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Autore: Adeia Di Elferas    28/04/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Cesare si mordeva l'unghia del pollice, gli occhi profondi puntati sul ragazzo che sosteneva di essere appena arrivato da Ravaldino. Era bagnato fradicio, e tremava di freddo. Quel dettaglio deponeva a suo favore, pensava il Borja, perché significava che aveva passato il fossato pieno d'acqua, per giungere fin lì.

D'altro canto, poteva anche essere stato mandato appositamente dalla Sforza per trarlo in inganno, anche se non capiva come potesse eventualmente la Tigre farlo cadere in un tranello tramite le informazioni che il giovane gli stava dando.

“Un momento.” disse il Duca di Valentinois, sollevando un dito e andando veloce alla porta.

Era notte, ormai. Lui era rientrato da poco a palazzo Numai, stanco dopo una giornata infinita passata tra i soldati. I francesi erano ancora immersi nei loro festeggiamenti, ma lui aveva preferito ritagliarsi qualche ora di requie prima del prossimo attacco. Si era appena fatto portare qualcosa da mettere in pancia, quando era arrivato quell'ospite inatteso.

Adesso, però, voleva vederci chiaro. Voleva sapere prima di tutto se quello che sosteneva di essere un ingegnere esperto della struttura delle rocca lo fosse davvero, malgrado la giovane età, e poi voleva anche capire quanto potesse esserci di vero nel suo racconto.

Così andò a cercare Luffo e poi chiese a una delle sue guardie di andare a chiamare subito Bernardi.

Tornato nella sala in cui l'attendeva il ragazzo, si rimise sul divanetto e, cominciando a spiluccare la cena frugale che si era fatto portare, chiese a Numai: “Lo conoscete?”

Il forlivese, guardando il ragazzo, che tremava di freddo e cominciava a essere più spaventato che speranzoso, scosse il capo e chiese, di rimando: “Dovrei?”

Cesare non rispose e disse solo: “Sentite quel che ha da dire.”

Il sedicente ingegnere, ripetendo per la terza volta quello che aveva già spiegato al Borja, arrivò di nuovo alla fine della sua dissertazione: “E quindi Madonna vuole attaccarvi mentre c'è la festa, perché s'è accordata con i suoi sudditi, che imbracceranno le armi e combatteranno per lei. Vuole macellare i francesi uno per uno. Come ha fatto con gli amanti che ha buttato nel pozzo in tutti questi anni.”

Numai cominciò a sudare freddo, perché, a parte l'ultima frase, le parole del ragazzo potevano anche avere un fondo di verità, ma il luccichio di sospetto che vibrava nelle iridi del figlio del papa gli fece riacquistare un po' di sicurezza di sé.

Così, fingendo di aver a cuore, ovviamente, la salute del suo ospite, si frappose tra il Borja e il giovane e disse: “Poco fa avete detto d'essere un ingegnere grande esperto di Ravaldino, dunque dovreste conoscerne almeno un punto debole...”

Sicuro com'era di portare l'interrogato a una scena muta, Luffo impallidì quando invece lo sentì rispondere, con grande sicurezza: “I fossati, specie quello che venne scavato anni fa dal Barone, sono troppo vicini alla rocca. E loro lo sanno. Il muro perimetrale esterno rovina come cera, perché proprio per bilanciare tutte le cavità del terreno, è stato riempito di ghiaietta, e ci hanno messo troppa poco calcina.”

Il ragazzo, che non era affatto un ingegnere, ma solo un garzone abbastanza sveglio da aver assorbito come una spugna tutto quello che aveva sentito dire dai costruttori, attese con pazienza che i due uomini che lo stavano interrogando commentassero le sue parole.

“Aspettiamo Bernardi.” prese tempo il Valentino, di nuovo senza sbilanciarsi.

