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Autore: Adeia Di Elferas    05/05/2020    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Fuori pioveva e nella saletta di palazzo Salviati c'era un silenzio quasi religioso. Jacopo, seduto vicino alla finestra, per sentir piovere, leggeva, sotto la luce delle candele e a quella incerta che arrivava dall'esterno grazie a una delle torce a muro che aggettavano sulla strada, un pesante tomo che conosceva bene, ma che gli piaceva rispulciare di quando in quando.

Quella che batteva contro le finestre, però, in quella sera di gennaio, non era semplice pioggia. Era pesante, grossa, più neve che acqua. E anche l'odore, che passava flebile attraverso i vetri, era quello dell'inverno pieno.

Il Salviati apprezzava la sensazione che gli dava quell'aroma, assieme al tranquillo scricchiolare del legno nel camino. Di quando in quando sollevava lo sguardo e osservava la moglie, seduta proprio davanti alle fiamme, concentrata su una lettera che aveva già girato e rigirato almeno dieci volte.

Avrebbe voluto chiederle cosa vi fosse scritto di tanto interessante o, almeno, sapere chi l'avesse mandata, ma il viso di Lucrezia era tanto serio e concentrato, che all'uomo dispiaceva intromettersi nei suoi pensieri con le sue domande.

Fu proprio la Medici, a un certo punto, a rompere il silenzio. Alzandosi di scatto dalla poltroncina su cui era accomodata, si premette una mano sulla fronte e si appropinquò ancora un po' al caminetto. Guardando il fuoco che dava al suo viso sfumature eccezionali, la donna scosse il capo.

Jacopo, allora, mise da parte il suo librone, e, tenendo il segno con indice e medio, le chiese: “Stai bene?”

La moglie annuì e poi spiegò, sventolando la lettera: “Ormai non si parla d'altro che di quel che sta accadendo in Romagna. Tutti parlano di Caterina Sforza. La sua resistenza è sulle labbra si tutti, eppure nessuno muove un dito...”

“E che cosa potrebbero fare, per lei?” chiese l'uomo, appoggiando il suo tomo sul davanzale della finestra e incrociando le braccia sul petto, restando seduto al suo posto: “Il re di Francia le ha scatenato contro un intero esercito... Lei ha uno Stato minuscolo e negli anni non ha fatto nulla per avere degli alleati, anzi...”

“Mio cugino Lorenzo... Non fosse stato per lui..!” fece Lucrezia, inspirando con forza e poi ripiegando la lettera con gesti secchi.

“Nemmeno tuo cugino è abbastanza potente da poter entrare nella testa di re Luigi.” le fece presente il Salviati, mantenendosi calmo, ma cominciando a sentire la spiacevole sensazione di camminare sulle uova.

Con la sua donna non era facile, affrontare certi temi. Aver sposato la fiera figlia di Lorenzo Medici, detto il Magnifico, faceva sì che in casa si discutesse più di politica che di economia domestica, e la politica, per sua natura, era un argomento molto spinoso.

“Ma, forse, se Firenze... Se la Repubblica non avesse ascoltato Lorenzo, forse re Luigi avrebbe avuto meno garanzie e non avrebbe permesso al figlio del papa di fare questa sosta in Romagna.” si premurò di spiegare lei.

A Jacopo quel ragionamento sembrava inutile, ormai, ma non lo disse apertamente. Si limitò a sollevare un sopracciglio e fare un mezzo sospiro, come a darle ragione, pur ammettendo che non si potesse fare più nulla per cambiare la realtà dei fatti.

“Pensi davvero che la Sforza di Forlì abbia mandato qui i suoi figli?” domandò la Medici, dopo qualche secondo di silenzio.

“È quello che si dice in giro.” affermò lui, senza sbilanciarsi.

“Se fosse così, anche il figlio di Giovanni sarebbe qui a Firenze... Se Lorenzo ci mettesse sopra le mani...” il volto di Lucrezia si scurì ancora di più, ma poi si riaccese, quando disse: “Si potrebbe provare a scrivere a Simone Ridolfi. Lo danno tutti come in confidenza con la Sforza, no? Magari saprebbe dirci qualcosa e...”

