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Autore: Adeia Di Elferas    01/05/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Rodrigo Borja aveva ascoltato, tutto gongolante, il resoconto offerto dalle parole di Juan Borja, suo nipote, figlio illegittimo di suo fratello. L'aveva convinto a partire presto per Urbino, dove avrebbe continuato a svolgere il suo lavoro di ambasciatore, ma prima gli aveva chiesto un resoconto puntuale di ciò che Cesare stava facendo in Romagna.

Ad Alessdro VI, in realtà, i tempi lunghi della missione del figlio stavano mettendo un po' paura. Si era aspettato, pur conoscendo la caparbietà della Sforza e pur avendo sentito dire di tutto, riguardo il suo esercito e le sue fortezze, che Cesare sarebbe riuscito ad aver ragione di lei nel giro di una settimana, massimo dieci giorni. E, invece, la cosa si stava protraendo molto oltre le aspettative.

Eppure il Cardinale Juan Borja si era detto entusiasta, veramente entusiasta, di quello che si stava apparecchiando in Forlì. Aveva descritto una città del tutto sotto controllo, un quadro di comando che pendeva dalle labbra del Duca di Valentinois, e, soprattutto, una donna sola e spaventata a capo della fazione nemica.

Il papa, più ci ragionava, più trovava che quegli elementi rosei stonassero con l'oggettivo ritardo sui lavori, ma tra il Giubileo e i suoi tentativi di riappacificarsi con Lucrecia, non voleva deprimersi, né arrabbiarsi. In breve, trovava molto più comodo credere alle parole del parente che non alle chiacchiere che cominciavano a inseguirsi per la penisola italiana, arrivando fino alle sue orecchie.

Stava proprio per andare a incontrare la figlia – stava aspettando che suonasse l'ora, per essere puntuale e non risultare più invadente del necessario – e si innervosiva, rendendosi conto che l'unica cosa a cui riusciva a pensare era la guerra.

Davanti a sé, sulla scrivania, aveva una mappa del mondo, o, meglio, il suo ultimo aggiornamento.

Le notizie che arrivava a Roma erano spesso incerte e a volte si contraddicevano, ma i viaggi che si stavano facendo oltre il mare stavano, a quanto pareva, mostrando realmente un mondo nuovo.

“Ah!” sbottò il pontefice, mettendosi una mano sulla papalina, che gli dava fastidio da tutto il giorno, levandosela con un gesto di stizza: “Se il Nuovo Mondo fosse pieno d'oro! Allora sì, sì che avrei risolto tutti i miei problemi...”

E poi, avvertendo una fitta allo stomaco, dovuta di certo alla rabbia che provava, si disse che attendere non aveva senso: Lucrecia era sua figlia e una figlia è sempre felice di vedere il padre. E così si alzò, lanciò un'ultima occhiata colma di rancore alla mappa, che non mostrava altro se non terra inutile, quando, invece, lui avrebbe voluto un impero di diamanti e oro, e, senza attendere l'ora prestabilita, lasciò il palazzo per andare in Santa in Portico.

 

Era la notte dell'8 gennaio. Caterina, come suo solito, non riusciva a dormire. Aveva lasciato Giovanni da Casale addormentato nel loro letto, ed era riuscita a uscire dalla camera senza svegliarlo.

Indossando un abito da donna – più facile da infilarsi senza fare troppa confusione – e un paio di pianelle del tutto inadatte al freddo che faceva, era stata nelle stalle, ormai praticamente prive di cavalli, ma riutilizzate come dormitori, e poi nella sala delle armi.

“State andando sui camminamenti?” le chiese il maestro d'armi, che, bivaccato come tutti gli altri, dopo lo svuotamento parziale di un'ala della rocca, aveva finito per trovare alloggio proprio lì.