Il garzone, che stava ancora gelando, ma che non aveva avuto il permesso né di coprirsi con qualcosa di asciutto, né di avvicinarsi al fuoco del camino, cominciava a chiedersi se avesse fatto bene a infilarsi in quell'imbroglio. Forse avrebbe fatto bene a chiedere udienza a un condottiero qualsiasi e non proprio al figlio del pontefice.

Aveva spifferato ai quattro venti quello che sapeva, mentre arrivava a palazzo Numai, sperando che, a quel modo, sarebbe stato più creduto, ma ormai non riusciva più a pensare a nulla in modo lucido e ogni mossa gli pareva la più insensata e sbagliata che potesse fare.

Quando finalmente il Novacula arrivò, il Duca gli chiese: “Conoscete questo giovane?”

Il barbiere, che in Forlì conosceva davvero praticamente tutti, lo osservò con attenzione e poi, dopo un fugacissimo scambio di sguardi con Numai, capì di non poter mentire, e, senza sapere se stesse facendo una cosa giusta o sbagliata, rispose: “Qualche volta è venuto da me a farsi sbarbare, ma come vedete è ancora un ragazzino. Non serve raderlo più di una volta ogni dieci o quindici giorni...”

“E sapete che lavoro fa?” chiese allora il Valentino, imperscrutabile.

Andrea deglutì e poi, cautamente, cercando quelle che gli parevano le parole più inoffensive, rispose: “Credo che faccia l'operaio, o qualcosa di simile. Ma immaginavo fosse alla rocca, perché da quel che so è lì che lavora da tempo.”

“Va bene.” concluse il Borja, sollevando una mano: “Potete andare.”

Il barbiere storico chinò appena il capo e, salutando ossequiosamente, se ne andò senza fare domande e senza chiedersi se avesse appena aiutato a salvare un ragazzo, o, piuttosto, a condannarlo per chissà quale motivo.

“Vi credo.” concluse Il Duca di Valentinois, guardando di sottinsu il ragazzo scappato dalla rocca, e poi, alzando la voce, chiamò per nome due delle guardie che aspettavano fuori dalla porta e, non appena le vide entrare, si avvicinò loro e ad una delle due sussurrò qualcosa all'orecchio.

Mentre i due soldati si avvicinavano con decisione al giovane, prendendolo uno per parte, questi chiese, con la voce ridotta a un filo acuto: “E la mia ricompensa? Quello che vi ho detto... Quello che vi ho detto...”

“Portatelo via.” soffiò Cesare, senza più guardarlo, tornando al tavolino su cui aspettava la sua piccola cena.

Numai, una volta che il garzone venne portato via, tra i pianti e gli strepiti, deglutì a fatica, la gola secca e il cuore che batteva rapido, sicuro di aver appena assistito a una condanna a morte, trovò a malapena il fiato per sussurrare: “Non avvisate i vostri comandanti del pericolo di cui siete stato avvisato?”

Il figlio del papa, sollevando un sopracciglio, diede in una risata secca e penetrante e poi ribatté, aspro: “Questi codardi di forlivesi non imbracceranno le armi contro di me.”

Luffo stava per controbattere, mosso dall'orgoglio, per far notare come gli abitanti di Forlì non fossero dei codardi e che, forse, il ragazzo aveva ragione, quando aveva detto che si stavano organizzando per ammazzare quanti più francesi potessero.

Tuttavia, tacque e il Valentino poté concludere il suo pensiero senza essere interrotto: “Di armi – si premurò di spiegare – in città ormai non ce ne sono più. Quindi con che cosa vorrebbero farmi la guerra? Con pentole e scope? In tal caso sapremo ben noi, come romper loro le corna, non credete?”

Passata da poco la mezzanotte, Cesare stava indugiando ancora in una delle salette di casa Numai, tenuto sveglio da mille pensieri, che si concentravano tutti nella figura di Caterina Sforza, suo grande cruccio. In particolare, stava cercando di analizzare come meglio poteva ciò che le sue guardie avevano riportato dall'interrogatorio del ragazzo scappato da Ravaldino.