“A parte il fatto che non siamo abbastanza in confidenza con quell'uomo – la ridimensionò Jacopo, che cominciava a sudare freddo, quando la moglie partiva a quel modo con idee a suo avviso strampalate, o, se non altro, troppo audaci per lui – so per certo che la moglie di tuo cugino Lorenzo non ha sue notizie da settimane. Se non risponde a lei, con cui era in amicizia, figurati se risponderebbe a noi!”

La Medici si fece pensosa. Posò una mano sulla cornice del camino e poi abbassò lo sguardo di nuovo sulle fiamme, passandolo, infine, sul marito.

L'uomo le stava vicino, immobile, in attesa di un suo cenno. Era quello, il suo maggior pregio: c'era sempre, e la sua presenza, per lei, era una rassicurazione continua, una forza. Si rendeva conto di essere molto fortunata, rispetto alla maggior parte delle donne che conosceva, che, invece, percepivano i rispettivi mariti come minacce o imbrogli.

“Che mondo crudele, questo – sussurrò, mentre ragionava tanto sulla questione della Tigre, quanto sulla condizione delle donne nella società – un mondo davvero spaventoso, per un bambino che deve ancora nascere...”

Jacopo sentì uno strano brivido lungo la schiena e, quando vide la moglie sfiorarsi il ventre con una mano, chiese, con un filo di voce: “Perché dici così..?”

A quel punto Lucrezia, mettendo da parte tutte le sue ansie per il futuro e per lo scenario politico incerto della sua Firenze, si abbandonò a un sorriso e ribatté, con tono severo, ma con gli occhi che brillavano: “Pensavo che dopo tanti anni di matrimonio e tutti i figli che abbiamo avuto, cominciassi a capirci qualcosa, di come sono fatte le donne...”

Il volto del Salviati era come congelato. Sembrava non capire esattamente cosa gli si stava dicendo, ma, poco per volta, i suoi tratti riacquistarono vivacità, e le guance colore.

“Sì, ma...” farfugliò lui, mentre un'espressione stordita, ma felice, prendeva il posto di quella raggelata di poco prima: “Insomma... Io credevo che... Hai partorito a luglio, pensavo solo che, con il latte e tutto quanto, fosse ancora presto e...”

“No, Jacopo.” assicurò lei, avvicinandosi e prendendogli la mano nella sua, trovandola un po' sudata: “Questo ritardo significa altro. Non è per via del latte.”

“E da quando lo sai?” chiese lui, che, poco per volta, cominciava già ad abituarsi all'idea di avere presto un altro figlio.

“Ne sono sicura da poco... Credo di essere più o meno al secondo mese.” rispose lei.

“E perché non me ne avevi ancora parlato?” gli occhi buoni del Salviati cercavano quelli svegli della moglie, mentre intrecciava meglio le dita a quelle di lei.

Il sorriso della Medici si fece più ampio, mentre diceva: “Perché volevo vederti fare questa faccia...” poi, con una breve risata, specificò: “E quindi dovevo esserne certa, non averne un sospetto e basta.”

Il Salviati si accontentò di quella spiegazione, senza cercare altro, e fece avvicinare un po' la moglie, per baciarla. Lei rispose subito alla sua iniziativa e così l'uomo, acceso sempre di più, continuò a darle un bacio dopo l'altro, inframmezzandoli a qualche risata, in risposta a quelle a cui si stava abbandonando Lucrezia.

Era straordinario, per entrambi, vedere come, dopo anni, ancora riuscissero a gettarsi alle spalle tutte le preoccupazioni e le paure, se stavano l'uno vicino all'altra, concentrandosi solo su quello che si facevano a vicenda. Tuttavia, siccome le mosse di entrambi si stavano facendo molto più serie, la Medici smise un momento di baciare il marito e lo fece fermare.

“Andiamo in camera?” gli sussurrò.