La Tigre annuì, e sospirò, sollevando una nuvoletta di vapore che rimase a mezz'aria per un po'. Nel buio quasi totale dell'armeria, l'uomo trafficò un momento vicino a uno degli armari e poi le porse una delle corazzine più leggere: “Non è granché, ma questa potete infilarla tra la sottoveste e l'abito, e nessuno la vedrà, ma voi sarete un po' più protetta.”

La Contessa lo ringraziò e poi gli chiese di aiutarla a indossarla. Il maestro d'armi, un po' impacciato, dapprima provò a rifiutarsi, offrendosi di andare a svegliare uno degli scudieri o di andare a chiamarle Argentina, ma poi accettò.

La sua ritrosia, Caterina lo capiva bene, stava in gran parte sulla fama che lei aveva. Lo rassicurò quindi subito sul fatto che non aveva alcun secondo fine e specificò che, comunque, se per lui era una fonte di imbarazzo, avrebbe davvero chiesto a qualcun altro.

Il maestro d'armi, allora, scosse il capo e fece del suo meglio per aiutarla. Si sforzò per tutto il tempo di pensare che davanti a lui, nell'oscurità dell'armeria, a spogliarsi in parte non era una donna bellissima e desiderata pressoché da tutti gli uomini di Ravaldino, ma solo un comandante.

“Grazie.” sussurrò la Leonessa, quando si fu infilata di nuovo il vestito color leonino e provò a muoversi con la corazzina, trovandola molto comoda: “Siete sempre stato un valido amico, per me.”

“Dovere, mia signora.” rispose lui, senza però inchinarsi, come se, dopo quel momento condiviso, in un certo senso, tra loro qualche barriera si fosse allentata.

Anche Caterina si rese conto di quel cambiamento, ma, non volendo dar adito ad altro, si schiarì la voce e disse, un po' burbera: “State in guardia. Non sappiamo quando faranno il prossimo affondo.”

L'uomo non rispose e così la Contessa lasciò l'armeria e attraversò il cortile. L'aria gelida della notte le sferzava il viso con l'irruenza di un amante, mentre i radissimi fiocchi di neve la sfioravano, baciandola algidi, con una dolcezza che quasi strideva con tutto ciò che le si agitava nel petto.

Per un istante, tanto fugace, quanto potente, la donna ebbe la tentazione di tornare indietro e passare ancora del tempo con il maestro d'armi, magari cercando anche qualcosa che andasse oltre le parole. In fondo, che altro faceva, quando cercava conforto nelle braccia di uomini che quasi non conosceva?

Poi, però, ci ripensò, e camminò in fretta verso le scale, lasciandosi alle spalle quella tentazione che, come tante altre, poteva tenere sotto il suo controllo. La differenza stava nel fatto che, il più delle volte, finiva per dirsi che tanta autodisciplina era uno sforzo inutile. Quella notte, invece, non voleva ingarbugliare ancora di più la propria vita e la propria anima.

“Come mai tutto questo buio?” chiese Caterina, non appena arrivò dietro le merlature.

La città davanti a lei, di norma illuminata a chiazze dalle torce dei bivacchi e dalle finestre di qualche casa, era invece un unico blocco scuro, come un gigante addormentato sotto il cielo grigio carico di neve.

“Non ne siamo certi...” fece, cauto, suo fratello Francesco, sollevando appena le spalle: “Ma abbiamo visto, nel pomeriggio, un po' di movimento... E le campane a morto...”

“Pensate sia rimasto ucciso qualcuno di importante?” chiese allora la Tigre, guardando anche il Capitano Mongardini e Francesco Roverscio, che stavano lì vicino.

I tre uomini si guardarono l'un l'altro e poi, come se quel breve scambio di sguardi fosse andato solo a confermare qualcosa di già noto, annuirono.

“Non pensiamo il Borja, sia chiaro – precisò il milanese, con un'espressione un po' contrariata – ma è probabile che fosse qualcuno di molto vicino a lui...”

“Di certo la città ora è stata messa a lutto.” confermò Mongardini, espirando poi con forza, come a sottolineare l'importanza della sua affermazione.