Il giovane aveva detto che la Tigre aveva una relazione, ormai abbastanza duratura, con Giovanni da Casale, vecchio pupillo di Ludovico il Moro e ora braccio destro della Sforza. Però aveva suggerito anche che la donna avesse altri uomini, e che uno di loro fosse un frate francescano, un certo Vangelista Monsigani, parente di quel Giovanni Monsignani che stava dando ospitalità ad alcuni francesi.

Il Valentino si stava ancora chiedendo come fare a sfruttare quella notizia a suo favore, quando sentì delle voci arrivare da oltre la porta.

Nel giro di pochi secondi si vide arrivare davanti un nutrito gruppo di comandanti francesi – alcuni dei quali alticci – che chiedevano a gran voce cosa ci fosse di vero riguardo ai progetti della Tigre.

“Non c'è nulla di vero.” tagliò corto il Duca: “Quindi tornate alle vostre feste.”

Lì per lì i generali d'Oltralpe accettarono quella sua breve rassicurazione, ma già quando furono appena fuori dal portone di palazzo Numai, non si dissero convinti del suo giudizio. Organizzandosi in fretta e con efficienza come mai avevano fatto dall'inizio della guerra, ordinarono subito un controllo a tappeto in tutta la città.

Così, incuranti delle tenebre, e resi ancor più bruschi dall'eccesso di vino, i soldati francesi cominciarono a frugare per le case, cercando intrusi, domandando a parole e bastonate se vi fossero estranei alla famiglia, raspando nelle cassapanche, sfondando porte e abbandonandosi a ogni genere di violenza, nel caso in cui la perquisizione fosse stata ostacolata da qualcuno.

Anche i conventi, le chiese e i monasteri vennero passati al setaccio, e, se coi frati e coi pretisi adoperò solo l'effetto persuasivo delle percosse, alle suore e alle monache andò decisamente peggio, tanto che dopo quella notte, di religiose in città ne rimasero così poche da potersi contare sulle dita di una mano.

 

“Perché non dormi?” era quasi l'alba e Giovanni faceva fatica a dormire, sentendo accanto a sé Caterina ancora sveglia, seduta, le gambe incrociate sotto le coperte e il busto scoperto, a prendere freddo.

La donna si scansò appena, quando la mano del suo amante le cercò la schiena per accarezzargliela.

Anche se il suo tocco caldo le faceva piacere, la stava distraendo, e lei sentiva di non avere il tempo di distrarsi. Stava cercando di non perdere il filo dei propri pensieri, e poteva riuscirci solo restando in silenzio e non lasciandosi portare altrove.

“Hai sentito cos'ha detto anche il cerusico...” fece Pirovano, con un sospiro, rivoltandosi tra le lenzuola, ricordando le parole che aveva sentito rivolgere alla Contessa proprio la sera prima, mentre controllava lo stato dei feriti: “Se non riposi un po', sarà la fatica a vincerti e non il Valentino.”

“Stai zitto.” ribatté lei, chiudendo un momento gli occhi, nel buio della stanza, e capendo che, ormai, non sarebbe più riuscita a concentrarsi: “Quel cerusico non sa di che parla. Ho passato anche momenti peggiori.”

Il milanese non volle sindacare, sicuro che avrebbe solo acceso una nuova battaglia tra loro, così annuì in silenzio e poi provò a rimettersi comodo, sperando di riuscire a dormire ancora un po'.

“Quelle maledette mura...” borbottò però tra sé Caterina, incrociando le braccia sul seno nudo, sentendo un brivido quasi piacevole, nel contatto con la propria pelle fredda: “Non possono reggere troppo a lungo a bombardamenti continui come quelli di oggi...”

Pirovano, trattenendo uno sbadiglio, si puntellò sui gomiti e guardò il profilo scuro della sua donna nella penombra tenue data dalle poche fiamme del camino. In momenti come quelli apprezzava il fatto che la Leonessa non dormisse in un letto da gran signora, con il baldacchino e tutto quanto, perché almeno, in quel lettuccio da soldato, in notti come quella, poteva vederla meglio.