Jacopo, per tanti motivi, l'avrebbe amata volentieri anche lì dov'erano, ma, per altrettanti, era felice di assecondare la sua richiesta e passare il resto della notte nella tranquillità della loro alcova.

Così, prendendola in braccio con uno slancio atletico per lui raro, scatenando di nuovo le risate di lei, il fiorentino annuì: “Si vada in camera, ma presto, perché non resisto più...”

 

I cannoni francesi avevano ricominciato a bombardare a pieno ritmo. Si erano concentrati su più punti, ma Caterina aveva visto una cosa che le aveva fatto accapponare la pelle.

Il Borja – l'aveva riconosciuto per via del cappellaccio con la piuma – aveva personalmente supervisionato il posizionamento di dieci bocche da fuoco gigantesche. Erano pezzi d'artiglieria che la Tigre non aveva mai visto, e avrebbe dato qualunque cosa, pur di poterne avere di altrettanto temibili.

Ciò che l'aveva fatta agitare era stato vedere che quei cannoni erano stati puntati proprio verso il loro muro più debole. Per il momento non avevano ancora fatto partire un colpo, ma, ne era certa, nel momento in cui avessero cominciato avrebbero dapprima fatto crollare la parete e poi anche il pilastrone centrale, l'unico elemento di quella cortina che, al momento, si potesse dire solido.

Pensierosa, quando i francesi, verso l'imbrunire, avevano fatto tacere le bocche da fuoco, aveva annunciato ai suoi soldati che aveva bisogno di tempo per ragionare, per mettere a punto qualcosa che permettesse loro di avere ancora qualche speranza. Chiedendo di non essere disturbata da nessuno, andò nell'armeria.

C'era poca luce, e solo una torcia accesa. Faceva freddo e a ogni respiro la Contessa vedeva il proprio alito condensarsi e restare in aria per qualche secondo. Passò in rassegna tutte le armi che avevano lì custodite. Le conosceva ormai a memoria. Contò, per puro sfizio, le gorgiere, le gomitieri, gli schienieri, le rotelle e tutti gli altri pezzi delle armature.

Cercava di far funzionare la mente, ma più pensava, più il pensiero si arenava sempre nello stesso punto: crollato il muro, sarebbero stati scoperti, il cortile sarebbe stato a vista e il nemico avrebbe potuto facilmente provare a riempire il fossato ed entrare in armi alla rocca.

Ci voleva un modo per tenerli lontani, qualcosa che, fatta a pezzi la parete, li sconvolgesse. La paura era la chiave per rallentarli e metterli in difficoltà. Dovevano scatenare un affetto a sorpresa che li raggelasse. Dovevano capire che lei, la figlia di un Duca di Milano, nata e cresciuta in mezzo ai soldati, conosceva l'arte bellica molto, ma molto meglio del Valentino, tanto, almeno, da prevederne le mosse ed essere pronta a fronteggiare ogni evenienza.

Aprì le ante dell'armario, guardando le picche e le lance. Restò immobile, quando si trovò a sfiorare la lancia da cinghiale che le aveva regalato Giovanni. La impugnò un momento. Era lunga, ma poteva muoverla bene, nella sala delle armi. Fece qualche breve mossa, ricordando quelle che usava fare a caccia. La caccia solitaria al cinghiale, ormai, in Italia non la praticava quasi più nessuno. La moda era quella di far inseguire la preda dai cani, farla indebolire dai cacciatori e poi arrivare a dare il colpo di grazia, con la spada o anche uno spiedo da guerra, per i più chiassosi. La Tigre aveva sempre preferito cacciare da sola.

Con la gola che si stringeva e un'irrefrenabile voglia di piangere, la donna rimise la lancia al suo posto. Ricordare i momenti di assoluta libertà che i boschi le avevano regalato, era troppo, in quel momento. Abbinarci, poi, il ricordo dei pomeriggi d'estate passati a caccia con Giacomo, o delle strane battute al cervo o al cinghiale con accanto Giovanni, era ancora peggio.