La Tigre ci pensò sopra un momento. Fu un lampo. Accorgendosi che tutt'intorno a loro, come sempre, c'erano poche torce e di piccole dimensioni, bastevoli appena a permettere loro di non inciampare, ma tali da impedire ai nemici di vedere distintamente chi ci fosse sui camminamenti, la donna prese una decisione repentina.

In fondo, quella guerra si stava dimostrando anche una guerra di nervi. Se davvero era morto qualcuno di caro al Valentino, o di importante per i francesi, lei voleva dimostrare di non essere a lutto, anzi, di essere in festa e di leggere in quel fatto un segno di speranza.

“Accendete la torcia più grande che trovate...” ordinò: “Anzi, un braciere, se si può, ma che sia ben visibile dalla città. Deve brillare come una stella. Devono vedere che dove loro portano il buio, noi portiamo la luce. Se loro sono a lutto, noi siamo a festa. Se loro sono smarriti, noi vediamo la strada.”

Francesco annuì e così fece Mongardini, mentre Roverscio parve un po' più scettico riguardo quell'iniziativa.

“Che c'è?” chiese la Leonessa, accorgendosi della sua freddezza.

“Siete sicura che sia una buona idea? Non li staremo provocando?” chiese l'uomo, gli occhi scuri che indagavano il bel volto di lei.

“Provocando?” ribatté lei, trattenendo una risata amara: “Certo che li stiamo provocando. Tanto che altro potrebbero farci? Sotto assedio li siamo già. Io ho una taglia sulla mia testa e hanno diroccato parte delle nostre difese. A questo punto non possiamo temere più nulla, non credete? Tanto vale innervosirli, sperando che facciano qualche errore.”

 

Cesare si rivoltò nel letto con un suono gutturale. Era appena stato strappato a un sogno bellissimo e non riusciva nemmeno a capire da cosa. Gli sembrava di sentire dei rumori metallici, delle grida, forse, ma erano come lontani, ovattati...

La ragazza – una serva di casa Numai – che gli stava accanto, era completamente sveglia e guardava terrorizzata verso la finestra. Il Valentino se ne accorse quasi per caso, mentre si rigirava di nuovo, cercando una posizione più comoda.

“Che hai da fare quella faccia?” le chiese, la voce in parte soffocata dal cuscini.

La giovane, che non sapeva se fosse il caso di aver più paura dell'uomo che le stava vicino o di quello che stava accadendo fuori, disse, con tono incerto: “Non lo so... Sembra quasi una rivolta...”

Terrorizzato da quell'ultima parola, il Borja reagì senza pensare. Saltando seduto sul letto, l'afferrò per la gola, sgranando gli occhi.

Mentre la serva tentava di respirare, le mani che si stringevano attorno a quelle del Duca di Valentinois, nella speranza che la lasciasse, il ventiquattrenne chiese, sconvolto dalla paura: “Una rivolta? Chi? Chi?!”

“Mio signore...” Luffo Numai, che in realtà era fuori dalla porta della camera da un po', ma che aspettava che il Duca si svegliasse da solo, per non irritarlo troppo, si decise a entrare quando sentì l'urlo dell'uomo.

Conosceva poco la ragazza che era stato costretto a concedere al Borja, ma, pungolato anche da sua moglie, che aveva pianto per tre notti, quando aveva saputo che quella giovane era stata scelta da Cesare, Luffo aveva deciso di cercare di proteggerla almeno dal peggio, se proprio non poteva evitarle tutte le altre violenze.

“Numai!” sbottò il Valentino, lasciando finalmente sia il collo della serva, sia il letto e andando, cauto, alla finestra, ancora nudo e con il viso sconvolto dal sonno e dalla paura: “Che diamine succede?! Chi si sta ribellando?!”

Il forlivese deglutì, facendo un cenno alla ragazza, che, capito tutto, ne approfittò per scappare, seppur svestita e senza fiato, alla ricerca di un riparo sicuro per almeno qualche ora.