“Credi che le abbatteranno?” chiese lui, cercando di svegliarsi il più possibile, per poter intrattenere una discussione viva.

“Il fianco è debole. Abbiamo dovuto alleggerire le pareti, per bilanciare i vuoti dei fossati – la voce della Tigre era bassa e abbattuta – era un progetto che risale ancora a quando c'era il mio Giacomo, all'epoca non potevamo pensare di arrivare a una situazione del genere...”

Giovanni si morse il labbro e poi, provando di nuovo a massaggiarle la schiena, questa volta senza trovare resistenze, le disse: “Loro, però, non lo sanno. Se le mura resisteranno ancora un po', potrebbero crederle impossibili da abbattere e cambiare obiettivo...”

La donna non ne era convinta, tuttavia finse di essere rincuorata da quella prospettiva e, rimettendoglisi coricata accanto, si aggrappò al milanese: “Speriamo.”

Rimasero in silenzio per un po', solo lo scricchiolare del legno che bruciava nel camino a far loro compagnia. Caterina, però, ancora non riusciva a prendere sonno. Era passata dal riflettere sulla guerra e, soprattutto, su Cesare Borja, che sembrava essere la sua condanna, al pensare a se stessa.

“Comunque, forse hai ragione tu, sai?” bisbigliò, le labbra vicine all'orecchio di lui: “Il mio corpo mi sta dando qualche segnale.”

“Che intendi?” chiese Giovanni, un po' confuso.

“Del fatto che esagero e mi riposo troppo poco... Forse è vero che sto esagerando.” rispose lei.

Allora Pirovano, di colpo preoccupato, dato che, lui personalmente, non aveva notato grandi cambiamenti, nella sua amante, si schiarì la voce e si informò: “Ovvero?”

La Sforza ebbe un momento di tentennamento, ma poi, trovando la propria esitazione ridicola, si decise a dire: “Il mese scorso non ho sanguinato, e probabilmente non sanguinerò nemmeno questo mese.”

Ci volle qualche secondo, prima che l'uomo collegasse le cose e chiedesse: “Pensi di essere incinta?”

La Contessa si passò una mano sulla fronte, allontanandosi un po' da lui, in parte per via del tono preoccupato con cui lui le si era rivolto: “Non credo, no. Le altre volte l'ho capito presto, mentre stavolta non credo proprio di esserla.”

“Però potresti.” insistette lui, apparendo sempre più teso: “In più è da parecchio, ormai, che non prendi più quella tua pozione...”

“Stai tranquillo.” lo zittì allora lei: “Non sono incinta. Mi sta solo succedendo così perché sono sotto pressione. È come quando è morto Manfredi...”

Dal modo in cui Giovanni tacque, Caterina si rese conto che quell'aneddoto gli era ben noto. In effetti, ricordava di essere stata lei stessa, mesi addietro, a parlarle della paura che aveva avuto, e di come poi, sollevata nello scoprire di non essere incinta, avesse mandato suo figlio Ottaviano in pellegrinaggio a Loreto per ringraziare la Madonna.

Volendo accantonare il fantasma di Ottaviano Manfredi, che sembrava esser capace di aleggiare su di loro sempre nei momenti peggiori, la donna riprese, lapidaria: “Comunque non sono incinta.”

“Meglio così.” fece Pirovano, scontroso, sistemandosi sotto le coperte e dandole le spalle: “Perché altrimenti non avrei saputo come prenderla. Crescere un figlio pensando che potrebbe essere di un altro non...”

“Il problema non ti si sarebbe posto comunque.” ribatté la Tigre: “Tanto da questa guerra non ne usciremo vivi.”