Poteva quasi sentire ancora il profumo che impregnava la Casina, quando la carne sfrigolava sul fuoco, e lei e il fiorentino se ne stavano abbracciati a letto, ad aspettare che fosse pronta la cena...

Tirando su col naso, la Sforza si voltò di scatto, quando sentì qualcuno avvicinarsi: “Avevo detto che volevo rimanere sola.” disse, quando si accorse che era stato Giovanni da Casale a cercarla.

“Scusami – fece subito lui, senza, però, indietreggiare – è solo che mi eri parsa tesa...”

“Ti ero parsa...” fece eco lei, con uno sbuffo: “Siamo a un soffio dal diventare carne da cannone. È il minimo, essere tesi, non credi?”

“Intendevo...” provò lui, ma dovette smettere subito, perché, preda del nervosismo, oltre anche ancora scossa per i ricordi affrontati poco prima, la sua amante si era lasciata andare a tutta una serie di sproloqui che avevano lui come protagonista.

Caterina si era accorta di aver esagerato già mentre ancora parlava. Quando tacque, ne ebbe la certezza, ma ormai non poteva più rimangiarsi tutti gli insulti che si era lasciata scappare.

Anche se, in parte, davano voce alla sua reale insofferenza nei confronti degli atteggiamenti di Pirovano, che a tratti erano a suo modo di vedere troppo infantili e a volte possessivi, quegli improperi erano davvero fuori luogo, in un momento del genere. Pur con tutti i suoi difetti e le sue mancanze, Giovanni le era ancora accanto, ed era una cosa che non doveva dare per scontata.

“Perdonami.” disse, ruvida, voltandogli le spalle: “So di non essere la donna che avresti voluto al tuo fianco...”

Il giovane scosse il capo e assicurò: “Tu la sei, invece.”

La Leonessa sospirò e poi, avvicinandosi a lui, sollevò appena l'angolo della bocca e ribatté: “Te l'ho già detto: ti accontenti di poco.”

Pirovano puntò gli occhi scuri in quelli verdi della sua amante e poi cercò di spiegare cosa fosse davvero lei per lui: “Sei come una fortezza. È difficile valicare le tua mura, e, quando si è dentro, è come essere colpiti dal fuoco di mille cannoni. Se riesci a sopravvivere a questo, arrivi finalmente al tesoro, e...”

“Ma certo...” soffiò la Sforza, un'idea improvvisa che le apriva un mondo intero: “Certo! Come ho fatto a non pensarci prima!”

Il milanese, confuso, si accigliò e scosse la testa, come a dire che non capiva, ma Caterina era già oltre, già dimentica dei loro discorsi privati e tutta concentrata su quello che, in fondo, le riusciva meglio: la guerra.

“Vieni con me.” gli disse, afferrandolo per la mano e uscendo quasi di corsa dall'armeria, chiamando a sé i manovali e i Capitani per spiegare quello che aveva in mente.

 

Mentre Alessandra Scali discuteva con Sforzino di alti temi filosofici, Bernardino ascoltava rapito il fratello Galeazzo che ripeteva, concentrato come non mai, tutti i pezzi che componevano un'armatura completa.

Il Riario, dopo aver elencato tutti i tipi di elmo possibili, era passato al resto: “Corazza, panziera, rondella ascellare, spallaccio, vambrace e rebrace, cubitiera, guanti, scarsella, cosciale, ginocchiello, schieniere e scarpa.”

Il Feo, che stava cercando anche quella volta di mandare tutto a memoria per poter, un giorno, vantare una sicurezza pari a quella del fratello, si accigliò un momento e, credendo di averlo colto il fallo, chiese: “E la guardastanca?”

Galeazzo, abbozzando un sorriso, ribatté: “Quella si usa solo nelle armature da giostra.”

Il più piccolo si rabbuiò, mostrandosi come sempre permaloso, quando scoperto in errore, ma poi si riscosse, borbottando: “Fosse per me andrebbe usata anche in battaglia.”