“I vostri soldati, mio signore.” rispose Luffo, facendo del suo meglio per restare atono: “Non ho compreso bene che abbiano, ma dicono di voler fare a pezzi tutti noi forlivesi...”

Il figlio del papa, occhieggiando fuori, si rese conto che il sole era sorto da non più di una manciata di minuti. Se già gli uomini erano sul piede di guerra, significava che la causa scatenante doveva risalire a quella notte.

“Chiamate qui il mio attendente, deve vestirmi.” tagliò corto allora il Valentino, grattandosi la barba, tenuta più lunga del consueto per mascherare meglio i segni del mal francese: “E fate venire qui anche quel dannato barbiere che crede di essere uno storico. Tra tutti voi, qui, quello è l'unico sveglio. Almeno saprà spiegarmi che accidenti sta succedendo...”

In effetti, quando arrivò al cospetto del Duca, che si stava ancora facendo vestire dal suo attendente, Bernardi seppe spiegargli alla perfezione quanto accaduto.

“Così, quando si è vista quella grande luce arrivare dalla rocca, molti si sono agitati – disse, ripercorrendo come meglio poteva i fatti, senza dare delle sue impressioni personali – ma il problema è sorto quando in città, da una delle case patrizie, s'è vista accendere una torcia simile, e a tutti è sembrato un segno di qualcosa... Come se fosse il nullaosta per una qualche azione...”

“E quindi adesso i francesi che vogliono?” chiese, brusco, il Borja, scansando l'attendente che voleva allacciargli gli ultimi nodi del giubbone.

“Vogliono mettere a ferro e fuoco la città perché non si fidano di noi forlivesi.” spiegò Andrea: “E i generali non sanno cosa fare. Ho sentito dire che stanno litigando.”

“Stanno litigando – borbottò Cesare – e non mi interpellano nemmeno?! Sono io che comando, qui, che diamine! Io!”

 

“In piazza c'è confusione...” disse piano Baccino, stringendo gli occhi, cercando di vedere il più possibile, nella luce opalescente di quell'8 gennaio: “Sembrano anche uomini armati...”

“Il fracasso è quello.” convenne teso Battista Capoferri, che si appoggiava a una delle merlature con tanta forza da farsi quasi male alle dita: “Ma che senso ha? È come se volessero prendere d'assalto la città...”

“Chissà mai...” fece Caterina, corrucciandosi: “Forse, senza volerlo, abbiamo creato molta più confusione del previsto, con il braciere di stanotte...”

I soldati che la circondavano, rimasero in silenzio e poi, come un sol uomo, tornarono a guardare verso la città. Quel giorno i cannoni nemici non avevano fatto esplodere nemmeno un colpo. Anzi, alle batterie non era arrivato nemmeno un artigliere. Era come se, per qualche motivo ignoto, a nessuno interessasse più prendere d'assalto Ravaldino.

La Sforza non aveva idea di cosa potesse essere accaduto, anche se aveva il sospetto che la sua idea di accendere una luce quella notte c'entrasse con quel parapiglia. E lo credeva per un motivo molto preciso: quando stava per rientrare, ormai verso l'alba, stanca di starsene sui camminamenti al freddo, aveva intravisto un bagliore, nel cuore di Forlì.

Si trattava probabilmente di una finestra illuminata, o di una torcia appesa a qualche parete, ma nel buio pressoché perfetto della città a lutto, le era subito balzato all'occhio. Sul momento non vi aveva dato peso, ma ora si chiedeva se non avesse avuto qualche significato particolare.

“State allerta.” disse, alla fine, con un sospiro: “Ora devo andare un momento nel mio laboratorio, ma voglio che mi avvertiate qualsiasi cosa succeda, intesi?”