 

Bernardino era uscito di soppiatto quando ancora il palazzo dormiva. Era bravo a sgattaiolare nel buio, e ormai cominciava a conoscere quell'edificio. Fin da piccolo aveva imparato a muoversi senza farsi notare e anche quella mattina era riuscito a sfruttare l'ora antelucana e la sua abilità per sfuggire anche agli occhi curiosi dei servi di Alessandra Scali.

Non aveva un vero e proprio progetto: voleva solo prendere aria e vedere la città. Da quando era arrivato a Firenze, non era ancora riuscito a mettere fuori il naso da solo, mentre lui voleva esplorare e capire.

Era l'Epifania e fin da quando arrivò in strada, il Feo comprese che per Firenze era una festa seria.

A Forlì, da che aveva memoria, erano poche le ricorrenze che venivano rispettate. Sua madre indiceva dei banchetti, ogni tanto, ma la maggior parte delle festività religiose passavano un po' sotto silenzio.

Bernardino cercò di memorizzare la strada che portava al palazzo. Non voleva perdersi. Aveva promesso a sua madre che non sarebbe mai stato d'intralcio e dunque non aveva alcuna intenzione di creare scompiglio sparendo. Però sentiva una smania di scoprire Firenze che non gli dava pace.

E così, sempre attento a ricordare la via percorsa, camminò rapido fino a un palazzo enorme, con un'alta torre scentrata, affacciato su una piazza che, rispetto a quella di Forlì, gli pareva immensa. E poi passò davanti a una grande chiesa, dalla facciata gigantesca, con la gente che entrava per la Messa e parlava con la stessa cadenza della Scali e, il Feo lo ricordava benissimo, di messer Giovanni Medici. Tornò al palazzo di poco prima, per guardarlo meglio. E stavolta prese la traversa opposta a quella imboccata prima. Arrivò sul fiume. Sapeva che era l'Arno.

Attraversò uno dei ponti che scavalcavano la corrente argentina, che riluceva sotto al sole pallido di gennaio, e poi tornò indietro, accorgendosi che l'ora stava cambiando e che, tra non molto, si sarebbero accorti della sua assenza.

Riuscì a ripercorrere buona parte del tragitto, ma poi, perdendo un momento l'orientamento, finì per trovarsi davanti una chiesa dalla facciata grezza. Non aveva idea di che chiesa fosse, ma sentì un paio di passanti parlare e uno di loro, indicandola, la chiamò San Lorenzo.

Con il cuore in gola, il piccolo decise che una deviazione non gli sarebbe certo costata troppo.

La chiesa era scura, la Messa era finita da un po', e non c'era quasi nessuno. Bernardino sapeva bene cosa cercare. Aveva sentito sua sorella dirlo centinaia di volte: messer Medici era sepolto proprio lì in San Lorenzo.

Ci mise un po', prima di trovare ciò che cercava. Anche se sapeva leggere e scrivere, a volte faceva fatica e anche quel giorno, pur trovandosi davanti il nome del Medici inciso chiaramente nella pietra, aveva dovuto concentrarsi come non mai per essere certo che fosse quello giusto.

Passato qualche istante in cui era maggiore l'attenzione alle lettere che non al proprio sentire, Bernardino sollevò con lentezza lo sguardo, osservando la pietra tombale per intero e all'improvviso, così come gli era capitato tante volte davanti alla tomba del padre, il pensiero che proprio lì vi fossero i resti di qualcuno che aveva amato così tanto, lo fece sciogliere in un pianto silenzioso, ma inconsolabile.

Semiramide Appiani, il volto in parte coperto dal velo scuro, era entrata da poco in San Lorenzo e stava camminando a occhi bassi, rimuginando tra sé. La sera prima, lei e Lorenzo avevano sfiorato un nuovo litigio, sempre discutendo dell'opportunità di dare la caccia al figlio di Giovanni nel modo in cui lo stava facendo il Medici.

L'Appiani, però, appena prima che i toni si accendessero davvero, aveva solo inarcato un sopracciglio e aveva posto fine alla discussione con un granitico: “Fai come ti pare.” e se n'era andata.