Il Riario stava per ribattere in qualche modo, ma la tranquillità di quella serata domestica venne interrotta da uno dei servi di Alessandra, che arrivò nella sala delle lettura con aria grave: “Mia signora, di là c'è messer Fortunati e vorrebbe parlarvi.”

La donna schiuse le labbra, perplessa e poi, annuendo, disse: “Va bene. Fate venire qui anche Ottaviano. Immagino che, qualsiasi novità porti Francesco, interessi anche a lui.”

Il piovano arrivò un po' prima di Ottaviano, ma lo attese comunque, prima di parlare. Si scusò per essersi presentato a palazzo e per averlo fatto a quell'ora, ma disse che aveva preferito rischiare di persona che mandare una lettera, perché le cose scritte, di quei tempi, erano più pericolose del fuoco greco. Sottolineò come le sue informazioni fossero risalenti ormai a quasi tre giorni prima, e poi spiegò come i francesi avessero, a quanto pareva, ripreso a bombardare e stessero costruendo nuovi cannoni con il bronzo della statua del Barone Feo.

Bernardino, sentito ciò, avvertì un pizzicore agli occhi che lo costrinse a lasciare la stanza di corsa.

Nessuno provò a fermarlo, nemmeno Galeazzo che, pur preoccupato per la sensibilità del fratello, voleva prima sentire tutto il resoconto di Fortunati.

In realtà c'era ben poco altro da dire. L'uomo parlò dei torrioni danneggiati e del mastio quasi decapitato, ma non seppe dare un'interpretazione dei fatti.

Ottaviano se ne stava in un angolo, gli occhi nervosi che schizzavano da Francesco ad Alessandra, e un'unghia tra i denti, come se, mordendola, potesse davvero smorzare la tensione che gli irrigidiva gli altri e gli faceva pulsare le tempie.

Sforzino, misurato e quasi apatico come sempre, si era fatto il segno della croce, mormorando un mezzo ave, a suffragio di quelli che stavano morendo a Forlì sotto i colpi dei cannoni francesi.

Galeazzo, invece, si sentì in dovere di dare la sua visione delle cose, per quanto incompleta. A convincerlo a far ciò erano stati gli occhi della padrona di casa: lucidi e pronti al pianto. In fondo era comprensibile: suo marito Michele era a Ravaldino. Se la rocca fosse caduta, lui molto probabilmente sarebbe morto come tutti gli altri.

“Non è ancora detta l'ultima parola – spiegò il Riario, mettendo a frutto la visione d'insieme che sua madre l'aveva aiutato a sviluppare negli anni passati al suo fianco – perché i francesi sono superiori, come mezzi e come numero di uomini, ma sono impegnati in una guerra in cui chi paga non ha interessi veri. Il re di Francia, se dovesse venire a sapere di tutte queste difficoltà, potrebbe anche decidere di dare il ben servito al Duca e marciare subito su Napoli.”

“E inimicarsi il papa?” domandò Fortunati, scettico, ma ugualmente speranzoso.

“Un papa che non ha un vero e proprio esercito e che ha dei figli sposati a degli Aragona.” fece presente Galeazzo: “Non dico che sia un'eventualità così facile a verificarsi, ma non è impossibile.”

Francesco annuì appena e si fece pensieroso, così come la Scali. Ottaviano borbottò qualcosa e lasciò la sala, e pure Sforzino, chiudendo piano il tomo su cui lui e Alessandra avevano dissertato fino a quel momento, si scusò e si ritirò per la notte.

Rimasti soli, il piovano, la fiorentina e il quintogenito della Tigre, si guardarono l'un l'altro per un po'.

“Credete davvero che potrebbe succedere quello che avete detto?” chiese Alessandra, con un filo di voce.

“Potrebbe – assicurò il Riario – e dalle mosse di mia madre, credo che sia quello in cui sta sperando anche lei.”

Fortunati incrociò le braccia sul petto e provò a contraddirlo, ma solo per cercare conferme: “E che altro potrebbe fare, se non resistere? Non capisco questa sicurezza con cui...”