Tutti quanti annuirono e rimasero immobili al loro posto, mentre la Contessa raggiungeva le scale e scendeva al piano di sotto. Solo Baccino, infischiandosene degli sguardi curiosi degli altri, la seguì dopo pochi istanti. Nessuno provò a fermarlo, nemmeno Giovanni da Casale, che era lì assieme agli altri. Anzi, proprio lui fu quello che ostentò più disinteresse, voltando platealmente il viso, ma non trattenendo un mezzo sospiro di insofferenza.

“Che vuoi?” gli chiese la Leonessa, non appena si accorse di lui.

Il cremonese si tolse il mezz'elmo e, mettendoselo sotto al braccio, rispose: “Voglio stare un po' con te.”

Caterina scosse il capo: “Non mi pare il momento.”

“Non per quello che credi – mise le mani avanti lui, continuando a camminarle vicino, ben deciso a non recedere dai suoi propositi – voglio solo passare un po' di tempo con te.”

“Sto andando nel mio laboratorio – mise in chiaro lei – non ci capiresti nulla, mi saresti solo d'intralcio.”

Ben lungi dal prendersela per una simile critica, il ragazzo insistette: “Posso usare il mortaio, o spostare le cose pesanti... Almeno possiamo parlare un po' e conoscerci meglio e...”

“Tu servi sui camminamenti.” tagliò corto la Tigre, fermandosi di scatto e fissandolo, seria: “I tuoi occhi sono forse i migliori che ci sono in questa rocca. Sei giovane e non li hai consumati leggendo, quindi ci servi là. Torna indietro e osserva Forlì. E sappimi dire cosa sta succedendo.”

“Ma...” provò Baccino, le guance un po' ispide che si arrossavano.

“Non mi servi in laboratorio.” disse allora la donna, sperando di suonare decisa, ma non troppo offensiva: “Ma non ho voglia né di parlarti né di conoscerti. Non adesso. Adesso mi serve un soldato dalla vista buona che controlli cosa fanno i francesi.”

Il cremonese parve ragionarci sopra un momento. Alla fine, abbattuto, si rimise il mezz'elmo in testa, sui capelli corti e spettinati e annuì.

“Sei un bravo ragazzo – lo blandì la Sforza, posandogli le mani sulle spalle – e se ti tengo più a distanza di quanto vorresti, per te è solo un bene. Fidati di quel ti dico.”

E con quelle parole, gli fece un cenno di congedo e ricominciò a camminare, più svelta di prima, diretta al suo laboratorio.

Il giovane, deluso da com'era stato annientato il suo tentativo di avvicinarla di più, si morse l'interno della guancia e fece il percorso inverso, tornando verso le scale. Forse aveva ragione lei, forse quello che già gli concedeva era anche troppo, per uno della sua condizione. Lei era una Contessa, una Sforza... Lui era un giovane uomo senza cognome e senza storia. Doveva già ritenersi fortunato ad aver quello che ogni tanto gli concedeva.

Quando arrivò di nuovo sui camminamenti, nessuno fece caso a lui, tranne Pirovano. Baccino era stato via solo un paio di minuti. Troppo poco per qualsiasi cosa, anche solo per un litigio. Al massimo, si disse il milanese, tra i due poteva essere scappato un bacio.

In parte rinfrancato dalla ricomparsa inattesa del cremonese, Giovanni da Casale assunse un sorrisetto soddisfatto e, con un umore decisamente più allegro, cominciò a controllare il perimetro di guardia, con una cura maniacale che nessuno gli aveva mai visto prestare, nemmeno quando era a capo della cittadella, tanto che arrivò a ordinare a Costantino Bolognese di calibrare i falconetti, benché tutti avessero intuito che, almeno per quel giorno, le bocche da fuoco sarebbero rimaste tutte in silenzio.

 

“Quello è il segnale del tradimento!” insistette ancora uno dei portavoce dei soldati francesi: “Il segno che quello che ha detto il fuggiasco era vero!”

“Ma ragionate!” gridò allora il Borja, tenendo le redini del suo palafreno scuro, scelto per la maneggevolezza più che per la maestosità: “Se fosse vero, avrebbero attaccato, e invece così non è stato!”