Soffriva la distanza del marito, che, pur vivendo sotto il suo stesso tetto, le sembrava sempre di più un estraneo. Ormai era parecchio tempo che non condividevano nemmeno più il letto, neanche come era capitato le ultime volte, quando entrambi, sfogate le voglie del momento, si erano sentiti vuoti e spenti, come se anche quel tentativo di riavvicinarsi, almeno fisicamente, fosse solo uno sforzo inutile.

Con un sospiro pesante, la donna si strinse un po' il mantello al collo, in un gesto istintivo di protezione e per far fronte al freddo, che anche in chiesa si faceva sentire. Sollevò lentamente lo sguardo, cercando, già a quella distanza, la tomba di Giovanni, sulla quale voleva pregare.

Quando lo fece, però, vide un ragazzino, anzi, un bambino, accanto alla lapide, la testa bassa e le spalle scosse dal pianto. Quella scena le parve così strana da non poter essere in alcun modo ignorata. Così accelerò il passo, cercando di non far rumore, sperando di poter arrivare al piccolo prima che lui se ne accorgesse. Voleva sapere chi era e perché era lì.

Bernardino, però, abituato da anni di piccole scorribande e di furtive fughe a prestare attenzione a tutto, si accorse di lei ben prima che gli fosse vicina.

Senza indugiare un istante in più, promettendosi di tornare presto sulla tomba dell'uomo che, anche se per poco, gli aveva fatto da padre, il Feo si voltò di scatto e cominciò a correre, guadagnando l'uscita della chiesa ben prima che la donna potesse anche solo provare a fermarlo.

Attonita per quello che era appena successo, Semiramide si chiese di nuovo chi potesse essere, cominciando a vagliare ogni possibilità. Alla fine l'unica ipotesi che le parve credibile, per quanto improbabile, era che si dovesse trattare di uno dei figli della Sforza di Forlì. In fondo erano a Firenze, o, almeno, così sosteneva Lorenzo, e conoscevano Giovanni abbastanza da poter essersi affezionati a lui abbastanza da volerne vedere la tomba...

Deglutendo, tesissima, l'Appiani fece una breve genuflessione rivolta all'altare maggiore, e poi lasciò San Lorenzo. Appena fuori si guardò in giro, cercando il ragazzino, ma non lo vide da nessuna parte.

Sperando con tutta se stessa che se ne stesse ben lontano da lì, e che nessuno degli uomini di suo marito lo notasse e facesse lo stesso ragionamento che aveva appena fatto lei, la donna tornò in fretta verso palazzo Medici e decise che, per quell'Epifania, avrebbe anche potuto pregare in casa e, quella volta, nell'elencare quelli su cui invocava la protezione divina, aggiunse anche il bambino che piangeva sulla tomba di Giovanni.

 

I bombardamenti, quel 7 gennaio, erano ripresi soprattutto da parte francese, ma non stavano dando grandi risultati.

Caterina sperava con tutta se stessa che il Borja e i suoi artiglieri non si fossero resi conto del danno che avevano fatto appena un paio di giorni prima, distruggendo in parte due torrioni e abbattendo la cima del mastio.

In pratica, dopo aver fatto le valutazioni del caso con i suoi costruttori, la Tigre aveva capito che il muro rimasto tra le due torri diroccate restava in piedi per caso. Appena ne era stata certa, aveva fatto in modo che tutti quelli alloggiati in quella zona della rocca venissero spostati altrove, e aveva dato ordine di rinforzare quella fiancata come meglio si poteva.

Certo, a detta del Facendina, più esperto di cannoni che non di fortezze, la parete poteva essere cedevole quanto voleva, ma finché i francesi non vi orientavano contro le bocche da fuoco, non sarebbe comunque caduta. Boschetti, il maestro del legname, invece, temeva che anche le vibrazioni dei colpi che andavano a segno sui torrioni già in difficoltà avrebbero potuto danneggiare irreparabilmente la parete.