“Se mia madre fosse sicura di non avere questa possibilità – asserì il quattordicenne, le guance e il collo che prendevano colore, mentre un brivido d'orgoglio lo attraversava – di certo non aspetterebbe di fare la fine del topo: attaccherebbe apertamente, senza paura, pronta a morire in battaglia come la grande guerriera che è. Se aspetta a farlo è solo perché è convinta che una possibilità concreta ancora ci sia.”

La Scali si asciugò gli occhi con la manica dell'abito e convenne: “Galeazzo conosce bene sua madre. Mi fido di lui.”

“Preghiamo.” sussurrò allora il piovano: “Pregare è l'unica cosa che possiamo fare per aiutarla, ora.”

 

“Va piantata subito una batteria di artiglieria: qui.” spiegò Caterina, indicando il centro del cortile, mentre tutti l'ascoltavano in silenzio.

Ormai era sera, ma la rocca sembrava più sveglia che mai. Erano molte le fiaccole a muro accese e, tra la gran quantità di gente ferma a sentire le parole della Tigre, molti portavano anche lumi a mano.

“Potrebbe volerci tutta la notte – le fece presente Costantino Bolognese, dopo qualche secondo di esitazione – e, anzi, al mattino potremmo non aver finito ancora.”

“E poi – chiese Giuliano Rossetti, accigliandosi – come mai questa scelta? Falconetti e cannoni non ci servono di più sui torrioni?”

La Sforza scosse il capo e, alzando la voce in modo che proprio tutti sentissero, tentò di spiegarsi al meglio. Era fondamentale, secondo lei, che tutti, perfino i servi e le cuoche, capissero il piano, perché una volta che fosse stato necessario ricorrervi, ognuno doveva sapere esattamente cosa fare e come, senza farsi prendere dal panico.

“Quei due torrioni – fece la Contessa, indicando il lato più danneggiato di Ravaldino – sono ormai inservibili, e altrettanto potremmo dire del mastio. La parete è crepata e basterà qualche altro colpo ben assestato per sbriciolarla come sabbia. E i francesi l'hanno sicuramente intuito.”

Lasciò qualche secondo, affinché quella considerazione facesse breccia nella mente dei suoi ascoltatori. Non poteva dire con certezza che il Borja avesse capito quanto era vicino ad aprire la rocca sul lato, ma visti i cannoni che aveva fatto piazzare, era molto probabile che fosse proprio così.

“Quando il muro crollerà – riprese la donna – i francesi si troveranno una sorpresa non indifferente... Una batteria completa d'artiglieria, protetta da travi e botti colme di sabbia. Anche se il fossato dovesse coprirsi coi detriti della parete disfatta, state tranquilli che ci penseranno due volte, prima di assaltarci apertamente, se cominceremo a colpirli con palle di pietra e ferro grosse quasi una spanna.”

Ci volle qualche minuto, prima che i Capitani, poi gli artiglieri e infine tutti quanti comprendessero l'importanza di quella scelta strategica. Era impossibile dire quanto e se avrebbe funzionato realmente, ma, almeno a parole, si trattava di un progetto inedito e di forte impatto.

“Sì, facciamolo.” disse Alessandro Sforza, seguito subito da tanti altri.

“Mettiamoci al lavoro ora – decretò la Leonessa, annuendo – e forse entro l'alba avremo sistemato tutto quanto e saremo pronti.”

Il battere di piedi in terra e il ripetere sommesso, ritmato e implacabile del suo nome, infuse un nuovo coraggio a Caterina, che, sentendosi come non mai affiancata da persone che la stimavano e che avevano abbracciato assieme a lei una sorte eroica, per quanto tragica, sollevò il braccio destro e gridò un'incitazione guerresca.

“Avanti!” esclamò poi e, come sempre faceva quando doveva coordinare un lavoro impegnativo, chiamò a sé i suoi uomini più fidati e divise i compiti secondo le loro capacità.

“Dunque stanotte la si passa a spaccarsi la schiena così?” chiese Pirovano, uno dei pochi notabili a cui la Sforza non aveva dato impegni particolari.