“Solo perché ce ne siamo accorti e ci siamo armati!” ribatté il soldato, sollevando la spada e scatenando una serie di grida d'approvazione da parte della truppa.

Cesare non sapeva più come gestire la situazione. Era in piazza ormai da ore, eppure sembrava non esserci uno spiraglio per ragionare con i suoi uomini. Tutto era partito da un fatto che, secondo lui, non aveva alcun valore, ma che invece, per i sospettosi e caotici soldati stranieri era non solo un sospetto, ma proprio una certezza.

In pratica, in piena notte, si era visto un lume accendersi in cima alla rocca di Ravaldino e, dopo poche ore, una luce simile era stata avvistata in città. Il palazzo da cui era partito quel segnale luminoso – perché tale era considerato – era stato individuato a fatica, ma il padrone di casa aveva giurato e spergiurato di non saperne nulla, e aveva dato la colpa agli armigeri che era stato costretto a ospitare.

“Quella donna è d'accordo con i suoi sudditi!” sbraitò di nuovo il soldato, gli occhi spalancati e la bocca quasi schiumante: “E ci faranno a pezzi, faranno di noi carne da macello, e voi, Valentinois, starete qui a guardare tutto e facendo nulla?”

“Siete pazzi!” ribatté il Duca, cercando invano appiglio in quelli che gli stavano vicino, ma trovando solo gli sguardi bassi dei suoi comandanti e quello distaccato di Achille Tiberti: “Vi dico che non è nulla! Non possiamo, non possiamo perdere tempo così! Che intendete fare? Uccidere ogni forlivese? Credete che serva? Se ci provaste che accadrebbe? Quanti di voi morirebbero? Che direbbe il papa? E il re?”

“Che si impicchino entrambi!” intervenne in quel momento Perottino da Crevalcuore, che stava dalla parte di Cesare, e voleva aiutarlo in qualche modo, dicendogli in fretta, a voce bassa: “Qui ci siamo noi! È di noi che si devono preoccupare! Promettete punizioni per chi cercherà giustizia da solo, promettete di trovare il colpevole, promettete quel che vi pare, ma se continuate così, oltre ai forlivesi, questi faranno a pezzi anche noi.”

Il figlio del papa avrebbe voluto zittirlo, ma gli bastò dare un'occhiata alla piazza. Era gremita di soldati in armi. I ranghi non erano mai stati ordinati come quel giorno. Per quanto lui e i suoi graduati potessero gridare, mai riuscivano a ottenere un simile contegno.

In quel momento capì che Perottino aveva ragione, e che lui personalmente non era mai stato tanto in pericolo come in quel momento.

“Ebbene...” riprese, sollevando un po' il mento: “Cercheremo il colpevole. Se non uscirà, allora passeremo alle vie di fatto. E per ogni soldato che seguirà la giustizia privata, ci sarà quella pubblica a fare da regola. Sulla forca potranno finire tanto forlivesi, quando francesi, perché non rispettare la legge, equivale a tradire.”

Ci fu un momento di confusione, ma poi, inaspettata e sorprendente, arrivò una voce, dal mezzo della folla. Aveva un accento tedesco ed era colma d'urgenza.

Cesare ordinò che si facesse avanzare l'uomo che stava richiamando la loro attenzione e, quando l'ebbe davanti, con l'ausilio di un interprete, gli chiese di spiegarsi.

Quasi in lacrime, per la paura, il tedesco cominciò a raccontare di essere stato, quella notte, in compagnia di alcuni amici, nella colombaia del palazzo in cui si era vista la luce. Il suo unico scopo era rubare i colombi per farli arrosto, ma la fiaccola che aveva portato con sé per farsi luce aveva appiccato per sbaglio il fuoco ai pagliericci, e, tempo di spegnerli, tutti in città avevano visto il bagliore di quel piccolo incendio.

Quella testimonianza, compresa da buona parte dell'esercito già in lingua tedesca e dalla restante parte nelle traduzione doppia in italiano e francese, fu creduta da tutti.

