscire da questa rocca in nessun modo...”

Mentre sia Giovanni da Casale, sia Michele Marulli le davano ragione, il garzone sgattaiolò via e, senza aver più tempo per pensare, dato che presto l'ultima porta della rocca sarebbe stata inaccessibile, trovò il modo di uscire da Ravaldino senza farsi notare, complice il buio e la confusione che seguiva sempre un bombardamento, e, guadato con fatica il fossato, raggiunse la riva opposta e cominciò a correre, diretto al campo dei francesi.

 
   
 
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