“Se vuoi, tu puoi andare a dormire qualche ora...” gli concesse lei, che, in effetti, aveva già pensato di congedarlo fino al mattino dopo, sapendo quanto il suo amante patisse la mancanza di riposo.

“Io voglio stare con te.” mise in chiaro il giovane, abbassando la voce e chinandosi appena su di lei, in modo che nessuno dei soldati e dei manovali affaccendati che giravano loro attorno sentisse alcunché: “Praticamente hai ammesso che abbiamo le ore contate... Io voglio passare la notte con te.”

“Puoi passarla anche dandomi una mano a spostare qualche cannone, allora.” lo prese in contropiede lei, allungando il collo per guardare, oltre la spalla di lui, verso il punto in cui stavano sparendo alcuni uomini diretti proprio all'arsenale da cui avrebbero preso le bocche da fuoco.

“Non è quello che intendevo.” ribatté lui, piccato.

“Lo so benissimo – fece allora lei, abbandonando il tentativo di alleggerire il discorso e facendosi seria – ma io adesso devo stare con i miei soldati.”

A detta di tutti, Caterina aveva una forza erculea, anzi, alcuni la definivano senza mezzi termini 'sovrumana'. Lei non sapeva dire se fosse davvero così, ma in ogni caso non se la sentiva di privare delle proprie abilità i suoi guerrieri, che tanto stavano facendo e sacrificando in suo nome.

“Anche io sono un tuo soldato, no?” Giovanni si rendeva conto di essere quasi ridicolo, a insistere a quel modo, ma sentiva una disperazione crescente mordergli l'anima e non poteva tacere.

Avvertendo la gravità del patimento in cui il suo amante si trovava, la Tigre promise, sperando di non doversi rimangiare tutto: “Aiutami e vedrai che ce la sbrigheremo prima del previsto, e prima dell'alba potremo starcene un po' insieme.”

Pirovano, soggiogato anche solo dalla mano della sua donna, che gli stava sfiorando la guancia in una carezza tesa a blandirlo e convincerlo, più che a vezzeggiarlo in modo disinteressato, capì che non avrebbe ottenuto nulla di meglio.

“E va bene.” sussurrò: “Farò quello che dici. Sperando solo di avanzare non solo un po' di tempo, ma anche un po' di forze...”

“In caso contrario – soffiò la Contessa, questa volta in modo molto più sincero – sarà bello anche starcene solo abbracciati per un po' a vedere sorgere l'alba...” e poi, trasformando la carezza alla guancia ispida del milanese in una pacca sulla spalla, cambiò tono e disse: “Adesso andiamo. I cannoni ci aspettano, e due braccia forti come le tue ci servono.”

 

Gian Giacomo da Trivulzio si passò una mano un po' tremante sul labbro superiore, trovandolo umido di sudore. Fece altrettanto con la fronte e anche lì avvertì un velo bagnato e gelido.

Il cuore gli frullava nel petto come un uccellino in gabbia, e i suoi occhi stanchi rincorrevano le parole sul foglio come se cercassero di raggiungere una verità che gli sfuggiva di continuo. Anche se aveva compreso benissimo la grafia con cui le frasi erano state vergate con decisione dal suo informatore, non riusciva comunque a capirne il senso.

Non poteva essere: semplicemente questo.

Milano era stretta in una morsa di gelo, quella notte. Era come se tutto il freddo atteso quell'inverno avesse deciso di arrivare addosso al palazzo di Porta Giovia proprio in quel momento. E Gian Giacomo, nelle ossa, se lo sentiva tutto.

Fece un paio di respiri profondi e poi, accendendo ancora un paio di candele, provò a calmarsi e rileggere tutto quanto, sperando che, a una seconda valutazione, la situazione apparisse meno tragica.