A scanso di equivoci, la Contessa aveva preferito restare cauta e aveva preso tutte le precauzioni possibili, compresa quella di spostare l'artiglieria dall'altro lato della rocca. E quello era uno dei motivi per cui ai colpi frequenti dei francesi, da Ravaldino si rispondeva con radi tiri di falconetto.

Ogni tanto, comunque, qualche loro proiettile andava a segno, e la Sforza non poteva che rallegrarsi nel vedere lo scompiglio creato.

“Mia signora, l'Oliva vi cerca.” disse Rolando della Niccolosa, avvicinandosi alla Leonessa, che stava fissando la linea nemica, appena scompaginata da un tiro abbastanza preciso da ferire o uccidere almeno cinque soldati.

“Dov'è?” chiese lei, non volendo allontanarsi dai camminamenti.

“Vi aspetta nello studiolo del castellano.” rispose il ragazzo: “Mi ha detto che ha notizie che vi interessano sicuramente.”

A quel punto, la donna diede voce ad Alessandro, che stava di guardia all'altezza del portone d'ingresso, e gli ordinò di prendere il suo posto finché non fosse tornata.

Raggiunto l'Oliva, Caterina chiese: “Siete riuscito anche in un momento così ad avere notizie dai vostri informatori?”

Il notaio annuì, grave: “Sì, mia signora.”

“E che dicono?” domandò lei, improvvisamente tesa come la corda di un arco.

“Due cose, principalmente.” sospirò l'uomo, cercando di riassumere in modo chiaro i messaggi che gli erano stati recapitato a mezzo di verrettone poco prima dell'alba: “Innanzitutto sappiamo con certezza che Achille Tiberti è tornato in città e sta di nuovo dando consigli al Valentino.”

La Tigre fece un cenno con il capo, ma attese con pazienza. Non poteva essere solo quella la notizia importante, perché la presenza del cesenate, in fondo, per lei faceva poco differenza.

“E poi sembra che un ingegnere dei nostri sia scappato da qui e abbia spifferato al Duca cose su di noi e sui danni alla rocca...” proseguì l'Oliva: “Non so dirvi bene cosa, perché il messaggio era brevissimo, ma si diceva che costui avrebbe parlato a soldati e graduati francesi, nonché al Valentino in persona...”

La Sforza si schiarì la voce, sudando freddo. Aveva avuto il sentore che qualcuno, prima o poi, l'avrebbe tradita. E Ravaldino poteva cadere, a suo avviso, solo per tradimento. Eppure, le informazioni date da quell'ingegnere non dovevano essere precise, oppure non erano state ascoltate, perché l'artiglieria nemica persisteva nell'attaccare laddove non era utile...

“Chi è questo ingegnere scappato?” chiese la donna, mordendosi poi il labbro: “Voglio il nome e se ci sono dei suoi parenti qui alla rocca giuro che taglierò loro la testa e la getterà dalle merlature, cosicché questo infame veda coi suoi occhi quello che...”

“Non è un ingegnere dei nostri, di sicuro.” la placò il notaio, alzando le mani, e riuscendo, incredibilmente, a tacitare la sua signora, che stava già alzando la voce, minacciosa: “Ho già controllato, prima di farvi chiamare, e non ne manca nemmeno uno. Però, però...”

“Parlate, che non ho né tempo né voglia di ascoltare delle chiacchiere inutili.” lo incitò Caterina, sempre più nervosa: “Il tempo della cautela è finito. Ditemi quel che si sa.”

“Nell'attacco della vigilia dell'Epifania abbiamo perso una decina di garzoni e manovali. Potrebbe essere uno di loro... Non abbiamo potuto recuperare e riconoscere tutti i corpi.” spiegò l'Oliva, con far pragmatico: “Non sappiamo se qualcuno sfugge all'appello...”