Come guidati da un invisibile burattinaio, tutti i soldati smisero di brandire le armi e, composti e silenziosi, svuotarono la piazza. Fu uno spettacolo così strano, che il Borja ci mise qualche minuto, prima di capire che tutto quanto stava rientrando così, dopo appena qualche frase di un fante tedesco, dopo che lui, in ore di urla e contrattazioni, non era riuscito nemmeno a farsi ascoltare.

Furioso, diede di speroni al suo palafreno e tornò al galoppo a palazzo Numai.

“Sono stufo!” esplose, una volta che fu nel salone, gettando in terra il cappellaccio con piuma che aveva tenuto in testa quasi tutti il giorno: “Sono dei barbari! Ne ho abbastanza di tutti loro! Non mi rispettano! Non sono nulla, per loro! Questa guerra deve finire il prima possibile! Il prima possibile!”

Luffo, l'unico presente, teneva lo sguardo basso e non osava dire nulla. Da un lato era raggiante, perché vedere il Valentino tanto in crisi era solo un piacere. Poteva sperare di vederlo cedere una volta per tutte, e quindi rinunciare alla campagna. Dall'altra, però, temeva che quell'ulteriore smacco lo portasse a inasprirsi e a cercare un attacco più serrato alla rocca.

“Quella... Quella sgualdrina, quella che voi chiamavate tanto pomposamente Contessa...” riprese Cesare, il fiato corto, mentre con le lunghe gambe camminava in tondo in mezzo al salone, per sfogare un po' di nervosismo: “Deve finire a gambe all'aria, e deve farlo adesso. Io non mi faccio mettere in ridicolo da quattro contadini e una donna. Rimpiangerà tutta questa sua arroganza. Giuro su Dio e su mio padre che quando le metterò le mani addosso, ricorrerà a tutte le preghiere che conosce per chiedere di morire. Le piace tanto aprire le cosce con chi le capita a tiro? Ebbene, la farò ricredere. Dopo che sarà passata dal mio letto, solo la morte le sembrerà una bella prospettiva.”

Luffo, ancora una volta, taceva, ma deglutì tanto rumorosamente che perfino il figlio del papa, pur preso com'era dalla propria collera, se ne accorse.

Insospettito, gli si avvicinò, gli prese il mento con la mano e glielo sollevò, fino a guardarlo dritto nelle pupille: “Che c'è? Ti vedo pallido. Non dirmi che sei in pena per lei... Cos'è? Anche tu sei passato dal suo letto?”

Il forlivese preferì non negare, né annuire, non capendo quale risposta il Borja volesse.

“Tua moglie lo sa?” rise, sguaiato, il Duca di Valentinois: “Ah! Se è stata anche con un vecchio come te... La facevo di gusti più raffinati.”

Siccome non trovava però soddisfazione nel pungolare il padrone di casa, alla fine Cesare la piantò.

“Senti, Numai...” disse invece, lasciandolo di colpo e tornando a camminare, questa volta verso la finestra, per veder la città finalmente più tranquilla: “Riportami quella tua serva... Quella che mi hai portato stanotte...”

“Ma...” tentò Luffo, sapendo che si sarebbe sentito un verme, a riconsegnargli quella ragazza.

“Ma?” lo incalzò il Valentino: “Stai tranquillo... Quello che faccio a lei, non è nulla rispetto a quello che farò alla tua cara Tigre... Ma se non me la porti, penso che potrò far buona anche tua moglie, sai? Sarà vecchia, ma ha ancora il suo perché...”

Così, con la morte nel cuore, Numai sussurrò: “Vi porterò la mia serva.” e, senza aspettare altri ordini, lasciò il salone e andò nei locali della servitù, chiedendosi quanto ancora sarebbe durato quell'incubo, quasi augurandosi che la Leonessa di Romagna si arrendesse e ponesse fine a tutto quanto.

 
   
 
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