E invece anche quella volta lo scenario non cambiava di una virgola. Il suo informatore era lapidario. Gli faceva sapere che Ludovico Sforza, affiancato da parenti, tra cui anche Ermes Sforza, e irriducibili amici aveva valicato il confine e si trovava in Val Tellina, o nella sua immediata prossimità. A spalleggiarlo c'erano il Parravini e Annibale da Balbiano. Questi sarebbero stati alla guida di ben ottomila svizzeri, cinquecento cavalli borgognoni, millecinquecento lance e un numero imprecisato di fanti italiani. Inoltre, come se non bastasse, Giovan Francesco Sanseverino pareva aver fatto pace con il Moro, offrendogli pure seimila fanti svizzeri e tedeschi, quattromila fanti e duemila cavalieri italiani.

Il Trivulzio, facendo del suo meglio per non sprofondare nel panico più completo, cercò di ragionare. Per prima cosa avrebbe potuto fortificare il Duomo e poi chiedere aiuti a chiunque, convincendo il Ligny a marciare contro il Moro per...

“Mio signore – una delle guardie mise la testa dentro lo studio di Gian Giacomo – messer Annibale Bentivoglio è arrivato. Volete incontrarlo ora o gli devo dire che il vostro incontro è rinviato a domani?”

“Come?” chiese il condottiero, ma poi, prima che il soldato si mettesse a ripetere, si ricordò che, in effetti, si era trattenuto sveglio fino a quell'ora perché gli era stato annunciato l'arrivo del bolognese: era stata quella dannata lettera a fargli scordare tutto quanto: “Sì, fatelo entrare.”

Il figlio di Giovanni Bentivoglio fece il suo ingresso in modo dimesso. Si esibì in tutti i saluti di rito e poi passò a elogiare il re di Francia, il figlio del papa e tutti quelli che gli venivano in mente.

Il Trivulzio lo ascoltava con un orecchio solo, chiedendosi che mai volesse da lui proprio quella notte. Fu solo dopo almeno un quarto d'ora di soliloquio che il bolognese si decise a vuotare il sacco.

“La situazione in Italia è molto incerta.” disse, suscitando un sospiro di affermazione da parte del suo interlocutore, che, in quel momento, avrebbe tanto voluto potersi imbarcare per il Nuovo Mondo e non tornare mai più: “E mio padre mi ha mandato qui per chiedervi di fare una proposta al vostro re.”

“Il mio re...” borbottò Gian Giacomo, un sopracciglio alto e gli occhi cupi.

Annibale colse qualche nota stonata nella voce del condottiero, perciò fece del suo meglio per girare la cosa a suo favore: “Anche se io credo che la proposta sia più giusto farla a voi di persona, che siete il vero eroe di questa campagna vittoriosa.”

Non impressionato da questa lode sperticata, il Trivulzio agirò la mano, per convincerlo a parlare in fretta e non perdere altro tempo.

“Bologna offre quarantamila ducati in cambio della protezione che voi potete fornire.” spiegò il Bentivoglio.

L'altro stava già per rifiutare, dicendo, amaramente, che di protezione, al momento, non ce n'era nemmeno per lui stesso, ma esitò. Quarantamila ducati, in previsione di uno scontro aperto con il grosso esercito che il Moro portava con sé potevano significare la sopravvivenza...

“Valuteremo la vostra proposta.” disse, sapendo che accettare troppo in fretta sarebbe stato quanto meno pregiudizievole, tanto da poter far insospettire Annibale abbastanza da ritirare o ridimensionare la cifra promessa: “Se avrete pazienza, domani o al massimo domenica vi saprò dire... Vi potete fermare qui a palazzo, per la notte...”

Il bolognese, già felice di non essere stato rifiutato subito, sorrise e chinò appena il capo: “Confido in una risposta pronta e positiva. Ho preso alloggio in città, non sapendo come sarebbero andate le cose... Domani, se non vi incomodo, tornerò a sentire se ci sono novità.”

“Quando volete.” sorrise Gian Giacomo e, indicandogli la porta, soggiunse, con un po' troppa asprezza: “E ora scusate, ma, malgrado l'ora tarda, ho ancora molte cose da sbrigare...”

 
   
 
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