La Contessa prese per buona quella spiegazione e, riuscendo a sbollire più in fretta del previsto, ringraziò il suo uomo di fiducia e precisò: “Se scoprite altro, chiamatemi subito. Però, ora che sappiamo di questa fuga di notizie, almeno saprò che rinforzare il fianco è veramente fondamentale.”

Tornata ai camminamenti, la Sforza fece avvicinare Scipione, Alessandro, Marulli e Giovanni da Casale e, approfittando anche di un momentaneo silenzio dei cannoni francesi, spiegò loro in fretta cosa fosse accaduto.

“Non possiamo ricostruire i bastioni, ma possiamo provare a portare altrove l'attacco. Ricordatevi: devono stancarsi. Cercate di distrarre la loro artiglieria lontano dalla cortina laterale. Se anche dovessero far danno alla facciata principale, questo muro – concluse la Tigre, indicando la zona in cui si trovavano in quel mentre – può resistere. Quell'altro, no. Il Duca di Valentinois vuole fare il leone a casa nostra, ma c'è spazio solo per una leonessa, qui.”

 

Mentre vicino alla rocca si bombardava come al solito, fuori dalla porta della stanza del Vescovo e generale Ferdinando d'Almeida, a casa di Tomasoli, che l'ospitava, sfilava una processione infinita di cerusici e medici.

Molti generali francesi, che non stavano, come di consueto, prendendo parte all'offensiva, erano subito accorsi per capire cosa stesse accadendo e Cesare Borja, che era là prima di tutti gli altri, aveva detto, con cupezza, che Ferdinando era rimasto ferito e che si stava facendo di tutto pur di salvarlo.

Qualcuno aveva provato a chiedere di poterlo vedere, di confortarlo. Un paio di religiosi si erano addirittura offerti di confessarlo, ma il Valentino aveva negato l'accesso alla stanza a tutti, tranne che ai medici e ai cerusici che lui stesso aveva chiamato.

Nella stanza venivano portate fasce e unguenti bastevoli per un intero esercito, ma non uscivano altro che soccorritori dal volto scuro e di poche parole.

“Mi spiace, se le cose stanno così – disse piano il Balì di Digione, Antonio di Baissay, guardando con attenzione il figlio del papa – so che era vostro amico e che vi ha seguito anche in Francia, quando dovevate sposarvi con Madonna Charlotte... Mi pare di aver sentito che lui vi ha aiutato molto, in quella trattativa.”

Il pomo d'Adamo di Cesare salì e scese nella gola coperta da un sottile velo di barba, e poi il ventiquattrenne rispose, ambiguo: “Ferdinando era un uomo dalle molte doti e dalla lingua svelta.”

“Suvvia – fece a quel punto il Balì – non datelo per morto di già...”

Poco dopo, uno dei cerusici che era entrato a prestare soccorso al presunto ferito, ne uscì annunciandone la dipartita.

“Sistematelo con cura.” ordinò a quel punto il Valentino: “Che non si vedano le ferite. Non voglio che qualcuno se ne impressioni...”

Ma Antonio, che aveva occhieggiato oltre le spalle del cerusico, aveva intravisto il corpo esanime del Vescovo e dal colorito innaturale e dall'espressione tutto sommato serena, comprese che i falconetti della Tigre poco c'entravano con quella morte.

“Vi prego, ora andate...” fece il Borja, rivolto a tutti quelli che si erano accalcati a casa di Tomasoli per avere notizie: “Terremo il funerale, con tutti i doverosi omaggi a un simile uomo, in Duomo.”

E mentre, uno dopo l'altro, i francesi se ne andavano, anche il Balì di Digione mise a tacere le sue remore, dicendo che non erano affari suoi, se il Valentino aveva sistemato una questione privata a quel modo.

Cesare, senza più nessun ficcanaso attorno, si concesse un sorriso soddisfatto.

'Così impari – disse tra sé, lanciando uno sguardo alla porta oltre la quale giaceva il cadavere dell'Almeida – a voler fare la spia con il tuo re Luigi...'

 
   
 
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